La civilta islamica: scienze della vita. Le malattie mentali e psicosomatiche
Le malattie mentali e psicosomatiche
Nell'Arabia preislamica i ǧinn, i demoni del deserto, erano considerati esseri che incarnavano le forze oscure della Natura, ostili all'uomo. Nell'Islam ufficiale, sulla base di una serie di versetti nelle prime rivelazioni del Corano, i ǧinn furono accettati come demoni soggetti al comando di Dio, benché capaci di agire come esseri sovrannaturali che vagano di notte e sono in grado di trasportare le loro vittime per lunghe distanze, di distoglierle dal loro cammino, di trasformarle in animali, di avere rapporti sessuali con esse e, in generale, di possederle e renderle folli. La vittima dei ǧinn era chiamata maǧnūn, 'posseduto da un ǧinn' o 'folle'. Questa figura fu, e nelle zone rurali del mondo islamico è ancora oggi, soggetto di credenze folkloriche e religiose, nonché personaggio letterario. In letteratura, il più noto maǧnūn fu l'eroe del celebre romanzo d'amore Maǧnūn Laylā (Il folle di Laylā), emblema dell'eccesso patologico d'amore profano o follia d'amore. Nell'ambito religioso vi è un tipo peculiare di 'folle sacro' la cui condotta esteriore è eccentrica secondo i canoni della società, in quanto manifestazione dell'intensità della sua esperienza religiosa e mistica. Nella credenza popolare varie malattie mentali erano e sono ancora considerate come indotte dalla possessione dei ǧinn. L'epilessia, come nella medicina più antica, era ritenuta avere una causa divina che era attuata dal ǧinn. I malati mentali, generalmente, erano riconosciuti dal loro comportamento aggressivo e instabile e la terapia si basava sull'esorcismo. Quest'intervento poteva essere attuato con metodi religiosi, che la tradizione faceva risalire allo stesso Profeta Muḥammad ed eseguiti da santi e ṣūfī cui erano attribuiti miracolosi poteri di guarigione, o attraverso metodi magici. La magia affermava di basarsi su alcuni aspetti della religione canonica e sebbene fossa vista con sospetto dai musulmani ortodossi, vi sono nel mondo islamico numerose evidenze dell'uso di metodi magici per la guarigione di malattie somatiche e mentali. I metodi di guarigione della follia includevano la recitazione di versetti coranici, e in particolare della fātiḥa, il capitolo con cui si apre il Corano, formule magiche e altri incantamenti, l'uso di talismani e l'invocazione di demoni avversi (quest'ultima è la principale caratteristica dei cosiddetti culti zār, popolari in Etiopia ed Egitto).
Nella letteratura sul ṭibb al-nabawī (la medicina profetica), ovvero le raccolte e i commenti dei detti del Profeta Muḥammad sulla medicina, e in particolare sulla cura della malattia mentale, è descritta una combinazione di metodi terapeutici religiosi e magici. È interessante notare che la maggior parte delle opere sul ṭibb al-nabawī, oltre a elementi della tradizione religiosa e delle credenze magiche, contengono principî della medicina scientifica di derivazione ellenistica e della fisiologia umorale. Per esempio, nel noto manuale sulla medicina profetica, al-Raḥma fī 'l-ṭibb wa-'l-ḥikma (La misericordia nella medicina e nella saggezza), l'autore, al-Ṣanawbarī al-Hindī (m. 1412), afferma che l'epilessia è dovuta a un umore degenerato e che il kaymūs, il fluido corporeo, si posa nella cavità del cervello del paziente a causa dell'ascesa di tale umore freddo e dannoso che è racchiuso nel centro del corpo.
La teoria e i concetti della patologia mentale, nella letteratura medica araba e persiana, sono per buona parte derivati dalla descrizione della fisiologia umorale data da Rufo di Efeso (I-II sec. d.C.) per il trattamento della melancolia e codificata da Galeno (II sec. d.C.). Quest'ultimo, all'interno del sistema dei temperamenti, con le sue corrispondenze con gli elementi, i climi, le stagioni, momenti del giorno e della notte, ecc., descrisse le malattie somatiche e psichiche come il prodotto di un equilibrio alterato degli umori. La posizione di Galeno, secondo la quale le facoltà della psiche sono dipendenti dagli umori del corpo, aprì la strada a una concezione della patologia mentale come sistema di disturbi dei quattro principali umori: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Le diverse facoltà e attività di un essere umano sono localizzate in altrettante parti od organi del corpo; il temperamento di organi come il cervello, il cuore o il fegato esercita una rilevante influenza sulle facoltà corrispondenti che risiedono in tali organi. La relazione fra la mescolanza degli umori e le facoltà della psiche è l'elemento centrale del rapporto fra mente e corpo secondo la concezione di Galeno. Le capacità o facoltà che rendono la psiche distinta dal corpo non sono innate negli organi, le facoltà psichiche fluiscono dal cervello come i raggi di luce dal Sole.
Uno dei primi sostenitori di tale sistema fu Abū Zayd al-Balḫī (m. 322/934), un erudito nella tradizione del filosofo al-Kindī, autore di un trattato medico-etico intitolato Maṣāliḥ al-abdān wa-'l-anfūs (Sul benessere del corpo e dello spirito). Nella prima parte, che occupa i tre quarti del libro, Abū Zayd al-Balḫī tratta gli aspetti convenzionali dell'igiene somatica: clima, abitazione e vestiario, cibo, bevande e aromi, sonno, attività sessuale, bagni e ginnastica, ma conclude con una sezione particolare sul samā῾, l''audizione' (musicale), in quanto la sua natura specifica e i suoi effetti lo rendono in grado di mediare fra i domini del corpo e della psiche. Il samā῾, sebbene possa essere comparato al bere e all'inalare profumo e influenzi miracolosamente i movimenti del corpo con il suo ritmo, esercita il maggior influsso sulla psiche; esso è una medicina ambivalente, può condurre sia alla negligenza sia al comportamento virtuoso. L'autore rivela una combinazione d'antiche credenze beduine e della tradizione imperiale sasanide quando distingue tre tipi di piaceri derivati dall'ascolto: delle belle voci umane, degli strumenti musicali e delle poesie, e consiglia il reale auditore di limitarsi agli ultimi due. La seconda parte dell'opera di al-Balḫī è dedicata all'igiene mentale e inizia con l'annuncio programmatico che il parallelismo fra corpo e mente è evidente nella salute, nell'armonia e nella protezione dalle influenze nocive. La relazione fra la terapia della mente e quella del corpo è un dato di fatto. La malattia mentale, secondo al-Balḫī, può essere evitata e curata come una febbre o un mal di testa. Certi parossismi, come quelli della furia (ġaḍab), sono ricondotti alla loro origine umorale che ne spiega i sintomi. Le principali malattie mentali trattate sono la furia, la paura, l'angoscia, le allucinazioni (wasāwis min al-ṣadr) e i soliloqui dell'io; questi ultimi presentano sintomi meno manifesti e una base umorale più difficile da determinare. Le prime tre patologie sono tratte dalla dottrina ellenistica, in particolare i passi sulla paura e l'angoscia presentano forti similitudini con la Consolatio di al-Kindī, che a sua volta costituisce un buon esempio di tarda letteratura filosofica platonizzante.
La melancolia, il più importante dei disturbi mentali, la cui eziologia umorale è espressa dallo stesso nome, ha rappresentato, in tutta la storia della sua esposizione e sistematizzazione, una specie di paradigma del principio di mutua influenza delle funzioni somatiche e mentali. A partire dalle discussioni presenti nel Corpus Hippocraticum, la melancolia fu variamente definita, sia in termini di fisiologia umorale sia sulla base di osservazioni climatiche e fisiche. Dopo che la terapia della melancolia fu inclusa nelle enciclopedie mediche d'autori quali Cornelio Celso e i suoi successori, insieme con altri noti disturbi come mania, epilessia, frenite e letargia, questa divenne oggetto di studio monografico con l'importante lavoro di Rufo di Efeso, il quale stabilì i principî per il trattamento della melancolia adottati nella Tarda Antichità e nel mondo islamico. Uno dei maggiori autori arabi che utilizzò la dettagliata sintomatologia descritta da Rufo di Efeso fu Isḥāq ibn ῾Imrān di Baghdad, il quale lavorò alla corte aghlabita di Ziyādat Allāh, a Qairawan, fino alla fine del X secolo. Il trattato di Isḥāq ibn ῾Imrān sulla melancolia ebbe una vasta influenza sulla letteratura successiva, anche attraverso l'adattamento latino di Costantino l'Africano (De melancolia, 1536). Isḥāq conosceva bene il lavoro di Rufo, che cita come fonte maggiore, ma rimarcò che egli contemplava solo la melancolia epigastrica (al-῾illa al-šārāsīfiyya) e ometteva il secondo tipo di melancolia, che origina nel cervello, e il terzo, il quale ha origine in tutto il corpo e poi ascende al cervello. Il secondo e il terzo tipo presentano varianti in relazione al concorso specifico della bile gialla e della bile nera, che conduce rispettivamente a frenite, danza involontaria e imbecillità, ferocia, delusione. Isḥāq continua descrivendo i sintomi fisici e mentali della melancolia: depressione, paura, tristezza, allucinazioni, eccesso di pianto e di riso, eccesso e assenza d'appetito, e conclude con una dettagliata discussione della relazione fra la melancolia e l'epilessia. Nella seconda parte dell'opera, l'autore descrive vari trattamenti per tutti i tipi di melancolia, la maggior parte dei quali è costituita da ricette dietetiche su base umorale, alcuni farmaci composti, pomate e aromi da inalare.
La melancolia, sia nel mondo islamico medievale sia nell'Europa rinascimentale, riscosse un interesse generale più vasto di quello dell'ambito medico in quanto connessa al mal d'amore. Prosatori, curatori d'antologie, teologi e medici si dedicarono a classificare i vari tipi d'amore in relazione, fra gli altri aspetti, all'oggetto amato e all'intensità. Un antico testo arabo sulla malattia d'amore della tarda tradizione alessandrina compreso nei Problemata physica testimonia la popolarità di questo tema. Il testo, sebbene i sintomi dell'eccesso d'amore come inquietudine, angoscia, paura, depressione, insonnia, danni al cervello, anoressia, l'eventuale follia o suicidio ricevano un'esposizione medica, manca tuttavia di un'appropriata ottica medica; tale mancanza facilitò la sua diffusione pseudepigrafa e aprì la strada per l'integrazione nella tradizione araba letteraria e in quella occulta, con varie e inventive forme di adattamento. Uno dei primi testi sul mal d'amore che fa parte della letteratura medica e solleva un problema di competenza professionale fu quello di Abū Sa῾īd ῾Ubayd Allāh ibn Baḫtīšū῾ (XI sec.), un breve trattato dal lungo titolo nel quale si afferma che il medico ha il dovere di studiare i fenomeni mentali e che il mal d'amore è una malattia. Questa tesi, evidentemente, è uno dei numerosi commenti alla vecchia controversia della competenza terapeutica sul corpo e sull'anima. Dal verdetto di Democrito secondo il quale 'l'arte medica cura le malattie del corpo, la filosofia allevia lo spirito dalle sue sofferenze', una forte tradizione stoico-cristiana ha affermato uno status indipendente e potenzialmente immortale dello spirito, del quale la filosofia è custode. Vi fu anche una serie di egualmente vigorose difese della medicina come custode del corpo, principalmente per opera di medici professionisti. Questa posizione, essenzialmente galenica, è assunta per esempio da autori come Rabban al-Ṭabarī (m. 240/855 ca.) nel Firdaws al-ḥikma (Paradiso della saggezza), e dal suo collega Isḥāq ibn ῾Alī al-Ruhāwī, un contemporaneo di Abū Zayd al-Balḫī. Nell'Adab al-ṭabīb (L'etica del medico), Isḥāq ibn ῾Alī al-Ruhāwī afferma che la medicina, la quale può aiutare il corpo e lo spirito, è superiore alla filosofia, la quale può aiutare solo lo spirito. ῾Ubayd Allāh ibn Baḫtīšū῾, nel suo trattato, segue da vicino l'argomentazione di Galeno che vuole le facoltà dello spirito dipendenti dagli umori del corpo. Galeno aveva opportunamente raccolto le speculazioni di autorità come Platone che, nel Timeo, parla dell'effetto di un cattivo temperamento (kakochymia) sullo spirito, e le osservazioni di Aristotele, nel De partibus animalium, sulla relazione fra la mistura del sangue e le emozioni. L'ultima e più estesa sezione del trattato di ῾Ubayd Allāh afferma che l'eccesso d'amore è una malattia che dev'essere trattata dal medico. Incerta è la localizzazione della malattia, se questa sia da collocare nella parte sensuale (šahwānī) o razionale (nuṭqī) dell'anima, i suoi sintomi sono invece considerevoli e le misure terapeutiche da adottare sono stabilite sulla base dell'esperienza medica. I metodi di trattamento, secondo ῾Ubayd Allāh, sono la correzione del temperamento corporeo attraverso la dieta e i farmaci, l'audizione musicale, la balneoterapia e l'uso di vino. La diagnosi del mal d'amore, in particolare attraverso l'osservazione del polso del paziente, era considerata una delle abilità miracolose dell'arte medica (mu῾ǧizāt al-ṣinā῾a), capace di convincere i suoi opponenti e i giovani ad avviarsi agli studi di medicina.
Il testo di ῾Ubayd Allāh è un'abile collezione di argomenti a favore dell'interpretazione e del trattamento medico della malattia mentale e include l'esposizione della diagnosi del polso dell'amore veemente (ascritta a eminenti medici, da Galeno ad Avicenna) e della musicoterapia (già toccata da Abū Zayd al-Balḫī). Le prime scuole di diritto islamico avevano ricusato la musica vocale accompagnata da strumenti, affermando che il suo influsso distoglieva l'ascoltatore dal comportamento dignitoso e dall'osservazione delle leggi religiose, ma le attestazioni di rappresentazioni musicali pubbliche, anche e in particolare alla corte dei califfi abbasidi, sono abbondanti. La teoria delle influenze della musica sulla condotta e le emozioni umane, già sviluppata nella Tarda Antichità, entrò a far parte della cultura musicale, filosofica e, in una certa misura, medica dell'Islam. Autori come al-Kindī e al-Fārābī coltivarono questa teoria, specialisti quali Ibn Hindū (m. 420/1029), al-Urmawī (m. 693/1294) e Ibn Qāḍī al-Ba῾lbakkī (XIII sec.) svilupparono dettagliati sistemi di correlazioni fra gli elementi, gli umori, i minerali, gli animali, i momenti del giorno e della settimana, i modi musicali (maqāmāt) e i loro effetti sullo spirito (rūḥ) del paziente; in alcuni casi erano incluse anche le costellazioni astrologiche, le cui proporzioni erano considerate analoghe alle proporzioni musicali.
Ibn Hindū dedica un capitolo del Miftāḥ al-ṭibb (La chiave della medicina) all'enumerazione delle conoscenze scientifiche che devono essere padroneggiate da un medico esperto e include fra queste l'uso terapeutico della musica. L'autore rifiuta la visione di Galeno secondo la quale il dottore dev'essere anche un filosofo, sebbene egli debba conoscere la logica, l'astrologia e l'etica. Ibn Hindū non può negare e, al contrario, sottolinea, gli effetti terapeutici dell'audizione musicale ma trascura il quadro speculativo della musicoterapia elaborato dagli autori più antichi. Questi scrive:
Sappiamo che, in un senso generale, esiste un tipo di melodia, un modo di suonare la tromba, un tipo di tono degli strumenti a fiato e un ritmo che evocano tristezza e che vi è un altro tipo che evoca la gioia; uno che quieta e calma e uno che inquieta e opprime; uno che causa insonnia e un altro che induce sopore. D'altronde, noi spesso prescriviamo per i melancolici l'uso di modi musicali (al-ṭarīq) a essi adatti e benefici. Questo, tuttavia, non significa che lo stesso medico debba suonare la tromba o uno strumento a fiato e danzare. Piuttosto, la medicina ha molti assistenti, come il farmacista, il flebotomo e il salassatore con coppette; la medicina è servita da essi e a essi si affida per tutti questi lavori. Lo stesso vale per il musicista, al quale uno chiede assistenza in tali circostanze. (Dols 1992, p. 167)
I racconti di vari geografi e viaggiatori attestano l'impiego della musicoterapia in diversi ospedali islamici, in particolare per i pazienti affetti da disturbi psichici.
I diversi tipi di disturbi mentali furono classificati nelle enciclopedie mediche di autori come al-Rāzī, al-Maǧūsī e Avicenna. Queste opere erano ordinate perlopiù a capite ad calcem e, essendo le malattie mentali concepite la maggior parte come originanti dalla testa, erano trattate nei primi capitoli delle sezioni sulla patologia. Il primo dei venticinque o più volumi del Kitāb al-Ḥāwī di al-Rāzī, oltre a trattare le facoltà del cervello (immaginazione, cogitazione e memoria) e i loro temperamenti, è interamente dedicato all'esposizione delle malattie della testa; fra queste troviamo apoplessia, vertigini, melancolia, paralisi facciale, epilessia, incubi, spasmi e tetano, letargia, frenite, follia (ǧunūn), demoni (quṭrub), insonnia e mal di testa. Il Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica) di al-Maǧūsī presenta un diverso ordinamento: inizia con i principî teorici della medicina, discute l'anatomia, le facoltà naturali e le funzioni degli organi, l'influsso di condizioni esterne come clima, vestiario, ecc. (con un interessante passo sull'influenza delle disposizioni mentali sul corpo), nosologia ed eziologia, patologia e diagnostica, e solo a questo punto, in due estesi capitoli, troviamo la descrizione delle malattie del corpo e dei disturbi 'interni' come melancolia, quṭrub, mal d'amore (un disturbo che l'autore dichiara essere assente nei precedenti compendi medici), completata da una discussione dei sintomi e delle crisi. La prima parte è seguita da una seconda dedicata alla terapia. L'importanza dell'opera di al-Maǧūsī, sebbene tradotta per due volte in latino e molto nota e diffusa fra i medici, fu sorpassata da quella del Canone di Avicenna. Analogamente all'ordinamento di al-Maǧūsī, Avicenna antepone alla trattazione della patologia capitoli sui principî generali dell'arte medica e poi discute le malattie a capite ad calcem. Il terzo, quarto e quinto capitolo del Libro III del Canone trattano i diversi tipi di infiammazione del cervello, il deterioramento delle funzioni sensoriali e i danni cerebrali che ledono i movimenti volontari. Fra i disturbi trattati nel terzo capitolo si trovano la frenite (qarāniṭis), il sirsām bārid (letargia?) e l'apatia (subāt). Il quarto capitolo tratta, nuovamente, l'apatia, l'insonnia, i deficit di memoria e immaginazione, mania e rabbia, melancolia, licantropia, mal d'amore; il quinto capitolo include vertigini, coliche, incubi, epilessia, apoplessia. Tale ordine è simile a quello dell'enciclopedia medica di Paolo di Egina (VII sec. d.C.). La trattazione della malattia mentale data da Avicenna è sempre organizzata secondo eziologia, sintomi e terapia del disturbo, con un'enfasi maggiore sulla patologia umorale rispetto alle opere di Paolo di Egina e al-Maǧūsī. La descrizione della melancolia si basa sulla teoria degli umori e dei temperamenti. La melancolia, secondo Avicenna, è connessa all'eccesso dannoso di bile nera, sia nel caso, senza ascesa della sostanza, di un temperamento freddo e secco che trasforma l'essenza del cervello e il temperamento dello spirito (rūḥ) chiaro in oscuro, sia nel caso dell'ascesa della sostanza patologica al cervello. In un successivo passaggio Avicenna impiega la nozione ippocratica secondo la quale la melancolia aumenta quando il cuore è caldo e il cervello umido, il calore del cuore genera la melancolia e l'umidità del cervello è suscettibile della sua influenza.
I manuali di diritto islamico non considerano la malattia mentale come una categoria distinta. Questa è trattata in differenti capitoli, in occasione della discussione di argomenti come tassazione, matrimonio, divorzio, eredità, contratti, obblighi religiosi e, preminentemente, a proposito dell'eleggibilità a incarichi religiosi giuridici o politici, come motivo d'incapacità legale. La maggior parte delle scuole considera lo stato legale del folle analogo a quello del bambino, sebbene il folle sia deprivato permanentemente o temporaneamente della ragione. Un importante aspetto dell'interdizione del folle è l'affidamento della tutela legale dei suoi beni. Questa responsabilità ricade prima sul padre o sul nonno del malato e, in assenza di questi, sulla madre o qualcun altro apposto dalla corte. L'amministratore dei beni deve essere un musulmano maturo e in pieno possesso delle sue facoltà mentali, di buona reputazione e capace di adempiere all'incarico che è considerato un obbligo religioso e può essere declinato solo per importanti ragioni approvate da un giudice. In generale, il tutore del folle veniva considerato responsabile dei danni che questo causava. Nella letteratura e nella pratica legale, sebbene vi sia un qualche riconoscimento del disturbo mentale come malattia, la medicina è ignorata e anche il vocabolario delle due discipline è ben distinto. Nella letteratura giuridica i medici non sono mai menzionati come specialisti per la determinazione legale della follia. In modo analogo alla legge romana non vi era un interesse per la causa della malattia, l'importante era stabilire la capacità legale dell'individuo. L'indeterminatezza della legge islamica relativamente alla follia può essere considerata l'espressione di una riluttanza sia a privare i membri della comunità dei propri diritti sia ad assumersi la loro responsabilità. Nell'Islam medievale vi era il forte desiderio di preservare allo stesso tempo la vita socio-legale della comunità e l'integrità dell'individuo. La responsabilità del folle, prevalentemente, ricadeva sulla famiglia.
In ogni caso, si deve evidenziare che i reparti per la cura dei folli all'interno degli ospedali (bīmāristān) costituirono un rilevante aspetto della pratica medica nella società islamica medievale. La stessa parola bīmāristān o māristān divenne durante il Medioevo sinonimo di manicomio e molte di queste istituzioni erano identificate in primo luogo come ricoveri per gli alienati.
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