La civilta islamica: scienze della vita. Le malattie nella teoria medica
Le malattie nella teoria medica
Avicenna, grazie alla definizione secondo cui la medicina è la scienza che conduce alla conoscenza degli stati dei corpi che godono di buona salute o che l'hanno perduta al fine di preservarla o di ristabilirla, all'inizio del Canone eludeva l'annoso problema dell'esistenza o meno di un terzo stato intermedio definito 'neutro' da Galeno nell'Ars medica (nota in arabo come Kitāb al-ṣinā῾a al-ṣaġīra o Kitāb al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya). Vicino alla tradizione del galenismo alessandrino, Ḥunayn ibn Isḥāq (m. 260/873) aveva registrato nel Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb (Libro delle questioni sulla medicina) l'esistenza di tre stati: "quali conseguenze provoca ciascuna delle cose naturali quando si allontana dal suo stato nel corpo? Due cose. E quali sono? La malattia [maraḍ], o uno stato non riconducibile né alla salute né alla malattia [laysat bi-ṣiḥḥatin wa-lā maraḍin]" (p. 12). I commentatori dell'Ars medica di Galeno non potevano eludere la questione, anche se ῾Alī ibn Riḍwān (m. 453 o 460/1061 o 1068) sfumava la posizione di Galeno, ammettendo la possibilità di uno stato intermedio in cui la malattia e la salute si dividevano diverse parti del corpo o differenti momenti dei periodi di transizione tra i due stati. La principale difficol-tà nasceva dalla definizione dei contrari data da Aristotele nelle Categorie (11b 15-14a 25), in cui la salute e la malattia figuravano esplicitamente tra gli esempi di contrari privi di termini intermedi. Da fedele seguace della dottrina aristotelica, Averroè, nel Kitāb al-Kulliyyāt (Colliget), negava la possibilità dell'esistenza di uno stato neutro, mentre Avicenna nel Canone, dopo aver citato il solo stato di salute nella sua definizione preliminare della medicina, dichiarava che l'individuazione di uno stato neutro non era necessaria all'arte del medico, che poteva accontentarsi di prendere in considerazione soltanto due stati, la salute e la malattia. In un altro brano della stessa opera, l'autore ricordava la distinzione dei tre stati del corpo di Galeno, evitando, allo stesso tempo, di considerare quello neutro come un termine intermedio tra i primi due. Ciò che non è riconducibile né alla salute né alla malattia è quindi lo stato caratteristico dei corpi degli anziani, dei convalescenti e dei bambini che non si trovano al limite estremo della salute o della malattia; caratteristica questa che può essere applicata ai corpi nei quali i due stati di salute e malattia coesistono, anche se in differenti parti del corpo e a seconda dei diversi tipi di affezione, oppure si alternano nel tempo.
Accettato con molte restrizioni, tenuto a distanza con imbarazzo o negato, lo stato neutro è preso in considerazione solamente nelle definizioni generali e non nelle discussioni relative alle diverse disfunzioni del corpo; infatti, è attraverso l'enumerazione dei molteplici generi e tipi di affezione che si è tentato di ovviare all'incapacità di delimitare con precisione il concetto di malattia. Questa reticenza, indotta dalla contraddizione che sembrava esistere tra la teoria di Galeno e le definizioni aristoteliche, ha in qualche modo ostacolato la riflessione sulla nozione stessa di malattia. Adottando la vaga definizione secondo cui la malattia è lo stato contrario alla salute, gli autori evitarono di approfondire troppo le loro argomentazioni per non rimettere in discussione i principî delle Categorie di Aristotele e, allo stesso tempo, seguitarono a considerarla, sull'esempio di Galeno, un'entità relativa.
Guidati dal loro gusto per la classificazione, gli alessandrini della Tarda Antichità avevano diviso la parte teoretica della medicina in tre branche di studio che possono essere descritte con i termini moderni di 'fisiologia', 'eziologia' e 'semiologia'. All'inizio del suo Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb, Ḥunayn ibn Isḥāq spiegava tale suddivisione dopo aver ricordato la bipartizione della medicina in teoria (῾ilm) e pratica (῾amal) e affermava che lo studio delle cause (eziologia) e dei segni (semiologia) si associava a quello delle cose naturali (fisiologia) per formare il versante speculativo della medicina. In questo quadro non era prevista una branca specifica della teoria medica corrispondente alla moderna 'patologia': la malattia (insieme allo stato neutro) era segnalata soltanto a proposito delle cose naturali, di cui costituiva una deviazione. Era proposta una classificazione sintetica delle malattie, a seconda che queste colpissero parti omogenee od organiche del corpo, o fossero caratterizzate da una soluzione di continuità, mentre erano più dettagliati gli sviluppi relativi alle cause e ai segni che potevano essere applicati ai tre possibili stati del corpo. Dall'elaborazione alessandrina del Corpus galenico traspare quindi l'eliminazione della nozione di malattia come entità concettuale: lo stesso Ḥunayn ibn Isḥāq nella sua celebre missiva a ῾Alī ibn Yaḥyā ricorda che gli alessandrini avevano riunito sei libri di Galeno, Le differenze delle malattie, Le cause delle malattie, Le differenze dei sintomi e i tre libri che compongono il trattato Delle cause dei sintomi, in un solo volume, intitolandolo Il libro delle cause. I traduttori siri attribuirono a questa raccolta il titolo più appropriato di Libro delle cause e dei sintomi, adottato anche nella versione araba, Kitāb al-῾Ilal wa-'l-a῾rāḍ. È interessante osservare che il termine ῾ilal utilizzato nel titolo è la forma plurale di ῾illa, che designa anche la malattia: la scelta di tale termine rispetto a quello di sabab, usato abitualmente per indicare la 'causa', non è certamente fortuita.
Nel Canone di Avicenna sono enumerati i differenti tipi e i livelli di cause delle malattie, in base al modello dell'eziologia galenica, così come era stata descritta in diverse opere. La prima distinzione si basa sulla nozione di tempo, vale a dire sulla successione dei processi nella concatenazione causale che conduce alla disfunzione. L'autore giunge così a isolare tre tipi di fattori: la causa antecedente (al-sābiqa, in greco proēgouménē), come nel caso della pletora umorale; la causa originaria (al-bādi᾽a, in greco prokatarktikḗ), per esempio, il calore del Sole, l'ingestione di un alimento riscaldante o un colpo ricevuto sulla testa; la causa congiunta (al-wāṣila, in greco synektikḗ), quale la putrefazione di un umore o l'ostruzione di un canale. La causa antecedente e quella congiunta sono inerenti al corpo, mentre le cause originarie sono individuabili in agenti extracorporei, provenienti dal mondo esterno o dai movimenti dell'anima. Attenendosi alle categorie aristoteliche, l'autore opera quindi una seconda distinzione tra le cause per essenza (bi-'l-ḏāt), quali il pepe, e le cause per accidente (bi-'l-῾araḍ) come l'acqua fredda che riscalda il corpo, in seguito a un ispessimento della pelle che trattiene il calore. Affinché un agente causale possa produrre i suoi effetti su un corpo, sono necessarie tre condizioni: l'agente deve avere una forza sufficiente, il corpo deve essere predisposto a subire il suo effetto e deve trascorrere un lasso di tempo che consenta all'azione di svolgersi. Le stesse cause non producono sempre i medesimi effetti; le malattie, infatti, si manifestano in modo differente, a seconda della diversità dei corpi e dei tempi (per es., delle età della vita o delle stagioni dell'anno). Quando l'agente causale cessa di esercitare la sua azione, in certi casi si ristabilisce la salute, in altri, invece, la malattia persiste. Infine, l'ultima distinzione è quella che separa le cause non necessarie da quelle necessarie, alle quali, nel corso della sua vita, l'uomo non può sfuggire e che possono sia modificare sia conservare lo stato del suo corpo.
Anche se le descrizioni delle malattie non tengono sempre conto di queste differenti cause, la griglia eziologica impiegata da Avicenna riflette piuttosto fedelmente il modo in cui erano concepiti i fenomeni morbosi. L'indagine non era imperniata sul tentativo di isolare un solo agente patogeno, ma sull'individuazione di una serie di reazioni del corpo che seguivano un processo logico, innescato in origine da un fattore esterno o 'causa originaria'. L'azione del medico doveva avere come oggetto l'insieme delle cause messe in evidenza e tenere conto del principio fondamentale secondo cui tra il fattore causale e la predisposizione o la resistenza dell'entità naturale aggredita esisteva un rapporto di forza, che determinava la natura e l'intensità del male.
A partire da questi principî generali si sviluppò un'eziologia molto particolareggiata che tentava di identificare le cause dei diversi effetti prodotti, suddividendo questi ultimi in base alla 'cosa naturale' colpita e alla categoria a cui apparteneva il danno causato (qualitativo, quantitativo, o riconducibile a una soluzione di continuità). Benché vi sia variabilità nei dettagli riportati dai diversi autori, in Avicenna si ritrova una griglia rappresentativa dei criteri di suddivisione più adottati: le cause sono enumerate a seconda che colpiscano le qualità delle complessioni (cause riscaldanti, raffreddanti, umidificanti o disseccanti); che provochino l'ostruzione dei canali; che alterino la morfologia di una certa parte del corpo, la sua struttura, la sua posizione o la sua relazione con un'altra; che causino movimenti involontari, come, per esempio, il tremito; o che inducano una soluzione di continuità, una tumefazione (al-waram) e, in ultimo, un dolore, una replezione o un indebolimento.
Nella sezione del Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb abitualmente attribuita a Ḥubayš ibn al-Ḥasan al-A῾ṣam, nipote di Ḥunayn ibn Isḥāq, la teoria medica è suddivisa in un altro modo, ossia in base alla distinzione di tre oggetti di studio: 'le cose naturali', 'le cose contro Natura' e le 'cose non naturali'. Le malattie, le cause e i loro sintomi rientrano nel campo delle cose contro Natura. Le 'cose non naturali', invece, sono sei: l'aria ambientale; il movimento e il riposo; i bagni; l'alimentazione e le bevande; il sonno, la veglia e l'evacuazione; infine la replezione e le relazioni sessuali. Alcuni, precisa Ḥubayš, aggiungono a questo elenco gli accidenti psichici, vale a dire le emozioni o passioni. ῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī (X sec.) nel Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica) adotta tale ripartizione degli oggetti di studio, e dedica il Libro V della parte teorica alle 'cose che non sono naturali' (al-umūr allatī laysat bi-ṭabī῾iyya). L'enumerazione delle cose non naturali è quasi identica a quella di Ḥubayš, dalla quale si distingue solamente per l'introduzione degli accidenti psichici, collocati al sesto posto, e per l'inserimento dei bagni e delle relazioni sessuali nella categoria dell'evacuazione e della replezione.
Il concetto di 'cose non naturali', la cui origine risale a Galeno e ai commentatori alessandrini, è approfondito e sviluppato dai medici arabi che con esso indicano le componenti di base dei regimi e i principî di conservazione della salute. Infatti, quando si discostano dalle loro condizioni abituali, le cose non naturali si trasformano in cause indipendenti dalla fisiologia, che fanno passare i costituenti corporei da uno stato naturale a uno contrario alla Natura o patologico: le loro deviazioni dalla regola sono quindi considerate le principali responsabili delle malattie. È nell'ambito della loro enumerazione, divenuta tradizionale (anche se con alcune varianti) a partire dal Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb di Ḥunayn e Ḥubayš, che Avicenna introduce la distinzione tra cause (o cose) neces-sarie (al-ḍarūriyya) e cause non necessarie o casuali. Nel Canone, così come nella Urǧūza fī 'l-ṭibb (Poema sulla medicina), egli inserisce nella prima categoria l'aria e, più in generale, le condizioni climatiche e geografiche, l'alimentazione e le bevande, inclusa la qualità dell'acqua ingerita, il sonno e la veglia, il movimento e il riposo, l'evacuazione e la replezione e, infine, gli eventi psichici. Si tratta, in effetti, di fattori che, essendo legati all'ambiente e alle attività degli uomini, accompagnano necessariamente tutta la loro vita. Viceversa, i bagni e le acque termali sono inseriti tra i fattori casuali, insieme ai veleni e alle sostanze tossiche.
L'isolamento di queste cause o 'cose' serviva a rendere coerente la spiegazione degli stati di salute e di quelli morbosi e rendeva conto sia delle malattie che colpivano i singoli individui, sia delle epidemie o delle patologie endemiche proprie di una regione o di un popolo. In quest'ultima prospettiva, i medici arabi riprendevano e amplificavano la tradizione inaugurata dal trattato ippocratico De aëre, aquis et locis e dal commento al testo redatto da Galeno. Tuttavia, alcuni autori non impiegano l'aggettivo 'non naturale', né la nozione di causa 'necessaria', e si limitano a menzionare le 'sei cause', come ῾Alī ibn Riḍwān, il quale, nella Risāla fī daf῾ maḍārr al-abdān bi-arḍ Miṣr (Epistola sulla prevenzione delle malattie corporee in Egitto) ‒ redatta in risposta al trattato, oggi perduto, di Ibn al-Ǧazzār (m. 369/979-980) sulle cause, la prevenzione e la cura delle epidemie ‒ descrive le condizioni che causavano le malattie di cui soffrivano gli Egizi, dividendo le cause delle epidemie in base a quattro tipi di cambiamenti: nella qualità dell'aria, dell'acqua, del cibo e degli eventi psichici (per es., la paura e l'inquietudine). L'ambiente naturale, la dieta e gli stati psicologici sono tra i fattori più citati dai medici arabi per spiegare l'insorgere e lo sviluppo delle malattie.
"Quelli che il paziente considera accidenti (a῾rāḍ) sono segni (dalā᾽il) per il medico". Questi due termini sono quindi intercambiabili e sono impiegati indifferentemente per designare le manifestazioni della malattia, cioè i suoi sintomi. L'unica differenza è che il primo si riferisce alla malattia e al suo vissuto, mentre il secondo alla scienza e all'arte del medico; si utilizzava anche il termine ῾alāma, che rinvia alla nozione di 'caratteristica', di 'segno indicativo'. Nella stessa forma sintetica impiegata per definire le cause, Avicenna enumera nel Canone (I.2.3.1) i differenti tipi di sintomi, basandosi sulle indicazioni disseminate in diverse opere di Galeno. Secondo una prima distinzione generale, i sintomi indicano uno stato presente (che interessa soprattutto il paziente), uno stato passato (che interessa soltanto il medico) e uno stato futuro (che interessa sia il paziente sia il medico); diagnosi e prognosi sono quindi strettamente legate: lo studio dei sintomi esige una grande abilità quando serve a rivelare malattie latenti e a individuarne le cause.
Avicenna considera la conoscenza dell'anatomia una premessa necessaria a questo studio, dal momento che essa consente di comprendere non solo la struttura e la forma delle parti del corpo in cui è localizzato il male, ma anche le relazioni esistenti tra queste e altre parti. Oltre ai segni visibili sulla superficie del corpo, il medico, grazie alla sua preliminare conoscenza dell'anatomia, può basarsi su diversi criteri: il danno subito da un''attività' o funzione fisiologica, che può consistere nella sua diminuzione, trasformazione o eliminazione; le evacuazioni; il dolore; i gonfiori o le tumefazioni; la localizzazione. Al di là della sintomatologia differenziale, che tiene conto di una moltitudine di criteri relativi alle condizioni di osservazione, alla natura delle malattie, alle loro cause e ai costituenti corporei, sono due gli indicatori presi in maggiore considerazione: il ritmo del polso e l'urina, che rivelano l'attività di due facoltà, quella vitale e quella naturale, le cui rispettive sedi sono individuate nel cuore e nel fegato. Questi indicatori privilegiati forniscono molte informazioni sullo stato del malato, sulla sede della malattia e sulla sua causa.
Benché accompagni tutte le identificazioni e le descrizioni delle disfunzioni patologiche, la distinzione tra i concetti di malattia, causa e segno o sintomo è ben lungi dall'essere rigorosa. Come ricorda Avicenna nel Canone (I.2.1.1), sono riscontrabili diverse trasposizioni, una malattia può divenire la causa di un'altra malattia e, più frequentemente, un sintomo può provocare una malattia, o persino costituirne una in sé, come per esempio il mal di testa che, intervenendo sotto l'effetto di una febbre, finisce per trasformarsi in cefalea persistente. Una stessa entità patologica può riunire in sé i tre status: per esempio, la febbre consuntiva (al-ḥummā 'l-silliyya) non solo è sintomo di un'ulcerazione (qarḥa) polmonare, ma costituisce una vera e propria malattia ed è la causa della debolezza di stomaco. Quest'ultimo caso illustra in modo appropriato la complessità di una patologia che moltiplica le distinzioni concettuali senza fondarsi su criteri fissi e omogenei.
Divisa tra il riferimento alle cause presunte e l'osservazione dei sintomi (considerati patognomonici), o delle sindromi, erede di una vasta nomenclatura di origine greca, veicolo di entità derivate da una tradizione propria e da apporti diversi da quelli ellenici, la nosologia araba non poteva che assumere la forma di un intricato labirinto. Senza tentare di codificarla artificiosamente, Avicenna è stato tra i primi a compilarne un lucido bilancio, mettendo in rilievo gli elementi più importanti cui la medicina medievale araba ricorreva per spiegare e descrivere nei dettagli le differenze nosologiche. Il punto di partenza è costituito da una classificazione delle malattie che combina tra loro molti criteri, il primo dei quali è rappresentato dalla natura degli elementi anatomici, a seconda che a essere colpite siano parti omogenee, parti organiche, un insieme costituito da entrambe o tutto il corpo. Un altro criterio è mutuato dalla categoria cui appartengono le affezioni patologiche. Oltre all'alterazione delle qualità della complessione, con o senza materia, e all'alterazione della composizione delle parti del corpo colpite nella configurazione, nella struttura, nel volume, nel numero o nella collocazione, è isolata la categoria della soluzione di continuità in cui è riunita una serie di lesioni: escoriazioni, diversi tipi di piaghe, ulcerazioni purulente e non purulente, screpolature, rotture di vasi che provocano emorragie, e così via. Si sovrappone quindi alla precedente una distinzione supplementare tra malattie semplici e composte, a seconda che ci si trovi in presenza di una o più lesioni. Alla categoria delle malattie definite 'composte' è ricondotto l'importante insieme detto 'dei tumori, gonfiori o tumefazioni' (awrām, plur. di waram), che rientrano, in effetti, in differenti 'generi' di patologie: malignità della complessione con materia, alterazione della composizione di una parte del corpo, soluzione di continuità. Se eziologia e sintomatologia si combinano tra loro nel formare il sottogruppo delle 'malattie composte', è la causa presunta a determinarne la classificazione differenziale, a seconda che la materia che dà origine al gonfiore sia costituita da uno dei quattro umori, da una sostanza 'acquosa' o da un vento. Questi gonfiori sono inoltre definiti 'caldi' o 'non caldi'; i primi sono così qualificati sia perché formati da una materia ritenuta di qualità calda, sia perché contengono pus. Ascessi, gonfiori dei gangli linfatici, gonfiori articolari, edemi, tumori cancerosi, pustole, vescicole e tutti i tipi di vescica sono così riuniti nella categoria generica delle tumefazioni o awrām e differenziati in base a un'eziologia congetturale. Per rendere conto della diversità dei fenomeni osservabili era prevista la possibilità di combinare tra loro diversi agenti causali materiali.
Richiamandosi ad alcune osservazioni di Galeno, contenute nella Methodus medendi (II, 2), Avicenna indica i diversi modi di chiamare le malattie, a seconda delle parti del corpo aggredite, delle cause, dei sintomi o del nome dei personaggi che ne sono stati colpiti, e distingue tra malattie manifeste e latenti, tra malattie singole e associate, tra livelli di gravità, tra caratteri di curabilità e incurabilità. Segue quindi, nello stesso breve capitolo, la descrizione di un processo in cui intervengono le nozioni di trasformazione e di trasmissione. Certe malattie possono trasformarsi in altre, determinando in alcuni casi un aggravamento e in altri la guarigione del malato; in quest'ultimo caso, la seconda malattia può essere considerata 'il medicamento' della prima.
Di seguito sono quindi enumerate le malattie contagiose (al-amrāḍ al-mu῾diya): la lebbra, la scabbia, il vaiolo, la febbre pestilenziale, le ulcere purulente, la tisi, l'oftalmia. Inserendo nell'enumerazione di queste malattie l'irritazione dei denti, sotto l'effetto della percezione o dell'evocazione di una sostanza acida, Avicenna riprende, come avevano già fatto al-Rāzī e al-Maǧūsī, il contenuto di un problema aristotelico in cui il contagio era menzionato tra i fenomeni di simpatia (Aristotele, Problemata, VII, 8). Dopo aver indicato questo particolare modo di trasmissione che non rimette in discussione le categorie eziologiche, l'autore, seguendo un ordine logico, segnala i casi di malattie ereditarie quali, per esempio, la lebbra, la tisi e la podagra, e di malattie proprie di un popolo o di una regione.
L'inventario, redatto con chiarezza e precisione da Avicenna, rivela gli elementi essenziali che nella medicina medievale araba servirono a spiegare e descrivere dettagliatamente le differenze nosologiche. In ogni caso va osservato che la maggior parte degli autori si è accontentata di una classificazione rudimentale delle malattie: conformemente ai modelli forniti in un primo momento dai compendi bizantini, tali autori distinsero nelle loro opere due vasti insiemi, quello delle malattie che colpiscono una determinata parte del corpo e quello delle febbri, cui venivano ad aggiungersi alcuni gruppi meno facilmente classificabili, quali gli avvelenamenti, le affezioni dermatologiche non febbrili e le lesioni trattabili attraverso la chirurgia.
Le opere redatte in greco tra il IV e il VII sec. dagli enciclopedisti bizantini (Oribasio, Aezio di Amida, Alessandro di Tralle e Paolo di Egina) influenzarono profondamente i testi arabi dedicati alla patologia per il modo con cui erano descritte le malattie. Tuttavia, poiché le versioni arabe di tali opere non sono sopravvissute fino ai nostri giorni e sono conosciute soltanto attraverso citazioni (in gran parte contenute nell'opera di al-Rāzī, Kitāb al-ḥĀwī fī 'l-ṭibb, noto nel mondo latino come Continens), si deduce che gli autori arabi seppero sviluppare e rinnovare questo genere, superando i loro stessi modelli. Tra le fonti d'ispirazione e d'informazione occupa un posto a parte l'opera di Ahrūn: in origine questa era divisa in trenta libri, di cui ci sono pervenuti solamente alcuni frammenti citati in diversi testi e un brano sui medicamenti letali. Al-Maǧūsī, nel prologo del Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya, attribuisce al suo autore, forse identificabile con un sacerdote vissuto ad Alessandria in un'epoca vicina alla conquista araba, il titolo di primo dei 'moderni', citandolo subito dopo Paolo di Egina, considerato l'ultimo degli 'Antichi'. Egli riconosce a entrambi questi autori il merito di avere precisato le cause delle malattie, come pure i loro segni, anche se giudica poco didattici i metodi del primo e troppo schematici quelli del secondo. I frammenti dell'opera di Ahrūn, citati nel Kitāb al-ḥĀwī, lasciano, in effetti, intravedere una ripartizione sistematica dei sintomi delle malattie in funzione di una rigida griglia eziologica, basata, in particolare, sulla qualità (calda, fredda, secca o umida) il cui eccesso ha turbato l'equilibrio della complessione della parte del corpo colpita.
Tra i principali lasciti degli autori bizantini figura l'abitudine di descrivere le malattie che colpiscono le diverse parti del corpo seguendo un ordine che va dalla testa verso i piedi. In alcuni autori arabi, quest'ordine topografico è adottato soltanto per ragioni di semplicità espositiva, mentre in altri corrisponde al tentativo di organizzare in modo gerarchico le diverse funzioni del corpo. Così, per esempio, un'opera di transizione redatta originariamente in siriaco, il Kunnāš (Raccolta) di Yūḥannā ibn Sarābiyūn (IX sec.), in sette trattati, dedicata alle cause delle malattie, ai loro sintomi e ai loro trattamenti, elenca le malattie che colpiscono le diverse parti del corpo seguendo un ordine rigorosamente topografico: il secondo trattato, per esempio, inizia con l'oftalmia e termina con le malattie del cuore; il terzo, più omogeneo, descrive le malattie degli organi della digestione; il quarto tratta la parte del corpo compresa tra il fegato e le dita dei piedi, includendo i reni e la vescica. Nel Kitāb Zād al-musāfir (Libro delle provviste del viaggiatore), Ibn al-Ǧazzār propone una classificazione più ricercata: nei primi due libri descrive le malattie della testa e del viso, a cui sono collegati i movimenti involontari, come, per esempio, gli spasmi, il tremito e le palpitazioni; nel terzo riunisce le malattie delle parti del corpo direttamente legate all'attività del cuore, alla fonte della potenza vitale; nei successivi tre libri tratta le turbe della potenza naturale e le funzioni digestiva e riproduttiva. Tuttavia, anche in quest'opera esistono alcune incongruenze, come l'inserimento dei dolori delle ginocchia e della gotta nel bel mezzo dell'analisi sulle disfunzioni degli organi genitali, giustificabile con il ricorso all'ordine topografico.
L'esitazione di alcuni autori tra ordine funzionale e topografico emerge soprattutto nelle sezioni dedicate alle malattie della testa, come nel caso di Ibn Sarābiyūn, di Ibn al-Ǧazzār e, più tardi, di Abū Marwān ibn Zuhr (m. 557/1162) nel Kitāb al-Taysīr fī 'l-mudāwāt wa-'l-tadbīr (Libro della semplificazione sulla terapeutica e la dietetica): essi, riprendendo la tradizione bizantina, iniziano a trattare le malattie della testa con una descrizione delle affezioni del cuoio capelluto. Al-Rāzī invece, se nel Kitāb al-Ḥāwī e nel Taqsīm al-῾ilal (Divisione delle malattie) segue le descrizioni di Ibn Sarābiyūn aprendo con le affezioni del cuoio capelluto, nel Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr), tratta queste ultime nel libro dedicato alle cure estetiche. Nel Libro IX, in cui le malattie sono prese in esame seguendo l'ordine a capite ad calcem, le affezioni del cuoio capelluto non sono affatto menzionate e l'esposizione si apre con la cefalea: tale organizzazione tendeva quindi a rendere conto della distinzione tra le malattie delle parti omogenee, come, per esempio, la pelle e il cuoio capelluto, e le malattie delle parti composte od organiche.
Quanto ad Avicenna, nel Libro III del Canone, pur rispettando l'ordine che va dalla testa ai piedi, egli evita di menzionare le affezioni del cuoio capelluto e, nell'introduzione generale, colloca tali malattie tra "le cose che non sono vere e proprie malattie, ma figurano tra esse" (I.2.1.6). Avicenna ha introdotto un'importante innovazione, ovvero ha fatto precedere sistematicamente lo studio delle cause, dei segni e del trattamento delle malattie da una descrizione degli elementi anatomici interessati. Egli, infatti, sempre nel Libro III del Canone applica il principio di Galeno ‒ enunciato nel De locis affectis ‒ secondo cui quando la parte del corpo dove si esercita un'attività fisiologica soffre di qualche affezione, si produce necessariamente una lesione dell'attività stessa. L'organizzazione adottata da Avicenna quindi non è solamente motivata da esigenze di semplicità espositiva, ma impone all'ordine topografico tradizionale una struttura dettata dai principî della nosologia galenica.
Fino ad Averroè, la febbre era ritenuta un calore estraneo (ġarība) o contrario alla Natura (ġayr al-ṭabī῾iyya) che attecchiva nel cuore e si diffondeva poi in tutto il corpo attraverso le arterie e le vene. Lo stesso Galeno non aveva lasciato ai posteri una definizione chiara della febbre, tuttavia le indicazioni fornite in molte delle sue opere suggerivano l'idea che non si trattasse di una semplice infiammazione, di un'alterazione di ordine quantitativo. Contrariamente al calore passeggero causato da un dispendio di energia o da un accesso di collera, il calore febbrile era dannoso e nuoceva al buon funzionamento delle attività fisiologiche. Inserita nella cornice delle 'cose contro Natura', la febbre non si misurava tanto attraverso l'intensità del calore percepibile al tatto ‒ misurazione in cui, del resto, bisognava tener conto della temperatura media, variabile a seconda degli individui ‒ quanto attraverso la gravità delle perturbazioni causate. Rifiutando questa definizione, che gli autori arabi avevano ripreso dai commentatori alessandrini, Averroè, nel Kitāb al-Kulliyyāt, affermava che era impossibile che un calore 'estraneo' si comunicasse al cuore senza causare danni irreparabili. Egli riteneva, invece, riallacciandosi alla definizione della putrefazione di Aristotele (Meteorologica, IV.I), che alla base di questo fenomeno vi fosse una mescolanza di calore naturale e calore 'putrido' (al-ḥarāra al-῾ufūniyya): il calore naturale subiva quindi una trasformazione non solo quantitativa, ma anche qualitativa. Tale evoluzione concettuale esercitò una profonda influenza a partire dal XIV sec. soprattutto nel mondo universitario occidentale.
Se nel periodo precedente ad Averroè la natura di calore 'estraneo' della febbre era accettata senza riserve, distinguere i casi in cui la febbre non era che un sintomo da quelli in cui doveva essere considerata una vera malattia era una questione delicata. La putrefazione (non definita come malattia), per esempio, era una causa diretta della febbre-malattia; in compenso, la febbre che accompagnava una tumefazione (waram, definita una malattia) doveva considerarsi una febbre-sintomo. Queste discussioni avrebbero potuto rivelarsi feconde se non si fossero basate su una classificazione a priori e arbitraria dei fenomeni in 'cause' e 'malattie'. Malgrado queste difficoltà teoriche, la nomenclatura risulta pressoché identica nei diversi autori, a parte alcune varianti secondarie. Le febbri-malattie formavano il vasto insieme delle affezioni del corpo nella sua totalità e quindi perturbavano alcune o, in certi casi, l'insieme delle attività fisiologiche. Inserite nelle opere di carattere generale dopo le malattie che colpivano le diverse parti del corpo, le febbri talvolta sono state prese in esame in opere monografiche, come il Kitāb al-ḥummayāt (Libro delle febbri) di Isḥāq al-Isrā᾽īlī (m. 344/955), in cui la prima distinzione è quella fra il carattere acuto o cronico delle affezioni febbrili.
La nomenclatura delle febbri, ereditata dall'Antichità greca, rende conto non solo delle patologie di natura infettiva o parassitaria, ma anche di tutte le affezioni la cui principale caratteristica è rappresentata dalla sindrome febbrile, ossia quando non si riscontra un dolore precisamente localizzato. Il modello della febbre malarica ha imposto la nozione di crisi che in seguito è stata estesa a tutti i tipi di febbre acuta. La nosologia delle febbri si basa sulla durata e sul carattere periodico o continuo del male, aspetti che sono posti in relazione con uno dei costituenti corporei veicolati nelle arterie e nelle vene. Le febbri effimere o 'di un solo giorno' sono un effetto dell'alterazione dello spirito (rūḥ), il costituente più sottile; quest'alterazione ha diverse cause (insolazione, indigestione, eccesso di lavoro, collera, ecc.) che rientrano nel campo delle cose definite 'non naturali'. Le febbri umorali o 'putride' sono differenziate in funzione della periodicità dei loro accessi: quelli della febbre flemmatica o 'quotidiana' compaiono tutti i giorni, quelli della febbre biliosa o 'terzana' ogni terzo giorno, quelli della febbre malinconica o 'quartana' ogni quarto giorno. La febbre di origine sanguignasi distingue per la sua continuità, mentre le periodicità più complesse sono spiegate con l'intervento di diversi umori. L'infiammazione delle parti solide del cuore, invece, spiega la gravità della febbre consuntiva o etica (ḥummā 'l-diqq), che può condurre alla dissoluzione del corpo o tisi (sill), accompagnata in alcuni casi da una tumefazione polmonare. La nomenclatura delle febbri termina con la menzione del gruppo delle malattie di natura epidemica, le varie pestilenze, a cui in generale, malgrado la loro diversa eziologia, sono associate malattie come il vaiolo e il morbillo.
Nel Kitāb al-Taysīr fī 'l-mudāwāt wa-'l-tadbīr, Ibn Zuhr menziona il vaiolo e il morbillo due volte: la prima ponendo entrambe le malattie tra quelle caratterizzate da un'alterazione della pelle, la seconda citandole alla fine dell'elenco delle febbri di natura epidemica. Alcune affezioni, infatti, stentavano a trovare una collocazione adeguata in una cornice nosologica limitata, che non teneva conto delle loro caratteristiche; le soluzioni quindi variavano a seconda degli autori. Le scelte di al-Rāzī nel Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī consentono di valutare le conseguenze di tali esitazioni: nel Libro V l'autore propone alcuni rimedi ai mali che causano effetti spiacevoli e prende in esame la lebbra, inserendola in un elenco dove figurano anche la caduta dei capelli e le verruche; nel Libro VII, dedicato alla chirurgia, egli descrive altre deformazioni, in particolare delle escrescenze e di diversi tipi di gonfiore; nel Libro VIII, consacrato soprattutto alle punture degli insetti, ai morsi degli animali velenosi e agli avvelenamenti, inserisce un capitolo sulla rabbia, mentre nel Libro X prende in esame il gruppo delle febbri e descrive il vaiolo e il morbillo.
La descrizione delle malattie è spesso posta in stretta relazione con le terapie relative a ciascuna entità nosologica, sia nelle opere di carattere enciclopedico, che prendono in esame l'insieme della medicina, sia nei compendi dedicati a questo tema; quasi sempre le regole del trattamento sono formulate dopo l'enunciazione delle cause e dei sintomi. Ricorrendo a una terminologia un po' anacronistica, si potrebbe dire che se la patologia generale faceva parte della medicina teorica, le patologie speciali rientravano nel campo di indagine dell'altro versante di tale disciplina, che gli autori di lingua araba definivano 'medicina pratica'. Questa scissione ha probabilmente ostacolato il rinnovamento concettuale e l'integrazione in una cornice teorica dei dati rilevati nel corso dell'esperienza quotidiana; allo stesso tempo, soltanto poche malattie sono state oggetto di monografie. Le consuetudini espositive favorirono invece i tentativi di formare gruppi di malattie e gli sforzi di classificazione: il punto estremo è costituito dall'elaborazione di ricapitolazioni sotto forma di tavole che indicavano per ogni categoria di malattia le cause, i sintomi, le prognosi, oltre ai diversi tipi di trattamento in funzione della complessione, dell'età o dell'ambiente del paziente. Ne è un esempio il Taqwīm al-abdān fī tadbīr al-insān (Almanacco dei corpi relativo al trattamento dell'uomo) di Ibn Ǧazla (m. 493/ 1100) che, come il testo omologo composto da Ibn Buṭlān sulla conservazione della salute, appartiene al genere definito taqwīm, termine traducibile con l'espressione 'tavola delle coordinate', nella cui gamma di significati figura anche quello di almanacco.
L'intento classificatorio ha quindi soffocato l'interesse per la descrizione delle singole malattie. Soltanto per le febbri nel loro insieme, per il fenomeno delle crisi ‒ dove lo stesso Galeno aveva indicato la via da seguire ‒ e per l'oftalmologia affiora una vera e propria tradizione monografica. Altri esempi isolati sono i trattati di Ḥunayn ibn Isḥāq e di Ibn al-Ǧazzār sullo stomaco e sulle sue affezioni, l'opuscolo sulla malinconia di Isḥāq ibn ῾Imrān (attivo verso il 910), la monografia sul 'diabete' di ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī. Inoltre, alcuni autori hanno ritenuto opportuno trattare separatamente e in modo dettagliato una serie di affezioni quali, per esempio, la podagra (al-niqris), la colica (al-qawlanǧ) e la lebbra (al-baraṣ). Infine al-Rāzī, benché non sia stato il primo a tentare di differenziare le due malattie, chiamate rispettivamente al-ǧudarī e al-ḥaṣba, corrispondenti al vaiolo e al morbillo (anche se non esattamente poiché includono altre affezioni), ha dedicato loro una monografia, considerata esemplare soprattutto per lo sforzo di precisione, e il cui scopo principale era quello di giungere alla scelta della terapia più adatta e non quello di perfezionare il sapere in materia di patologia. In altre due monografie, Kitāb al-Qawlanǧ (Libro della colica) e Maqāla fī 'l-ḥaṣā fī 'l-kulā wa-'l-maṯāna (Trattato sui calcoli dei reni e della vescica), al-Rāzī afferma esplicitamente che non bisogna attardarsi sulla ricerca di cause lontane e sulla natura del male, né accumulare indicazioni inutili al trattamento. Nello scritto dedicato ai calcoli scrive: "benché questi sintomi siano comuni ai calcoli, alle congestioni e alle ulcere dei reni, non ritengo necessario menzionare qui nei dettagli tutto ciò che accompagna la formazione di un calcolo, dal momento che il nostro discorso è rivolto soprattutto agli individui in cui i calcoli si sono già formati e che quindi già conoscono queste cose" (Maqāla fī 'l-ḥaṣā fī 'l-kulā wa-'l-maṯāna, p. 14). Egli dimostra così di concentrarsi sulla fase in cui il male è già stato chiaramente identificato ed è necessario seguirne l'evoluzione.
Al-Rāzī si è occupato esplicitamente della questione relativa alle differenze esistenti tra le malattie che presentano caratteristiche comuni, sia dal punto di vista dell'eziologia sia da quello della sintomatologia. A tale questione egli ha dedicato due opere, Kitāb al-Taqsīm wa-'l-tašǧīr (Libro della divisione e ramificazione) e al-Furūq (Le differenze), che contengono informazioni in gran parte di carattere libresco, rivelando così un chiaro intento didattico: l'autore evidentemente le ha concepite come promemoria per le sue lezioni, senza pretendere di rendere conto delle realtà vissute. Tuttavia, al-Rāzī ha lasciato moltissime descrizioni di casi redatte in una forma che si avvicina più alla tradizione delle Epidemiae ippocratiche che ai riferimenti indiretti di Galeno e forse ispirate anche ai metodi di Rufo di Efeso (I sec.). Le numerose descrizioni contenute in al-Ḥawī e nel Kitāb al-Taǧārib (Libro delle esperienze) sono molto varie e rispondono a intenti differenti: come riflessi della pratica quotidiana, esse servono in alcuni casi a rettificare i resoconti degli autori antichi, con i quali sono poste a confronto, in altri a illustrare l'arte del medico, in altri ancora a segnalare casi difficili, incerti, ecc. In tali resoconti, il male non è sempre identificato con un termine tecnico, ma è talvolta descritto attraverso l'elencazione di una serie di sintomi, chiaramente ripartiti nell'arco della loro evoluzione. La malattia, quindi, scompare a vantaggio del malato, che a volte è designato o caratterizzato da alcuni segni distintivi, e le terapie impiegate sono quasi sempre menzionate nel corso della descrizione dei sintomi, come nelle monografie dedicate alle singole malattie. Questi scritti tendono a registrare la varietà della realtà morbosa così come appare nella quotidianità, e sembrano essere stati concepiti per esigenze pratiche da un medico interessato a rilevare le molteplici particolarità dei diversi casi per arricchire la sua esperienza personale, più che per affinare il sapere teorico relativo alle differenti malattie.
Questo genere di esposizione si ritrova anche in altri autori; Ibn Zuhr vi ricorre frequentemente nel Kitāb al-Taysīr, impiegandolo, tuttavia, sull'esempio di Galeno, soprattutto per esigenze retoriche; tali descrizioni gli servono a confermare un'opinione o, in una prospettiva completamente diversa, a esporre casi straordinari. Va però osservato che gli obiettivi di Ibn Zuhr non sono comparabili a quelli di al-Rāzī, che molto probabilmente si proponeva di mettere a profitto la pratica ospedaliera per arricchire la conoscenza dei casi particolari. Al-Maǧūsī, che tuttavia non ricorre a questo genere di descrizioni nel Kitāb Kāmil, fondato su fonti libresche, si limitava a consigliare l'esperienza ospedaliera nel quadro della formazione pratica dei medici, senza pensare in alcun modo che quest'ultima potesse trasformarsi in uno strumento utile al perfezionamento della dottrina in materia di patologia. Egli, infatti, esortava gli studenti di medicina a recarsi con i loro maestri a visitare i malati negli ospedali per riscontrare ciò che avevano appreso nel corso delle loro letture.
Malgrado il riconoscimento della realtà clinica e gli sforzi non trascurabili effettuati per differenziare i sintomi di malattie considerate simili, il difetto di corrispondenza tra la nosologia medievale e quella attuale rende quasi sempre impossibile applicare alle descrizioni offerte dagli autori arabi una diagnosi retrospettiva univoca. Ciò non esclude la pertinenza degli arricchimenti apportati al quadro clinico di molte malattie già descritte dai medici greci, sia dal punto di vista dell'osservazione sia da quello dell'affinamento concettuale. L'esempio della nozione di contagio mostra il limite delle possibilità di rinnovamento dei modelli esplicativi. L'eventualità della trasmissione per contatto di certe malattie, quali la lebbra, la peste e la rogna negli animali, è registrata nella letteratura araba antica da diversi medici, per esempio, da al-Maǧūsī e da Avicenna. Al-Rāzī affronta tale questione nel Libro III, dedicato alla conservazione della salute, del suo Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī, citando il pericolo di coabitare a stretto contatto con individui colpiti da scabbia, lebbra, pustole o da affezioni oculari. Più in generale, l'autore consiglia di tenersi a distanza da portatori di malattie "che hanno un cattivo odore", considerando quindi l'aria un veicolo privilegiato di contaminazione. In seguito alla grave epidemia del 1348, due autori di Granada, Ibn al-Ḫaṭīb (m. 776/1374) e Ibn Ḫātima (m. 770/1369 ca.), dedicarono alla peste un trattato ciascuno, segnalando il pericolo di contagio e descrivendo più precisamente dei loro predecessori dell'Oriente e dell'Occidente islamico le caratteristiche di questa malattia e della sua propagazione, senza tuttavia rimettere in discussione la sua eziologia tradizionale. Al di là delle reticenze di ordine religioso e, in particolare, dell'influenza del celebre ḥadīṯ (detto del Profeta), secondo cui "Non ci sono trasmissioni [lā ῾adwā], né presagi, né uccelli annunciatori di morte", interpretato come un'interdizione al riconoscimento del contagio, la stessa teoria medica opponeva un ostacolo alla comprensione di questo fenomeno che, in effetti, non poteva essere spiegato in modo razionale. Il legame individuato, a partire dai Problemata aristotelici, con i fenomeni di simpatia, faceva intravedere il rischio di cadere nell'ambito della magia, accettato di buon grado da alcuni autori, ma fermamente rifiutato da altri. Il contagio era quindi impiegato per caratterizzare una categoria di malattie in funzione di una delle numerose vie di trasmissione e poteva essere menzionato nella cornice delle regole di conservazione della salute, ma non era integrato nell'eziologia delle malattie considerate epidemiche. Per giungere a questa integrazione, infatti, sarebbe stato necessario rielaborare profondamente la riflessione sulle cause delle malattie e sulla loro natura.
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