La civilta islamica: scienze della vita. Botanica
Botanica
Nel mondo arabo medievale, non esisteva una vera e propria botanica, ossia una scienza autonoma dedicata a uno studio sistematico delle specie vegetali, tanto che non vi era neppure un nome che la designasse in maniera specifica (al di là del generico termine al-nabāt, le piante): non a caso, nulla sulla botanica si trova in opere quali Mafātīḥ al-῾ulūm (Le chiavi delle scienze), il dizionario scientifico composto da al-Ḫwārizmī (360-390 ca./ultimo quarto del X sec.). Tutt'al più, si può parlare, come ha fatto Manfred Ullmann (1972) di una sorta di 'dottrina sulle piante' (Pflanzenkunde) contenuta soprattutto in scritti nei quali a considerazioni, non di rado puramente occasionali, pertinenti la vera e propria botanica sono mescolate notizie di carattere descrittivo di una serie di specie vegetali, raggruppate sulla base della loro utilità farmaceutica o anche semplicemente in ordine alfabetico, senza nessuna pretesa di sistematicità scientifica. In molti casi, la botanica era considerata soltanto come una parte della più vasta scienza dell'agricoltura; per esempio, Ǧābir ibn Ḥayyān (VIII sec.?), nel Kitāb al-ḥudūd (Libro delle definizioni), assimila senz'altro la prima e la seconda, dimostrando questa difficoltà di distinguere la botanica propriamente detta dalle sue applicazioni pratiche.
Trattazioni teoretiche della botanica si hanno invece laddove essa è collocata nell'insieme più vasto della filosofia aristotelica, ossia è intesa come la particolare sezione della scienza naturale espressamente dedicata allo studio del regno vegetale. È soltanto in questa veste che la botanica come scienza speculativa è inserita nelle 'classificazioni delle scienze' arabo-islamiche. Nell'Iḥṣā᾽ al-῾ulūm (Enumerazione delle scienze) di Abū Naṣr al-Fārābī (257-339/870-950), questa sezione della scienza naturale è infatti descritta come "lo studio di ciò che accomuna le specie delle piante, e di ciò che è proprio di ciascuna di esse. Essa è [insieme alla zoologia] una delle due parti dello studio dei corpi composti di parti differenti" (p. 119). Lo stesso al-Fārābī, nel suo compendio della filosofia aristotelica, Falsafat Arisṭūṭālīs, dopo aver presentato i contenuti della mineralogia, descrive la botanica, secondo Aristotele, con queste parole:
Poi, dopo di questo, [Aristotele] comincia a studiare i corpi naturali composti di parti dissimili. E inizia [a trattare], prima degli animali, le piante. Innanzitutto, a proposito di esse, comincia a elencare tutto ciò che di esse è noto grazie al senso e all'evidenza, e le elenca specie per specie, ed elenca ciò che è evidente dall'elenco di ogni specie, e gli accidenti che sono evidenti in ogni specie e in ognuna delle parti di ogni specie, fino a coprire tutte [queste specie] o [almeno] quelle che di esse erano a sua conoscenza. Poi, dopo di questo, inizia a menzionare il fine in vista del quale si genera ognuna delle membra di ognuna delle specie delle piante. Poi, dopo di questo, studia la generazione di ognuna delle specie delle piante, e dà, per ciascuna di esse, la materia dalla quale si genera e l'agente dal quale viene generata, sino a coprire tutto ciò che, di quanto concerne le piante, è naturale. E così fa anche per gli accidenti che esistono in ognuna di queste cose. (pp. 111-112)
Ancora più sinteticamente, nella sua Risāla fī aqsām al-῾ulūm al-῾aqliyya (Epistola sulle parti delle scienze intellettuali) Avicenna scrive: "La sesta parte [della scienza naturale] è quella dalla quale si conosce lo stato degli enti vegetali, ed è compresa nel Kitāb al-Nabāt" (Maǧmū῾at al-rasā᾽il, p. 233).
In effetti, nella scienza araba, la botanica propriamente detta è in buona parte rappresentata da traduzioni, parafrasi e adattamenti del materiale contenuto nell'opera che, nel Corpus Aristotelicum medievale, trattava appunto del regno vegetale: il De plantis dello Pseudo-Aristotele (opera in realtà di Nicola di Damasco). È dunque riprendendo le fonti botaniche greche (l'opera di Nicola, il De causis plantarum di Teofrasto e forse altri scritti minori) nel quadro di più vaste trattazioni della materia del Corpus Aristotelicum che alcuni filosofi arabi assurgono al rango di 'botanici'. Tale è il caso di autori quali i cosiddetti Iḫwān al-ṣafā᾽ (Fratelli della purezza, X sec.), Avicenna, Abū 'l-Faraǧ ibn al-Ṭayyib, Avempace (nell'XI sec.), Averroè (nel XII secolo).
Ciò non toglie che cenni di botanica sistematica si trovino anche in molti altri testi, come per esempio, il Kitāb Sirr al-ḫalīqa (Libro del segreto della creazione) dello Pseudo-Apollonio di Tiana (Balīnās), e nelle opere di Abū Muḥammad ῾Abd Allāh ibn Qutayba (m. 276/889), Abū Yaḥyā Zakariyyā al-Qazwīnī (600-682/1203-1283) e di Šihāb al-Dīn al-Nuwayrī (678-734/1279-1333). Si tratta, specialmente negli ultimi due casi, di enciclopedie del mondo naturale che abbracciano minerali, vegetali e animali e che, per inquadrare una serie di descrizioni relative alle qualità e alle proprietà dei vegetali, introducono alcune considerazioni circa la classificazione di questi ultimi. Cenni occasionali a dottrine botaniche di notevole originalità, e talora in anticipo sui tempi, sono rintracciabili qua e là negli scritti di uno dei più celebri scienziati arabi medievali, Abū 'l-Rayḥān al-Bīrūnī (363-441/973-1053 ca.); anche in questo caso, tuttavia, non ci è rimasto nulla di simile a una trattazione ex professo della botanica come scienza autonoma.
Vi sono alcuni generi di scritti in cui si concentrano le notizie relative alla botanica. In primo luogo elenchi di 'semplici' di interesse farmacologico, ispirati alle opere di Dioscuride e di Galeno. Tra i testi più noti di questo genere, si annoverano il Firdaws al-ḥikma (Il paradiso della saggezza) di ῾Alī ibn Rabban al-Ṭabarī (m. 241/855 ca.), gli scritti di Abū ǧa῾far ibn al-ǧazzār (m. 369/979), di Abū Bakr Ḥāmid ibn Samaǧūn (fine del X sec.), di Abū 'l-Muṭarrif ibn Wāfid, di Abū Ǧa῾far Aḥmad al-Ġāfiqī (m. prima metà del XII sec.) e soprattutto la maggiore opera di farmacologia araba: il Kitāb al-ǧĀmi῾li-'l-mufradāt al-adwiya wa-'l-aġḏiya (Libro completo sui medicinali semplici e gli alimenti) di Abū Muḥammad ῾Abd Allāh ibn al-Bayṭār (m. 646/1248). In questo ambito va collocato anche il genere letterario dei vari Kitāb al-ḫawāṣṣ (Libro delle proprietà), ispirato a scritti greci e siriaci della Tarda Antichità e dell'Alto Medioevo (quali il Physiologus) e molto diffuso nella letteratura scientifica araba medievale, nel quale si enumerano le proprietà mediche e non mediche di una serie di enti naturali. Preziosi cenni sulla botanica provengono inoltre da scritti di agronomia, anch'essi spesso dipendenti da testi di origine antica o pseudoantica, come il Libro di agricoltura (Geōrgiká) dello Pseudo-Democrito (Bolo di Mende, II sec. d.C.), l'analoga opera di Vindanio Anatolio (V sec. d.C.), l'Agricoltura romana di Cassiano Basso Scolastico (noto agli Arabi come Qusṭūs o Ibn Askūrāskīna, VI sec. d.C.), o il celebre Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya (Libro dell'agricoltura nabatea). In quest'ultimo testo, che si dice essere stato tradotto da un originale siriaco, è contenuta un'ampia sezione di 'fitobiologia' e morfologia delle piante, che rappresenta probabilmente una delle più estese trattazioni sul tema scritte nel mondo arabo medievale.
Le opere di geografia riportano spesso la descrizione delle piante diffuse in una determinata area geografica (gli esempi sono innumerevoli). Si ricordano infine gli elenchi di nomi di piante, compilati da filologi interessati alla lingua araba più che alla botanica vera e propria, e per lo più intitolati Kitāb al-Nabāt (Libro delle piante). In questo genere rientrano gli scritti di autori come Abū Sa῾īd ῾Abd al-Malik al-Aṣma῾ī (m. 216/831), Abū Zayd al-Anṣārī (m. 214/829), Abū ῾Abd Allāh Muḥammad ibn al-A῾rābī (m. 231/846) ‒ la cui opera botanica, andata perduta, ci è nota in tradizione indiretta grazie alle citazioni di autori posteriori ‒, Abū Ḥātim al-Siǧistānī (m. 255/869; il suo Kitāb al-Nabāt è andato perduto) e il più noto Abū Ḥanīfa al-Dīnawarī (m. 282/895 ca.). L'opera di quest'ultimo includeva anche una descrizione della genesi e dello sviluppo delle piante; purtroppo, i materiali di botanica sistematica contenuti in questo come in altri scritti del genere sono ricostruibili soltanto attraverso le poche citazioni e i frammenti superstiti.
Prenderemo in considerazione solamente quei testi che offrono gli elementi di una botanica teoretica, e che risultano pertanto utili per una ricostruzione ideale delle conoscenze propriamente scientifiche possedute, in questo campo, dagli autori arabi medievali, a cominciare dalle più importanti fonti greche da loro utilizzate.
I sei libri del De causis plantarum di Teofrasto, forse la prima e più ampia trattazione sistematica del regno vegetale a opera del 'padre' della botanica, sarebbero stati tradotti in arabo sotto il titolo di Kitāb Asbāb al-nabāt da Abū Isḥāq Ibrāhīm ibn Bakkūǧ al-῾Aššārī, attivo a Baghdad nella seconda metà del X sec. e noto come medico e traduttore di testi medici greci. Tuttavia, già nel 377/987 il bibliografo al-Nadīm (m. 380/990) aveva potuto trovare disponibile in arabo soltanto una parte del primo libro, e nessuna citazione esplicita dell'opera è stata sino a ora rintracciata nella letteratura araba medievale; anche la citazione teofrastea di carattere botanico, ritrovata nella versione araba del Kitāb al-Rawābī῾ (Libro delle tetralogie) dello Pseudo-Platone, non può essere attribuita con sicurezza al filosofo greco (Sharples 1995). Tracce delle dottrine botaniche di Teofrasto si ritrovano però ‒ forse giunte per via indiretta ‒ sia nei pochi frammenti superstiti della trattazione sistematica di al-Dīnawarī, sia nel Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya e nello scritto dello Pseudo-Apollonio e, per loro tramite, sono probabilmente pervenute agli autori botanici posteriori. Può essere utile ricordare, a tale riguardo, la classificazione teofrastea dei vegetali in quattro categorie: albero (déndron), frutice (thámnos), suffrutice (phrýganon) ed erba (póa), dove "l'albero è ciò che nasce da una radice con un solo tronco e molti rami, e non perisce facilmente […]; il frutice è ciò che nasce da una radice con molti tronchi e molti rami […]; il suffrutice è ciò che nasce da una radice con molti rami […]; l'erba è ciò che nasce da una radice con molte foglie e senza tronco" (Historia plantarum, I, 3, 1, I, pp. 9-10). Questa divisione, con diverse varianti, sarà alla base delle classificazioni botaniche arabe medievali.
Il testo greco che più ha influenzato lo sviluppo della botanica araba è stato il De plantis di Nicola di Damasco, retore, storico e filosofo greco del I sec. a.C. Hendrik Joan Drossaart Lulofs presume che sia esistito uno scritto botanico di Aristotele in due libri, dal titolo Perì phytõn, più volte citato dallo stesso Stagirita e poi andato perduto almeno dal II sec. d.C., e che Nicola abbia composto la sua opera combinando informazioni tratte da questo libro e da due scritti di Teofrasto, il De causis plantarum e la Historia plantarum. In effetti, la seconda parte del Libro I del De plantis consiste principalmente di un sommario della Historia plantarum, sommario che si presenta piuttosto desultorio soprattutto verso la fine. Il testo potrebbe essere stato, in origine, parte di un più ampio compendio della filosofia di Aristotele, andato successivamente perduto, e fu forse per questo attribuito allo Stagirita: tale attribuzione, assai diffusa nel Medioevo tanto in Oriente quanto in Occidente e smentita soltanto nel XVI sec., contribuì indubbiamente alla sua fortuna. L'opera di Nicola non è molto più che una compilazione, ma presenta il vantaggio di dare una trattazione abbastanza sistematica della materia. Essa fornì ai filosofi musulmani gli elementi per inserire una trattazione sulla botanica nelle loro enciclopedie e nei loro commenti e parafrasi del Corpus Aristotelicum. Dei due libri di cui è composta, sembra che sia stato soprattutto il primo ad aver avuto fortuna: Avicenna e Ibn al-Ṭayyib, per esempio, ne parafrasarono il testo trascurando invece il Libro II, forse perché quest'ultimo conteneva materiali estranei alla botanica propriamente detta. È possibile, dunque, che sia stata anche la conoscenza del Libro I del De plantis ad aver diffuso in Oriente alcune delle dottrine botaniche teofrastee.
La storia del testo costituisce da sola una parte rilevante della storia della botanica araba. L'opera, di cui l'originale greco è andato perduto, fu tradotta in siriaco in epoca imprecisata (presumibilmente, tra VI e VIII sec.); di questa traduzione restano oggi solamente alcuni frammenti e le citazioni riportate dal filosofo siro Abū 'l-Faraǧ, detto Bar Hebraeus (1226-1286). Dalla versione siriaca l'opera fu tradotta in arabo da Isḥāq ibn Ḥunayn (m. 298/910 o 911), con il titolo di Kitāb Arisṭūṭālīs fī 'l-nabāt tafsīr Nīqūlā᾽ūs (Commento di Nicola al Libro delle piante di Aristotele), e la versione di Isḥāq fu più tardi riveduta e corretta (secondo un uso non sconosciuto al mondo arabo medievale) da Ṯābit ibn Qurra (m. 289/901), forse sulla base di un nuovo confronto con il testo greco. Il testo di questa traduzione fu scoperto da M. Bouyges nel 1923, e successivamente pubblicato da A. Arberry nel 1933, da A. Badawi nel 1954 e infine, in edizione critica, nel 1989 da Drossaart Lulofs. Di questa versione restano oggi soltanto tre manoscritti, oltre ad alcune citazioni nella tradizione indiretta, sia nel Kitāb al-Ifāda wa-'l-i῾tibār (Libro dell'informazione e della considerazione) di ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (557-629/1162-1231) ‒ citazioni, queste, che contribuirebbero anche a colmare una lacuna del te-sto ‒, sia in un'opera agronomica del sultano dello Yemen al-῾Abbās ibn ῾Alī (m. 778/1376), il Kitāb Buġyat al-fallāḥīn (Il desiderio degli agricoltori), sia, infine, in uno scritto di Muḥammad ibn Ibrāhīm al-Kutubī (attivo nel 718/1318). Benché molto scarse, queste citazioni testimoniano il perdurare dell'interesse per il De plantis nel mondo arabo, almeno sino alla fine del Medioevo. L'opera fu tradotta dall'arabo in latino da Alfredo di Sareshel (attivo nel 1200 ca.), ed è proprio grazie a questa traduzione che fu conosciuta nel Medioevo latino.
I maggiori punti di interesse scientifico del De plantis di Nicola sono rappresentati dalle questioni di fisiologia e sistematica studiate nel Libro I: la presenza, nei vegetali, di un'anima che ne garantisce nutrimento e accrescimento; la possibilità, per le piante, di avere percezioni sensoriali, di avere un sonno e una veglia e di provare sentimenti (tutte cose, queste, che Nicola nega risolutamente); la possibilità che i vegetali si differenzino sulla base del sesso (Nicola esclude comunque che le piante abbiano una riproduzione sessuata). Questi punti, studiati già da Anassagora, Empedocle, Democrito e Platone, sono ampiamente discussi, sulla base delle loro opinioni, nei primi sette paragrafi del libro, mentre nei paragrafi successivi si prende in esame la possibilità di suddividere le piante a seconda della presenza, o meno, della resina, del legno e di altre parti nella loro struttura fisica. Successivamente sono suggerite altre sommarie classificazioni dei vegetali sulla base della loro grandezza e dei loro luoghi di origine; si parla di piante selvatiche e di piante coltivate, e infine si suddividono in generale i vegetali in quattro categorie, secondo lo schema teofrasteo: alberi (nella traduzione araba, designati con il termine šaǧar), frutici (mā bayna 'l-šaǧar wa-'l-ḥašīš, lett. 'ciò che sta tra gli alberi e le erbe'), erbe (ḥašīš, ῾ušb), suffrutici (buqūl). Nel Libro II si tratta invece di temi svariati, quali la natura comune delle piante e delle droghe, i presupposti dello sviluppo fisico dei vegetali, i loro luoghi di origine, i frutti, le foglie e il loro colore, non senza far cenno alla possibilità di pratiche magiche per favorire lo sviluppo dei frutti in piante sterili. Infine, in chiusura dell'opera, si istituisce un paragone tra gli organi interni delle piante e quelli degli animali.
Il Kitāb Sirr al-ḫalīqa, attribuito al celebre saggio greco del I sec. a.C. Apollonio di Tiana ma in realtà composto, in arabo, intorno all'inizio del IX sec. sulla scorta di numerose fonti greche e siriache, e recentemente studiato e pubblicato da Ursula Weisser, rappresenta un'enciclopedia cosmologica di notevole interesse che testimonia gli inizi della scienza araba. In particolare, il Libro IV di questo scritto, dedicato alle piante (῾alā 'l-nabāt), contiene osservazioni di carattere speculativo sulla generazione e sulla fisiologia dei vegetali.
Secondo lo Pseudo-Apollonio, l'origine delle piante è da cercarsi nella mescolanza dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra) e delle quattro qualità (caldo, freddo, secco, umido), con il successivo intervento delle sfere celesti. Le piante sono da lui suddivise in cinque grandi categorie, che sarebbero state create l'una dopo l'altra, dalla più semplice alla più complessa: l'erba (ḥašīš), le piante odorose, le granaglie (ḥubūb), i grandi alberi (šaǧar) senza frutto e gli alberi da frutto; ciascuna di queste categorie si differenzia dalle altre per la prevalenza di un elemento particolare nella sua composizione: nell'erba prevalgono acqua e aria, nelle piante odorose l'aria, mentre negli alberi prevale piuttosto la terra. All'origine di tutte le piante sta comunque l'acqua, della quale i vegetali posseggono alcune delle principali qualità. Le piante, in quanto intermedie tra il regno minerale e quello animale, hanno caratteristiche dell'uno e dell'altro. Anzi vi sono piante, come il corallo, che presentano corpo di minerale, ma spirito di vegetale, e sono pertanto intermedie tra i due regni; altre, come le conchiglie e le spugne, che, pur presentando una struttura fisica simile agli animali, sono piante nel loro spirito, secondo un'interpretazione nota anche ad altri autori arabi medievali. Si passa poi a studiare questioni particolari relative alle piante: il perché del colorito verde dei frutti (che è attribuito alla mescolanza dell'umido, rappresentato dal colore nero, e del secco, rappresentato dal colore giallo); lo sviluppo e la caduta delle foglie; la formazione degli oli vegetali, della resina, delle spine, dei frutti, delle foglie (le quali non sarebbero altro che frutti non completamente sviluppati: la loro presenza sarebbe infatti correlata alla grande quantità di semi nelle piante di questo genere); le cause delle diverse dimensioni dei frutti, le loro bucce e i noccioli in essi contenuti; i succhi delle piante. Tutti questi fenomeni sono spiegati sempre sulla scorta della diversa mescolanza degli elementi e delle qualità elementari, senza introdurre sostanziali novità rispetto alle dottrine note fin dall'Antichità.
Una sorta di ampia quanto confusa enciclopedia di agronomia, attribuita ad alcuni sapienti caldei, il Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya, sarebbe stata tradotta in arabo nel 291/903 da Abū Bakr ibn Waḥšiyya (personaggio semileggendario, vissuto forse nel X sec.); il testo arabo è stato edito soltanto recentemente. In realtà, potrebbe essere una compilazione araba ispirata a scritti della letteratura geoponica greca tardo-antica. L'opera contiene molte notizie pertinenti tanto la botanica descrittiva quanto quella sistematica, benché la loro esposizione, inframmezzata di digressioni di vario genere, sia del tutto priva di sistematicità. Di ogni pianta studiata, l'autore dà una descrizione, specifica il terreno più adatto per la sua crescita, i tempi e i modi per piantarla, le stagioni migliori per coltivarla, le sue utilità e le sue proprietà. Alcune sezioni dell'opera (I, X, XIII) sono vere e proprie monografie rispettivamente dedicate all'olivo, alla vite e alla palma da datteri; nelle altre sezioni, le piante sono descritte secondo una sistematica ispirata soprattutto a criteri agricoli: le piante da fiori odorosi (sezione III); gli arbusti odorosi e le piante ornamentali (sezione IV); le leguminose e le graminacee (sezione VI); le verdure con rizomi e semi (sezione VII) e quelle con foglie e frutti commestibili (sezione IX); infine gli alberi (sezione XI), suddivisi in base alla presenza di frutti con pericarpo secco o carnoso, o alla loro assenza.
Interessano invece in particolare la botanica teorica due parti dell'opera, ossia la sezione VIII, sulla fitobiologia e morfologia delle piante, e la sezione XII, dove si danno cenni sulla generazione naturale delle piante (utili, secondo l'autore, per conoscere il miglior modo di produrle artificialmente). Nella sezione VIII si studiano le cause e i fini del regno vegetale, la diversità tra le varie specie presenti, il ruolo del terreno nella struttura morfologica delle piante e la genesi e le cause dei sapori, degli odori e dei colori di esse (un tema ricorrente nella trattatistica botanica araba). Sono inoltre prese in esame alcune questioni pertinenti la struttura e la vita delle piante, quali la rotondità delle varie parti, la lunghezza, i diversi tipi di foglie e di rami. Si spiega perché alcune piante restano piccole e vivono per breve tempo, mentre altre crescono e sono più longeve, ricorrendo alla tesi di una diversa proporzione nella mescolanza dei quattro elementi in ciascuna di esse; inoltre, si spiega come questi elementi si mutano in prodotti vegetali (olio, vino, ecc.), a causa o di una predisposizione naturale, o dell'azione specifica del fuoco, che porta a cottura gli altri elementi generando per esempio il succo della pianta. Altre questioni trattate in questa sezione sono la morte e la decomposizione della materia dei vegetali, attribuita ‒ come nel caso degli animali ‒ all'estinzione del calore organico; le proprietà delle piante come esseri intermedi tra il regno minerale e quello animale; la simmetria e l'asimmetria nella disposizione dei frutti e dei rami, che sono sempre il risultato di una diversa azione degli elementi. Le foglie, ritenute dal Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya superflue al nutrimento delle piante (l'idea della fotosintesi clorofilliana era ancora lontana), sono semplicemente il prodotto della cottura organica interna alla pianta stessa; la loro caduta risulta da un eccesso di secchezza e la loro ricrescita è provocata dall'azione congiunta del calore e dell'umidità. La produzione dei frutti è dovuta all'azione del calore sul nutrimento ricevuto dalla pianta (in questa sezione dell'opera si fa cenno anche alla differenziazione sessuale nei vegetali). Infine si considera anche la natura delle gomme e delle resine, derivate da un eccesso di linfa; la formazione delle spine, prodotte dalla sovrabbondanza di acqua e di aria nella pianta; la trasformazione della linfa nel lattice, causata da un certo grado di cozione. Tutte queste caratteristiche sono studiate alla luce di una dottrina secondo la quale le piante non solo sono il risultato della mescolanza degli elementi (secondo la teoria aristotelica) e delle quattro qualità naturali, ma sono anche sotto l'influenza dell'azione degli astri. In effetti, nella sezione XII del Kitāb al-Filāḥa è esposta una serie di principî generatori dei vegetali: la loro causa immediata è sì rappresentata dai semi e dalle radici, ma la loro causa prima è appunto la mescolanza dei quattro elementi, governata dalla 'natura della Natura'. Concretamente, il processo di generazione delle piante avviene a partire dalla putrefazione della terra sotto l'azione degli altri tre elementi: è da questa putrefazione che nascono i semi (come Nicola di Damasco, l'autore ignora dunque la possibilità di una generazione sessuata nei vegetali). È l'affinamento della terra, dovuto all'azione equilibrata degli elementi, a renderla atta alla sua metamorfosi in seme; dalla prima fase di putrefazione scaturiscono i semi, nella cui formazione intervengono anche gli astri; da una seconda fase di putrefazione dei semi stessi, sotto l'azione degli elementi, si sviluppano poi i veri e propri vegetali.
Il Kitāb al-Nabāt di Abū Ḥanīfa al-Dīnawarī era probabilmente il più monumentale trattato arabo medievale dedicato alla descrizione delle diverse specie vegetali. Purtroppo, su sei volumi, soltanto il terzo e il quinto ci sono pervenuti quasi per intero, mentre del volume sesto è stata pub-blicata una ricostruzione congetturale, basata su citazionidel testo sopravvissute negli scritti di autori posteriori. Anche se si tratta di un'opera soprattutto filologica riguardante la terminologia impiegata in farmacologia e in agricoltura, a quanto si può dedurre dalle testimonianze superstiti circa la sua struttura non dovevano mancarvi temi di carattere più propriamente scientifico. L'opera si può dividere in due parti. Nella prima (corrispondente grosso modo ai volumi primo-quarto), dopo una lunga introduzione dedicata all'astronomia e alla meteorologia, e all'influenza degli astri, del terreno e dei fenomeni atmosferici sullo sviluppo delle piante, si affrontava il tema dello sviluppo della pianta dalla nascita alla morte, procedendo attraverso le diverse fasi della crescita e della produzione dei fiori e dei frutti. Successivamente, si descrivevano le piante secondo diversi raggruppamenti: alberi di montagna, di pianura, del deserto, piante aromatiche, piante da legna e i diversi tipi e usi dei loro prodotti. In questa parte era contenuto un capitolo appositamente dedicato alla classificazione sistematica delle piante (taǧnīs al-nabāt), i cui contenuti sono noti soltanto grazie a poche brevi citazioni. In particolare, è importante il frammento riportato in un noto scritto lessicografico dell'XI sec., il Kitāb al-Muḫaṣṣaṣ (Libro scelto) di Abū 'l-Ḥasan ibn Sīda (m. 458/1066):
Tutte le piante sono di tre specie: di una, durante l'inverno, restano sia la radice, sia i rami; di un'altra, l'inverno fa perire i rami e resta la radice, e la pianta consiste in questa sua radice superstite; di una terza, l'inverno fa perire sia i rami, sia la radice, e la pianta consiste di ciò che, dei suoi semi, viene disperso. […] Tutto questo si divide in tre specie anche secondo un'altra classificazione: una specie si eleva in alto perché per sostenersi non ha bisogno di altri; una seconda si eleva anch'essa verso l'alto, ma non basta a sé stessa e ha bisogno di qualcosa al quale deve attaccarsi e sul quale deve salire; una terza specie non si innalza, ma si distende sulla superficie della terra, e vegeta restando distesa. Ciò che si innalza da sé si dice 'albero', che sia sottile o spesso, che sopravviva durante l'inverno o che soccomba, e lo si chiama 'albero' (šaǧar) perché si sviluppa (šaǧara) e si solleva, e tutto ciò che è sottile e alto è un albero. Tutto ciò che vegeta sui suoi semi e non sulla sua radice si chiama 'erbaggio' (baql), e tutto ciò che vegeta è un'erba all'inizio del suo sviluppo; per questo si dice di un ragazzo, non appena comincia a essere educato, che è un''erba'. Ciò che vegeta sulla sua radice e i cui rami periscono (durante l'inverno) si chiama 'ciò che sta in mezzo' (ǧanba), perché è diverso sia dalla pianta della quale sopravvivono rami e radici, sia dall'erbaggio di cui periscono radici e rami, ed è 'ciò che sta in mezzo' tra queste due. (Kitāb al-Muḫaṣṣaṣ, X, pp. 211-212; v. anche ῾Abd al-Qādir al-Baġdādī, Ḫizānat al-adab, I, p. 39)
La seconda parte dello scritto di al-Dīnawarī (volumi quinto-sesto) era invece dedicata a una lunga elencazione alfabetica di numerosissime specie di piante: le descrizioni, estremamente dettagliate, presentano anch'esse parecchi punti di contatto con quelle analoghe che si trovano nella già citata opera di Teofrasto e nel De materia medica di Dioscuride. In effetti, dopo le traduzioni dei testi filosofici e scientifici greci, compiute nel corso del IX sec., la botanica araba, come tutte le altre scienze, inizia a risentire di una diretta influenza delle fonti antiche, e non più soltanto mediata ‒ come era stato prima di allora ‒ da compilazioni risalenti a epoca tardo-antica e siriaca.
Nelle Rasā᾽il Iḫwān al-ṣafā᾽ (Epistole dei Fratelli della purezza), una delle più ampie enciclopedie scientifiche medievali in lingua araba, composta probabilmente in Iraq nel corso del X sec. ‒ nella quale si ritrovano echi di dottrine scientifiche greche di varia origine (aristotelica, neopitagorica, stoica) ‒ la VII epistola della II sezione dell'opera, dedicata alle scienze naturali, tratta espressamente dei vegetali. Dopo aver inquadrato i vegetali nella prospettiva quasi 'gnostica' che anima tutta l'opera degli Iḫwān al-ṣafā᾽, sottolineando il ruolo da essi occupato nell'ideale catena di esseri che, partendo dai minerali, si eleva, attraverso gli animali e l'uomo, sino agli angeli e a Dio, l'epistola scende a considerare più concretamente la loro genesi. La prima questione da porsi è quella della differenza tra le varie specie che, secondo gli autori, è determinata dal diverso temperamento (mizāǧ) secondo il quale gli elementi acqua e terra si mescolano e diventano il succo (kaymūs) specifico che scorre nelle vene di quella pianta. La differenza tra le specie vegetali sarebbe anche dovuta al fatto che ciascuna di esse è finalizzata a essere cibo di certi animali e medicamento semplice per alcune malattie (e, nell'affermare ciò, gli Iḫwān al-ṣafā᾽ rivelano ancora una volta il legame esistente tra botanica araba, agricoltura e medicina).
Sulla scorta della classificazione aristotelica delle 'quattro cause' (efficiente, materiale, formale, finale), gli Iḫwān procedono poi ad assegnare ai vegetali, come causa materiale, i quattro elementi; come causa efficiente, le potenze angeliche dell'anima universale; come causa formale, gli influssi degli astri; come causa finale, l'utilità degli animali. È interessante rilevare qui la presenza di un primo tentativo di inserire lo studio dei vegetali negli schemi ontologici dell'aristotelismo neoplatonizzante del Medioevo arabo-islamico, tentativo che sarà poi portato a compimento da Avicenna che introdurrà la botanica tra le scienze della tradizione aristotelica. Sempre in una prospettiva filosofica, gli autori studiano la natura della cosiddetta 'anima vegetativa'. Si trattava, nel pensiero greco della Tarda Antichità, di una delle tre anime, o parti dell'anima umana, ma gli Iḫwān al-ṣafā᾽ ne fanno un'anima del tutto autonoma, propria delle piante, l''anima vegetale' (nafs nabātiyya); questa dottrina, in forma così esplicita e sistematica, si trova forse esposta qui per la prima volta. Tale anima avrebbe sette potenze: attraente (ǧāḏiba), per attirare nella pianta i succhi degli elementi; trattenente (māsika), per trattenerli nel corpo del vegetale; digerente (ḫāḍima), per digerirli; espellente (dāfi῾a), per espellerne i residui non digeriti; nutriente (ġāḏiyya); formatrice (muṣawwira), per plasmare il nutrimento trasformandolo nelle diverse parti della pianta; accrescitrice (nāmiyya), per garantire la crescita del vegetale. Gli Iḫwān al-ṣafā᾽ propongono la seguente classificazione delle piante:
Sono 'piante' tutti i corpi che escono dalla terra, si nutrono e crescono. Alcune piante sono 'alberi' [šaǧar], perché le loro propaggini o radici sono piantate (nel terreno). Altre sono 'semi' [zurū῾], perché i loro grani, semi o propaggini sono seminati. La terza categoria è quella di elementi che nascono dalle parti degli elementi, quando queste si mescolano, per esempio la verdura e le erbe [ḥašā᾽iš]. Ognuno di questi tre generi [aǧnās] si divide in molte specie [anwā῾] […]. 'Albero' è ogni pianta che sta su un tronco, la cui parte alta è in posizione verticale e si solleva nell'aria; essa non si secca durante il corso dell'anno. 'Erba' [naǧm], al contrario, è ogni pianta, la cui parte alta non sta su un tronco e che non si solleva nell'aria; essa si estende sulla superficie della terra, oppure si attacca a un albero e si solleva nell'aria insieme a esso. (Rasā᾽il Iḫwān al-ṣafā᾽, II, pp. 158-159)
Sono poi elencate le parti del corpo vegetale: tronco (aṣl); radici (῾urūq); rami (quḍbān); ramoscelli (furū῾); foglie (awrāq); fiori (nawr); frutti (ṯamar); corteccia (liḥā᾽); linfa o gomma (ṣamġ). Secondo gli Iḫwān al-ṣafā᾽, una pianta può considerarsi 'completa' soltanto se le possiede tutte e nove. Oltre a queste considerazioni più speculative, l'epistola ne contiene altre di tipo pratico, connesse all'agricoltura: si distinguono le piante a seconda dei vari terreni in cui nascono (monti, deserti, orti coltivati, acqua), e a seconda dei periodi di formazione e di crescita. Anche gli Iḫwān al-ṣafā᾽, come le loro fonti arabe (principalmente rappresentate, con ogni verosimiglianza, dallo Pseudo-Apollonio e dal Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya), conoscono l'esistenza di diversi gradi di pianta, alcuni dei quali intermedi tra il regno vegetale e quello animale. Essi ritengono simile all'animale la palma da datteri (che sarebbe, secondo una definizione già riscontrata nello Pseudo-Apollonio, 'vegetale nel corpo e animale nello spirito') e i muschi, che si nutrono di altre piante come gli animali; ritengono invece 'animali vegetali' gli animali chiusi nelle conchiglie, perché possiedono solamente il tatto, senso che gli Iḫwān al-ṣafā᾽, contro l'opinione di Nicola di Damasco, attribuiscono anche ai vegetali. L'epistola si chiude con alcune considerazioni sui diversi tipi di frutti: a buccia dura, a nocciolo duro e interamente molli (questi ultimi sarebbero tali a causa del maggior equilibrio del loro temperamento).
Avicenna è il primo filosofo arabo a redigere una vera e propria parafrasi del Corpus Aristotelicum che includa anche una trattazione sulle piante, naturalmente ispirata, non solo nei temi generali ma anche in molti punti particolari, al De plantis di Nicola. In effetti, nella sezione sulle scienze naturali (al-ṭabī῾iyyāt) della sua monumentale enciclopedia filosofico-scientifica, Kitāb al-Šifā᾽ (Libro della guarigione), la parte VII è proprio dedicata alla botanica. Questo scritto si divide in sette capitoli, il primo dei quali esamina la genesi e la nutrizione delle piante. Avicenna afferma che le piante non hanno né sensazione né capacità di comprendere (confermando così la tesi già sostenuta da Nicola contro Anassagora, Empedocle e Democrito), e affronta il problema della differenziazione sessuale e della sua natura effettiva. Il temperamento delle piante è definito umido e caldo. Nel capitolo II Avicenna tratta le membra (a῾ḍā᾽) delle piante, che divide in fondamentali, quali la corteccia e il legno, composte, come il tronco e la radice, e simili a quelle fondamentali, come le foglie e i frutti. Egli affronta qui la questione della struttura delle radici, spiegando i motivi per cui alcune di esse vanno in profondità e altre restano in superficie. Le foglie sono considerate come uno strumento di protezione delle piante, secondo una dottrina già presente tanto in Nicola quanto negli Iḫwān al-ṣafā᾽. Nei capitoli successivi sono esaminati: il nutrimento delle piante (Avicenna studia sia lo scorrere della linfa, sia i principî dello sviluppo del seme); il diverso sviluppo delle singole parti delle piante, la solidità e l'elasticità delle loro membra, e la durata del loro sviluppo, nonché la dipendenza di tale sviluppo dalla qualità del terreno; le funzioni del tronco, dei rami e delle foglie; i frutti, i semi, le resine gommose, le spine, le quali in particolare, sono considerate come una sorta di rami non sviluppati, costituiti da scorie non assimilate dalla pianta. Infine, nel VII capitolo si affrontano varie questioni di classificazione delle piante a seconda della loro grandezza, dei luoghi di sviluppo, del loro essere selvatiche o coltivate, e si conclude con alcune osservazioni sui succhi vegetali. L'aspetto più importante del trattato botanico di Avicenna non consiste dunque nell'originalità, bensì nella sua capacità di ordinare in un discorso coerente, sistematico e filosoficamente fondato la trattazione alquanto confusa e frammentaria contenuta nel De plantis, aprendo così la strada per ulteriori studi scolastici della botanica come parte integrante del pensiero aristotelico.
Le dottrine botaniche di al-Bīrūnī, benché assolutamente frammentarie e prive di qualsiasi sistematicità, presentano un notevole interesse per la loro originalità e perché, come accade in generale per le teorie scientifiche di questo autore, anticipano scoperte e conclusioni della botanica moderna. In effetti, se il suo Kitāb al-ṣaydana fī 'l-ṭibb (Libro della farmacia in medicina) dimostra che al-Bīrūnī, pur rivelandosi un buon botanico pratico, soggiace alla tendenza, comune nel mondo arabo medievale, a subordinare la botanica all'agricoltura e ancor più alla medicina, passi isolati di altri suoi scritti non scientifici sono di notevole importanza per la storia della botanica.
È il caso di un brano del Kitāb al-Āṯār al-bāqiya ῾an al-qurūn al-ḫāliya (Libro delle vestigia superstiti dei secoli passati), dal quale risulta che egli fu il primo a suggerire che i fiori fossero identificati dal numero delle loro parti: "Tra le peculiarità dei fiori c'è un fatto davvero stupefacente, ossia il numero delle loro foglie che, quando cominciano ad aprirsi, formano con le loro punte un cerchio […]. Il numero di esse è sempre 3, 4, 5, 6 o 18 […] e se tu conti il numero dei semi di una melagrana di un albero, tu scopri che tutte le altre melagrane contengono lo stesso numero di semi" (pp. 294-295). Nel primo dei quindici capitoli introduttivi del suo Kitāb al-ǧamāhīr fī ma῾rifat al-ǧawāhir (Libro completo sulla conoscenza delle pietre), egli fa alcune brevi ma densissime osservazioni circa la fisiologia delle piante. Qui al-Bīrūnī, secondo alcuni (Qadri 1979), sarebbe addirittura il primo autore a riconoscere il ruolo della luce solare e della fotosintesi clorofilliana nella traspirazione delle piante (una conclusione cui si sarebbe nuovamente arrivati soltanto nel Settecento), laddove afferma che "il calore dell'aria, grazie al Sole, fa salire l'umidità [della pianta] dai suoi rami" (Kitāb al-ǧamāhīr fī ma῾rifat al-ǧawāhir, p. 3); tuttavia, cenni a questo intervento del Sole nella nutrizione della pianta non mancano neppure in Nicola di Damasco. Anche al-Bīrūnī, peraltro, condivide con i suoi predecessori l'opinione che alcuni esseri da lui studiati nello scritto citato, come i coralli, le ostriche e le spugne, si collochino a metà tra il regno vegetale e quello animale.
Il medico, teologo e filosofo cristiano nestoriano di Baghdad Abū 'l-Faraǧ ibn al-Ṭayyib è noto per aver redatto una serie di parafrasi delle varie opere del Corpus Aristotelicum, nelle quali inframmezzava la nuda esposizione del testo con glosse ed excursus personali. Tra di esse va probabilmente annoverato il Kitāb al-Nabāt (Libro delle piante) contenuto in un manoscritto dell'Escorial. La sola descrizione di questo scritto sinora pubblicata è quella offerta da Lucien Leclerc (1876), secondo cui, all'inizio della sua opera, Ibn al-Ṭayyib farebbe la seguente osservazione: "Quando ho visto il trattato di Aristotele sulle piante così difettoso e così poco paragonabile agli scritti di questo uomo divino, io ho raccolto presso gli Antichi tutto ciò che poteva completarlo" (I, p. 487). Ibn al-Ṭayyib potrebbe dunque essersi accorto dell'inautenticità dello scritto pseudoaristotelico, e aver tentato di completarlo ricorrendo ad altre fonti botaniche greche; in effetti, la forma dell'opera richiamerebbe quella del De causis plantarum di Teofrasto. I capitoli dello scritto sono dedicati alla soluzione di svariate questioni, quali la causa delle gomme, dei frutti, delle scorze, della presenza di una differenziazione sessuale tra i vegetali, dell'esistenza di diverse parti negli alberi e nelle piante, come radici, rami, foglie, fiori, frutti, grani, succhi, ecc. I capitoli XXIV-XXIX dell'opera, gli unici pubblicati nel 1989 da Drossaart Lulofs, sono però una piatta parafrasi della traduzione araba del De plantis con l'inserimento occasionale di glosse e commenti, senza nessuna autentica rilevanza scientifica.
Avempace, noto come commentatore di Aristotele e filosofo, sembra essersi interessato di botanica esclusivamente nel quadro del suo commento-parafrasi del Corpus Aristotelicum, dove non poteva mancare una sezione dedicata al De plantis intitolata, appunto, Kitāb fī 'l-nabāt (Libro delle piante), edita nel 1940 da M. Asín Palacios sulla base dell'unico manoscritto superstite. Come risulta da alcune testimonianze, Avempace era interessato alla botanica descrittiva e competente nella materia; fu anche coautore di un trattato di farmacologia, andato perduto, il Kitāb al-Taǧribatayn (Libro delle due esperienze), dove non mancavano riferimenti ai medicamenti vegetali. Peraltro, nel suo Kitāb fī 'l-nabāt si limita, quanto alla botanica teoretica, a riprendere i contenuti e le dottrine dell'opera pseudoaristotelica, integrandoli con alcune osservazioni personali. La classificazione delle piante suggerita da Avempace in questo scritto interessa quasi esclusivamente dal punto di vista della botanica descrittiva; non si tratta infatti di una vera e propria sistematica, ma di una serie di proposte di classificazione non coordinate e fondate spesso su aspetti puramente secondari della pianta, ciascuna delle quali è tuttavia seguita da un gran numero di esempi. Le categorie di vegetali enumerate da Avempace sono: piante con radici e senza radici; autonome e parassite; terrestri e acquatiche; marine e di palude; delle steppe, dei monti, dei prati e delle rive dei fiumi; dei climi caldi e temperati; selvatiche e coltivate; sotterranee e all'aria aperta. Ognuna delle divisioni proposte presenta poi, a sua volta, ulteriori suddivisioni: si parla di piante con radici grandi o piccole; con radici di forme diverse; con tallo o senza; con tallo unico o molteplice; con spine o senza; con frutti o senza; con fiori o senza fiori.
Nella botanica teoretica Avempace segue abbastanza fedelmente Nicola, dal quale riprende quasi alla lettera ‒ senza citarlo esplicitamente ‒ interi passi. Anche per Avempace, pertanto, la pianta si caratterizza innanzitutto per il possesso della facoltà nutritiva ma, diversamente dall'animale, essa non ha né movimento locale, né percezioni sensoriali. Egli dimostra, è vero, di conoscere alcuni fenomeni che parrebbero contraddire la dottrina della mancanza di sensazione nelle piante, affermata da Nicola (per es., i movimenti di apertura e chiusura di certi fiori sotto l'azione della luce del Sole), ma li spiega come effetti di cause puramente fisico-chimiche, ossia come la conseguenza di variazioni dell'umidità all'interno delle piante, conseguenti al maggiore o minore calore diffuso dal Sole durante le ore del giorno. Come altri botanici arabi, egli riconosce l'esistenza di specie anomale, la cui collocazione nel regno animale o vegetale resta incerta (le piante acquatiche, per es., sarebbero per Avempace esseri intermedi tra i vegetali e i minerali), ma non giunge per questo ad alcuna conclusione filosofica o scientifica; ammette anche la possibilità di alcune specie vegetali di trasformarsi le une nelle altre, ma si limita a menzionare i casi già segnalati nel De plantis.
Accanto alla nutrizione, un'altra caratteristica fisiologica propria della pianta, secondo Avempace, è la capacità di riprodursi. Va peraltro osservato che egli affronta il discusso problema della generazione sessuale della pianta in modo parzialmente innovativo rispetto a Nicola. Avempace sembra ammettere ‒ non senza ambiguità e incertezze ‒ qualcosa di simile a una generazione sessuale nelle piante, ma in un senso improprio ed equivoco, diversamente da quanto si osserva negli animali. Afferma infatti:
Se le piante hanno maschio e femmina, ciò dovrà essere soltanto in [individui] separati […]. Il frutto della pianta è, sotto un certo aspetto, un figlio, e [sotto un altro aspetto] è simile al seme […] [ma] la sua analogia con il seme è maggiore della sua analogia con il figlio […]. La generazione [sessuale] si dice in senso primario e in senso secondario: in senso primario, circa la potenza che si trova negli animali; in senso secondario, per via analogica, circa la potenza delle piante. Il dubbio sul fatto che la pianta abbia maschio e femmina si ha soltanto se si assume la generazione nel senso proprio, e in tal senso la pianta non ha maschio né femmina e il frutto non è un figlio né in potenza, né in atto. (Kitāb fī 'l-nabāt, pp. 267-268)
Avempace completa la sua esposizione trattando anche altri argomenti, in genere affrontati alla luce della dottrina aristotelica (desunta non solo dal De plantis di Nicola, ma anche dalle occasionali osservazioni sulla botanica che si leggono negli scritti zoologici dello Stagirita). Tale è il caso del problema della nutrizione della pianta: per Avempace, l'alimento procede dagli elementi che si trovano nel terreno (acqua e terra); con l'aiuto dell'atmosfera circostante, riscaldata dal Sole, si produce poi nella pianta quella cottura e digestione dell'alimento che, quando giunge a perfezione, produce il frutto (si tratta forse anche qui, come in al-Bīrūnī, di un riferimento, seppur confuso, al ruolo svolto dalla funzione clorofilliana?). Avempace introduce alcune innovazioni rispetto ad Aristotele e Nicola basate su osservazioni di anatomia comparata vegeto-animale: a quanto egli dice, per esempio, le piante hanno radice o tallo, o presentano una maggiore o minore quantità di rami a seconda della digestione più o meno perfetta dell'alimento, la quale produce ipertrofia di alcuni organi e atrofia di altri, proprio come, secondo Aristotele, avviene tra gli animali. Un riferimento di Avempace ad argomenti botanici trattati in altri passi del suo scritto, dei quali non vi è traccia nel testo edito, fa pensare che l'opera ci sia pervenuta in una forma incompleta; è anzi probabile che, come si è verificato nel caso di altri commenti di Avempace trasmessi dal manoscritto superstite, questo documento non sia altro che una collezione di estratti di un'opera più ampia, il cui testo non è stato ancora ritrovato.
Anche Averroè, come Avicenna, Ibn al-Ṭayyib e Avempace prima di lui, compose tutta una serie di commenti, parafrasi e compendi del Corpus Aristotelicum; pertanto, sarebbe strano che egli avesse trascurato di commentare proprio quel De plantis al quale i suoi predecessori avevano dedicato appositi trattati. Purtroppo, dell'esistenza stessa di uno scritto del genere non restano oggi che pochissime testimonianze. L'unico riferimento esplicito fatto a quest'opera da Averroè si legge nel suo massimo scritto medico, il Colliget, dove, nel capitolo XXVII del Libro V, trattando dei sapori e in particolare di quello amaro, il filosofo afferma: "Noi abbiamo già spiegato la nostra opinione sul sapore amaro nel Kitāb al-Nabāt". A questa breve autocitazione si può forse accostare la testimonianza di Bernardo Navagero (1507-1565) il quale, in una sua lettera, afferma di aver visto a Costantinopoli, presso medici ebrei e arabi, certi Magna Commentaria Averrois in libros duos De plantis (senza peraltro dare alcuna notizia circa la loro struttura e i loro contenuti). Infine, molto recentemente, Drossaart Lulofs ha studiato e pubblicato una citazione di Averroè tratta dal Libro IV (intitolato appunto Sulle piante) del Sēfer dē῾ôt ha-fîlôsôfîm (Libro delle opinioni dei filosofi), un'enciclopedia in lingua ebraica redatta da Šēm ṭōv ibn Falaqera (1225 ca.-dopo il 1290), citazione che egli suggerisce di identificare con un passo del perduto Kitāb al-Nabāt. Queste due testimonianze appaiono alquanto deboli; innanzitutto, sembra plausibile ritenere che lo scritto botanico di Averroè non fosse un 'commento grande' come quello visto da Navagero, bensì un compendio piuttosto libero dello scritto di Nicola (sul genere di quello che lo stesso Averroè aveva composto nel caso degli scritti zoologici di Aristotele); in secondo luogo, a un più attento esame la citazione di Ibn Falaqera si è rivelata nient'altro che un pas-so ripreso sì da Averroè, ma da un'altra sua opera, il Colliget, appunto. Ciononostante, la possibilità che lo stesso Ibn Falaqera abbia conosciuto e usato il Kitāb al-Nabāt di Averroè appare tutt'altro che remota. Il suo Sēfer dē῾ôt ha-fîlôsôfîm, infatti, è in gran parte ripreso, alla lettera, dalle opere di Averroè; e, sempre nel citato Libro IV di questa enciclopedia, si leggono ampie trattazioni su temi botanici (a cominciare dalla presenza e dalle facoltà dell'anima vegetativa nelle piante), che non trovano corrispondenza in alcuna altra fonte araba. Non si può pertanto escludere che Ibn Falaqera le abbia riprese dal perduto scritto botanico del filosofo di Cordova. A rafforzare tale ipotesi contribuisce il fatto che una di queste trattazioni sia dedicata espressamente alla classificazione dei 'sapori', al cui studio il Medioevo arabo attribuiva notevole importanza per determinare le caratteristiche chimiche dei vegetali (si pensi alla trattazione sui sapori contenuta nella sezione VIII del Kitāb al-Filāḥa al-nabaṭiyya); in essa un lungo passo è dedicato a una discussione sul sapore amaro.
Due sono le opere enciclopediche del Tardo Medioevo arabo che contengono elementi di qualche interesse per la storia della sistematica botanica: ῾Aǧā᾽ib al-maḫlūqāt (Le meraviglie della creazione) di al-Qazwīnī (m. 682/1283) e l'enciclopedia intitolata Nihāyat al-arab fī funūn al-adab (Il conseguimento dello scopo nelle discipline letterarie), opera di al-Nuwayrī (m. 732/1332). Nello scritto di al-Qazwīnī vi è un lungo capitolo dedicato espressamente ai vegetali collocato, come spesso avviene in queste opere, dopo il capitolo sui minerali e prima di quello sugli animali. In esso, dopo una rassegna generale delle caratteristiche di questi esseri (in parte riprese dagli Iḫwān al-ṣafā᾽ [Fratelli della purezza)], si elenca e si descrive una serie di vegetali, ripartiti in due categorie: albero (šaǧar) ed erba (naǧm). Dell'albero si dà la seguente definizione: "Tutto ciò che ha un tronco. I grandi alberi corrispondono ai grandi animali, mentre le erbe (nuǧūm) corrispondono ai piccoli animali. I grandi alberi che non hanno frutti […] [sono tali] perché tutta la loro materia viene purificata nella pianta stessa, mentre così non avviene per gli alberi che fruttificano […]" (῾Aǧā᾽ib al-maḫlūqāt, p. 246). Dell''erba' si dice invece che "è tutto ciò che vegeta e non ha tronco solido ed elevato" (p. 270).
Ai vegetali è dedicata anche l'intera sezione (fann) quarta dell'enciclopedia di al-Nuwayrī. I primi brevissimi capitoli riguardano la fitogenesi, in particolare la composizione della radice e del seme dei vegetali, e le proprietà del terreno dove il vegetale è piantato. La trattazione successiva è invece di carattere descrittivo, e da essa si può desumere una classificazione generale in vegetali, piante e frutti odorosi. Nel primo caso, si differenziano vegetali che servono da nutrimento (aqwāt) e verdure (ḫaḍrawāt). Nel secondo caso, le piante (ašǧār) si distinguono in piante i cui frutti hanno una buccia non commestibile (per es., pistacchio, pino, limone, melograno), quelle i cui frutti hanno un nocciolo non commestibile (per es., palma da dattero, olivo, albicocco, pesco) e piante i cui frutti non hanno né buccia, né nocciolo (per es., vite, melo). Infine, i frutti odorosi (fawākih mašmūma) sono suddivisi in frutti che, seccati, profumano e si possono distillare (per es., la rosa) e in frutti che, seccati, profumano, ma non si possono distillare (per es., la viola).
Un importante prolungamento della botanica araba è rappresentato dalle traduzioni e dalle opere medievali in lingua ebraica che si rifanno direttamente ai testi sopraelencati o sono perlomeno a essi ispirati. Nella citata enciclopedia di Ibn Falaqera (risalente al 1260-1270 ca.), nel capitolo I del Libro IV, è contenuta una traduzione ebraica di una Summa Alexandrinorum del De plantis di Nicola; l'opera si sarebbe rivelata in realtà non un testo botanico indipendente, ma un semplice compendio della traduzione araba dello scritto di Nicola. Inoltre i capitoli II, III e IV (tuttora in massima parte inediti) includono un'ampia discussione sulla botanica teoretica condotta sulla scorta di testi degli Iḫwān al-ṣafā᾽ e di Averroè (compreso, forse, il perduto Kitāb al-Nabāt di quest'ultimo, v. sopra). Opere successive sono il terzo trattato dell'enciclopedia di Gēršôm ben Šelōmōh di Arles, Ša῾ar ha-šāmayim (La porta dei cieli), composta intorno al 1300, che contiene una trattazione botanica ispirata sia alla discussione di Ibn Falaqera, sia a Nicola e ad Averroè; la traduzione ebraica della versione araba del De plantis, opera di Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs (1287-dopo il 1328) e composta ad Arles nel 1314; un commento ebraico letterale del testo della versione di Qâlônîmôs, composto probabilmente nel corso del XIV secolo. Il contributo offerto dalla scienza ebraica medievale alla botanica non va inteso nel senso di un apporto originale, ma è certamente utile, e forse talora indispensabile, per una completa ricostruzione di tutte le tappe di sviluppo della botanica araba.
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