La civilta islamica: scienze della vita. Farmaceutica
Farmaceutica
Nel Kitāb al-ṣaydana fī 'l-ṭibb (Libro della farmacia in medicina), la cui introduzione è considerata come il più antico compendio di storia della farmacia araba che ci sia pervenuto, Abū 'l-Rayḥān al-Bīrūnī (m. 1048), uno dei maggiori scienziati dell'Islam e acuto osservatore del suo tempo, presenta così la farmacia: "La farmacia è la conoscenza delle droghe (῾aqāqīr) semplici quanto ai loro generi, alle loro specie e ai loro tratti caratteristici; essa è inoltre l'arte di preparare i farmaci composti secondo le ricette in uso o secondo quanto richiesto dalla persona incaricata della cura" (p. 1).
È difficile precisare a partire da quando la farmacia (al-ṣaydana), detta anche al-ṣaydala, termine che ancor oggi la designa, sia stata considerata nel mondo arabo come disciplina e professione distinta da quella medica. Sappiamo che le due professioni, quella del medico e quella del farmacista, erano distinte già verso la metà del IX secolo. Nella farmacopea (aqrabāḏīn) di Sābūr ibn Sahl (m. 255/868), responsabile alla metà del IX sec. dell'ospedale di Ahwaz (nel Khuzistan, l'antica Susiana), il primo capitolo è infatti rivolto a "colui che vuole preparare i propri farmaci secondo il metodo migliore"; nei tre capitoli successivi dell'opera sono inoltre segnalate le regole di preparazione dei farmaci semplici e di quelli composti; a questi primi quattro capitoli ne seguono altri tredici, dedicati precisamente alla farmacopea, cioè alle ricette dei farmaci. Un'altra precisa notizia la ricaviamo da al-Rāzī il quale, alcuni decenni dopo Sābūr ibn Sahl, scrisse un'apologia della separazione dei due rami dell'arte della guarigione costituiti dalla medicina e dalla farmacia. Nel Kitāb al-Ḥāwī fī 'l-ṭibb (Libro comprensivo della medicina, noto in latino come Liber continens), il testo postumo preparato dai suoi discepoli sulla base di appunti tratti dalle lezioni, al-Rāzī dedica, infatti, una trattazione specifica alla farmacia intitolata Kitāb al-ṣaydala fī 'l-ṭibb (Libro della farmacia in medicina; titolo che verrà fra l'altro ripreso poi nell'opera di al-Bīrūnī), precisando che "la conoscenza dei farmaci e la capacità di riconoscerne la qualità buona o cattiva, la purezza o la falsificazione non sono necessarie al medico, come credono invece gli ignoranti" (pp. 1-4); esse sono di competenza del farmacista. La stessa delimitazione dei due settori dell'arte della guarigione ‒ medicina e farmacia ‒ si trova anche nel Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr): riferendosi al controllo della professione medica (miḥnat al-ṭabīb), egli enumera i vari campi del sapere che il medico deve dominare per meritare il proprio titolo. Tra questi va inclusa la conoscenza dell'azione dei farmaci sul corpo umano ma ‒ precisa al-Rāzī ‒ la preparazione sui farmaci in quanto sostanze con caratteristiche proprie non appartiene all'ambito delle conoscenze che il medico deve obbligatoriamente possedere, perché questa ‒ se ne può dedurre ‒ rientra nello specifico campo del farmacista. Più di un secolo dopo, al-Bīrūnī ‒ che nel Kitāb al-ṣaydana fī 'l-ṭibb fornisce ampie informazioni sulla figura del farmacista (al-ṣaydalī) e sulla sua formazione, sui farmaci semplici e su quelli composti e sulla posizione intermedia che essi occupano tra gli alimenti e i veleni ‒ segnala l'opportunità della divisione dei compiti, nell'arte della guarigione, tra farmacisti e medici: "i medici hanno ragione di cercare di perfezionare l'arte e di migliorare le sue due branche, la teoria (al-῾ilm) e la pratica (al-taǧriba), affidando quest'ultima a farmacisti di fiducia, che li servano come 'fanno' i medici versati nelle scienze fisiche" (p. 13).
La professione del farmacista si divise ulteriormente, nel corso dei secoli, nelle due specializzazioni del droghista (῾aṭṭār, lett. profumiere) e del preparatore di bevande o sciroppi (šarrāb). Per esempio, nel XIII sec. il farmacista Abū 'l-Munāal-Kūhīn al-῾Aṭṭār ‒ il 'profumiere' appunto ‒ nel Minhāǧ al-dukkān wa-dustūr al-a῾yān fī a῾māl al-adwiya al-nāfi῾a li-'l-abdān (Il metodo [cui affidarsi] in bottega e la regola [da seguire] nei singoli [casi] nella lavorazione delle medicine utili ai corpi [umani]) scrive: "quest'arte [cioè la farmacia] è la più nobile dopo l'arte medica, poiché è uno strumento (āla) per quest'ultima, che ha per oggetto lo studio del corpo umano dal punto di vista della conservazione della salute e del suo ristabilimento in caso di malattia, e ciò per mezzo di farmaci semplici, di farmaci composti e di alimenti comuni" (p. 10).
Dalle fonti si traggono pochi elementi riguardo la formazione seguita dai farmacisti, droghisti e preparatori di sciroppi. Secondo al-Bīrūnī, il buon farmacista è colui che è istruito da un maestro di grande fama, presso il quale impara a riconoscere e a memorizzare le forme e le caratteristiche delle droghe e a distinguerle le une dalle altre, per essere capace di preparare i farmaci composti. Una parte integrante della formazione del farmacista era costituita dalla lettura del testo di Dioscuride e da quella di un testo di Sulaymān ibn Ḥasan ibn Ǧulǧul (m. dopo il 384/994), la Maqāla ṯāmina fī ḏikr al-adwiya allatī lam yaḏkur-hā Diyusqūrīdūs (Trattato ottavo sulla menzione delle medicine non citate da Dioscuride), in cui l'autore descriveva alcune droghe ignote al medico greco. Del ruolo di quest'opera nell'istruzione del farmacista siamo informati da almeno due testi. Il primo è di un autore di cui ignoriamo il nome (il suo scritto risale al 583/1187-1188 d.C.) che dichiara di aver letto a Marrakesh, in presenza del suo maestro, lo šayḫ al-Kattāmī (XII sec.), e nel suo laboratorio, prima il libro di Dioscuride e, in seguito, il libro di Ibn Ǧulǧul e aggiunge:
È indispensabile, per chi intenda trarre profitto da questo libro ‒ questo è infatti l'obiettivo di Dioscuride ‒, che lo legga davanti a un maestro di fiducia, il quale conosca o tutte le droghe che vi sono citate al suo tempo, o la maggior parte di esse, o qualcuna, affinché, durante la lettura, gli faccia conoscere le 'droghe' che egli ha conosciuto nel loro luogo di coltivazione, se ciò è possibile, oppure dopo la loro estrazione dal luogo di coltivazione allo stato fresco, se il primo caso non è possibile, o eventualmente allo stato secco, o infine gli parli di ciò che ha conosciuto per sentito dire se i tre casi precedenti non si verificano. (Dietrich 1988, I, p. 8)
Il secondo testo si deve a Šarīf al-Idrīsī, principe marocchino e celebre geografo; nell'introduzione all'opera intitolata Kitāb al-ǧĀmi῾ li-ṣifāt aštāt al-nabāt (Libro completo delle caratteristiche delle varietà delle piante) si legge: "fu allora che studiai la fonte alla quale essi avevano attinto la loro conoscenza, il tesoro dal quale l'avevano presa a prestito: parlo del libro di Dioscuride il greco, da lui composto sui rimedi semplici vegetali, minerali e animali. Ne feci il mio breviario (muṣḥaf) e lo studiai con zelo finché non appresi a memoria tutto il suo contenuto scientifico, dopo avere esaminato ciò che aveva omesso, per esempio il mirabolano giallo, indiano e chebulo, la cassia" (Meyerhof 1940, p. 95).
Molto probabilmente, l'apprendimento del mestiere comprendeva anche la lettura delle varie farmacopee (aqrabāḏīnāt), soprattutto nella loro parte introduttiva, ricca di consigli pratici per il futuro farmacista. In questi testi si trovano spesso, infatti, uno o più capitoli introduttivi indirizzati all'apprendista nei quali si mostra il metodo da seguire per scegliere le droghe medicinali, per saggiare le loro qualità e, inoltre, dove sono descritte le regole di preparazione delle diverse forme farmaceutiche.
L'apprendistato di uno studente che intendesse dedicarsi specificamente alla farmacopea era molto lungo e complesso. Per esempio, il capo degli erboristi dell'Andalus, Ḍiyā᾽ al-Dīn Abū Muḥammad ῾Abd Allāh ibn Aḥmad, più noto come Ibn al-Bayṭār (1197-1248), studiò presso tre diversi maestri, completando la propria formazione con vari viaggi 'scientifici' in Africa del Nord; soltanto alla fine di una tale lunga formazione egli fu nominato dal nipote di Saladino (il celebre Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb, 1138-1193), šayḫ al-῾aššābīn (principe o capo degli erboristi). Vi sono, inoltre, sufficienti elementi per ritenere che i farmacisti e i medici non si formassero come il droghista, il botanico (nabātī) o l'erborista (῾aššāb) ma piuttosto, come peraltro attesta al-Bīrūnī, con un periodo di apprendistato presso uno specialista esperto nella pratica: la 'forma' della droga doveva infatti imprimersi nella loro memoria, cosicché essi potessero poi riconoscerla.
Non si dispone di molti dati riguardo al posto occupato dal farmacista nella società; è probabile, tuttavia, che la vita urbana sia stata la condizione principale della separazione dei due mestieri dell'arte della guarigione. Sappiamo, infatti, che il ṣaydalī lavorava in botteghe (dukkān, plurale dakkākīn) che si trovavano soprattutto nelle grandi città o nella farmacia dell'ospedale. Dobbiamo ad al-Kūhīn al-῾Aṭṭār i particolari sulle regole pratiche ed etiche che disciplinavano la vita professionale nel XIII sec.: la manutenzione dei diversi strumenti utilizzati, come la bilancia e i vasi, il metodo di preparazione dei farmaci semplici usati nella confezione di quelli composti, il controllo degli stessi farmaci semplici. Egli consiglia al farmacista di eseguire una revisione mensile della propria bottega e di non fare affidamento sul solo lavoro dei propri dipendenti; raccomanda, inoltre, di correggere il proprio umore con sciroppi, per garantire una buona condotta nei confronti dei clienti!
Il farmacista era responsabile soprattutto della preparazione dei farmaci composti secondo le regole della professione. Egli doveva accertare la buona qualità delle droghe animali, vegetali e minerali da lui acquistate, nonché quella delle acque distillate e degli oli composti che riceveva. Prima di essere usate, le erbe medicinali dovevano essere trattate ed era del tutto naturale che il farmacista sapesse riconoscerle, per non essere vittima di una frode. I testi insistono sulla necessità di saper scegliere la miglior specie di droga e di saperne controllare la qualità e alcuni manuali di farmacia menzionano veri e propri 'test' di controllo di qualità delle droghe medicinali, alcuni dei quali ricordano i test del muḥtasib (ispettore).
Tutte le figure professioniali della farmacia ‒ il ṣaydalī, il ῾aṭṭār e lo šarrāb ‒ sono segnalate nei manuali di ḥisba (l'ufficio di ispezione dei mestieri e delle professioni), nei quali il muḥtasib dedica un capitolo all'ispezione di ognuna di esse. Il ṣaydalī veniva sottoposto ogni settimana a un'ispezione per verificare la buona qualità e la buona conservazione delle droghe medicinali tenute in bottega, nonché la loro possibile adulterazione. Un'idea del metodo e della precisione con cui era condotta l'ispezione ci viene da un brano del manuale di ḥisba di ῾Abd al-Raḥmān al-Šayzarī (XII sec.), che riguarda il controllo dell'olio di balsamo: "Alcuni adulterano l'olio di balsamo con l'olio di iris. Per riconoscerne l'adulterazione, 'bisogna' farne cadere qualche goccia su un pezzo di tessuto di lana, e poi lavarlo; se l'olio scompare dal tessuto senza lasciare traccia, allora è puro; se lascia tracce, è adulterato. Allo stesso modo, se si fa cadere l'olio 'di balsamo' puro in gocce nell'acqua, esso si scioglie e si ottiene un liquido della consistenza del latte, mentre quello adulterato galleggia come l'olio 'd'oliva'" (Kitāb Nihāyat al-rutba fī ṭalab al-ḥisba, p. 47).
All'origine della specializzazione dello šarrāb vi fu probabilmente il potere di conservazione che lo zucchero dimostrava nella confezione di sciroppi, elettuari e altri prodotti. Base della preparazione degli sciroppi composti era ‒ ce ne informa tra l'altro il muḥtasib Ibn al-Uḫuwwa (m. 729/1329) ‒ lo sciroppo di zucchero detto ǧullāb: "ogni sciroppo è composto dal ǧullāb (sciroppo semplice) e dal succo di frutta, o dall'acqua di fiore, o dalla soluzione di piante o di droghe di cui porta il nome. Il ǧullāb non è lo scopo del farmaco, ma viene usato come mezzo per fare penetrare 'nel corpo' il succo di frutta, l'acqua di fiore o la soluzione contenente droghe, poiché il fegato è avido di sostanze zuccherate" (Ma῾ālim al-qurba fī aḥkām al-ḥisba, p. 117).
Al-Kūhīn al-῾Aṭṭār paragona il ǧullāb, comune a tutti gli sciroppi composti, alla materia (hayūlā) dello sciroppo e il frutto che vi è aggiunto alla forma (ṣūra), offrendone quindi una spiegazione in termini aristotelici.
Il muḥtasib Ibn al-Uḫuwwa nella parte dedicata al controllo dello šarrāb asserisce che esistono più di settanta sciroppi, pur citando soltanto quelli più usati, e riferisce anche le precise proporzioni secondo le quali doveva essere preparato lo sciroppo di frutta: per 10 raṭl (4065 g ca.) di zucchero si dovevano aggiungere 3 raṭl e 1/3 (1341,45 g) di succo di frutta.
Per impedire qualsiasi falsificazione da parte dello šarrāb, l'ispettore doveva provare la buona qualità e la purezza del farmaco. Egli controllava anche i farmaci composti che dovevano essere preparati secondo le farmacopee di Sābūr ibn Sahl, di ῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī o di Avicenna. Se gli sciroppi si presentavano come inaciditi, lo šarrāb doveva gettarli e non aveva il diritto di farli cuocere nuovamente, con le sole eccezioni di quelli di rose e di viole che, contrariamente agli altri, erano più efficaci se cotti più volte.
Il muḥtasib controllava anche gli elettuari, i trocischi, le gerapicre e gli altri farmaci composti che potevano essere preparati in anticipo.
Il droghista era infine sottoposto al controllo del muḥtasib soprattutto per la verifica della buona qualità degli aromi. Era frequente che i cinque aromi di base dell'epoca ‒ il muschio, l'ambra grigia, il legno di aloe, la canfora e lo zafferano ‒ venissero adulterati. Al-Šayzarī descrive, sempre nel Kitāb Nihāyat al-rutba, diversi metodi di adulterazione degli stami di zafferano per mezzo di carne (di gallina o di vitello), di cuscuta trattata o di zucchero trattato con altri coloranti: "alcuni adulterano gli stami di zafferano con la carne di petto di gallina o di manzo, dopo averla cotta nell'acqua. La stendono, la seccano e poi la tingono con lo zafferano. Lasciano seccare il tutto e lo mescolano allo zafferano in cesti. Per riconoscere l'adulterazione di quest'ultimo, il muḥtasib ne prende una quantità e la mette a bagno nell'aceto. Se si restringe, è adulterato con la carne; lo stesso vale se cambia colore. Lo zafferano puro conserva il suo colore iniziale" (p. 52).
Il compito essenziale del farmacista consisteva nella confezione dei farmaci composti. Anche qui, un sapere pratico e alcune regole definivano la loro preparazione, per la quale era richiesta una grande abilità professionale. Le forme farmaceutiche erano numerose e i lessici medici e le enciclopedie dedicavano un capitolo alle loro definizioni. A partire dalla metà del IX sec., cominciarono a circolare opere specificamente dedicate alla farmacopea, un genere letterario designato con il termine aqrabāḏīn che diede poi il nome a quella parte delle enciclopedie mediche espressamente dedicata ai farmaci composti, le aqrabāḏīnāt. Il principale esempio di tale uso del termine è costituito dal quinto e ultimo libro del Canone di Avicenna, che, interamente dedicato ai farmaci composti, è intitolato Aqrābāḏīn. Esistevano anche monografie riservate alla trattazione di particolari generi di farmaci composti: ne sono un esempio due trattati di al-Rāzī, al-Iyāriǧāt al-muǧarraba (Le gerapicre di cui si è fatta esperienza) e Fī 'l-sakanǧubīn (Sull'ossimele [a base di zucchero]), oltre ai libri sulla teriaca scritti in al-Andalus da Ibn Ǧulǧul e Averroè (m. 1198).
Le opere ‒ o le sezioni di opere ‒ dedicate ai farmaci composti comportavano spesso due suddivisioni: la prima parte era dedicata alla teoria e alle regole relative alla composizione e preparazione dei farmaci; nella seconda erano presentati i farmaci composti, seguendo l'organo malato che essi avrebbero dovuto guarire o le varie forme farmaceutiche. Questi due criteri di presentazione derivano dai due libri di Galeno De compositione medicamentorum secundum locos e De compositione medicamentorum per genera (conosciuti nelle traduzioni di Ḥunayn ibn Isḥāq). In alcuni casi, come nel Canone di Avicenna, i due criteri venivano ricordati entrambi nella stessa farmacopea. Un'idea di quanto fosse ampio lo spettro delle regole e dei farmaci considerati può venire rispettivamente dall'opera di al-Maǧūsī e da quella di al-Kindī. Nel Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica) nel terzo sottocapitolo della parte dedicata ai farmaci composti, al-Maǧūsī espone le regole da rispettare nella determinazione del peso dei farmaci semplici che entrano nella preparazione di uno composto.
"Ciò che i medici dovrebbero sapere e ciò di cui hanno necessariamente bisogno nella confezione di un farmaco composto è la conoscenza della quantità di ognuno dei farmaci semplici da usare. I farmaci 'semplici' infatti non hanno tutti la stessa forza né la stessa funzione; bisogna prendere perciò una grande quantità di alcuni, una piccola quantità di altri e una quantità media di certi altri. Per tali ragioni i pesi dei farmaci 'semplici' variano" (p. 296).
A ciò al-Maǧūsī aggiunge sette regole semplici e dodici complesse. La quantità di un farmaco semplice da utilizzare in uno composto dipende infatti da: (1) la forza più o meno grande di un dato farmaco; (2) la sua azione più o meno pronunciata; (3) la sua azione più o meno nobile; (4) la condivisione o meno della sua azione con altri farmaci semplici che entrino nella composizione dello stesso farmaco composto; (5) il luogo o la localizzazione della parte malata; (6) la nocività di un dato farmaco semplice; (7) la presenza di un altro farmaco semplice in uno composto che indebolisca il farmaco semplice. Le dodici condizioni complesse che al-Maǧūšī descrive dettagliatamente sono invece associate in conclusione a tre regole da rispettare nella preparazione di un farmaco composto: (1) quando le ragioni per aumentare la quantità di un farmaco semplice si sommano, bisogna utilizzarne una grande quantità nel farmaco composto; (2) quando le ragioni per diminuire la quantità di un farmaco si sommano, bisogna utilizzarne una piccola quantità nel farmaco composto; (3) quando le ragioni per aumentare la quantità di un farmaco semplice si equilibrano con le ragioni per diminuire la sua quantità, bisogna aggiungere una quantità moderata di esso nel farmaco composto.
Per quanto riguarda le forme farmaceutiche, nell'opera di al-Kindī ne sono elencate quindici: l'inalazione (baḫūr, baḫūrāt); l'impiastro (ḍimād, aḍmida); il gargarismo (ġarūr, ġarūrāt); l'elettuario stomachico (ǧawāriš, ǧawārišāt); la pillola (ḥabb, ḥubūb); il clistere rettale (ḥuqna, ḥuqan); la fomentazione (kammād, kammādāt); lo scioglimento in bocca (la῾ūq, la῾ūqāt); la pomata (marham, marāhim); il decotto (maṭbūḫ, maṭbūḫāt); la frutta candita (murabbā, murabbayāt); il macerato (naqū῾, naqū῾āt); il trocisco (qurṣ, aqrāṣ); lo sciroppo di frutta (rubb, rubūb); la polvere dentifricia (sanūn, sanūnāt).
Tra le questioni teoriche discusse nelle opere farmaceutiche in lingua araba ritornavano frequentemente tre temi: delle ragioni che avevano spinto i medici a preparare farmaci composti; della potenza o forza della qualità dominante nei farmaci semplici e in quelli composti; delle leggi che regolavano la quantità di ogni ingrediente da utilizzare in un farmaco composto.
Il tema della necessità dei farmaci composti, molto caro ai medici e ai farmacisti arabi, fu trattato, tra gli altri, da al-Maǧūsī, il quale dedicò ai farmaci composti il decimo capitolo della seconda parte della sua enciclopedia medica, il Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya, discutendo le ragioni che avevano spinto i medici antichi a prepararne. Egli riferisce le affermazioni degli aṣḥāb al-taǧārib (i partigiani della sperimentazione, gli empirici) e degli aṣḥāb al-qiyās (i partigiani della ragione, i dogmatici; lett. del ragionamento analogico), e prende partito a favore di questi ultimi:
gli aṣḥāb al-taǧārib sostengono che diversi farmaci furono scoperti da alcune persone in sogno. Altri lo furono per convenzione, dopo che alcuni usarono senza intenzione né volontà due, tre o più farmaci semplici contro una malattia e questi ultimi ebbero effetti benefici; il farmaco composto [a partire da essi] era allora considerato atto a guarire tale malattia.
Altri 'farmaci' furono scoperti perché composti intenzionalmente dai medici. Quando questi videro che molti farmaci semplici avevano il medesimo effetto, cioè che erano benefici contro una stessa malattia, ma che ognuno aveva un effetto più forte su certi corpi e più debole su altri, decisero allora di riunire i farmaci aventi gli stessi effetti contro una certa malattia e di curare con essi coloro che soffrono di tale malattia: almeno uno dei farmaci semplici contenuti nel composto avrebbe così potuto convenire alla natura di questa persona ed essergli benefico. Questa teoria non è corretta. (pp. 292-293)
Al fine di giustificare il proprio rifiuto all'approccio 'sperimentale', al-Maǧūsī espone dettagliatamente le affermazioni degli aṣḥāb al-qiyās, secondo i quali le ragioni che avevano spinto i medici a preparare i farmaci composti sarebbero dipese da vari elementi. In primo luogo, dalla natura della malattia che, essendo attribuita a uno squilibrio degli umori del corpo, poneva come principale problema da risolvere l'individuazione dello scarto rispetto all'equilibrio umorale della salute e, di conseguenza, quale fosse la potenza della malattia, la sua gravità, lo stato del malato e anche se si fosse in presenza di più patologie. Un secondo elemento di interesse era dato dalla natura della parte malata; bisognava cioè comprendere quale fosse il luogo della parte malata, quale la sua potenza e la sua 'utilità' ossia la sua funzione. Infine, vi erano gli elementi legati alla natura dei farmaci semplici: la correzione delle loro proprietà sgradevoli; l'inibizione o almeno l'attenuazione della loro eventuale nocività; l'aumento della loro potenza o efficacia o, al contrario, la diminuzione della loro potenza o azione; il modo d'uso e il rimedio per riparare all'eventuale assenza di un farmaco semplice che producesse l'azione desiderata.
Il primo metodo per conoscere la forza della qualità dominante nei farmaci semplici fu elaborato da al-Kindī sulla base della sua teoria farmacologica esposta nel Fī ma῾rifat quwā al-adwiya al-murakkaba (Sulla conoscenza delle facoltà dei farmaci composti). Questo metodo permetteva di valutare i gradi dei farmaci composti, poiché i rapporti di una qualità dominante con la sua qualità contraria seguivano una progressione geometrica di ragione 2. Questa teoria poteva essere applicata per preparare un farmaco composto al grado o al sottogrado desiderato oppure per calcolare il grado o il sottogrado di un farmaco composto e, infine, per preparare un farmaco composto temperato. Secondo al-Kindī, infatti, una volta che fossero stati noti i rapporti propri delle qualità opposte dei farmaci semplici, tenendo conto del loro peso rispettivo, sarebbe stato possibile conoscere la potenza di un farmaco composto attraverso un semplice calcolo. Si sarebbero dovute sommare separatamente le parti calde, le fredde, le asciutte e le umide di tutti i farmaci semplici entrati a far parte del farmaco composto: con un rapporto di 1 a 1 si otteneva un farmaco composto temperato; con un rapporto di 1 a 2 un farmaco composto di primo grado; con un rapporto di 1 a 4 uno di secondo grado; con un rapporto di 1 a 8 uno di terzo grado; con un rapporto di 1 a 16 uno di quarto grado. Con un rapporto intermedio, infine, per determinare la frazione di grado del farmaco composto si sarebbe dovuta applicare una sorta di regola del tre.
Affinché le applicazioni della teoria fossero possibili, era però necessaria una condizione preliminare: il farmaco composto doveva essere considerato come un'accumulazione delle qualità primarie dei farmaci semplici entrati nella sua composizione. Solamente adottando l'idea di un'accumulazione delle qualità primarie dei farmaci semplici in quelli composti, al-Kindī poteva applicare il suo metodo per conoscere quale fosse la potenza o efficacia dei farmaci composti. In tal senso, egli si avvicinava alla concezione di Empedocle, più che a quella di Galeno. I medici e i filosofi greci, infatti, avevano espresso essenzialmente due opinioni riguardo alla mescolanza dei corpi: alcuni, come Empedocle di Agrigento (V sec. a.C.), avevano sostenuto che una mistura fosse un'accumulazione meccanica di qualità primarie; altri, come Galeno (II sec. d.C.), che in ciò seguiva l'opinione di Aristotele, avevano creduto che il prodotto di una mistura fosse un nuovo corpo, le cui qualità erano diverse dalla somma dei corpi semplici che lo componevano e, in tal senso, imprevedibili.
La posizione assunta dai medici nei confronti del metodo di al-Kindī fu varia: la maggior parte di essi, non essendo esperta di matematica, non la applicò; vi sono, tuttavia, alcune testimonianze dell'adozione di questa teoria nell'Occidente islamico. Il medico andaluso Ibn Biklāriš (m. all'inizio del XII sec.) cita la teoria di al-Kindī nell'introduzione del suo libro Kitāb al-Musta῾īnī (Libro dedicato ad al-Musta῾īn), dove descrive un esempio di preparazione di un farmaco temperato. Anche Averroè nel Kitāb al-Kulliyyāt (Colliget) riprende il modello di analisi dei farmaci semplici di al-Kindī ritenendo però che le qualità dominanti nei differenti gradi fossero legate secondo una progressione aritmetica. Con la loro traduzione in latino, le opere di al-Kindī e di Averroè provocarono vivaci discussioni anche tra i filosofi e i medici del Medioevo latino e suscitarono numerose riflessioni sull'idea della quantità e della quantificazione in farmacologia.
Al-Maǧūsī descrive nel Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya le regole pratiche di preparazione delle droghe medicinali. Per le sostanze 'asciutte' ‒ come le piante intere, i semi e la frutta ‒ consiglia il metodo seguente:
bisogna macinarle lentamente con un mulino a braccia come quello per lo zafferano. Se non si dispone di un mulino a braccia, bisogna pestarle allora in un mortaio di pietra liscia, se possibile, altrimenti in un mortaio di metallo pulito e lucido; filtrarle attraverso un tessuto di seta, pestarle e passarle di nuovo al setaccio; rimetterle quindi nel mortaio di metallo e triturarle a lungo finché si riducono in polvere. Se i farmaci vengono trattati in questa maniera hanno un'azione più benefica. Più li si tritura finemente, più rapidamente passano nello stomaco e nel fegato. Il grande Galeno ordina invece di non pestare finemente i farmaci stomachici purgativi, poiché se vengono pestati finemente non agiscono più. Ogni tipo di farmaco semplice deve essere triturato separatamente; quindi se ne prende il peso prescritto e lo si mescola con gli altri. (pp. 299-300)
Le droghe di origine animale ‒ come il granchio (saraṭān), utilizzato per la tisi; lo scinco (saqanqūr), apprezzato come afrodisiaco; le cantaridi (ḏarārīḥ) ‒ o composte con parti di animali ‒ come le vescicole o le corna di pecora ‒ dovevano essere preparate in diverse maniere, a seconda della parte dell'animale utilizzata. Per la preparazione delle cantaridi, al-Maǧūsī consiglia il metodo seguente: "per usare le cantaridi in un farmaco [composto] o in una soluzione dermica (ṭilā᾽), versarle in una brocca e coprirne l'apertura con un tessuto di cotone pulito; rovesciare la brocca sopra una marmitta in cui si fa bollire aceto piccante, per liberare i vapori dell'aceto; le cantaridi saranno soffocate. Dopo possono essere utilizzate" (ibidem, p. 303).
I farmaci semplici di origine minerale ‒ come la stibina, la tuzia o le scorie d'argento ‒ devono essere preparati con grande cura per la confezione del collirio secco (kuḥl), dei colliri liquidi o delle polveri oftalmiche. Per le sostanze minerali, al-Maǧūsī consiglia: "pestarle a fondo, lasciarle immerse nell'acqua, triturarle con forza e poi asciugarle. Se le si vuole mettere a bagno in un succo, bisogna versare a poco a poco il succo [su queste sostanze] nel mortaio e triturarle finché si rammolliscono e si riducono in polvere. Bisogna fare allo stesso modo con gli altri farmaci dell'occhio, ridurli in polvere pestandoli e triturandoli, poiché l'occhio è un organo fragile, nobile e molto sensibile e non può tollerare i farmaci se non sono fini. In questi casi infatti l'occhio si ammala di più, anche se il farmaco ha un'azione leggera" (ibidem, pp. 301-302).
Il compito del farmacista richiedeva una notevole abilità professionale e una conoscenza pratica delle regole per la preparazione dei farmaci composti e delle numerose forme farmaceutiche. Due generi farmaceutici sono spesso prescritti dai medici: gli elettuari e gli sciroppi. Per la preparazione degli elettuari a base di miele era necessario rispettare le giuste proporzioni delle droghe e del miele, al fine di ottenere la consistenza desiderata. Così, al-Maǧūsī consigliava: "per ogni parte di farmaci pestati, passati al setaccio e pesati, prendere tre volte il loro peso di miele d'inverno, e una volta e mezzo il loro peso di miele d'estate. Versare il miele sulle gomme precedentemente sciolte nel vino (šarāb) e battere il tutto per renderlo omogeneo; quindi, cospargerlo con i farmaci triturati e omogeneizzare con il pestello. Conservare in un recipiente di vetro o di porcellana" (ibidem, p. 300).
Un'altra forma farmaceutica si otteneva sostituendo il miele degli elettuari con lo zucchero. Il modo di preparazione espresso nell'opera Minhāǧ al-dukkān wa-dustūr al-a῾yān fī a῾ māl al-adwiya al-nāfi῾a li-'l-abdān era, secondo al-Kūhīn al-῾Aṭṭār, il seguente:
prendere 10 raṭl di zucchero puro, pestarlo, metterlo in una grande marmitta (dist) stagnata, coprirlo di acqua in cui è stato battuto un bianco d'uovo e cuocerlo a fuoco lento finché si scioglie. In un altro recipiente, battere l'acqua insieme a un altro bianco d'uovo battuto, fino a ottenere una miscela; far bollire il ǧullāb e ogni volta che bolle e trabocca aggiungere una piccola quantità di quest'acqua, così l'ebollizione diminuisce e la schiuma si raccoglie; togliere questa schiuma finché non ne resta più. Il segno che lo zucchero è depurato è che la schiuma diventa bianca e lo zucchero non cambia più aspetto; continuare a far bollire in questo modo finché non si produce più schiuma; far riposare e passare attraverso un tessuto di lana; rimettere lo zucchero nella grande marmitta e fargli prendere la consistenza del ῾aqīd (condensato) o della terra molle (mašāš), secondo la quantità di frutta che vi si versa; aggiungere la frutta che si desidera e far bollire finché raggiunge la consistenza degli sciroppi che non si guastano; ritirare dal fuoco, far riposare e versare in un recipiente, senza riempirlo troppo, né coprirlo, altrimenti lo sciroppo cambia colore. (p. 17)
Uno studio comparativo delle ragioni proposte in favore dell'uso dei farmaci composti nelle diverse scuole mediche dell'antica Roma e presso i medici del mondo medievale, sia nell'area arabo-islamica sia in quella latino-cristiana, sarebbe molto importante per la storia della medicina araba. Tale studio permetterebbe, infatti, da una parte di porre nella giusta evidenza quale sia stato l'apporto dei medici e dei farmacisti arabi in questo ambito e, dall'altra, di determinare quale sia stata l'influenza della medicina e della farmacia prettamente arabe sulla farmacia del mondo medievale latino. Quando la teoria umorale elaborata dai medici greci e adottata da quelli arabi e latini fu abbandonata, la medicina teorica che ne dipendeva seguì lo stesso destino. Tuttavia, la farmacoterapia, e dunque la pratica farmaceutica, non subì la stessa sorte e continuò, invece, un proprio cammino indipendente dalla farmacia 'scientifica' moderna. In numerosi paesi arabi o musulmani, infatti, la farmacia popolare si basa ancor oggi sui testi della farmacopea medievale araba: essa fa parte della medicina detta yūnānī in India e costituisce il manuale del ῾aṭṭār e del medico conosciuto nella farmacia popolare con il nome di ṭabīb ῾arabī (medico arabo) nei paesi arabo-islamici.
Hinz 1955: Hinz, Walther, Islamische Masse und Gewichte: Umgerechnet ins metrische System, Leiden, E.J. Brill, 1955 (rist.: Leiden-Köln, E.J. Brill, 1970).
Sezgin 1970: Sezgin, Fuat, Geschichte des arabischen Schrifttums, Leiden, E.J. Brill, 1967-; v. III: Medizin-Pharmazie, Zoologie-Tierheilkunde bis ca. 430 H., 1970.
Ullmann 1970: Ullmann, Manfred, Die Medizin im Islam, Leiden-Köln, E.J. Brill, 1970.
‒ 1972: Ullmann, Manfred, Die Natur- und Geheimwissenschaften im Islam, Leiden-Köln, E.J. Brill, 1972.