La civilta islamica: scienze della vita. Sapere medico e manuali
Sapere medico e manuali
Il vasto processo di ricezione della letteratura medica greca attraverso le traduzioni in arabo, avviato nel primo secolo del califfato abbaside (e cioè dal 750 all'850 ca.), segnò anche il passaggio dalla medicina siriaca, legata ai modelli della Tarda Antichità, a una nuova medicina islamica in lingua araba che poteva attingere in modo molto più completo al patrimonio di conoscenze degli Antichi. Il rapido accrescimento delle cognizioni mediche grazie alle fonti divenute in questo modo accessibili, richiese ben presto un'opera di sistematizzazione e di unificazione. Nei due secoli successivi, sino al 1050 ca., fecero la loro comparsa manuali di nuova concezione che offrivano una sintesi dell'intera medicina, o nella forma di agili e maneggevoli compendi oppure in quella di enciclopedie in diversi volumi che abbracciavano in un'unica opera l'intero sapere dell'epoca.
Tali manuali ed enciclopedie rappresentano la conquista più significativa della medicina islamica medievale, assai più feconda per gli sviluppi successivi della disciplina di tutte le singole osservazioni e scoperte con le quali i medici islamici arricchirono le conoscenze in diversi settori della medicina. Raccogliendo il patrimonio di conoscenze e di concezioni accumulato sino a quel momento in una prospettiva coerente, queste opere rappresentano il passo finale nella creazione di un corpus unitario del sapere medico, un processo iniziato con Galeno e proseguito con i maestri alessandrini del VI e dell'inizio del VII secolo. In un'epoca in cui la riproduzione di libri era un processo laborioso e costoso e il possesso di vaste biblioteche costituiva un privilegio di pochi, questi testi facilitarono enormemente la diffusione della tradizione medica. Anche i medici che non avevano né il tempo né l'interesse per lo studio erudito sui libri potevano attingere a manuali ed enciclopedie, ricavandone non solo indicazioni utili per la prassi quotidiana, ma anche solide conoscenze teoriche.
Non tutti però valutavano positivamente questa tendenza alla compilazione di manuali. ῾Alī ibn Riḍwān (m. 460/1068), medico capo dei medici egiziani e incline alla polemica, che aveva studiato da autodidatta sui testi di Ippocrate e di Galeno, scrisse un libello sui danni arrecati da tali opere di compilazione, attribuendo il presunto declino della medicina del tempo al fatto che la maggior parte dei suoi colleghi ricorreva per comodità ai compendi, trascurando lo studio incomparabilmente più prezioso degli scritti originali delle auctoritates. Un rimprovero analogo venne mosso da alcuni autori successivi, come l'ebreo Hibat Allāh ibn Ǧumay῾ (m. 594/1198), medico personale di Saladino (il sultano Ṣalāḥ al-Dīn), o come il critico e originale erudito ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (m. 629/1231). Questi giudizi negativi non tenevano conto del fatto che all'epoca, così come del resto oggi, la maggior parte dei medici non aveva alcuna ambizione scientifica, ma necessitava di uno strumento d'informazione completo e affidabile per la prassi. I manuali, quindi, che grazie alla perspicuità della loro struttura consentivano di trovare rapidamente le singole informazioni, contribuirono senz'altro in misura considerevole ad ampliare il patrimonio delle normali conoscenze.
La traduzione in latino di alcune di queste opere nell'XI e nel XII sec. diede un importante contributo al progresso della medicina scientifica nell'Europa medievale. I compendi e le enciclopedie arabe furono, infatti, tra i testi di medicina più importanti nelle università occidentali. Così, anche se di recente sono state approfondite le ricerche sugli originali arabi, l'immagine della medicina islamica rimane ancora fortemente condizionata dagli studi classici che gli storici della medicina occidentali hanno condotto sulle traduzioni latine delle opere arabe di maggior influenza nell'Europa medievale.
Le enciclopedie e i manuali arabi non si riducono a semplici compilazioni. Il recupero di gran parte dei testi della tradizione antica poneva il problema di sintetizzare e armonizzare i contenuti pratici e i presupposti teorici. Il merito principale degli autori arabi fu quello di integrare in una nuova visione d'insieme i fatti e le teorie desunti da una molteplicità di fonti. Nel far ciò, essi si attennero più o meno rigidamente al sistema galenico, che nonostante la sua compattezza lasciava però spazio a una rielaborazione individuale. Attraverso la scelta personale tra dottrine rivali, ogni autore poteva così dare una propria impostazione e introdurre modifiche specifiche nell'adattamento di informazioni di origine diversa al nuovo contesto unitario.
L'elemento di novità di questo genere letterario consisteva nel fatto di unificare all'interno di un sistema, in una sola opera, i due aspetti principali della medicina: i fondamenti teorici e le cognizioni necessarie per la quotidiana prassi medica. Nei primi secoli dell'Islam i medici, al pari dei loro predecessori bizantini, avevano compilato prevalentemente compendi di medicina pratica che privilegiavano le indicazioni terapeutiche. A un retroterra antico e non islamico rinvia già il fatto che, per designare tale tipo di manuali, in arabo si usasse il vocabolo di origine siriaca kunnāš (compilazione). Di fatto, anche dopo la conquista islamica del Vicino Oriente, queste compilazioni di carattere terapeutico continuarono per lungo tempo a essere scritte in siriaco, sebbene a quanto risulta oggi si siano conservate soltanto versioni arabe.
I compendi e le enciclopedie di nuova concezione, anch'essi designati talvolta con il termine kunnāš assunto in un'accezione ampliata, consideravano invece anche gli aspetti teorici della medicina, le sue basi nell'ambito delle scienze della Natura e i suoi fondamenti anatomofisiologici oltreché la patologia generale e le regole fondamentali della terapia. In queste opere i contenuti dei compendi terapeutici venivano incastonati nell'edificio teorico del sistema galenico nella forma schematica in cui questo era stato rielaborato dalla Scuola alessandrina nel VI sec., poco prima della nascita dell'Islam, al fine di fornire ai principianti una prima visione d'insieme della struttura sistematica della medicina. Questa introduzione (Isagoge) agli oggetti della medicina nel loro rapporto reciproco, limitata a brevi definizioni, si basa sul canone compilato per l'insegnamento di tale disciplina attingendo a opere basilari di Galeno a proposito degli aspetti più importanti della medicina teorica e pratica. L'Isagoge si è conservata in varie versioni leggermente diverse nelle traduzioni greche e latine dei commentari alessandrini alle opere fondamentali di Galeno e di Ippocrate. Nel mondo islamico essa divenne nota soprattutto attraverso il Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb (Libro delle questioni sulla medicina) di Ḥunayn ibn Isḥāq, che ci è giunto sia nella versione siriaca sia in quella araba. Oltre a uno schema di articolazione che nelle categorie fondamentali concorda con le testimonianze greco-latine, lo scritto di Ḥunayn presenta, in un'appendice alla parte teorica aggiunta dal nipote Ḥubayš, un'ulteriore versione di tale schema, che potrebbe risalire anch'essa a fonti tardo-antiche; e poiché importanti autori successivi optarono per questa seconda versione, fu essa ad affermarsi ben presto come schema generalmente accettato del sistema galenico.
Ai compilatori di manuali e di enciclopedie, questa articolazione sintetica della medicina, divisa in due parti fondamentali, theorica e practica, offriva una struttura generale nelle cui rubriche potevano essere collocate in modo chiaro e ordinato le molteplici nozioni tratte dalle fonti. Questo anche se, nel rispetto dei due grandi blocchi tematici, gli autori arabi sperimentavano sempre nuove varianti, alla ricerca dell'ordinamento più appropriato del materiale.
I nuovi manuali arabi di medicina miravano a risparmiare al lettore la fatica di consultare numerosi scritti, e si proponevano come ricapitolazioni ben ordinate e concise delle singole informazioni sparse in tutta l'imponente opera di Galeno. La cornice teorica che consentiva di presentare sistematicamente in una prospettiva unitaria tutte le fondamentali cognizioni teoriche e pratiche era fornita dal corpus degli scritti galenici, ordinato secondo i criteri stabiliti dai maestri alessandrini, oltre che dagli scritti ippocratici ‒ soprattutto le parti commentate da Galeno ‒ nonché dalle opere di altri autori dell'era antica e della prima età islamica. Fra queste opere ebbero un ruolo importante, per quanto riguarda la practica, i compendi bizantini del VI e del VII sec., come quelli di Aezio di Amida, di Alessandro di Tralle o di Paolo di Egina, oltre al De materia medica di Dioscuride (I sec. d.C.). La medicina presentata in questi manuali arabi si configurava come un sistema compatto, che quasi non lasciava quesiti aperti. I testi erano concepiti come opere di consultazione che dovevano rispecchiare lo stato corrente delle conoscenze, ma non erano considerati la sede opportuna per sollevare nuovi problemi o discutere questioni non chiarite e dunque vi si trovano raramente osservazioni e teorie personali degli autori. Non è un caso che nelle introduzioni, dove sono illustrate le finalità dell'opera, ricorra spesso il tópos della prolissità e dell'oscurità delle fonti e della conseguente necessità di una nuova presentazione della materia, più concisa e focalizzata sugli argomenti strettamente attinenti alla medicina. La medesima critica era rivolta in parte contro lo stesso Galeno, che in molti luoghi si dilunga nella discussione di controversie teoriche, rendendo difficile al medico, interessato esclusivamente ai risultati, isolare i fatti per lui rilevanti; ed era a questa mancanza di chiarezza che tale tipo di opere si proponeva di porre rimedio. Lo stato delle conoscenze mediche dell'epoca, basate ancora in buona parte sulla mera speculazione, permetteva interpretazioni diverse dei fenomeni in misura assai maggiore di quanto non accada nella medicina attuale. Tuttavia, nella gran parte dei casi, gli autori si trincerano dietro il sistema ed eccezioni come Avicenna confermano la regola.
Un primo esitante tentativo di coniugare gli aspetti teorici e pratici della medicina è rappresentato dall'opera di ῾Alī ibn Rabban al-Ṭabarī (194-240 ca./810-855 ca.), Firdaws al-ḥikma fī 'l-ṭibb (Il paradiso della saggezza in medicina), composto quando il processo di appropriazione della cultura greca era ancora in pieno svolgimento. L'autore, figlio di un erudito siro-cristiano, fu dapprima al servizio del governatore della sua provincia natia, il Tabaristan, e in seguito divenne segretario del califfo al-Mu῾taṣim (r. 218-227/833-842). Al califfo al-Mutawakkil, ha dedicato poi il suo manuale di medicina, terminato nell'850. Poiché il Firdaws fu redatto quando il processo di ricezione della medicina ippocratico-galenica nel mondo islamico non era ancora concluso, esso non è improntato esclusivamente alla tradizione galenica, ma introduce anche elementi di altre culture e subculture mediche, come, per esempio, alcuni elementi della medicina popolare della patria di al-Ṭabarī. Questi, oltre all'arabo, conosceva anche il siriaco e il persiano ed era quindi in grado di attingere a fonti di cui non esistevano ancora traduzioni vere e proprie in arabo, tra le quali probabilmente testi greci in traduzione siriaca. Il fatto che al-Ṭabarī fosse nato in una provincia orientale del califfato come il Tabaristan spiega anche il suo particolare interesse per la medicina indiana. Già nella fase iniziale della ricezione della scienza preislamica, tra la fine dell'VIII e l'inizio del IX sec., ancora prima che i testi della medicina greca fossero tradotti in arabo, i califfi sotto l'influsso dei loro visir e dei loro consiglieri, che appartenevano alla famiglia iranica dei Barmecidi, avevano chiamato vari medici indiani alla corte di Baghdad, promuovendo la traduzione dei manuali classici indiani. Tuttavia al-Ṭabarī tratta la medicina indiana come un sistema a parte e ne illustra i fondamenti soltanto in un'appendice, senza tentare di integrarli nella trattazione principale dell'opera, basata sulla tradizione greca. Il Firdaws sembra comunque esser stato l'ultimo tentativo d'introdurre nella medicina islamica anche le dottrine indiane. Sotto l'influsso soverchiante delle dottrine galeniche, che già gli autori tardo-antichi avevano eletto a sistema di scuola, gli autori dei manuali successivi, infatti, rinunciarono del tutto a tener conto di questo sistema rivale, pur inserendo talvolta numerosi farmaci e ricette o prescrizioni terapeutiche della medicina indiana, desunte prevalentemente da fonti intermediarie scritte in lingua araba.
Per forma e struttura il Firdaws si distingue parimenti dalle opere successive ispirate all'Isagoge galenica. La divisione in sette libri, comprendenti 30 trattati e 360 capitoli, manifesta una predilezione, molto comune nell'Islam, per i numeri, ritenuti pregni di significato. L'elaborazione della materia in molti luoghi è priva di quella sistematicità che costituisce il maggior pregio dei manuali classici. Spesso l'autore si limita a elencare informazioni tratte da fonti diverse giustapposte l'una all'altra. Nella scelta degli argomenti, presumibilmente influenzata da tradizioni siro-iraniche di epoca preislamica, emerge una particolare inclinazione per le scienze popolari e per quelle occulte; tra le altre cose troviamo passi tratti da un libro di agricoltura, nonché credenze magiche e astrologiche. Largo spazio viene dato anche ad argomenti attinenti alle scienze naturali che esulano dal campo delle conoscenze di stretta pertinenza medica. Come propedeutica alla medicina, al-Ṭabarī offre un compendio generale delle scienze naturali che si rifà a versioni popolari della cosmologia e della fisica aristoteliche; ulteriori appunti a questa trattazione si trovano anche nel Libro VII.
Il Libro II si sofferma diffusamente sulla procreazione e sullo sviluppo prenatale dell'essere umano ‒ un tema che suscitava un notevole interesse anche al di fuori della medicina. Manca ancora invece quasi completamente l'anatomia descrittiva, che costituirà una parte integrante dei manuali successivi. Riallacciandosi all'antica tradizione dei problemata physica, l'autore discute invece singole questioni relative alla forma e alla funzione delle parti del corpo, all'essenza dell'anima, alla percezione sensoriale, agli affetti e così via. Il Libro III, piuttosto succinto, illustra le proprietà e gli effetti degli alimenti. Il Libro IV, assai esteso, si apre con una trattazione della nosologia generale, affronta poi la patologia speciale a capite ad calcem, con particolare riguardo alle cause e ai sintomi delle malattie, e si chiude con le malattie generali, ovvero le 'febbri' (categoria che comprendeva principalmente le malattie infettive), le malattie della pelle, le infiammazioni e i tumori; non c'è ancora completamente una trattazione delle lesioni. In appendice al libro sono aggiunte alcune sezioni dedicate all'evacuazione e alla diagnostica con l'aiuto delle urine.
Al tema degli alimenti e dei farmaci sono dedicati ben tre libri: al III si aggiungono, infatti, il Libro V, che descrive le proprietà cui si devono le azioni terapeutiche degli alimenti e dei farmaci, e il Libro VI, che considera il valore dei diversi cibi, con particolare riguardo alla carne di vari animali e alla sua influenza positiva o negativa sulla salute, ai veleni e infine ai rimedi composti. Infine nel VII e ultimo libro vengono trattati i temi più disparati, quelli per i quali l'autore non era evidentemente riuscito a trovare una collocazione appropriata nelle parti dell'opera che hanno un impianto sistematico: sono presentati gli effetti degli influssi ambientali e dei fenomeni meteorologici; una discussione sulla natura e sull'utilità della medicina, ricette di diverse pozioni magiche, nonché alcuni aneddoti sui medici e una descrizione delle sfere celesti e del loro moto; si conclude poi con l'appendice prima citata, dedicata alla medicina indiana.
In quest'ultimo libro si vede chiaramente come il Firdaws sia un'opera scritta in un'epoca di transizione, in cui nuove forme sono sperimentate per la prima volta. Poiché manca ancora uno schema di ordinamento coerente, l'organizzazione sistematica del materiale non è perfettamente riuscita. Allorché, grazie alle traduzioni del circolo di Ḥunayn, l'opera di Galeno divenne accessibile nella sua interezza e furono recepiti altresì i contributi che la Scuola alessandrina aveva dato allo sviluppo di un sistema dottrinale unitario, i compendi generali divennero più omogenei e focalizzarono l'atten-zione sugli argomenti di stretta pertinenza della medicina. Si conta, tuttavia, qualche eccezione. Per esempio, a distanza di quasi un secolo dall'opera di al-Ṭabarī, un suo omonimo, Abū 'l-Ḥasan al-Ṭabarī (m. 375/985 ca.), pubblica il Kitāb al-Mu῾ālaǧāt al-buqrāṭiyya (Libro dei trattamenti ippocratici), un kunnāš di tipo tradizionale, cominciando ancora con la trattazione di questioni attinenti alle scienze naturali generali e speciali. Infine, sotto l'influsso dello spirito rigorosamente razionalistico di Galeno, nell'epoca successiva, anche le credenze popolari furono relegate in secondo piano, per riacquistare però nuova importanza nel corso del tempo, con la progressiva islamizzazione della medicina e l'abbandono dei modelli dell'Antichità.
Uno dei primi autori a realizzare in un manuale una sintesi coerente della medicina galenica nei suoi aspetti pratici e teorici fu al-Rāzī (251-313/865-925). Come dimostra l'elenco delle sue opere, egli si occupò approfonditamente degli scritti di Galeno, rielaborandone alcuni testi e riprendendo spesso temi trattati più volte da questo autore. Il suo manuale, il Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr), così intitolato perché dedicato al suo protettore Manṣūr ibn Isḥāq, il governatore samanide di Rayy, città natale di al-Rāzī, fu tradotto in latino da Gherardo da Cremona a Toledo, con il titolo di Liber Almansoris nella seconda metà del XII secolo. Nelle parti generali al-Rāzī riprende in particolare i contenuti e la struttura dell'Ars medica di Galeno, quella breve sintesi dei fondamenti della prassi medica che costituiva uno dei primi testi del Canone alessandrino e che fu grandemente apprezzata e commentata anche in ambito islamico. Il testo è diviso in dieci libri e nell'ordinamento dei temi al-Rāzī segue sostanzialmente i criteri che in seguito saranno applicati nelle grandi enciclopedie.
Non vi è ancora una sezione autonoma per la fisiologia, che è trattata sinteticamente nei capitoli sull'anatomia. Alcune questioni relative alla costituzione del corpo ricompaiono nei capitoli dedicati alla sintomatologia. Le malattie degli organi e la dottrina delle 'febbri', che costituivano una parte importante della materia, sono trattate e solamente alla fine (Libri IX e X), in ordine subordinato anche rispetto al tema estremamente specifico delle intossicazioni. Il libro sulla patologia e sulla terapia speciali, sotto il titolo di Liber nonus, fu peraltro materia di insegnamento e di esame in molte università europee sino al XVI secolo.
Un altro testo attribuito ad al-Rāzī è sempre menzionato in connessione con le enciclopedie arabe di medicina, sebbene non appartenga a questa categoria, in quanto è dedicato esclusivamente alla clinica medica. Non si tratta di un'opera compiuta ma di una sorta di schedario, un'ingente raccolta di estratti da fonti pre- e protoislamiche, ordinati soltanto approssimativamente per tema, che al-Rāzī appuntava per proprio uso in vari quaderni corredandoli in parte di annotazioni, e pubblicati postumi dai suoi allievi in 25 volumi sotto il titolo di Kitāb al-Ḥāwī (Continens o Libro comprensivo [della medicina]). Anche se non può essere considerata un esempio di elaborazione in nuove sintesi delle dottrine tradizionali, essa è un'opera di inestimabile valore soprattutto per gli storici, in quanto conserva frammenti di molti scritti ormai perduti di autori greci, siriaci e arabi.
A distanza di circa cinquant'anni dalla morte di al-Rāzī, intorno al 975, il medico persiano ῾Alī ibn al- ῾Abbās al-Maǧūsī ultimò la prima delle grandi enciclopedie mediche arabe, il manuale archetipo del galenismo medievale. L'opera è nota prevalentemente sotto il titolo di al-Kitāb al-Malakī (Libro regio), in riferimento alla dedica al principe buwayhide ῾Aḍud al-Dawla che si fregiava del titolo onorifico di re (malik). Per quanto riguarda la vita dell'autore sappiamo soltanto che fu attivo alla corte di questo principe a Shiraz (la capitale della regione del Fars). La sua nisba (nome di relazione), al-Maǧūsī, indica l'appartenenza a una famiglia di mazdei o zoroastriani, seguaci dell'antica religione persiana, probabilmente professata anche da lui. Sembra che al-Maǧūsī abbia lasciato quest'unica opera, che, tra i grandi compendi arabi, è la più fedele a Galeno. Non a caso il vero titolo dello scritto, Kitāb KĀmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica), ricalca quello della traduzione araba dell'Ars medica di Galeno, al-Ṣinā῾a al-ṭibbiyya. L'Ars medica di Galeno, che si occupava esclusivamente della medicina clinica, fu infatti ampliata da al-Maǧūsī in un'enciclopedia che abbracciava sia la teoria sia la pratica medica, presentando in modo esauriente, seppure in forma concisa, tutte le cognizioni scientifiche necessarie all'esercizio della medicina.
L'opera di al-Maǧūsī sfrutta sistematicamente le acquisizioni didattiche della Scuola alessandrina. Nell'introduzione egli presenta il proprio libro sulla base di otto kephálaia, un elenco di questioni relative alla classificazione di uno scritto, come per esempio l'identità dell'autore, il titolo, i fini e la struttura dell'opera. Questo elenco fu sviluppato nei commentari proto-bizantini dove era utilizzato per caratterizzare il testo commentato, mentre in questo caso è applicato dall'autore alla propria opera. Illustrando le ragioni che lo hanno spinto a compilare la sua enciclopedia, al-Maǧūsī esprime una valutazione critica degli antichi scritti di medicina, frequentemente citata nella letteratura storica che ne mette in luce in modo sostanzialmente corretto pregi e difetti, sebbene alcuni giudizi si riconoscano facilmente come luoghi comuni. Nell'impostazione dell'opera, al-Maǧūsī si rifà direttamente al suo predecessore al-Rāzī, affermando di aver seguito una via di mezzo tra l'eccessiva concisione del suo manuale, il Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī, e l'eccessiva prolissità del suo Kitāb al-ḥĀwī. Anche la struttura del testo ricalca fedelmente i modelli alessandrini: il Libro regio si articola in due parti principali, dedicate rispettivamente alla teoria e alla pratica, e divise ciascuna in dieci libri.
La parte teorica rispecchia sostanzialmente i temi dei 'sedici libri' di Galeno, che trattano i principî delle diverse branche della medicina e riprendono la distinzione fra i tre ambiti: 'le cose naturali', 'le cose non naturali' e 'le cose contro Natura', che si trova nel Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb di Ḥunayn, ma anziché lo schema 'classico' proposto da quest'ultimo all'inizio del suo scritto, al-Maǧūsī utilizza quello dell'appendice di Ḥubayš.
Probabilmente la scelta di al-Maǧūsī in favore di questa versione alternativa contribuì al maggior successo rispetto all'originale schema di Ḥunayn ed ebbe ripercussioni anche sulla traduzione latina del Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb di Ḥunayn stesso, perché le traduzioni di queste due opere vanno collocate pressoché nella stessa epoca e si devono, con tutta probabilità, a uno stesso traduttore, Costantino l'Africano. La scelta di al-Maǧūsī potrebbe infatti spiegare perché nella versione latina dell'opera di Ḥunayn, un libero adattamento dell'originale intitolato Isagoge Iohannitii, all'inizio del testo venga presentato lo schema di Ḥubayš, mentre sia lasciato completamente cadere quello originario di Ḥunayn. Nella seconda parte del Libro regio, dedicata alla pratica, al-Maǧūsī illustra il trattamento concreto delle singole malattie.
L'enciclopedia di al-Maǧūsī può essere intesa come una combinazione tra l'insegnamento teorico degli alessandrini e un kunnāš tradizionale, ossia un manuale pratico di terapeutica. L'autore non propone pareri scientifici propri, ma si limita a offrire un compendio generale delle dottrine galeniche che serva come base per l'insegnamento della medicina. Per la compattezza del suo impianto il Libro regio rappresentava il manuale e il testo didattico ideale per il medico desideroso di un solido fondamento teorico per il proprio lavoro quotidiano. La sua utilità come opera di consultazione, tuttavia, è pregiudicata dalla tradizionale divisione tra teoria e pratica, che si traduce in un'artificiosa separazione nella trattazione delle malattie: i sintomi e le cause sono illustrati nella prima parte, i trattamenti terapeutici nella seconda. D'altronde, il Libro regio fu tenuto in grande considerazione anche al di fuori del mondo islamico. Quale primo grande manuale di medicina conosciuto in Europa, esso contribuì anche alla diffusione della medicina greco-araba nel mondo occidentale. Già nell'ultimo quarto dell'XI sec. Costantino l'Africano, un monaco di Montecassino originario del Nord Africa, diede una libera versione latina della parte teorica e, parzialmente, di quella pratica, che circolò con il titolo grecizzante di Pantegni. Una traduzione letterale dell'opera completa, intitolata Liber regius, fu effettuata nel 1127 da Stefano di Antiochia, nato a Pisa.
Simile al Libro regio di al-Maǧūsī nell'impostazione, sebbene di estensione più ridotta, è il Kitāb al-Mi᾽a fī 'l-ṭibb (Libro dei cento [capitoli] sulla medicina) scritto alcuni decenni più tardi. L'autore era un medico cristiano originario della città persiana di Ǧurǧān, Abū Sahl al-Masīḥī (m. 401/1010 ca.), allievo del celebre filosofo e medico di Baghdad Ibn al-Ṭayyib (m. 435/1043). Attivo presso le corti dell'Iran nord-orientale, egli morì a soli quarant'anni durante una tempesta di sabbia mentre fuggiva da una persecuzione politica. Pur rinunziando a un'esplicita divisione tra la parte teorica e quella pratica, al-Masīḥī dedica a ognuna di esse circa la metà dei cento capitoli dell'opera che, nei contenuti e nella struttura, ricalca fedelmente il canone alessandrino. Di conseguenza, anche nella parte dedicata alla medicina clinica sono privilegiati i fondamenti generali della patologia, della diagnostica e della terapia. Questo orientamento, secondo quanto afferma lo stesso autore nell'introduzione, è motivato dalla convinzione che i precedenti manuali avessero trascurato la teoria medica, concedendo troppo spazio alle indicazioni terapeutiche. La dietetica pratica e la terapia speciale sono quindi trattate succintamente nell'ultimo terzo dell'intera opera. Il Kitāb al-Mi᾽a fu raccomandato, in particolare agli allievi più avanti negli studi, da Niẓāmī ῾Arūḍī, uno dei massimi esponenti della letteratura persiana, nei suoi Čahār Maqāla (Quattro trattati; opera terminata nel 551/1156). È interessante notare che al-Masīḥī ebbe come allievo l'autore dell'enciclopedia medica più imponente e ricca dell'Islam classico, Avicenna, il quale, secondo alcune fonti, avendo seguito il maestro nella fuga che lo portò alla morte, si sarebbe persino appropriato dei suoi scritti, pubblicandoli sotto il proprio nome. In quale misura Avicenna si sia ispirato al Kitāb al-Mi᾽a potrà però essere stabilito con precisione soltanto quando sarà condotta un'analisi comparata dei due testi.
L'enciclopedia medica in cinque volumi di Avicenna, il Canone, era considerata già nel Medioevo la più importante rivale del Libro regio di al-Maǧūsī. A differenza della biografia di quest'ultimo, quella di Avicenna, figlio di un alto funzionario di Bukhara, la città persiana in cui si trovava la residenza dei Samanidi, è ben documentata; l'autore ci ha lasciato un'autobiografia che descrive gli anni di formazione e che fu in seguito completata da uno dei suoi allievi, con l'integrazione delle ultime vicende della sua vita. Nonostante alcune evidenti lacune e stilizzazioni, le tappe fondamentali della vita di Avicenna e la sua attività scientifica possono essere ricostruite, quindi, con una certa sicurezza. Per poter coltivare i loro molteplici interessi, i dotti come Avicenna dovevano in genere trovare un principe mecenate che consentisse loro di dedicarsi alla ricerca completamente liberi da preoccupazioni finanziarie. Vissuto nell'area iranica in un'epoca segnata da turbolenze politiche e in cui le costellazioni di potere mutavano in continuazione, Avicenna cercò quindi protezione presso la corte di diversi prìncipi, dove acquistò sempre una posizione di prestigio, ma si trovò esposto talvolta agli umori capricciosi dei signori e agli intrighi politici.
Se di al-Maǧūsī si conosce un unico scritto, Avicenna invece ha lasciato un imponente corpus di opere che abbraccia pressoché tutti i campi delle scienze profane dell'epoca. Come emerge dalla sua autobiografia, egli si considerava principalmente un filosofo, nell'accezione ampia della filosofia aristotelica. La sua 'enciclopedia delle scienze', in vari volumi, intitolata Kitāb al-Šifā᾽ (Libro della guarigione), può essere considerata, allo stato attuale delle ricerche, una rielaborazione originale del Corpus Aristotelicum. Sebbene esercitasse occasionalmente la professione medica, la medicina non era chiaramente al centro degli interessi di Avicenna: con una certa superiorità egli arrivò a osservare che non si trattava di una scienza 'difficile', ma di una disciplina applicata priva di pretese teoriche. Come afferma nella sua autobiografia, in gioventù egli si era dedicato allo studio della medicina da autodidatta, e dopo essersi appropriato in breve tempo dei fondamenti teorici aveva acquisito anche, sempre senza alcuna guida, l'esperienza necessaria all'applicazione pratica. Dagli scarni accenni alla sua attività di medico si ha l'impressione che Avicenna facesse ricorso alle proprie competenze soprattutto nei momenti difficili, per guadagnarsi da vivere con l'esercizio della professione medica, oppure per assicurarsi una posizione a corte, ingraziandosi il principe attraverso i successi terapeutici così da essere ben presto promosso da medico personale a filosofo di corte.
Anche nel campo della medicina, tuttavia, Avicenna ha lasciato opere significative, tra le quali va ricordato uno scritto introduttivo, redatto nella tradizione isagogica alessandrina e composto in versi raǧaz per ragioni mnemotecniche, intitolato Urǧūza fī 'l-ṭibb (Poema sulla medicina) e tradotto in latino come Cantica. L'opera senza dubbio più influente di Avicenna fu però la sua enciclopedia, al-Qānūn fī 'l-ṭibb, nota universalmente con il titolo Canon medicinae o Liber canonis totius medicinae, cui l'autore, a causa delle circostanze sfavorevoli, fu costretto a lavorare in diverse fasi. Il Canone, di gran lunga più esteso del Libro regio di al-Maǧūsī, si segnala soprattutto per l'accurata elaborazione del materiale. In qualità di filosofo e di uomo di scienza, Avicenna era particolarmente qualificato per sistematizzare l'esteso sapere medico della sua epoca, analizzarne gli aspetti teorici e strutturarlo sin nei minimi dettagli. A buon diritto il Canone è considerato l'apice degli sforzi di codificazione volti alla trasmissione e all'insegnamento della medicina nel Medioevo.
Poiché all'epoca dei libri manoscritti era impensabile creare gli indici dei contenuti, e a maggior ragione per opere di tale estensione, la possibilità di trovare le singole informazioni dipendeva in larga misura da un ordinamento ben congegnato e da un'articolazione dettagliata del materiale. La sterminata quantità di informazioni contenuta nel Canone è sistemata con grande perspicuità secondo un ordinamento che procede dall'universale al particolare e secondo un sistema di suddivisione che segue la logica dei temi. All'interno dei cinque grandi libri è utilizzata un'ulteriore articolazione in tre livelli: fann (ambito), maqāla (trattato) e faṣl (capitolo o sezione).
Nel Libro I, che contiene i fondamenti generali della medicina (generalia, in arabo kulliyyāt) classificati in modo particolarmente articolato, si aggiungono altre due categorie, ta῾līm (lezione) e ǧumla (sommario).
Avicenna rinuncia alle lunghe prefazioni del tipo di quelle che sono state rinvenute nelle opere di al-Maǧūsī.
Il Libro I, dopo una breve definizione della medicina e della sua natura, passa immediatamente a illustrarne le due parti, la theorica (al-naẓarī) e la practica (al-῾amalī). Entrambe, come sottolinea esplicitamente l'autore, rientrano nell'ambito della medicina come scienza, e sono da distinguersi dall'arte medica di natura applicata, che sarà trattata nei Libri III e IV. Avicenna presenta i fondamenti generali della medicina seguendo lo schema di ordinamento galenico, ormai assurto a tradizione consolidata nella theorica, per quanto riguarda la dottrina delle condizioni normali del corpo (fisiologia e anatomia), la patologia (nosologia, eziologia, semiologia), la dottrina della salute (dietetica), e nella practica quelli per le norme fondamentali della medicina preventiva e curativa.
Il Libro II è dedicato alla materia medica, ossia ai rimedi semplici e alle loro proprietà, che sono elencati in ordine alfabetico dopo una premessa sui metodi per determinarne l'efficacia. I due libri seguenti sono riservati ai diversi gruppi di malattie e alle rispettive terapie: il III descrive le affezioni delle singole parti del corpo a capite ad calcem; il IV tratta le malattie generali, ossia dell'intero organismo, come le febbri, e quelle che possono interessare diversi organi e parti del corpo, come i tumori o le lesioni. L'ultimo libro tratta la farmacopea.
Nel complesso, la suddivisione del Canone risulta più convincente di quella del Libro regio, in quanto tutte le informazioni relative al trattamento delle malattie degli organi sono riunite in un unico luogo, nel Libro III. Le prescrizioni terapeutiche sono collegate direttamente alla descrizione dei sintomi e delle diagnosi, inoltre l'anatomia e la fisiologia delle singole parti del corpo sono esaminate non nell'ambito dei generalia, come avviene nel Libro regio, ma all'inizio dei capitoli che riguardano le rispettive malattie. Il lettore trova così una trattazione completa sui singoli organi e sulle loro condizioni normali e patologiche, sulla loro struttura e funzione, nonché sulle alterazioni patologiche e le misure pratiche per combatterle; una prospettiva integrata che presentava indubbiamente grandi vantaggi per l'uso nella prassi quotidiana.
Un'altra particolarità del Canone è data dal fatto che il suo autore, in primo luogo filosofo, è interessato in special modo agli aspetti epistemologici della medicina, e a un'analisi differenziata delle concezioni mediche. In quanto aristotelico, inoltre, Avicenna si distanzia da Galeno in misura assai maggiore degli altri autori di manuali di medicina. Aristotele, che nei suoi scritti di biologia si era occupato tra le altre cose anche di anatomia e di fisiologia, era giunto in vari luoghi a conclusioni che cinque secoli più tardi Galeno rifiutò, in parte alla luce di nuove conoscenze, in parte sulla base di premesse teoriche diverse. Avicenna cerca di difendere le posizioni di Aristotele dalle critiche di Galeno e di ribadirne la validità nonostante nuove evidenze difficilmente controvertibili, e ciò lo induce a compromessi e a vere e proprie acrobazie. Tuttavia, pur sottolineando costantemente il primato della filosofia, Avicenna non pensa affatto che il medico debba essere un teorico. Egli opera piuttosto una netta distinzione tra il sapere specializzato, che consente al medico un corretto esercizio della professione, e la più profonda visione dell'essenza dei processi naturali, cui devono aspirare il filosofo e lo scienziato della Natura. Per il semplice medico è sufficiente seguire le dottrine di Galeno e delle altre autorità della medicina, anche se in alcuni casi esse possono apparire solo superficialmente corrette; chi vuole invece appurare la vera natura delle cose deve attenersi alla scienza della Natura, fondata sulla filosofia e sulla logica, quale è rappresentata da Aristotele.
Il Canone di Avicenna ebbe una straordinaria influenza nel mondo islamico, in particolare nell'area iranica e successivamente anche in quella turca, dando vita a una letteratura autonoma di compendi, rielaborazioni, commentari e supercommentari che siamo ben lungi dal conoscere nella sua completezza. Un'analoga letteratura derivata fiorì in Europa, dove il Canone, tradotto in latino da Gherardo da Cremona, divenne nel Tardo Medioevo il manuale arabo preferito nelle università, soprattutto perché il suo orientamento filosofico era consono allo spirito scolastico ivi dominante. Dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili, accanto alle circa sessanta edizioni complete e parziali della traduzione latina, nel 1593 le stamperie medicee a Roma pubblicarono anche l'originale arabo. Nel mondo orientale il Canone è ancora oggi il testo fondamentale di una medicina islamica tradizionale chiamata yūnānī ṭibb (medicina greca), viva soprattutto in India e in Pakistan; persino tra gli attuali sforzi di coniugare la medicina moderna con i valori islamici tradizionali, l'enciclopedia di Avicenna conserva un ruolo centrale.
Non ebbe un successo altrettanto vasto il Libro regio di al-Maǧūsī che, come risulta da diverse fonti medievali, nel favore dei medici fu interamente soppiantato dal Canone. Tuttavia non si può dire con certezza quale delle due grandi enciclopedie arabe, se il Libro regio o il Canone, rappresenti la codificazione più autorevole della medicina islamica basata su fonti greche. Senza dubbio la predilezione per l'una o per l'altra dipende anche in larga misura dalle funzioni fondamentali ‒ di ordine prevalentemente teorico, oppure più specificamente orientate all'attività del medico ‒ che si ritiene debba assolvere un'enciclopedia di questo tipo. Una comparazione diretta tra i due testi finisce di solito con il riconoscere al Libro regio una maggiore aderenza alla prassi, al Canone una maggiore scientificità. Non tutti i medici del mondo islamico vedevano in quest'ultima qualità un vantaggio; se alcuni detrattori dell'opera di Avicenna ne rimproveravano proprio l'eccessiva astrattezza teorica, altri ne lamentavano, invece, l'imprecisione terminologica e la minore chiarezza dell'esposizione rispetto al Libro regio.
Anche l'opinione degli storici moderni è tutt'altro che unanime. Molti si schierano dalla parte di al-Maǧūsī, con argomenti che sembrano talvolta riflettere i giudizi negativi, dettati da fattori emotivi più che da ragioni oggettive, dei recensori di Avicenna del mondo islamico medievale e degli esponenti del Rinascimento occidentale critici nei confronti della cultura araba. Ai loro occhi Avicenna finisce più o meno consapevolmente per rappresentare tutto ciò che l'epoca moderna riteneva di dover criticare nella Scolastica medievale, per esempio la propensione alla completezza enciclopedica e alla sottile disamina di diverse opinioni dottrinali. Di conseguenza, ad Avicenna viene spesso imputata una eccessiva cavillosità e una certa confusione nella classificazione delle malattie, dovuta allo sforzo di tener conto delle tradizioni mediche nella loro completezza e d'integrare le concezioni delle varie autorità, che lo portano a distinguere diverse forme per la stessa malattia. A ciò viene contrapposta la maggiore compattezza di struttura e contenuti del Libro regio, che di fatto si impone per la coerenza con cui segue l'impostazione galenica. I sostenitori di al-Maǧūsī non sono affatto convinti che la tanto lodata struttura del Canone sia più perspicua rispetto a quella del Libro regio.
Infine, anche nell'Occidente islamico fu realizzata una grande enciclopedia medica, di poco inferiore per estensione a quella di al-Maǧūsī, intitolata Kitāb al-Taṣrīf li-man ῾aǧiza ῾an al-ta᾽līf (Libro della disposizione [della scienza medica] per coloro che la ignorano) di Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī (Abulcasis o Alsaharavius, m. 400/1009 ca.), attivo a Cordova sotto ῾Abd al-Raḥmān III, califfo omayyade dell'Andalus. L'opera non ebbe nel complesso un'influenza paragonabile a quella delle due enciclopedie esaminate in precedenza. La sua fama è dovuta principalmente all'ultimo dei trenta libri che la compongono, dedicato alla chirurgia, in cui Abū 'l-Qāsim attinge anche alle sue notevoli esperienze pratiche. Il resto dell'opera non è ancora stato studiato in modo approfondito, fatta eccezione per alcuni brevi estratti, ed è finora disponibile solamente nel facsimile di un manoscritto di Istanbul.
Nell'articolazione e nel peso dato alle diverse parti della materia questa enciclopedia si differenzia nettamente dallo schema sviluppato sulla base dei modelli alessandrini in quanto è orientata prevalentemente alla pratica. La trattazione dei fondamenti teorici della medicina nel Libro I rappresenta una minima parte dell'opera; l'intera medicina clinica, le malattie interne descritte succintamente nel Libro II, i loro sintomi e il loro trattamento terapeutico, nonché la chirurgia cui è dedicato il Libro XXX rappresentano invece un terzo del totale mentre più della metà dell'opera, dal Libro III al XXIX, è dedicata esclusivamente ai diversi aspetti della farmacologia, della farmacopea e della terapia farmacologica. La scelta di focalizzare l'attenzione su questi aspetti sembra in sintonia con il particolare interesse per la farmacologia dimostrato dai medici del mondo islamico occidentale, ma forse spinse i medici dell'epoca successiva a preferire compendi generali più equilibrati. È interessante il fatto che di tutti questi libri sulla farmacologica e sulla farmaceutica fu tradotto in latino soltanto il Libro XXVIII, dedicato al reperimento e alla preparazione delle sostanze farmacologiche, con il titolo di Liber servitoris. Oltre a questo furono tradotti indipendentemente il Libro XXX sulla chirurgia, e successivamente, i primi due libri.
Già alla metà dell'XI sec. lo sviluppo dei manuali generali di medicina come genere letterario, così come l'epoca delle grandi enciclopedie, possono dirsi conclusi. Nessuno dei compendi generali più tardi raggiungerà l'estensione delle opere di al-Maǧūsī o di Avicenna. Gli autori di manuali per l'insegnamento dell'epoca successiva si rifecero di preferenza al Canone di Avicenna. Così Muhaḏḏab al-Dīn ῾Alī ibn Aḥmad ibn Hubal (515-610/1112-1213), autore di un manuale peraltro assai più succinto e che significativamente si intitola Kitāb al-Muḫtārāt fī 'l-ṭibb (Libro antologico di medicina), non si limita a ricalcare la struttura del Canone, ma ne estrapola anche numerosi passi. Altri ridussero i loro compendi alla parte pratica della medicina, seguendo il modello dell'antico kunnāš, un genere che i manuali di nuova concezione non erano riusciti a far scomparire interamente. Tuttavia, sembra che perlomeno alcuni medici lamentassero la totale assenza della parte teorica in questi testi. Il famoso filosofo e dottore di legge andaluso Averroè (520-595/1126-1198), che per la medicina ebbe un interesse di tipo prevalentemente teorico, nella sua principale opera medica, il Kitāb al-Kulliyyāt (Libro delle generalità), tradotto in latino con il titolo di Colliget, si occupa soltanto dei fondamenti teorici della disciplina, rimandando il lettore per la parte pratico-terapeutica al kunnāš del suo compatriota più anziano Ibn Zuhr (m. 557/1162), intitolato Kitāb al-Taysīr fī 'l-mudāwāt wa-'l-tadbīr (Libro della semplificazione sulla terapeutica e la dietetica). Sembra quindi che egli volesse integrare i Generalia con un manuale pratico circoscritto ai particularia della medicina.
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