La civilta islamica: scienze della vita. Tradizioni regionali e sviluppi nella medicina
Tradizioni regionali e sviluppi nella medicina
di Fernando Girón Irueste
A un primo sguardo la medicina medievale può apparire un insieme di conoscenze meramente libresche, prive di applicazioni pratiche; impressione in parte giustificata dal fatto che i suoi fondamenti teorici, come pure gli strumenti e le terapie utilizzati, sono gli stessi che troviamo nei testi greci ed ellenistici. Parimenti, si può dubitare dell'esistenza di una vera e propria attività scientifica poiché in quasi dieci secoli nel campo della medicina non sono state effettuate scoperte significative. Tuttavia, sebbene tali affermazioni siano in parte vere, occorre osservare che gli autori medievali hanno riassunto e chiarito molte delle conoscenze giunte sino a loro per diverse vie, facilitandone lo studio nella posterità e il rapido superamento; inoltre essi hanno fornito in alcuni casi piccoli contributi, ignorati però nella loro epoca. Bisogna anche tenere conto di quanto fosse difficile aprire nuovi orizzonti di ricerca: era complicato studiare l'uomo, persino quello sano; l'intreccio tra filosofia e medicina limitava l'osservazione della realtà; infine, il peso del concetto di autorità rendeva quasi impossibile il giudizio critico.
In questo contesto si inserisce l'apporto della medicina andalusa, che ha svolto un ruolo importante per due ordini di motivi. Per quanto riguarda strettamente la pratica medica, se la quotidiana, silenziosa e anonima assistenza ai malati, opera di centinaia di medici sconosciuti, sfugge a qualsiasi possibilità di analisi, gli scritti di al-Zahrāwī, Ibn Wāfid, Ibn Zuhr, Averroè, Abū 'l-Ṣalt Umayya e Maimonide costituiscono un valido lavoro di sintesi, riconosciuto a suo tempo e tradotto in diverse lingue; inoltre, alcuni autori come ῾Arīb ibn Sa῾d, Ibn al-Bayṭār, Ibn al-Ḫaṭīb, Ibn Ḫātima, Muḥammad al-Šafra tentarono un approccio innovativo a problemi concreti, anche se le loro opere sono talvolta rimaste sconosciute a lungo. Il secondo motivo è da ricercare nel vasto movimento culturale sorto nella Penisola Iberica, che favorì l'incontro e lo scambio fra le tre civiltà mediterranee: ebraica, cristiana e musulmana. Le traduzioni di opere scientifiche a opera di Andalusi a Toledo, Santa Maria de Ripoll, Barcellona e in altri luoghi anche fuori della penisola, hanno permesso all'Europa del Basso Medioevo di entrare in contatto con i classici greci e con il ricco capitale di conoscenze provenienti dall'Islam. Nello stesso tempo, numerosi studiosi andalusi costretti a emigrare hanno diffuso le loro conoscenze in Africa del Nord o nel Vicino Oriente.
Dall'VIII al X sec. convivono nell'Andalus tre tipi di basi teoriche e di pratica medica. Il primo, la medicina mozarabica, è costituito da quanto rimane della medicina greco-ellenistica, impoveritasi nel mondo latino dell'Alto Medioevo, e rappresenta la variante ispanica della medicina monastica, comune al resto dell'Europa, le cui opere sono inizialmente conservate nelle biblioteche dei monasteri rimasti in territorio andaluso dopo l'invasione islamica. Il secondo tipo proviene dalle conoscenze circa la salute, le malattie e le cure, introdotte dai contingenti islamici nella Penisola Iberica e ratificate da Muḥammad e dai suoi compagni, da cui il nome di 'medicina del Profeta'. Infine, il terzo è rappresentato dalla medicina sviluppata nell'Oriente islamico, la medicina islamica, le cui fonti si trovano anch'esse nella medicina greco-ellenistica e che raggiunge al-Andalus nel IX secolo.
La medicina mozarabica
Con il termine mozarabi, che deriva da musta῾rib (o muta῾arrib) 'falso arabo', sono chiamati nei testi cristiani gli abitanti dell'Andalus che dopo la conquista hanno adottato usi e costumi degli Arabi, compresa la lingua, parlata e scritta, senza però ripudiare la propria fede. Nell'VIII e IX sec. essi sono numerosi, poi diminuiscono progressivamente, fino a scomparire quasi del tutto, in parte a causa di morti violente in seguito alle insurrezioni contro il potere costituito, in parte per l'emigrazione massiccia verso i regni cristiani nascenti nel Nord della Penisola Iberica e infine a causa dei vantaggi sociali ed economici derivati loro dalla conversione all'Islam.
Lo storico e medico musulmano Abū Dāwūd Sulaymān ibn Ḥasan, noto come Ibn Ǧulǧul (m. 384/994 ca.), sosteneva che "nell'Andalus era praticata la medicina sulla base di uno dei libri dei cristiani, che era stato tradotto. Si intitolava Aforismi, termine che significa summa o compilazione" (Vernet 1966, p. 554). Benché non si possa sapere con precisione a quale scritto si riferisca (potrebbe trattarsi di una traduzione latina degli Aforismi di Ippocrate, come di qualsiasi altra opera con lo stesso titolo), il suo commento è un chiaro indizio del ruolo svolto in quel periodo dai trattati di medicina degli Ispano-Visigoti, conservati nelle biblioteche e negli infirmaria dei monasteri dell'Andalus. L'opera Etymologiarum sive originum libri XX del vescovo Isidoro di Siviglia (560 ca.-636) fu il testo di riferimento per i mozarabi; il Libro IV di questa compilazione è dedicato alla medicina e vi si trovano riferimenti ad autori greci, come Ippocrate, o ellenistici, quali Dioscuride e Galeno di Pergamo, romani, come Celso, Celio Aureliano e Plinio il Giovane, nonché alcuni padri della Chiesa, quali Cassiodoro o san Gregorio. La spiegazione dei termini medici è anzitutto filologica ed etimologica, anche se non mancano considerazioni di altro tipo: "Il cancro è così chiamato per la sua somiglianza con l'animale marino. Secondo i medici si tratta di una ferita, che non si cura con nessun tipo di medicinale, per cui si suole amputare il membro in cui si manifesta, al fine di allungare un po' di più la vita. Tuttavia, l'esito è la morte, benché venga ritardata un poco" (Etymologiarum, I, p. 497).
Nella Cordova del IX sec. il comes, ovvero il rappresentante dei mozarabi presso i musulmani, è Romano il Medico, noto anche come ḫĀlid ibn Yazīd ibn Rūmān al-Naṣrānī, che scrive in arabo un'innovativa opera di terapia, la Risāla fī 'l-adwiya al-šaǧariyya (Epistola sulle virtù medicinali degli alberi). Secondo lo storico Ibn Abī Uṣaybi῾a, Romano "raggiunse grande fama e un notevole patrimonio curando un gran numero di ammalati" (῾Uyūn al-anbā᾽ fī ṭabaqāt al-aṭibba᾽, ed. Jahier, p. 20). È probabile che i suoi pazienti fossero indistintamente cristiani e musulmani, soprattutto se si tiene conto che questi ultimi possedevano maggiori ricchezze. Ibn Abī Uṣaybi῾a riferisce ancora che Nasṭās (Anastasio) ibn Ǧurayǧ, medico cristiano che viveva in Egitto, mandò a Ibn Rūmān un trattato sull'urina: testimonianza che attesta l'esistenza di feconde relazioni tra gli scienziati cristiani dell'epoca, nonostante la distanza tra un estremo e l'altro del Mediterraneo. Al X sec. appartiene anche Yaḥyā ibn Isḥāq, un muladí, ossia un cristiano da poco rinnegato, che fu governatore dell'Algarve, nel Sud del Portogallo, ministro e medico del califfo ῾Abd al-Raḥmān III, autore del Kitāb al-Ibrīsam (Libro della seta). Ibn Abī Uṣaybi῾a afferma che l'autore di quest'opera seguì il 'metodo dei cristiani', confermando così l'ipotesi della sopravvivenza della medicina mozarabica fino al X sec., nonostante la medicina islamica fosse penetrata già da tempo nella penisola. Dello stesso periodo è il Kitāb Tafṣīl al-azmān wa-maṣāliḥ al-abdān (Libro della divisione dei tempi e dell'igiene dei corpi), conosciuto anche con il titolo di Calendario di Cordova dell'anno 961. Si tratta di un testo bilingue arabo-latino scritto dal medico muladí ῾Arīb ibn Sa῾d al-Kātib al-Qurṭubī (918-980) e dal vescovo di Madina Ilbira, nei pressi di Granada, Recemundo, che nelle fonti islamiche è noto con il nome di Rabī῾ ibn Zayd. Il trattato, che riprende l'antica tradizione dei calendari-antifonari suddivisi in mesi e giorni, contiene elementi utili per prevedere il tempo e consigli variabili in base alle stagioni circa l'agricoltura, l'allevamento e l'igiene.
La 'medicina del Profeta'
La presenza della 'medicina del Profeta' nell'Andalus è testimoniata da quella che sembra essere la prima opera di medicina della regione il Muḫtaṣar fī 'l-ṭibb (Compendio di medicina) del teologo, giurista e storico ῾Abd al-Malik ibn Ḥabīb al-Ilbīrī (m. 238/853), tra i primi ḥukamā᾽ (dotti) andalusi. Nato a Huétor Vega, vicino Granada, dopo gli studi coranici e di legge, Ibn Ḥabīb nell'823-824, si reca in Oriente, dove segue per alcuni anni gli insegnamenti dei migliori maestri dell'epoca. Tornato nell'Andalus, risiede dapprima a Madina Ilbira e poi a Cordova, in seguito all'invito dell'emiro ῾Abd al-Raḥmān II che lo nomina giudice, incarico conservato fino alla morte. I discepoli di Ibn Ḥabīb raccolsero i suoi insegnamenti nel Muḫtaṣar fī 'l-ṭibb, un'opera divisa in tre parti, di cui la prima e la terza sono dedicate alla medicina del Profeta, mentre la seconda alla medicina razionale. Ibn Ḥabīb era un noto conoscitore della tradizione profetica dei ḥadīṯ, tra i quali estrapola quelli che riguardano la salute e la malattia, li ordina secondo un criterio medico e fornisce indicazioni su di essi; egli scrive per esempio: "che un uomo si lamentò con l'Inviato di Dio ‒ che Dio lo benedica e lo salvi ‒ del mal di denti ed Egli ‒ che Dio lo salvi ‒ gli fece un incantesimo dicendo: calmati, o vento! Io ti calmo con quel che calma tutto ciò nei cieli e nella Terra, che è Dio, colui che tutto ode e tutto sa! Lo disse sette volte e l'uomo guarì, scegliendo i musulmani dopo quell'incantesimo contro il mal di denti" (p. 120).
Poiché la maggioranza della popolazione non aveva la possibilità di pagare medici 'scientifici', e all'epoca nell'Andalus non esistevano ospedali, in molti seguirono i consigli contenuti nei ḥadīṯ; d'altronde per gli Andalusi come per ogni musulmano seguire fedelmente quei consigli rappresentava, oltre a un sollievo dalle sofferenze, una prova di obbedienza.
La medicina islamica
Nella seconda parte del Muḫtaṣar fī 'l-ṭibb Ibn Ḥabīb scrive: "ho sentito alcuni Medinesi appartenenti alla gente della scienza medica dire: la malattia partecipa di quattro umori, così come l'anno e l'uomo. I quattro umori della malattia sono il sangue, il flegma, la bile rossa, e la bile nera" (p. 102). Egli si riferisce in questo modo alla tradizione medica colta basata sulla teoria greca degli umori, sviluppata dai ḥukamā᾽ dell'Oriente islamico che l'hanno assimilata e arricchita. Infatti, all'epoca di Ibn Ḥabīb iniziò la diffusione della medicina islamica nell'Andalus attraverso vari canali, quali i viaggi degli studiosi, la circolazione dei libri e le traduzioni. Il rituale pellegrinaggio in Oriente permise a molti studiosi andalusi di conoscere i grandi centri della cultura islamica: Medina, Alessandria, Damasco, Bassora, Baghdad, ecc., dove si realizzava un importante lavoro di traduzione di opere scientifiche di diversa provenienza. Inoltre, numerosi medici nati e formatisi in Oriente stabilirono la propria residenza nel territorio andaluso: è il caso, per esempio, di Yūnus ibn Aḥmad al-Ḥarrānī (IX sec.) e di Ibn Zuhr al-Iyādī (X sec.), che vissero rispettivamente a Cordova e a Yativa. Accanto al singolare fenomeno delle traduzioni, va rilevato un altro fattore di particolare rilievo per la diffusione delle conoscenze nell'Andalus: la bibliofilia dei magnati andalusi. I mercanti portavano i libri attraverso percorsi interminabili, passando dall'Africa del Nord, per nave o lungo le coste del Mediterraneo, poiché si trattava di una merce che si vendeva a buon prezzo; in seguito, i copisti ne assicuravano la diffusione in tutto il territorio. Una testimonianza al riguardo è la biblioteca del califfo andaluso al-Ḥakam II (r. 961-976), la quale "[…] era di una ricchezza incomparabile. Comprendeva nientemeno che 400.000 volumi e il suo catalogo, che si limita a una semplice enumerazione dei titoli delle opere con il nome dell'autore, riempiva quarantaquattro registri di cinquanta fogli l'uno. Un vero e proprio esercito di ricercatori di libri, mediatori e copisti si muoveva per conto del monarca spagnolo allargando il raggio delle sue ricerche bibliografiche a tutto il mondo musulmano […]" (Lévy-Provençal 1969, p. 85).
Probabilmente con l'auspicio di stringere un'alleanza con il califfo di Cordova, ῾Abd al-Raḥmān III ‒ divenuto emiro dei credenti (amīr al-mu᾽minīn) nel 929 ‒, giunge qui nel 945 un'ambasciata dell'Impero bizantino, che offre ricchi doni tra i quali una copia in greco del De materia medica di Dioscuride. Il califfo desiderava conoscere il contenuto dell'opera e poiché a Cordova sembra che nessuno leggesse il greco, pregò gli ambasciatori di mandargli un saggio che conoscesse il greco e fosse un esperto di medicina: giunsero così il monaco Nikolaos e il medico ebreo Ḥasdāy ibn Šaprūṭ (m. 365/975 ca.). È possibile che i due studiosi si limitassero a colmare le lacune della precedente traduzione effettuata in Oriente da Iṣṭafān ibn Bāsil; tuttavia, con la traduzione di Nikolaos e Ḥasdāy è sancita la nascita della ricca tradizione andalusa di botanica e farmacologia. Nel X sec. le nuove tendenze della medicina andalusa sono manifeste in una straordinaria opera del già menzionato segretario del califfo ῾Abd al-Raḥmān III, ῾Arīb ibn Sa῾d, che scrive un testo singolare sull'embriologia, l'ostetricia e la pediatria, il Kitāb ḫalq al-ǧanīn wa-tadbīr al-ḥabālā wa-'l-mawlūdīn (Libro della generazione del feto e trattamento delle donne incinte e dei neonati). L'opera, che cita Ippocrate, Aristotele, Galeno, Archigene, ecc., e tra gli autori arabi il quarto califfo ῾Alī ibn Abī Ṭālib ‒ uno dei primi saggi musulmani, cugino e genero di Muḥammad, appartenente alla corrente della medicina del Profeta ‒, per ragioni ignote non è menzionata dai contemporanei del suo autore né dai posteri latini.
Il consolidamento della medicina islamica: i grandi trattati
Nonostante l'instabilità politica ‒ la fine del califfato omayyade (1030), i regni delle taifas, l'avvento della dinastia almoravide prima e almohade poi ‒, l'XI e il XII sec. corrispondono al periodo di massimo splendore culturale per l'Andalus. L'esistenza di numerose corti, che rivaleggiano tra loro per proteggere artisti, musicisti, poeti e scienziati, oltre alla possibilità di attingere al sapere scientifico in loco senza doversi recare in Oriente, costituiscono radicali novità che vanno ad arricchire notevolmente la vita culturale della regione. Nel XIII sec. la condizione d'insicurezza derivata dalle continue lotte interne e dalle sconfitte di fronte agli eserciti dei regni cristiani spinge gran parte degli studiosi andalusi ad abbandonare definitivamente la Penisola Iberica. Essi con le loro conoscenze arricchiscono le città nelle quali si recano, mentre l'Andalus diviene a poco a poco un luogo di scarsa cultura.
Tra i principali scritti a carattere enciclopedico, opera di autori andalusi, spiccano, in ordine cronologico, quelli di al-Zahrāwī, Ibn Zuhr e Averroè; le tre opere presentano una certa uniformità di contenuti: glossano la filosofia medica che, sulla base dei contributi di Ippocrate e dei suoi contemporanei, fu sistematizzata dal genio di Galeno di Pergamo, con l'aggiunta di dottrine aristoteliche. Fonti ricorrenti sono i lavori di al-Rāzī, ῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī e Avicenna, fra i principali rappresentanti della medicina islamica di derivazione greca.
Nato a Madīnat al-Zahrā᾽ in data sconosciuta, ma quasi certamente dopo il 936, anno in cui inizia la costruzione di questa città, Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī è medico presso la corte di diversi califfi e gode di grande considerazione nella Cordova della sua epoca; muore dopo il 400/1009. Egli, che con molta probabilità non conosceva opere quali al-Kitāb al-Malakī (Libro regio) di al-Maǧūsī (m. 994) o il Kitāb al-Qānūn fī 'l-ṭibb (Canone) di Avicenna, ha avuto il merito di avere aperto la strada allo sviluppo della medicina e della chirurgia andaluse attraverso il suo trattato Kitāb al-Taṣrīf li-man ῾aǧiza ῾an al-ta᾽līf (Libro della disposizione [della scienza medica] per coloro che la ignorano) scritto verso la fine del X o agli inizi dell'XI secolo. Quest'opera costituisce un singolare tentativo d'integrare la pratica medica e quella chirurgica, separate da secoli e che tali rimasero in tutto il Medioevo e nel corso dell'Età moderna. Trenta capitoli raccolgono tutto ciò che occorre sapere sull'anatomofisiologia umana, sulle malattie e sulle possibilità di cura, sia dal punto di vista medico, utilizzando ogni tipo di farmaci, sia da quello chirurgico, per mezzo del cauterio e del bisturi. L'opera suscitò uno straordinario interesse nell'ambiente scientifico dell'epoca, così come si evince dal gran numero di manoscritti in arabo (più di quaranta) esistenti tutt'oggi, e dall'ampia opera di traduzione di cui fu oggetto appena un secolo dopo essere stata scritta.
Abū Marwān ibn Zuhr (m. 557/1162) vive sulla propria persona le vicissitudini dell'Andalus: arrestato per ordine degli Almoravidi, trascorre quasi un terzo della sua vita in prigione a Marrakesh; tornato in libertà, ottiene il riconoscimento del califfo almohade, del quale diviene il medico fino alla sua morte. Tra le numerose opere di Ibn Zuhr spicca il Kitāb al-Taysīr fī 'l-mudāwāt wa-'l-tadbīr (Libro della semplificazione sulla terapeutica e la dietetica) che, grazie alla traduzione realizzata nel XIII sec., prima in ebraico poi in latino, diviene il testo di riferimento della medicina scolastica e rinascimentale, come dimostrano le dieci ristampe realizzate tra il 1490 e il 1574. La superiorità di quest'opera, che ne decreta il successo rispetto ad altri testi dell'epoca, risiede innanzitutto nello stile lineare della composizione. Ibn Zuhr, infatti, non è un ḥakīm, ossia un dotto nell'accezione generale del termine (medico e filosofo), ma si occupa esclusivamente di medicina e la sua opera è dunque priva degli artifici retorici che caratterizzano i grandi trattati, risultando così di facile comprensione per la maggior parte dei lettori. Inoltre, la struttura del testo differisce dai modelli vigenti all'epoca, poiché si tratta di un ampio studio che può essere usato nella pratica medica come semplice manuale. A Ibn Zuhr, infatti, viene commissionato dal califfo un testo per principianti, ovvero un trattato semplice (da cui la parola 'semplificazione' nel titolo), che tralasci tutte le generalità, le caratteristiche dettagliate dei singoli farmaci, e così via, le quali in gran parte servivano ai medici per da-re sfoggio delle loro conoscenze. Di conseguenza, egli si limita a descrivere le malattie seguendo l'ordine a capite ad calcem, indicando i farmaci da utilizzare e inserendo a voltedigressioni su alcune esperienze cliniche; il testo è completato da un opuscolo sulle febbri.
Il terzo dei grandi trattatisti, Averroè, nasce a Cordova nel 1126 da una famiglia di giuristi; dopo gli studi di teologia, legge, matematica e astronomia come pure di filosofia, sotto la direzione del poligrafo Abū Bakr Muḥammad ibn Ṭufayl (m. 581/1185), egli si dedica alla medicina: Averroè, al contrario di Ibn Zuhr, corrisponde perfettamente al modello di ḥakīm. I suoi maestri nella scienza medica furono Abū Ǧa῾far ibn Hārūn al-Tarǧālī, Abū Marwān al-Balansī e soprattutto il già citato Ibn Ṭufayl, che esercitò la professione di medico a Granada e compose l'opera in quasi 7700 versi intitolata Urǧūza fī 'l-ṭibb (Poema sulla medicina). Contrariamente a quanto si afferma, Averroè non è stato discepolo di Ibn Zuhr: non esiste infatti alcun riferimento da parte di entrambi gli studiosi riguardo tale notizia; inoltre, all'epoca in cui Averroè si dedicava ai suoi studi ‒ completati tra il 1141 e il 1146 ‒ Ibn Zuhr era prigioniero a Marrakesh. Successivamente Averroè compone la sua principale opera di medicina, il Kitāb al-Kulliyyāt fī 'l-ṭibb (Libro delle generalità della medicina), la cui datazione è incerta, anche se è sicuramente anteriore al 1162, anno della morte di Ibn Zuhr, poiché nell'ultima pagina del testo, nel commentare alcuni aspetti del Kitāb al-Taysīr di questo autore, Averroè non usa la consueta formula riservata ai defunti "Dio abbia misericordia di lui".
Alla morte del califfo almohade ῾Abd al-Mu᾽min, il maestro di Averroè, Ibn Ṭufayl, è nominato medico del successore, Abū Ya῾qūb Yūsuf I ibn ῾Abd al-Mu᾽min, e lo stesso Averroè è presentato alla corte almohade nel 1168; negli anni successivi esercita la professione di giudice a Siviglia (1169-1171) e a Cordova (1171-1175). Nel 1184, in seguito a una disastrosa campagna militare contro i cristiani, muore Abū Ya῾qūb Yūsuf I, e Averroè diviene il medico personale del successore, al-Manṣūr, subentrando a Ibn Ṭufayl ormai molto anziano. Probabilmente ricopre anche la carica di consigliere del sovrano nel campo della filosofia; sembra, infatti, che al-Manṣūr, al contrario dei suoi predecessori almoravidi, dimostri un grande interesse per questa disciplina, tanto da commissionare ad Averroè l'opera di commento ai testi aristotelici, di cui questi realizzò una ventina di versioni e glosse, che gli valsero nella latinità medievale l'epiteto di 'il Commentatore'. L'amicizia con al-Manṣūr, tuttavia, non risparmia ad Averroè l'accusa di eterodossia religiosa (1194) in seguito alla quale è esiliato a Lucena con alcuni seguaci, dopo aver assistito all'autodafé dei suoi scritti; trascorsi due anni è condotto a Fez, dove gli è impedito di ricevere la visita di studiosi giunti da lontano richiamati dalla sua fama. Ottiene infine il perdono e come riparazione è reintegrato nella funzione di giudice in Mauritania, ma ormai è troppo tardi: Averroè muore a Marrakesh di lì a poco, nel 1198.
Oltre ai suoi commenti di otto opere di Galeno e una di Avicenna, Averroè ha scritto varie opere monografiche di medicina, tra cui la Maqāla fī 'l-mizāǧ (Trattato sui temperamenti); la Mas᾽ala fī nawā᾽ib al-ḥummā (Questione sugli accessi di febbre); la Maqāla fī ḥummayāt al-῾afan (Trattato sulle febbri putride) e la Maqāla fī 'l-tiryāq (Trattato sulla teriaca); ha raccolto inoltre per iscritto le controversie scientifiche avute con il suo maestro Ibn Ṭufayl. La posterità ricorda però Averroè soprattutto per il Kitāb al-Kulliyyāt, noto nel mondo latino come Colliget, che fu spesso pubblicato insieme al Kitāb al-Taysīr di Ibn Zuhr al pari del quale ebbe grande diffusione. Alla fine della sua opera Averroè afferma di aver trattato solo i generalia della medicina e raccomanda ai suoi lettori, interessati anche alle terapie delle singole malattie, di rivolgersi ai manuali pratici e in particolare a quello di Ibn Zuhr, che egli stesso possedeva e usava: "Il libro intitolato al-Taysīr, composto nella nostra epoca da Abū Marwān ibn Zuhr, gliel'ho richiesto io, e ne ho fatto una copia […]" (Kitāb al-Kulliyyāt fī 'l-ṭibb, ed. Besteiro, I, p. 518). Oggi sappiamo però che in realtà fu il califfo almohade ῾Abd al-Mu᾽min, del quale Ibn Zuhr era il medico, a commissionargli il Kitāb al-Taysīr, testo di carattere più pratico rispetto a quello di Averroè.
Il Kitāb al-Kulliyyāt, concepito come molti altri testi di medicina per l'insegnamento ai principianti, richiede tuttavia una grande attenzione nella lettura poiché il filo dell'esposizione è spesso farraginoso e ripetitivo; lo stile è simile a quello del Canone di Avicenna. In nessun passaggio dell'opera, infatti, Averroè permette al lettore di dimenticare le sue qualità in campo filosofico, per le quali senza dubbio si distingue; d'altronde quest'opera non è un paradigma del galenismo puro, ma un adattamento delle teorie medico-filosofiche di Galeno a quelle di Aristotele. Il testo, deviando dall'impostazione dei manuali di altri autori musulmani, è articolato in sette parti: la prima è dedicata all'anatomia; la seconda alla fisiologia; la terza allo studio delle malattie; la quarta ai segni di riconoscimento delle malattie; la quinta agli alimenti e medicinali semplici, veleni e antidoti; la sesta all'igiene personale; la settima ai medicinali composti. Nel XIII sec. l'opera è stata tradotta prima in ebraico e poi, a partire da questa versione, in latino; anche in tal caso il lavoro di traduzione degli eruditi ebrei facilitò la consultazione di importanti opere scientifiche tardive non tradotte a Montecassino, Salerno o Toledo. Numerose furono inoltre le edizioni del Kitāb al-Kulliyyāt, dagli inizi della stampa sino alla fine del XVI secolo.
Accanto ai grandi trattati finora presi in considerazione esistono alcune monografie su singole tematiche: il Kitāb Tadqīq al-naẓar fī ῾ilal al-baṣar (Libro dell'osservazione circa le malattie della vista), andato perduto, di Ibn Wāfid al-Laḫmī (1008-1074), illustre medico della corte di Toledo; il Kitāb al-῾Uyūn (Libro degli occhi), tradotto in latino e in catalano, di Sulaymān ibn Ḥāriṯ al-Qūṭī (XII sec.), del quale solo la quinta parte sulla farmacopea si è preservata nell'originale arabo; il Kitāb al-Muršid fī 'l-kuḥl (Guida di oculistica) del cordovano Muḥammad ibn Qassūm al-Ġāfiqī; la Risāla fī 'l-baraṣ (Epistola sulla lebbra), anch'essa andata perduta, di Ibn Zuhr.
Terapie farmacologiche, terapie chirurgiche e prevenzione delle malattie
Riguardo ai medicinali semplici e composti esistono numerosi trattati, poiché molti Andalusi si sono dedicati allo studio dei medicinali semplici di origine animale, minerale e soprattutto vegetale che raccoglievano nel loro ambiente. Generalmente i lavori su tale argomento si basano sulle due traduzioni del De materia medica di Dioscuride con l'appoggio dottrinale del Kitāb fī ma῾rifat quwā 'l-adwiya al-murakkaba (Libro sulla conoscenza dell'efficacia dei medicamenti composti) di al-Kindī (m. 870 ca.). Ibn Ǧulǧul, già menzionato come storico, è autore di uno dei primi testi andalusi sui medicinali semplici, che risale allo stesso periodo della versione cordovana del De materia medica di Dioscuride, la Maqāla ṯāmina naḏkuru fī-hā mā qaṣṣara Diyusqūrīdūs ῾an ḏikri-hi fī kitābi-hi mimmā yusta῾malu fī ṣinā῾at al-ṭibb wa-yuntafa῾u bi-hi wa-mā lā yusta῾malu wa-lākin lā nuġfilu ḏikra-hu (Trattato ottavo in cui si menzionano i medicinali che Dioscuride non citò nel suo libro e che si impiegano nella scienza medica e sono utili e quelli che non si impiegano ma che noi non tralasciamo), nel quale sono menzionati 62 prodotti non contemplati da Dioscuride "o perché non li aveva visti o perché i suoi contemporanei non li usavano nella loro terra" (Ibn Abī Uṣaybi῾a, ῾Uyūn al-Anbā ᾽fī ṭabaqāt al-aṭibbā᾽, ed. Jahier, p. 40).
Tra gli autori andalusi che si dedicarono agli studi sui medicinali spiccano i nomi di Abū Bakr Ḥāmid ibn Samaǧūn, vissuto anch'egli a Cordova nella seconda metà del X sec., autore del Kitāb al-ǧĀmi῾ li-'l-adwiya al-mufrada (Libro completo dei medicinali semplici), le cui fonti si trovano in Dioscuride, Galeno, Oribasio e Abū Ḥanīfa Aḥmad al-Dīnawarī; e del toledano Ibn Wāfid al-Laḫmī, che scrive il Kitāb al-Adwiya al-mufrada (Libro dei medicinali semplici), visibilmente ispirato al Kitāb al-ǧĀmi῾ di Ibn Samaǧūn. Ibn Wāfid segue il criterio della dottrina dei gradi nella classificazione dei medicinali. Tale dottrina consisteva nel confrontare i presupposti gradi di umidità dei medicinali, secchezza, freddezza, ecc., con i gradi delle diverse malattie, determinati in modo altrettanto empirico (umidità, calore, ecc.). La sua opera, tradotta in latino da Gherardo da Cremona nella Toledo del XII sec., e anche in catalano, ebbe una vasta diffusione nel mondo scientifico occidentale e a noi sono pervenute diverse edizioni della versione latina ampiamente citata. Un altro autore vissuto a Saragozza tra l'XI e il XII sec. è Yūsuf ibn Isḥāq al-Isrā᾽īlī ibn Biklāriš, di origine ebraica, che ha scritto un testo dedicandolo ad Abū Ǧa῾far al-Musta῾īn, sovrano della taifa di Saragozza tra il 1085 e il 1110, noto con il titolo di Kitāb al-Musta῾īnī (Libro dedicato ad al-Musta῾īn) e costruito in forma di quadri sinottici, sul modello dei tacuina sanitatis. Al XII sec. appartiene anche il medico e filosofo Abū 'l-Ṣalt Umayya al-Andalusī, autore del Kitāb al-Adwiya al-mufrada (Libro dei medicinali semplici), tradotto in latino dal poligrafo, filosofo, teologo e medico valenzano Arnaldo da Villanova e in ebraico da Yehûdāh ben Šelōmōh Nātān. Meno fortuna ebbe l'opera del filosofo e medico di Saragozza Avempace, il Kalām fī 'l-nabāt (Discorso sulle piante); mentre il Kitāb al-Adwiya al-mufrada del cordovano Abū Ǧa῾far Aḥmad al-Ġāfiqī (m. 1164) fu tradotto da Abū 'l-Faraǧ (Bar Hebraeus) nel XIII secolo.
Senza dubbio però la massima figura della farmacologia islamica è Ḍiyā᾽ al-Dīn Abū Muḥammad ῾Abd Allāh ibn Aḥmad, più noto come Ibn al-Bayṭār (1197-1248), probabilmente l'unico grande scienziato andaluso del XIII sec. e chiaro esempio di emigrazione scientifica. Ibn al-Bayṭār dedica gran parte della sua vita al lavoro sul campo, raccogliendo e studiando le piante nell'Andalus, nell'Africa del Nord e in Egitto. Infatti nel suo testo Kitāb al-ǧĀmi῾ li-'l-mufradāt al-adwiya wa-'l-aġḏiya (Libro completo sui medicinali semplici e gli alimenti), figura il maggior numero di alimenti e medicinali di tutto il Medioevo ‒ più del doppio di quelli a suo tempo riuniti da Dioscuride ‒, ordinati alfabeticamente e con incluse pratiche terapeutiche di tipo magico-religioso. La necessità di identificare correttamente ogni vegetale obbliga l'autore a descriverne minuziosamente le caratteristiche (radice, foglie, fiori, frutti, e così via), contribuendo in questo modo ad accrescere notevolmente le conoscenze anche nel campo della botanica. Quest'opera si è avvalsa del contributo di numerosi lavori precedenti alla sua epoca e ha avuto un'enorme diffusione nel mondo islamico, come provano gli oltre ottanta manoscritti giunti sino a noi; tuttavia, soltanto nel XVII sec. è tradotta in latino da Antoine Galland (1646-1715) ma il suo successo sarà limitato rispetto ai trattati rinascimentali che introducevano droghe esotiche giunte dall'America e dall'Asia.
Contrariamente all'abbondanza di autori che si dedicano alla terapia medica, l'unico cultore della chirurgia è il già citato al-Zahrāwī, la cui influenza, decisiva nella medicina scolastica, sarà tuttavia minore in quella islamica. Nel capitolo 30 del Kitāb al-Taṣrīf, che occupa quasi un terzo dell'intera opera, egli affronta tutte le questioni mediche che richiedono il ricorso alla chirurgia: la prima parte del capitolo tratta delle malattie per le quali è raccomandato l'uso del cauterio; la seconda quelle per le quali è opportuno ricorrere ad altri strumenti chirurgici, che sono descritti graficamente; la terza e ultima raccoglie i consigli su come trattare lussazioni e fratture. Questa parte del trattato venne tradotta in latino a Toledo, nel XII sec., sotto il patrocinio dei vescovi della città, da Gherardo da Cremona e ha conosciuto una vasta diffusione: vi sono, infatti, una dozzina di manoscritti arabi e la versione latina intitolata Abulcasis methodus medendi, cum instrumentis ad omnes fere morbos depictis ha avuto diverse edizioni.
Per quanto concerne la prevenzione delle malattie, l'autore che l'affronta con maggior successo ‒ a eccezione di Ibn Zuhr e Averroè, i quali però non dedicano all'argomento alcuna opera monografica ‒ è Maimonide, nato nel quartiere ebraico di Cordova nell'anno 1135 da una famiglia di giudici. Con l'arrivo della dinastia degli Almohadi le minoranze ebraica e mozarabica non hanno molte alternative alla conversione all'Islam, se non quella di emigrare verso altre terre: Castiglia o Aragona per i cristiani e il Sud dell'Europa o l'Africa del Nord per gli ebrei. Tra il 1148 e il 1157 la famiglia di Maimonide si trova quindi ad Almería, temporaneamente occupata dall'esercito castigliano, ma una volta riconquistata dai musulmani è costretta ad abbandonarla e tra il 1157 e il 1160 si trasferisce in due dei principali quartieri ebraici del Sud dell'Andalus: Lucena e Granada. È forse allora che nasce l'amicizia con la famiglia dei Tibbōn (Yôsēf, Yehûdāh, Šemû᾽ēl e Mōšeh ibn Tibbōn), originari di Granada, noti per il loro lavoro di traduzione di opere scientifiche. Dopo un breve soggiorno a Fez, la famiglia Maymūn decide di imbarcarsi per la Palestina, in seguito all'uccisione del maestro di Maimonide, che si era rifiutato di rinnegare la propria religione. Trascorso un periodo a Gerusalemme e a Hebron, si dirigono in Egitto, prima ad Alessandria, poi definitivamente a Fustat, vicino alla nuova città del Cairo. Verso il 1175 Maimonide, dedito sino ad allora esclusivamente ad attività intellettuali e religiose, è costretto a intraprendere una professione remunerata poiché la sua famiglia, che si occupava di commercio, è in rovina; sceglie così di praticare la medicina, fatto sorprendente, in quanto non risulta che abbia ricevuto alcuna formazione in questa materia. Nel 1185 circa, Maimonide, che ha cinquant'anni, è nominato medico di al-Fāḍil al-Baysānī, visir di Ṣalāḥ al-Dīn Yūsuf ibn Ayyūb, il noto Saladino (r. 1169-1193), sultano d'Egitto e Siria, e poi di al-Afḍal Nūr al-Dīn ῾Alī, figlio maggiore del sultano, nominato re d'Egitto. Egli svolge in quest'epoca una febbrile attività assistenziale, descritta in una lettera al suo amico Šemû᾽ēl ibn Tibbōn nel 1199, pochi anni prima della morte:
Devo rendere visita al re giornalmente, la mattina presto, ma quando sta male, o se una delle sue concubine o uno dei suoi figli si ammala non oso lasciare il Cairo e sono costretto a rimanere la maggior parte della giornata nel palazzo […]. Così di solito mi reco al Cairo la mattina presto e non ritorno a Fustat prima di mezzogiorno, morto di fame […]. Trovo la sala d'attesa di casa mia piena di gente, ebrei e non ebrei, importanti e non importanti […]. Mi lavo le mani, mi dirigo dai miei pazienti e prego loro di aspettare mentre prendo un leggero rinfresco, l'unico pasto della giornata. Ricevo i pazienti, scrivo le ricette e fornisco istruzioni per i loro disturbi. I pazienti continuano a entrare e uscire sino al tramonto e talvolta fino a due ore dopo il tramonto […]. Quando cala la notte sono così esausto che a malapena riesco a parlare. (Romano 1986, pp. 26-27)
Maimonide muore a Fustat nel 1204, all'età di sessantanove anni; la sua tomba a Tiberiade tutt'oggi accoglie testimonianze di rispetto da tutti gli ebrei, fra i quali è diffusa l'affermazione, di probabile origine medievale, documentata dal 1524: "Da Mosè [il profeta] a Mosè [ibn Maymūn] non vi fu altro Mosè". Tra le opere di medicina redatte da Maimonide negli ultimi venti anni della sua vita, emergono il Kitāb al-Fuṣūl fī 'l-ṭibb o Fuṣūl Mūsā (Libro degli aforismi medici o Aforismi di Mosè), scritto tra il 1187 e il 1190; la Risāla al-afḍaliyya fī tadbīr al-ṣiḥḥa (Epistola dedicata ad al-Afḍal sul regime di salute) del 1198; il Kitāb al-Sumūm wa-'l-mutaḥarriz min al-adwiya al-qattāla (Libro sui veleni e la prevenzione contro i medicinali mortali), della stessa epoca; la Maqāla fī bayān al-a῾rāḍ (Trattato sulla spiegazione dei sintomi) del 1200, scritto anche questo per al-Afḍal Nūr al-Dīn ῾Alī il quale soffriva di melancolia. La Risāla al-afḍaliyya è un'opera della maturità ed è lo stesso autore a informarci che è dedicata ad al-Afḍal al fine di sollevarlo dai suoi problemi di salute; tuttavia alcune parti del trattato non sono in rapporto diretto con le malattie del sovrano. Esso include, infatti, un breve capitolo sulla cura della salute di persone di ogni tipo, considera il problema del trattamento dei malati nei luoghi dove non ci sono medici, e presenta alcuni consigli utili per persone sia sane sia malate. L'opera è tradotta in ebraico da Mōšeh ibn Tibbōn nel 1244, mentre nel 1290 Armengaud de Blaise realizza a Montpellier una traduzione in latino a partire dall'originale arabo, e ciò prova la presenza del trattato di Maimonide nel Sud della Francia in epoca non molto tarda. Esiste, inoltre, una seconda versione latina, questa volta a partire dalla traduzione ebraica, a opera dell'ebreo convertito Juan de Capua. Vi sono almeno nove edizioni stampate di quest'opera di Maimonide che risalgono al XIV-XV sec.; parte del primo capitolo del trattato si trova anche in appendice a diverse edizioni del Kitāb al-Taysīr di Ibn Zuhr, probabilmente perché le due versioni erano opera dello stesso traduttore, Juan de Capua.
La medicina nel Regno di Granada (XIV e XV sec.)
La figura di maggior rilievo della medicina del XIV sec. è Muḥammad ibn ῾Abd Allāh ibn al-Ḫaṭīb Lisān al-Dīn (1313-1374), nato a Loja, vicino Granada, e morto assassinato in una prigione di Fez per ordine del sovrano. Oltre a esercitare l'attività di medico fu anche politico, storico e letterato: è uno dei grandi ḥukamā᾽ (dotti) andalusi e senz'altro il più illustre del Regno di Granada. Nella sua opera medica si distingue un voluminoso trattato, il Kitāb ῾Amal man ṭabba li-man ḥabba (Libro della pratica medica per chi lo desideri), di cui si conservano quattro manoscritti; è diviso in due parti: la prima, di venti capitoli, tratta le malattie dei vari organi a capite ad calcem; la seconda, in quattordici capitoli, le malattie dell'intero organismo, come la febbre e i traumi. Due capitoli sono dedicati alle malattie della pelle e alla cosmetica. Sugli aspetti relativi alla prevenzione Ibn al-Ḫaṭīb scrive il Kitāb al-Wuṣūl li-ḥifẓ al-ṣiḥḥa fī 'l-fuṣūl (Libro della cura della salute durante le stagioni dell'anno), redatto tra il 1368 e il 1371 a Granada e dedicato al sultano Muḥammad V. Si tratta di un ampio studio sull'impiego dei diversi mezzi per la prevenzione delle malattie, le cosiddette 'sei cose necessarie', una per ognuna delle diverse costituzioni dell'uomo e a seconda delle stagioni dell'anno. Questi sei elementi sono: aria e ambiente, cibo e bevande, sonno e veglia, movimento e riposo, replezione ed evacuazione, moti dell'animo. Circa le costituzioni, ve n'è una equilibrata più altre quattro, a seconda dell'umore predominante. Il testo, diviso in due parti, la prima di carattere teorico e la seconda pratico, è il trattato sull'igiene più completo del Medioevo ispanico, islamico e latino, a eccezione forse della Sevillana medicina di Giovanni d'Avignone (XIV sec.); è senza dubbio superiore alla Risāla al-afḍaliyya di Maimonide, al Régimen de salud di Arnaldo da Villanova e alla Medicina real de Castilla, di un ignoto ebreo castigliano del XIV sec., come pure al Menor daño de la medicina di Alonso Chirino, autore del XV secolo.
Condiscepolo di Ibn al-Ḫaṭīb è Abū ῾Abd Allāh Muḥammad ibn ῾Alī al-Laḫmī al-Šaqūrī, medico del sultano Yūsuf I, nato a Segura de la Sierra (Jaén) o a Segura (Murcia) nel 1326. Egli lascia Granada, probabilmente a causa dei tumulti che agitano il Regno, e si reca nell'Africa del Nord; intorno al 1369 è a Tlemcen, nell'attuale Algeria, ma non si conoscono né il luogo né l'anno della sua morte. Tra le sue opere spiccano la Maqāla fī 'l-ṭibb min ra᾽s al-insān ilā 'l-qadam (Trattato di medicina del corpo umano dalla testa ai piedi) e il Kitāb Tuḥfat al-mutawassil wa-rāḥat al-muta᾽ammil (Libro del regalo per chi cerca aiuto e del riposo per chi riflette), che consta di tre parti: la prima è incentrata sul processo digestivo e i disturbi dello stomaco; la seconda sulle malattie che provocano diarrea; infine, la terza sulle precauzioni da osservare con gli anziani, che tuttavia non presenta grande interesse poiché si limita a un commento dei passi dedicati da Avicenna a questo argomento nel Canone.
I principî dell'alimentazione sono contenuti nel Kitāb al-Aġḏiya (Libro degli alimenti) di Abū Bakr ῾Abd al-῾Azīz ibn Muḥammad ῾Abd al-῾Azīz ibn Aḥmad al-Arbūlī al-Anṣārī che, come indica il nome, nacque probabilmente ad Arboleas, Almeria, nel XIV o XV secolo. L'opera, di cui restano due manoscritti, consta di nove capitoli nei quali l'autore tratta degli alimenti utili all'uomo: cereali e legumi, carne (tranne il maiale), pesce, spezie, frutta, e così via. Per ogni alimento sono indicati i condimenti che lo rendono più saporito e la maniera più appropriata di cucinarlo.
Il regno dei Nasridi trova uno straordinario cultore di chirurgia in Muḥammad ibn ῾Alī ibn Faraǧ al-Fihrī al-Qirbilyānī, più noto come Muḥammad al-Šafra (m. 722/1322). Per un certo periodo egli pratica quest'arte artigianalmente, ma poi si reca a Valenza, dove, nonostante dal 1238 la città sia stata conquistata dal cristiano Jaime I d'Aragona, ha la possibilità di ricevere una formazione sulla materia, e in particolare sull'opera di Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī; tornato nella sua terra, quando anche qui arrivano le truppe della Corona d'Aragona si dirige verso il Regno di Granada, ultimo baluardo dell'Islam nella penisola. È medico del sultano detronizzato dei Nasridi, Abū Yūsuf, recluso nella fortezza di Guadix dal 1310, poi, alla morte di questi, si stabilisce a Granada, benché non indugi a recarsi laddove siano necessari i suoi servizi. Al-Šafra è autore del Kitāb al-Istiqṣā᾽ wa-'l-ibrām fī-῾ilāǧ al-ǧirāḥāt wa-'l-awrām (Libro sulle indagini e le conclusioni riguardanti la cura delle ferite e dei tumori), di cui esistono due manoscritti. Il testo è diviso in tre parti: la prima tratta delle eruzioni e dei tumori e segue alla lettera le idee galeniche sull'argomento; nella seconda parte, più originale e aperta all'influenza di al-Zahrāwī, sono raccolte le sue esperienze di chirurgo circa le ferite, ordinate a capite ad calcem, le lussazioni e le fratture, esposte con l'aiuto di molti interessanti casi clinici; la terza parte, come la prima priva di contributi originali, descrive i medicinali semplici e composti da utilizzarsi in forma isolata o congiuntamente alle operazioni chirurgiche nelle malattie descritte precedentemente.
Sulla terribile epidemia di peste che devasta l'Andalus nel 1348 alcuni medici scrivono importanti trattati: Ibn al-ḫaṭīb è autore del Kitāb al-Muqni῾ al-sā᾽il ῾an al-maraḍ al-hā᾽il (Libro che soddisfa colui che interroga circa la terribile malattia), di cui resta un solo manoscritto, conservato nella Biblioteca dell'Escorial; Muḥammad al-Šaqūrī scrive il Kitāb Taḥqīq al-nabā᾽ ῾an amr al-wabā᾽ (Libro dell'informazione precisa sull'epidemia), andato perduto, di cui ci è giunto però un riassunto dello stesso autore, intitolato Naṣīḥa (Buon consiglio); Muḥammad ibn Abī 'l-῾āṣī al-Andalusī scrive una Risāla fī taḥqīq al-wabā᾽ (Epistola sull'accertamento della peste), della quale si conserva un unico manoscritto presso la Bibliothèque Nationale di Parigi; mentre il testo più completo sull'argomento è il Kitāb Taḥṣīl ġaraḍ al-qāṣid fī tafṣīl al-maraḍ al-wāfid (Libro che raggiunge l'obiettivo di suddividere la malattia epidemica) di Abu Ǧa῾far Aḥmad ibn ῾Alī ibn Muḥammad ibn ῾Alī ibn Ḫātima al-Anṣārī (1324-1369). Questi trattati costituiscono la testimonianza di come la medicina svolgesse un ruolo fondamentale nel Regno di Granada, poiché nei regni cristiani limitrofi, benché colpiti anch'essi dallo stesso flagello della peste, non esistono trattati sull'argomento tranne quello di Jaime d'Agramont, scritto anch'esso nel 1348 in catalano.
Nonostante la ricchezza scientifica della medicina nel Regno di Granada, queste opere ebbero una scarsa diffusione; l'esiguo numero di manoscritti arabi rimasti lascia pensare, infatti, che tali scritti a malapena raggiunsero l'Africa del Nord. Anche l'Occidente ignorò completamente questi trattati, come dimostra il fatto che non sono stati tradotti in epoca medievale. Gli studiosi latini del XIV e XV sec. volsero la loro attenzione a una notevole quantità di autori musulmani illustri, quali al-Maǧūsī, al-Rāzī, Avicenna, al-Zahrāwī, Ibn Zuhr e Averroè i cui testi erano già stati tradotti, tralasciando così le opere degli autori di Granada che erano in lingua originale e quindi di ardua lettura.
di Danielle Jacquart
La notorietà di alcuni autori musulmani, che con le loro opere hanno svolto un ruolo di primo piano nello sviluppo della medicina europea, contrasta con il carattere molto limitato della trasmissione in latino dei loro scritti, infatti, su un totale di circa mille testi medievali soltanto una quarantina furono tradotti. I motivi sono in parte da ricercare in circostanze storiche estranee agli interessi scientifici. L'esecuzione delle traduzioni in latino avveniva in gran parte nell'Europa cristiana e dipendeva fortemente dalla disponibilità dei manoscritti e dalle possibilità di apprendimento della lingua araba. Il processo di trasmissione ebbe luogo nelle aree che erano state soggette al dominio musulmano o che erano legate ai paesi arabi per ragioni commerciali o politiche; il fenomeno della traduzione è stato perciò condizionato dalle sorti dei conflitti e dalle diverse fasi della riconquista cristiana. L'Europa medievale non conobbe le opere mediche redatte nell'Oriente islamico dopo l'XI sec.: ῾Alī ibn Riḍwān (m. 460/1068) e i suoi contemporanei Ibn Buṭlān e Ibn Ǧazla (m. 493/1100) furono gli ultimi rappresentanti della medicina orientale a essere tradotti in latino. Per quanto riguarda al-Andalus, dovette trascorrere più di un secolo perché i nomi di Averroè e di Abū Marwān ibn Zuhr acquisissero una certa notorietà nel mondo della medicina latina e con gli scritti di questi autori si può considerare chiusa l'opera di traduzione dall'arabo.
Le circostanze cronologiche e geografiche della presenza musulmana in Europa, tuttavia, non bastano da sole a spiegare tutte le lacune della trasmissione; infatti, soltanto un piccolo numero delle opere elaborate in Oriente prima del XII sec. o nell'Occidente arabo prima del XIII sec. furono tradotte in latino: dei testi compilati da ῾Alī ibn Riḍwān, per esempio, unicamente il commento all'Ars medica di Galeno conobbe una versione latina, eseguita a Toledo da Gherardo da Cremona. Con ogni probabilità non si trattò di una scelta casuale: l'interpretazione di ῾Alī ibn Riḍwān gettava una nuova luce su un testo galenico conosciuto e commentato nel mondo latino sin dall'Alto Medioevo e si iscriveva in una tradizione ben definita, contribuendo, allo stesso tempo, a innovarla. La trasmissione in latino dei testi arabi, sia se faceva parte di un più vasto movimento di traduzione sia se era frutto di iniziative individuali, fu condizionata dagli interessi specifici dello sviluppo dell'insegnamento medico nell'Occidente cristiano. Soltanto sulla scia dell'Umanesimo rinascimentale si iniziò a riconoscere un valore autonomo alle opere arabe, fino ad allora sfruttate come fonti di informazioni immediatamente assimilabili.
La ricostruzione di un sapere medico: Costantino l'Africano e Gherardo da Cremona
La prima fase del processo di diffusione nel mondo latino dei testi medici arabi ebbe luogo nell'Italia meridionale durante la seconda metà dell'XI secolo. Più ancora delle incursioni arabe nel Sud della Penisola, che caratterizzarono il IX e il X sec., o dell'occupazione musulmana della vicinissima Sicilia (827-1072) ‒ terminata con la riconquista normanna ‒, furono proprio le condizioni culturali della regione a favorire tale processo. In Italia, la cultura bizantina, nonostante gli incessanti conflitti con le autorità di Costantinopoli, era stata profondamente assimilata, e soprattutto a Napoli e a Salerno era diffuso l'esercizio di pratiche mediche laiche; inoltre, l'uso corrente del greco e del latino, come pure la trascrizione e la circolazione dei manoscritti greci, avevano creato un'apertura verso interessi simili a quelli attestati dalla medicina araba: non a caso la prima fase della trasmissione di testi arabi si svolse in osmosi con la rinascita della letteratura e della cultura greche.
Il monastero benedettino di Montecassino offriva una cornice istituzionale favorevole a tale sviluppo: l'abate Desiderio (1058-1087), sensibile alla rinascita della cultura greca, aveva aperto le porte del monastero agli studiosi bizantini e insieme all'arcivescovo di Salerno, Alfano (m. 1085), che aveva acquisito una certa competenza nel campo della medicina e sapeva tradurre dal greco, incoraggiò l'attività di Costantino l'Africano. Originario di Cartagine, musulmano convertito e mercante secondo alcune fonti, cristiano e profondo conoscitore della medicina secondo altre, Costantino, dopo essere stato legato tra il 1077 e il 1078 ad alcuni principi normanni, si stabilì nel monastero di Montecassino, dove morì in una data imprecisata, non molto posteriore al 1087. Nel caso di Costantino, la scelta dei testi da tradurre in latino e il metodo impiegato furono influenzati dall'origine del traduttore e dal suo tentativo di inserire le novità importate dalla medicina araba nella cornice greco-latina tipica dell'Alto Medioevo italiano. Una parte dei testi tradotti da Costantino proveniva, in effetti, dall'Africa del Nord e, in particolare, da Qairawan (Tunisia), dove era stata fiorente nel X sec. un'intensa attività medica. Egli rese così accessibile in latino il trattato sulla malinconia di Isḥāq ibn ῾Imrān, i testi su Le febbri, Le urine e Le diete universali e particolari tratti dalle opere di Isḥāq al-Isrā᾽īlī (noto nella tradizione latina come Isaac Israeli) e una serie di opere di Ibn al-Ǧazzār, tra le quali figura il celebre Kitāb Zād al-musāfir (Libro delle provviste del viaggiatore o Viaticum), uno studio ben strutturato delle malattie e dei loro metodi di trattamento. Costantino dimostrò una spiccata propensione per la medicina greca e in particolare per il galenismo, come si evince dalla scelta di tradurre due testi, l'Isagoge Iohannitii ad Tegni Galeni e l'enciclopedia di ῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī, che avrebbero esercitato un'influenza decisiva sullo sviluppo della medicina europea. La prima, una sintesi del Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb (Libro delle questioni sulla medicina) di Ḥunayn ibn Isḥāq (808-873), aveva il vantaggio di ricollegarsi alla tradizione didattica tardo-alessandrina di cui i medici cristiani avevano potuto cogliere l'eco in alcuni commenti alle opere di Galeno e agli Aforismi di Ippocrate redatti in latino, forse a Ravenna tra il V e il VI sec.; le tracce di questa tradizione sono individuabili anche in alcune opere latine di carattere didattico, erroneamente attribuite a Sorano di Efeso. La seconda, l'enciclopedia di al-Maǧūsī, completava il sapere teorico riconducibile a questo orientamento e forniva nello stesso tempo una serie di informazioni su ogni tema utile all'apprendimento della medicina. Come in tutte le opere tradotte da Costantino l'Africano, a eccezione di quelle di Isḥāq al-Isrā᾽īlī, anche in quest'ultima non era indicato il nome del vero autore; tuttavia, il titolo greco-latino, Pantegni (Tutta l'arte), rendeva piuttosto fedelmente l'arabo Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica). La parte teorica dell'opera era tradotta integralmente, mentre di quella pratica erano riportati soltanto i Libri I e II, entrambi dedicati alla conservazione della salute, il IX sulla chirurgia e il X sui medicamenti composti. Gli altri libri della sezione pratica del Pantegni furono ricomposti dopo la morte di Costantino l'Africano, combinando tra loro una serie di frammenti tratti da altre opere già tradotte dall'arabo, tra cui, il Kitāb Zād al-musāfir di Ibn al-Ǧazzār.
Queste prime traduzioni, di cui era discretamente dissimulata l'origine araba, circolarono per lo più sotto il solo nome del loro traduttore e possono considerarsi adattamenti poiché il pensiero degli autori era ridotto in forma sintetica e si limitava all'essenziale. L'infedeltà di queste versioni contribuì certamente al loro successo, dal momento che l'inserimento delle nuove informazioni in una cornice conosciuta ne facilitava la comprensione. L'oblio del greco in gran parte dell'Europa cristiana aveva considerevolmente ridotto il numero delle conoscenze mediche disponibili. Le traduzioni di Costantino l'Africano, oltre a fornire una serie di informazioni utili sull'anatomia e sulla farmacopea, proponevano un sistema fisiologico coerente e indicavano le basi teoriche necessarie a ricostruire una scienza medica fondata sui principî della filosofia della Natura. Su questo corpus di testi arabi si basarono gli insegnamenti medici impartiti a Salerno nella seconda metà del XII sec. da maestri la cui fama si diffuse anche nei paesi dell'Europa settentrionale, in Francia, in Inghilterra e nei paesi germanici. Inoltre, a partire dalla prima metà del XII sec., gli elementi di fisica contenuti nelle traduzioni di Costantino l'Africano svolsero il ruolo di una filosofia della Natura, in un'epoca in cui le opere di Aristotele e dei filosofi arabi non erano ancora conosciute.
Raggiunto ormai un significativo corpus di testi arabi tradotti in latino, la medicina, contrariamente ad altre discipline, nel corso della prima metà del XII sec. non si arricchì di nuove traduzioni, anche se non vanno dimenticate una seconda versione latina, in questo caso completa e fedele, del compendio di al-Maǧūsī, noto in latino come Liber regius, eseguita nel 1127 da Stefano di Pisa o di Antiochia, e la traduzione anonima, probabilmente realizzata da un traduttore italiano, dei Nawādir al-ṭibbiyya (Aforismi medici) di Yūḥannā ibn Māsawayh (Aphorismi Iohannis Damasceni). Una seconda stagione nell'attività di traduzione si apre a partire dal 1157 ca., quando Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187) si stabilì a Toledo e dedicò ampio spazio alla medicina. Il raffronto tra l'elenco delle traduzioni di Gherardo da Cremona compilato dai discepoli o colleghi dopo la sua morte, e il quadro delle opere arabe delineato poco prima della riconquista cristiana di Toledo (1085) da Ṣā῾id al-Andalusī nel Kitāb ṭabaqāt al-umam (Libro delle categorie delle nazioni), lascia chiaramente intravedere l'esistenza di una linea di continuità all'interno di una cultura che si potrebbe definire 'toledana'.
Di al-Rāzī, che Ṣā῾id considera "il piū grande medico arabo", Gherardo da Cremona tradusse secondo i suoi discepoli il Kitāb al-Manṣūrī (Libro dedicato ad al-Manṣūr, Liber Almansorius), il Kitāb Taqsīm al-῾ilal wa-'l-tašǧīr (Libro delle divisioni delle malattie, Liber divisionum) e il Kitāb al-Mudḫal ilā ṣinā῾at al-ṭibb (Introduzione alla medicina, Liber introductorius in medicina parvus). Tra le opere degli autori orientali vissuti prima dell'XI sec. tradotti da Gherardo figurano anche il Kunnāš di Yūḥannā ibn Sarābiyūn (Breviarium Iohannis Serapionis) e il Kitāb fī ma῾rifat quwā 'l-adwiya al-murakkaba (Libro sulla conoscenza dell'efficacia dei medicamenti composti, in latino noto come De gradibus Iacob Alkindi) di Ya῾qūb ibn Isḥāq al-Kindī. Egli tradusse anche due trattati di Isḥāq al-Isrā᾽īlī, non inclusi fra le traduzioni di Costantino l'Africano, di contenuto più filosofico che medico: il Kitāb al-Isṭaqisāt (Degli elementi, De elementis) e il Kitāb al-ḥudūd wa-'l-rusūm (Delle definizioni e denominazioni, De descriptione rerum et definitionibus earum). Le traduzioni di Gherardo comprendono inoltre due opere redatte nella Spagna musulmana tra il X e l'XI sec.: il Libro XXX, sulla chirurgia, del Kitāb al-Taṣrīf di al-Zahrāwī (Liber Azaragui de cirurgia, successivamente divenuto noto con il titolo di Chirurgia Abulcasis o Albucasis) e il Kitāb al-Adwiya al-mufrada (Libro dei medicamenti semplici) di Ibn Wāfid al-Laḫmī. Infine, gli si deve anche la traduzione di due importanti opere redatte nell'Oriente musulmano che non sono però citate da Ṣā῾id nel suo prospetto: il commento di ῾Alī ibn Riḍwān all'Ars medica di Galeno, troppo recente perché il qāḍī toledano ne fosse a conoscenza, e il Canone di Avicenna, omissione quest'ultima da parte di Ṣā῾id certamente più significativa rispetto alla precedente. La versione latina del Canone eseguita da Gherardo da Cremona fu di poco successiva alla sua introduzione in Spagna: sembra, infatti, che un mercante proveniente dall'Iraq ne offrì in dono una copia ad Abū 'l-῾Alā᾽ Zuhr (m. 1131), il quale non ne apprezzò molto il contenuto; non vi è alcuna testimonianza che dimostri, prima di questa data, la circolazione del Canone in Spagna.
Dopo il contributo decisivo delle traduzioni di Gherardo da Cremona, la trasmissione in latino dei testi medievali arabi proseguì, anche se in condizioni profondamente mutate: non si trattava più di rendere accessibili vasti corpora, ma di far conoscere opere che rispondevano a esigenze specifiche. Oltre alla traduzione integrale del Kitāb al-Masā ᾽il fī 'l-ṭibb di Ḥunayn ibn Isḥāq, eseguita a Murcia da Rufino di Alessandria e la versione latina della Maqāla fī sirr ṣinā῾at al-ṭibb (Segreti della medicina, De secretis medicinae) di al-Rāzī, realizzata dal domenicano portoghese Gilles de Santarem, la seconda metà del XIII sec. fornì una serie di testi fondamentali ai medici europei. Il pensiero medico di Averroè fu reso noto sia dal Kitāb al-Kulliyyāt fī 'l-ṭibb, tradotto in latino a Padova nel 1285 da un erudito ebreo chiamato Bonacosa, sia dal suo commento alla Urǧūza fī 'l-ṭibb (Poema sulla medicina, Cantica in medicina) di Avicenna, tradotto un anno prima da Ermengaldo Blasii a Montpellier. Inoltre, lo zio acquisito di quest'ultimo, il celebre medico Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.), aveva sfruttato la sua conoscenza dell'arabo per tradurre l'opuscolo di Avicenna sui rimedi cordiali e il testo sui medicamenti semplici di Abū 'l-Ṣalt Umayya (1068-1134). Con quest'ultima opera, che indicava le qualità delle sostanze medicamentose semplici, Arnaldo da Villanova intendeva probabilmente completare il quadro delle informazioni necessarie alla valutazione dei gradi di intensità delle qualità che caratterizzavano i composti farmaceutici, riguardo alla quale egli proponeva un sistema di calcolo nei suoi Aphorismi de gradibus, ispirati all'opuscolo di al-Kindī tradotto da Gherardo da Cremona.
Tuttavia, l'impresa più rilevante della seconda metà del XIII sec. fu la traduzione latina integrale del Kitāb al-ḥĀwī (Liber continens) di al-Rāzī, realizzata grazie all'impegno di un erudito ebreo, originario di Agrigento, Faraǧ ben Sālim, e al sostegno del re di Sicilia, Carlo d'Angiò, fratello di san Luigi. Nel 1279 la traduzione fu portata a termine e nel 1282 il sovrano ricevette la sua copia, costituita da cinque volumi sontuosamente illustrati. Le traduzioni eseguite negli ultimi anni del XIII sec. sono accomunate da un orientamento pratico e dal fatto di essere state realizzate grazie alla collaborazione di ebrei eruditi, che in alcuni casi tradussero direttamente dall'arabo, in altri invece si servirono di versioni ebraiche. Tra i lavori più noti spiccano: il Kitāb al-Taysīr fī 'l-mudāwāt wa-'l-tadbīr (Libro della semplificazione sulla terapeutica e la dietetica), del medico andaluso Ibn Zuhr; il Taqwīm al-ṣiḥḥa (Almanacco della salute o Tacuinum sanitatis), una ricapitolazione delle regole da seguire per conservare la salute, presentata in forma di tavole da Ibn Buṭlān; il suo pendant sul trattamento delle malattie redatto da Ibn Ǧazla; e il Libro XXVIII dell'enciclopedia medica di al-Zahrāwī, in cui è descritta la preparazione dei composti farmaceutici (Liber servitoris). Il XIV sec. segnò la momentanea interruzione del processo di trasmissione in Occidente dei testi medici arabi: l'attenzione di coloro che erano interessati a questa disciplina si era infatti rivolta agli originali greci di Galeno.
La medicina araba e l'insegnamento universitario
I medici che insegnavano nelle università medievali consultavano tutti i testi di origine araba finora citati, anche se in misura diversa; al tempo dell'istituzione delle prime Facoltà di medicina a Bologna, Parigi e Montpellier, per esempio, le traduzioni di Costantino l'Africano occupavano una posizione centrale nell'elenco dei testi obbligatori. Come dimostrano gli statuti promulgati tra il 1270 e il 1274 dalla Facoltà di medicina di Parigi, il corpus dei testi che i candidati alla licentia di questa università dovevano necessariamente conoscere era costituito dall'Isagoge Iohannitii, dai trattati di Isaac Israeli e dal Kitāb Zād al-musāfir di Ibn al-Ǧazzār, affiancati da alcune opere ippocratiche e galeniche e da due opuscoli di origine bizantina dedicati al polso e alle urine. Se il Pantegni, che aveva contribuito alla ricostruzione della scienza medica, cadde progressivamente in disuso dopo il XII sec., la seconda traduzione dell'enciclopedia di al-Maǧūsī riscosse, al contrario, un successo più duraturo, benché limitato. A partire dagli ultimi decenni del XIII sec., la traduzione di Gherardo da Cremona del Canone di Avicenna fu adottata come manuale all'università, malgrado la resistenza di alcuni magistri, tra cui Arnaldo da Villanova, che a Montpellier privilegiava la lettura diretta delle opere di Galeno nelle loro versioni latine. L'opera di Avicenna contribuì al rinnovamento della scienza anatomica occidentale, prima della traduzione del De usu partium di Galeno, eseguita da Niccolò da Reggio nel 1317. Il testo del Canone si prestava a essere diviso in lezioni universitarie: il primo fann (ambito) del Libro I, che consentiva di affrontare discussioni relative alle componenti della fisiologia, fu frequentemente commentato, soprattutto dai magistri italiani; e, inoltre, i capitoli del Libro I dedicati all'anatomia delle parti definite 'simili' od omogenee e le descrizioni degli organi riportate nel Libro III costituivano ancora la base dell'Anatomia redatta nel 1316 dal medico bolognese Mondino dei Liuzzi, il cui rinnovamento va cercato nella menzione che fa di dissezioni effettivamente eseguite su cadaveri umani. Benché fosse considerato un'utile fonte di informazioni in tutti i campi della medicina, il Canone non fu quasi mai commentato integralmente, fatta eccezione per Gentile da Foligno (m. 1348), un magister universitario italiano, che si cimentò nell'impresa; mentre il magister parigino Jacques Despars (m. 1458) compilò un vasto commento, limitato tuttavia al Libro I e al III, e al primo fann del Libro IV dedicato alle febbri.
Nel momento in cui le università europee si moltiplicarono e la Facoltà di medicina di Padova si assicurava una sorta di primato, gli statuti dell'Università di Bologna, promulgati nel 1405, sancirono lo status di manuale del Canone di Avicenna, sulle cui diverse sezioni erano basate le lezioni di teoria e pratica mediche impartite nel corso dei quattro anni di studio. Questi statuti menzionavano un lungo elenco di opere di Galeno, mentre per quanto riguarda gli autori arabi, oltre ad Avicenna citavano Averroè e una parte del suo Kitāb al-Kulliyyāt (Colliget), che rientrava nel programma degli ultimi due anni di studio di teoria medica. La diffusione di tale opera alla fine del XIII sec. segnò una svolta decisiva nello sviluppo della medicina occidentale: Averroè rimetteva in discussione le idee convenzionalmente adottate su una moltitudine di temi, obbligando i suoi lettori latini a considerare sotto una nuova luce le loro conoscenze. Le opinioni di Averroè (sul numero dei pneumata o 'spiriti', sulla definizione della febbre o sui meccanismi della generazione), benché non fossero quasi mai accettate integralmente, contribuirono tuttavia al rinnovamento, se non alla risoluzione, di molte questioni.
Al di là del loro specifico contributo su temi particolari, la lettura del Canone e del Kitāb al-Kulliyyāt accompagnò la riflessione degli studiosi occidentali sullo status scientifico della medicina e sui suoi rapporti con la filosofia. Avicenna e Averroè ponevano l'accento sulle finalità pratiche della medicina, rifiutando di attribuire al suo versante teorico una funzione esclusivamente speculativa. Nonostante fossero d'accordo su quest'ultimo punto, esisteva però tra i due autori una divergenza rilevante: secondo Avicenna, i medici, pur considerando acquisiti i fondamenti della loro dottrina fisiologica che rientravano nel campo della filosofia della Natura, dovevano dimostrare i propri principî in funzione delle relative applicazioni terapeutiche; la verità del medico quindi non poteva coincidere con quella del filosofo e ciò consentiva in alcune occasioni di ignorare gli insegnamenti di Aristotele a vantaggio delle proposizioni galeniche. Secondo Averroè, invece, i principî della medicina derivavano direttamente dalla filosofia della Natura e quindi non potevano essere in alcun modo 'adattati'. Se la soluzione di Avicenna aveva il vantaggio di garantire l'autonomia della scienza medica, la definizione di Averroè fu frequentemente adottata, alla fine del Medioevo, poiché assicurava ai maestri delle università lo status di 'filosofi', in virtù della conoscenza dei principî necessari all'arte medica e, allo stesso tempo, confermava la loro competenza pratica, nel momento in cui erano riusciti a imporsi nella vita urbana. Dalla poco fedele traduzione dell'enciclopedia di al-Maǧūsī alla tarda diffusione del Kitāb al-Kulliyyāt, la lettura dei testi degli autori arabi influenzò quindi la riflessione degli occidentali sulla posizione occupata dalla medicina sia a livello epistemologico sia nel campo della pratica quotidiana.
Per quanto riguarda invece al-Rāzī le traduzioni delle sue opere erano frequentemente studiate, ma non sempre figuravano nei programmi di studio ufficiali. Tuttavia, ancor prima che le traduzioni del Liber continens e del Secretum secretorum (fine del XIII sec.) giungessero a confermare le sue doti di 'grande sperimentatore', la reputazione di al-Rāzī si era già consolidata grazie a una serie di opere, spesso copiate insieme negli stessi manoscritti. Resta però incerta la data in cui iniziarono a circolare le prime traduzioni dei suoi lavori; grazie alle due versioni del testo contenute in alcuni manoscritti pervenutici, si sa che Gherardo da Cremona si accontentò di rivedere una precedente traduzione latina del Kitāb al-Manṣūrī. Rimane, inoltre, dubbia la paternità delle traduzioni di alcuni suoi brevi trattati, i cui titoli non figurano nell'elenco compilato dai discepoli di Gherardo da Cremona, come nel caso del trattato Awǧā῾ al-mafāṣil (Malattie delle articolazioni, De aegritudinibus iuncturarum); mentre l'opera intitolata Practica puerorum non può essere ricollegata a un preciso originale arabo. Non disponendo di una versione latina del Kitāb al-šukūk ῾alā Ǧālīnūs (Libro dei dubbi su Galeno), i medici occidentali videro in al-Rāzī soprattutto un abile pratico e ignorarono le sue doti di teorico. Soltanto Arnaldo da Villanova affermò, nel De intentione medicorum, che al-Rāzī conosceva Galeno meglio di Avicenna. Tra le opere di al-Rāzī quella che ebbe una più ampia diffusione fu il Kitāb al-Manṣūrī, il cui Libro II circolò in alcuni casi separatamente sotto la forma di trattato di fisiognomica. La stessa sorte toccò al Libro IX, che conteneva le descrizioni delle malattie che colpivano le diverse parti del corpo e che divenne oggetto di molti commenti, gli ultimi dei quali redatti nel XVI sec., anche da parte dell'anatomista Andrea Vesalio (1514-1564).
Il Kitāb al-Manṣūrī fu la sola opera medica di origine araba, insieme alla Chirurgia di al-Zahrāwī, a conoscere una diffusione in volgare e, in particolare durante il Medioevo, ebbe numerose traduzioni in francese parzialmente conservate; considerato un manuale di pratica, circolò anche al di fuori delle università, divenendo uno dei testi di riferimento dei chirurghi.
Infine, quattro opere di farmacopea raggruppate sotto il nome di Mesue il Giovane esercitarono una profonda influenza in Occidente a partire dalla fine del XIII secolo. Si tratta di un esempio di traduzioni latine non ricollegabili a un originale arabo: l'autore, soprannominato 'l'evangelista dei farmacisti', non sembra poter essere identificato con Yūḥannā ibn Māsawayh poiché il testo cita autori a lui posteriori. Queste opere latine arricchirono notevolmente il contributo arabo nel campo della conoscenza dei medicamenti e della loro azione, già ben rappresentato da numerose traduzioni. L'originalità di Mesue si rivela nel ruolo privilegiato assegnato alle manipolazioni e nell'individuazione di un genere di efficacia non riconducibile alle interazioni delle quattro qualità fondamentali (caldo, freddo, secco e umido). Nei suoi testi vi è l'eco delle teorie enunciate da Avicenna e, nel IV trattato o Grabadin, dedicato ai medicamenti composti, si rivela chiaramente il ricorso al Libro II del Canone. Alla fine del Medioevo e nel XVI sec., le quattro opere attribuite a Mesue furono interpretate in chiave alchemica e, dal momento che a esse non è associato il nome di alcun traduttore, è probabile che l'insieme di testi sia una compilazione latina camuffata come traduzione dall'arabo per ragioni di credibilità.
Le prime tendenze 'orientaliste'
Nel Medioevo, la trasmissione dei testi arabi in latino si svolse congiuntamente alla traduzione delle opere di Ippocrate e Galeno. L'apporto arabo fu quindi costantemente valutato con il metro della fedeltà a quello che era considerato l'autentico galenismo. Nell''antiarabismo', che fiorì a partire dalla seconda metà del XV sec., furono criticate soprattutto due mancanze: l'inesattezza delle traduzioni di opere greche eseguite a partire da versioni arabe, che a volte si rivelavano parafrastiche; l'arabizzazione e una certa confusione del vocabolario tecnico, soprattutto nel campo dell'anatomia e della farmacopea. Neppure ciò comportò, tuttavia, un giudizio globale sfavorevole riguardo al contributo degli autori arabi. Del resto il succedersi di traduzioni, elaborate in luoghi e periodi molto diversi tra loro, aveva inevitabilmente generato un vero e proprio caos terminologico. L'uso di parole arabe traslitterate variava a seconda dei traduttori. Costantino l'Africano, per esempio, si era limitato a importare dall'arabo alcuni termini di anatomia e i nomi degli ingredienti farmaceutici; in seguito, Gherardo da Cremona, più scrupoloso nei riguardi degli originali e molto attento all'esattezza tecnica, aveva considerevolmente ampliato l'elenco di questi termini. Alcuni traduttori, invece, inserivano alla fine delle traduzioni una sorta di lessico o un elenco di 'sinonimi', soluzione che si rivelò del tutto inadeguata. L'unica eccezione è costituita dai 'sinonimi' o 'chiave della guarigione' (Clavis sanationis) di Simone da Genova (fine XIII sec.), che fornirono ai lettori uno strumento lessicografico più efficace, anche se limitato al vocabolario della farmacopea, in cui figuravano pochi termini anatomici.
Nonostante le critiche degli umanisti, il Rinascimento non pose fine alla fortuna di questa medicina nel mondo latino; al contrario, l'invenzione della stampa assicurò alla maggior parte delle traduzioni medievali e ad alcuni commenti universitari una diffusione senza precedenti. Inoltre, anche se l'Umanesimo rinascimentale privilegiò il ritorno alle fonti antiche, greche e latine, in una certa misura favorì anche la rinascita del gusto per la traduzione delle opere arabe. Esemplare è il caso del Canone di Avicenna. Girolamo Ramusio, stabilitosi per un certo periodo a Damasco in qualità di medico della comunità veneziana di questa città, tra il 1484 e il 1485 intraprese l'esecuzione di una nuova traduzione del Canone, probabilmente con l'intenzione di destinarla all'Università di Padova. Il progetto, interrotto a causa della morte del suo ideatore, fu ripreso, sempre a Damasco e in condizioni analoghe, da Andrea Alpago (m. 1521), che si limitò saggiamente a una revisione della versione di Gherardo da Cremona, in cui inserì un lessico arabo-latino più elaborato. Alpago tentò inoltre di studiare l'opera alla luce dei commenti redatti nell'Oriente arabo nel corso del XIII e del XIV sec. da Ibn al-Nafīs (m. 687/1288) e da Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī (m. 710/1311). L'atteggiamento verso gli autori arabi era mutato a causa dell'emergere di un nuovo interesse per la cultura orientale, del tutto estraneo alle preoccupazioni dei traduttori medievali.
Tuttavia, al di là dei commenti consultati e parzialmente tradotti in latino da Andrea Alpago, gli eruditi del XVI e del XVII sec. non ritennero opportuna la traduzione dei testi degli autori arabi ignorati nel periodo medievale. Il Canone di Avicenna seguitò a suscitare un grande interesse, come dimostrano le molteplici revisioni o rielaborazioni della versione latina di Alpago e la pubblicazione del testo arabo, avvenuta a Roma nel 1593, a cura della tipografia medicea. Peter Kirsten, editore di numerose opere sulla grammatica araba e di alcune parti dell'Antico e del Nuovo Testamento in una versione bilingue, fu attratto in particolare dal Libro II e decise di pubblicarlo: fu così dato alle stampe per la seconda volta nel 1609, a Breslavia, il testo arabo del Libro II del Canone, accompagnato da una traduzione, da un commento in latino e da un elenco delle piante medicinali. Più di un secolo dopo, il farmacologo inglese John Channing rivolse la sua attenzione ad altri due medici medievali: nel 1766 pubblicò il testo arabo e latino del trattato di al-Rāzī sul vaiolo e sul morbillo (Kitāb al-ǧudarī wa-'l-ḥaṣb, De variolis et morbillis) e nel 1778 a Londra diede alle stampe un'edizione bilingue scrupolosamente illustrata della Chirurgia di al-Zahrāwī. Completamente ignorato nel periodo medievale, il trattato di al-Rāzī fu sottratto all'oblio in un periodo di grande preoccupazione per le epidemie di vaiolo e rivelò doti di chiarezza sconosciute alle opere mediche del XVIII sec., motivo per cui è ancora oggi apprezzato dagli storici della medicina.
di Mauro Zonta
Nell'Europa occidentale dal XIII al XV sec., l'esercizio della medicina rappresentò probabilmente una delle più importanti occupazioni dei membri più dotti e illustri della società ebraica e, anzi, costituì uno strumento di elevazione sociale. Medici ebrei erano frequentemente chiamati alle corti dei prìncipi, dei re e dei papi in Spagna, Provenza e Italia, le tre aree geografiche dove la cultura ebraica del Tardo Medioevo ebbe il suo maggiore sviluppo. Il ruolo sociale svolto dalla medicina nel mondo ebraico spiega molto bene il fatto che, in questo periodo e in queste aree, fosse redatto un considerevole numero di traduzioni ebraiche di testi medici arabi e greci in traduzione araba, nonché di testi latini. Queste traduzioni non miravano solamente a una diffusione della cultura (come le contemporanee traduzioni dei testi filosofici), ma avevano anche una finalità di ordine pratico: fornire ai medici ebrei europei non arabofoni strumenti utili alla loro professione.
Le prime traduzioni ebraiche dei testi medici arabi risalgono alla fine del XII sec., ossia solo pochi decenni dopo la redazione delle versioni latine attribuite a Gherardo da Cremona, e furono realizzate sia da celebri traduttori provenzali, quali Šemû᾽ēl ibn Tibbōn (1150-1230 ca.) e Yehûdāh al-Ḥarīzī (XII-XIII sec.), sia da un anonimo ebreo, attivo forse in Francia, che già negli anni 1197-1199 provvide a tradurre una serie di testi medici greci e arabi, basandosi su precedenti versioni latine medievali. Tuttavia, solo verso la metà del XIII sec. prende il via un'imponente attività di traduzioni: gli stessi traduttori che, in quegli anni, cominciarono a volgere in ebraico i testi filosofici greci e arabi si dedicarono anche alle versioni di testi medici arabi quali il Kitāb al-Manṣūrī, il Kitāb al-Taṣrīf (Libro della disposizione) di al-Zahrāwī, il Canone di Avicenna e gli scritti medici di Maimonide. A questo lavoro parteciparono traduttori residenti sia in Provenza, quali Šelōmōh ibn Ayyûv, Šēm ṭÔv di Tortosa (entrambi attivi intorno al 1260) e Mōšeh ibn Tibbōn (attivo tra il 1240 e il 1283), sia a Roma, come Nātān ha-Me᾽ātī, il più importante dei traduttori medici ebraici, e Zerāḥîāh ben Yiṣḥāq Ḥēn (entrambi attivi tra il 1275 e il 1290).
A questo periodo risalgono probabilmente anche le maggiori enciclopedie mediche ebraiche, spesso costituite da centoni di testi greci e arabi. La più ampia di esse, composta da Nātān ben Yô᾽ēl Falaqera (Steinschneider lo colloca tra il 1250 e il 1280) con il titolo Ṣōrî ha-gûf (Il balsamo del corpo), è divisa in quattro parti: medicina teorica; medicina pratica (igiene); patologia generale, a capite ad calcem; farmacologia. Si tratta, in realtà, di un mosaico di citazioni estrapolate da Ippocrate, Aristotele, Galeno, al-Rāzī, Isḥāq al-Isrā᾽īlī, Avicenna, Abū Marwān ibn Zuhr, Averroè, Maimonide e molti altri; in effetti, a dire del suo autore, è un'opera concepita proprio per diffondere tra i medici ebrei non arabofoni la conoscenza dei testi arabi utili per la loro professione. Posteriore a essa sarebbe l'enciclopedia di patologia generale Sēfer ha-yōšer (Libro della rettitudine), composta da un anonimo, forse in Francia, verso la fine del XIII secolo. I manoscritti che conservano la prima o la seconda di queste enciclopedie sono almeno una ventina, segno che esse, nonostante la loro cospicua mole, ebbero comunque un certo numero di lettori nel pubblico ebraico del tempo.
Il XIV sec., e in particolare la sua prima metà, ha visto il fiorire in area provenzale di una notevole attività di traduzione, per lo più di testi 'minori' utili però a completare il quadro tracciato con le traduzioni del secolo precedente. In quest'opera furono impegnati celebri traduttori di testi filosofici quali Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs (1287-dopo il 1328) ‒ che vi si dedicò in gioventù ‒, ma soprattutto autori dei quali poco o nulla si conosce, come i membri della famiglia Caslari (attivi nella prima metà del Trecento), Šimšôn ben Šelōmōh e Yehûdāh ben Šelōmōh Nātān (attivo tra il 1330 e il 1360). Anche nella Spagna del XIV sec. e della prima metà del XV sec. non mancarono traduzioni ebraiche di medicina araba, benché la principale attività dei medici ebrei sembra essere stata quella del commento, in quanto la loro conoscenza diretta della lingua araba si andava gradatamente esaurendo; in particolare, alcuni dotti ebrei sivigliani, esponenti della famiglia degli Ibn Ya῾īš, redassero commenti agli scritti medici di Avicenna. In Italia, altri traduttori di origine spagnola, come ῾Azāriāh ben Yôsēf (più conosciuto come Bonafous Astruc, attivo nella prima metà del Quattrocento), si dedicarono alla versione dei testi medici arabi sulla base delle traduzioni latine medievali.
I testi medici greci
Le traduzioni ebraiche dei due maggiori corpora medici dell'Antichità, quello di Ippocrate e quello di Galeno, non furono condotte in modo sistematico così come lo erano state le traduzioni arabe degli stessi due autori redatte nella scuola di Ḥunayn ibn Isḥāq nel IX sec. e, in generale, ebbero una diffusione estremamente limitata, a eccezione di quei testi che, per il loro carattere di compendio, potevano prestarsi per un uso 'scolastico'. Stando alla tradizione manoscritta, fra gli scritti autentici di Ippocrate volti in arabo, l'unico ad avere avuto una notevole fortuna nel Medioevo ebraico è stato il libro degli Aforismi. Dalla traduzione araba di Ḥunayn ibn Isḥāq del libro degli Aforismi furono infatti tratte almeno due versioni ebraiche, rimaste anonime e conservate in alcuni manoscritti; a esse vanno aggiunte la versione dell'opera con il commento di Galeno e una serie di traduzioni e rielaborazioni ebraiche condotte sulla versione arabo-latina di Costantino l'Africano. Anche di altre opere di Ippocrate furono eseguite traduzioni arabo-ebraiche, ma di nessuna di esse ci sono pervenuti più di uno o due codici, un segno, questo, del loro scarso successo. Tale è il caso del De diaeta in morbis acutis, tradotto a Roma da Nātān ha-Me᾽ātī nel 1282, probabilmente sulla scorta della traduzione araba di Ḥunayn ibn Isḥāq; del De aëre, aquis et locis, reso in ebraico dallo stesso Nātān a Roma intorno al 1280 dalla traduzione araba di Ḥunayn; e infine del De superfoetatione, tradotto in ebraico da una versione araba anonima, antecedente a Ḥunayn, che, conservata in un solo manoscritto, presenta numerose inesattezze, sicché la versione ebraica risulta particolarmente utile anche per la ricostruzione del testo arabo. Attribuito a Ippocrate è uno scritto in arabo di medicina astrologica, noto come Prognostica de decubitu o Astrologia Ypocratis, tradotto due volte in ebraico da una delle versioni latine. Peraltro, sembra che nel corso del Medioevo siano stati tradotti dall'arabo in ebraico numerosi testi pseudoippocratici, anche se la loro esatta identificazione resta incerta, fatta eccezione del De urinis che, nella perduta traduzione araba composta da un anonimo, potrebbe essere la fonte dello scritto ebraico Mar᾽ôt ha-šeten (Aspetti dell'urina), tradotto o composto da tale Yôsēf ben Yisrā᾽ēl (un figlio di Yiṣḥāq ben Yôsēf Yisrā᾽ēl di Toledo, m. 1331?) e conservato in numerosi manoscritti.
Una sorte non dissimile toccò agli scritti di Galeno, che pure erano stati la fonte di buona parte dell'arte medica degli Arabi. Infatti, a parte il commento agli Aforismi di Ippocrate del quale, nella versione ebraica di Nātān ha-Me᾽ātī ultimata a Roma nel 1283 sulla traduzione araba di Ḥunayn ibn Isḥāq, ci sono pervenuti più di dieci codici e il commento ai Prognostica di Ippocrate, anch'esso tradotto da Nātān sulla versione araba di Ḥunayn (ebbe notevole successo anche una parafrasi abbreviata in ebraico, redatta nel 1197-1199 e condotta sulla versione latina), restano appena uno o due esemplari manoscritti di gran parte delle opere di Galeno volte dall'arabo all'ebraico. Così è per alcune opere tradotte in ebraico da Zerāḥîāh ben Yiṣḥāq Ḥēn dalla versione araba di Ḥubayš (IX sec.), quali il De morborum causis et symptomatibus libri sex, una raccolta di quattro scritti minori sulla patologia, ordinata dagli alessandrini, la cui versione ebraica è stata terminata verso il 1280, e il De compositione medicamentorum, i cui Libri XI-XVII sono meglio noti come Katagenos nella traduzione araba di Ḥubayš. Analoga è la situazione del De crisibus, tradotto in ebraico, dalla versione araba di Ḥunayn ibn Isḥāq, da Bonirac (o Boniac) Šelōmōh di Barcellona in epoca sconosciuta; del De venae sectione, la cui versione araba, opera di ῾īsā ibn Yaḥyā (IX sec.), fu a sua volta tradotta in ebraico da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs ad Arles nel 1308; del Puero epileptico consilium, sopravvissuto nella versione araba in un solo codice e tradotto in ebraico da un anonimo; e infine del commento al De aëre, aquis et locis di Ippocrate la cui versione araba, condotta da Ḥubayš e giunta fino a noi in un solo manoscritto, fu tradotta ‒ peraltro, in forma assai compendiosa ‒ da Šelōmōh ben Nātān ha-Me᾽ātī a Roma nel 1299. Diverso è il caso del De malitia complexionis diversae, che sarebbe stato tradotto in ebraico non direttamente dalla versione araba di Ḥunayn ibn Isḥāq, ma attraverso la traduzione arabo-latina di Gherardo da Cremona, per opera di David ben Avrāhām Caslari, attivo in Provenza intorno alla metà del Trecento. Il catalogo datato 1197-1199 delle traduzioni compiute da un anonimo riporta la notizia dell'esistenza di una versione arabo-ebraica dell'Ars parva, uno dei più celebri compendi medici dell'Antichità; la versione ebraica avrebbe avuto il titolo anodino di Ha-me᾽assēf le-kōl ha-maḥanôt (La raccolta di tutti i campi).
Sembrano avere invece riscosso una discreta fortuna i Summaria Alexandrinorum, tratti dai testi più importanti di Galeno e composti nel VI sec. alla Scuola di Alessandria: una delle loro numerose varianti arabe fu volta in ebraico nel 1322 da Šimšôn ben Šelōmōh. Anche un sommario del De urinis (è forse il compendio arabo Ǧawāmi῾ mā qāla Ǧālīnūs fī 'l-bawl, Raccolta completa di ciò che Galeno dice circa l'urina) fu tradotto in ebraico da anonimi due volte, di cui una con il titolo ᾽Asîfat mar᾽ôt ha-šeten (Raccolta degli aspetti dell'urina). Altri scritti minori della medicina greca che furono quasi sicuramente tradotti dall'arabo all'ebraico sono: un frammento sui veleni, attribuito a Paolo di Egina (principio del VII sec. d.C.); uno scritto sul salasso, attribuito al medico Platone (da non confondere con il filosofo); il De clistere, erroneamente fatto risalire a Galeno ma probabilmente composto dal medico Rufo di Efeso (seconda metà del I sec.), il cui testo, perduto in greco e in arabo, è stato tradotto da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs ad Arles nel 1308 (ne resta un solo manoscritto); e infine, un testo ebraico anonimo, intitolato Kelālê s̄efer Gālênūs ba-mārāh ha-šeḥôrāh (Sommario della melanconia di Galeno), la cui fonte araba è forse un'altra opera di Rufo, il Kitāb al-Mirra al-sawdā᾽ (Libro della melanconia) che, perduto in greco, era stato però utilizzato da Isḥāq ibn ῾Imrān (prima metà IX sec.) e da altri.
I testi arabi di medicina generale
Gli interessi dei committenti e dei lettori delle traduzioni arabo-ebraiche sembrano essersi rivolti in massima parte agli scritti 'enciclopedici' di medicina generale e, in particolare, al Canone di Avicenna, i cui codici ebraici superstiti superano forse, per numero, l'insieme dei manoscritti delle versioni di tutte le altre opere mediche arabe. Di Yūḥannā ibn Māsawayh, maestro di Ḥunayn ibn Isḥāq, un anonimo tradusse dall'arabo il Kitāb al-Nawādir al-ṭibbiyya (Libro degli aforismi medici) con il titolo He- ῾ārôt min ha-refū᾽ah (Annotazioni dalla medicina), mentre del Kitāb Iṣlāḥ al-adwiya al-mushila (La correzione dei medicamenti lassativi) restano numerose traduzioni, una ascritta a Šemû᾽ēl ben Ya῾aqōv di Capua (attivo forse alla fine del XIII sec.) e altre anonime; queste ultime furono condotte però non sul testo arabo (superstite in un solo manoscritto), bensì su una differente redazione latina, intitolata De medicamentorum purgantium delectu et castigatione e ascritta a tale fittizio Mesue. Notevole successo ebbe il Kitāb al-Masā ᾽il fī 'l-ṭibb (Libro delle questioni sulla medicina) di Ḥunayn; del testo arabo esiste una traduzione ebraica, composta da Mōšeh ibn Tibbōn verso la metà del Duecento con il titolo Še᾽ēlôt (Questioni) oppure Māvô᾽ (Introduzione), mentre della sintesi latina con il titolo Isagoge Iohannitii ad Tegni Galeni, restano, in molti codici, almeno due versioni ebraiche, una delle quali redatta da un traduttore anonimo intorno al 1197-1199, nonché diversi commenti e parafrasi.
Del compendio di medicina generale di Yūḥannā ibn Sarābiyūn (260/873 ca.), al-Kunnāš al-ṣaġīr (La piccola raccolta), dedicato soprattutto alla patologia, esiste almeno una traduzione ebraica, composta da Mōšeh ben Maṣlîaḥ a Roma nel 1413 e condotta sulla versione latina (Practica sive breviarium) di Gherardo da Cremona. Un'altra opera di successo è quella di al-Rāzī, il Kitāb al-Manṣūrī, del quale molti manoscritti conservano la traduzione arabo-ebraica di Šēm ṭÔv ben Yiṣḥāq di Tortosa (1264), mentre alcuni riportano la traduzione abbreviata latino-ebraica di un anonimo condotta sulla versione di Gherardo; di essa infine esiste una terza traduzione del capitolo 9. Dell'altra opera di al-Rāzī, Kitāb al-Muršid aw al-fuṣūl (Libro della guida o degli Aforismi) sussistono due traduzioni ebraiche anonime, mentre del celebre testo Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica) di al-Maǧūsī (fine del X sec.), non rimangono che scarse tracce di una traduzione ebraica, compiuta prima del 1370, così come del Ṭibb al-fuqarā᾽ (Medicina dei poveri) di Aḥmad ibn al-Ǧazzār (m. 369/979 ca.) resta soltanto un manoscritto della traduzione di Ḥayyîm bar Mūsāh, realizzata probabilmente in Spagna verso il 1450.
Si conservano molte copie delle varie traduzioni ebraiche del Kitāb al-Taṣrīf (Libro della disposizione) di al-Zahrāwī: dal testo arabo, una versione di Šēm ṭÔv ben Yiṣḥāq di Tortosa, risalente al 1254-1261, una di Mešullam ben Yōnah, compiuta probabilmente in Provenza nel 1287, e due parziali e anonime, alle quali va forse aggiunta una traduzione compiuta da Avrāhām di Tortosa; dalla traduzione latina di Simone da Genova del Libro XXVIII, una versione redatta da ῾Azāriāh ben Yôsēf a Senise in Basilicata nel 1429. Inoltre, intorno al 1350 Mōšeh Narbônî compose, sul modello del Kitāb al-Taṣrīf, un'opera in ebraico di medicina generale, Sēfer ᾽Ôrāḥ ḥayyîm (Libro della via della vita), che include numerosissime citazioni, probabilmente tradotte direttamente dalla lingua originale e tratte da scritti di autori arabi, da Ibn Māsawayh ad Averroè.
Il testo del Canone di Avicenna è conservato, in un centinaio di manoscritti, in diverse versioni ebraiche, molte delle quali fondate sul testo arabo, benché non si possa escludere che i loro redattori abbiano avuto presente anche la versione latina del Canone: quella (completa) di Nātān ha-Me᾽āṭī, compiuta a Roma nel 1279; quella di Zerāḥîāh ben Yiṣḥāq Ḥēn, limitata ai Libri I e II e redatta a Roma nel 1280 ca.; e quella di Yôsēf ha-Lôrqî, limitata al Libro I e all'inizio del Libro II, compiuta in Spagna prima del 1402 (anno presunto della morte del traduttore) e di fatto basata su un rifacimento della versione di Nātān. A queste andrebbero aggiunte alcune versioni anonime, che potrebbero rappresentare soltanto revisioni di traduzioni già esistenti. Il notevole successo di quest'opera è confermato inoltre dal gran numero di commenti ebraici, circa trenta, composti in Provenza e Spagna nel Trecento e nel Quattrocento. Anche del compendio arabo di medicina in dieci libri, attribuito ad Avicenna, al-Qānūn al-ṣaġīr (Piccolo canone), restano almeno due versioni: quella di Mōšeh ibn Tibbōn (Montpellier, 1272) e una traduzione anonima, conservata in una decina di codici. Invece, al-Urǧūza fī 'l-ṭibb (Poema sulla medicina) fu conosciuta solo insieme al commento di Averroè.
Degli scritti di medicina generale di ῾Alī ibn Riḍwān ne restano molti in traduzione ebraica: Kitāb al-Uṣūl fī 'l-ṭibb (Libro sui fondamenti della medicina), tradotto da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs nel 1307; Šarḥ al-ṣinā῾a al-ṣaġīra li-Ǧālīnūs (Commento all'Ars parva di Galeno), tradotto dall'arabo da Šemû᾽ēl ibn Tibbōn a Béziers nel 1199 e dal latino da Hillēl ben Šemû᾽ēl da Verona (1220-1294 ca.); e infine il Tafsīr kitāb fī 'l-isṭaqisāt (Commento al libro degli Elementi di Galeno), del cui testo, perduto in arabo, sopravvive solo in un codice una traduzione ebraica anonima. Un minore successo sembrano invece avere avuto gli scritti medici di Averroè: del suo Kitāb al-Kulliyyāt fī 'l-ṭibb esistono due traduzioni dall'arabo, una di Šelōmōh ben Avrāhām ibn Dāwūd (attivo forse alla fine del XII sec.) e un'altra di un anonimo, ma di entrambe restano pochi manoscritti; del Commento ai Cantica di Avicenna sussistono invece quattro traduzioni ebraiche, in prosa o in metro, composte da Mōšeh ibn Tibbōn nel 1260, da Šelōmōh ibn Ayyūv nel 1261 e da altri anonimi; infine, restano versioni ebraiche di altri scritti di vario argomento (sui semplici, sui purgativi, sulla diarrea) attribuiti ad Averroè, ma sconosciuti alla tradizione araba. Nel campo della medicina generale, un ruolo di primo piano nelle traduzioni è ricoperto dalle opere mediche (scritte in lingua araba) del medico e filosofo ebreo Maimonide: il suo Kitāb al-Fuṣūl fī 'l-ṭibb o Fuṣūl Mūsā fu tradotto a Roma sia da Zerāḥîāh Ḥēn nel 1277, sia da Nātān ha-Me᾽āṭī verso il 1280, versione, quest'ultima, che riscosse un maggiore successo; mentre il Commento agli Aforismi di Ippocrate fu tradotto da un anonimo e da Mōšeh ibn Tibbōn nel 1257. Infine, del Mūǧaz al-Qānūn (Compendio del Canone) di ῾Alā᾽ al-Dīn ῾Alī al-Qurašī ‒ noto come Ibn al-Nafīs (m. 687/1288) e detto il 'secondo Avicenna' ‒ esiste una versione ebraica, conservata in un solo codice.
Le monografie arabe di patologia, farmacologia e medicina pratica
Molte monografie su singoli disturbi, che includono anche indicazioni terapeutiche, furono tradotte in ebraico. Di al-Rāzī, per esempio, un anonimo tradusse, dalla traduzione latina De aegritudinibus iuncturarum, lo scritto su Awǧā῾ al-mafāṣil, mentre esistono due versioni ebraiche del De aegritudinibus puerorum (sconosciuto agli Arabi) a lui attribuito, una delle quali compiuta in Italia nel 1426 da ῾Azāriāh ben Yôsēf. Del Kitāb al-ḥummayāt di Isḥāq al-Isrā᾽īlī era diffusa una versione ebraica. Dell'opera di patologia generale, Kitāb Zād al-musāfir di Ibn al-Ǧazzār, esistono una versione arabo-ebraica di Mōšeh ibn Tibbōn e due versioni condotte sulla traduzione latina di Costantino l'Africano (Viaticum peregrinantis), una dell'anonimo traduttore databile 1197-1199 e l'altra di un certo Avrāhām ben Yiṣḥāq (vissuto forse al principio del XV sec.), mentre della Risāla fī 'l-nisyān (Epistola sull'amnesia) dello stesso autore, probabilmente fonte principale del De oblivione di Costantino l'Africano, resta una versione ebraica di Nātān ha-Me᾽āṭī. Uno scritto di patologia generale noto agli ebrei fu il Kitāb al-Taysīr di Ibn Zuhr anche se della versione ebraica, anonima, resta un solo manoscritto. Infine, furono tradotte alcune monografie di Maimonide, quali la Risāla fī 'l-bawāsīr (Epistola sulle emorroidi), di cui esiste una traduzione ebraica anonima; la Maqāla fī 'l-ǧimā῾ (Trattato sul coito), che fu volta in ebraico da Zerāḥîāh Ḥen e da un anonimo; e la Maqāla fī 'l-rabw (Trattato sull'asma), tradotta dal medico aragonese Šemû᾽ēl Benveniste nel XIV sec. e da un anonimo.
Anche nella farmacologia, i testi arabi sopravvissuti in versione ebraica sono relativamente numerosi: dalla versione latina del 1200 fu tradotto il Liber de medicamentis simplicibus di Sarābiyūn (IX sec.), padre di Yūḥannā ibn Sarābiyūn, mentre Aqrabāḏīn (Farmacopea) di al-Rāzī fu tradotto da Mōšeh ibn Tibbōn nel 1257 e da un anonimo. Ebbe un notevole successo il Kitāb I῾timād al-adwiya al-mufrada (Libro della conferma dei semplici) di Ibn al-Ǧazzār, nella versione del 1197-1199 del traduttore anonimo, composto sulla base della rielaborazione latina (Liber de gradibus) di Costantino l'Africano; mentre del Kitāb al-ḫawāṣṣ (Libro delle proprietà), non ancora identificato in arabo, ma conservato in latino, esiste una versione latino-ebraica. Dell'opera di Avicenna al-Adwiya al-qalbiyya (Medicine cordiali) esistono una traduzione dall'arabo e una dalla traduzione latina di Arnaldo da Villanova (entrambe anonime), nonché due commenti ebraici; mentre dello scritto farmacologico ‒ perduto nell'originale arabo ‒ al-Iktifā᾽ bi-'l-dawā᾽ min ḫawāṣṣ al-ašyā᾽ (L'utilità nella medicina dalle proprietà delle cose) di ῾Abd al-Raḥmān ibn al-Hayṯam (seconda metà del X sec.) resta, in alcuni codici, una versione ebraica anonima. Dall'arabo furono tradotte anche altre opere di carattere farmacologico, il libro dei semplici di Abū 'l-Muṭarrif ῾Abd al-Raḥmān ibn Wāfid (399-467/1007-1074) intitolato Kitāb al-Wasād (Libro del guanciale), la cui rielaborazione fu eseguita da Yehûdāh ben Šelōmōh Nātān nel 1352 sotto il titolo Mē-rē ᾽šît hā-rō᾽š (Dal principio della testa); il Kitāb al-Adwiya al-mufrada di Abū 'l-Ṣalt Umayya (461-529/1068-1134), tradotto sempre da Yehûdāh Nātān; la Maqāla fī 'l-ṯiryāq di Averroè in una versione ebraica anonima; il Kitāb al-Sumūm di Maimonide, del quale ci sono pervenute due traduzioni ebraiche (una delle quali opera di Mōšeh ibn Tibbōn).
Relativamente più limitate, e in buona parte rimaste in pochissimi codici, sono le traduzioni ebraiche degli scritti arabi di medicina pratica. Lo scritto di diagnostica di al-Rāzī, Kitāb Taqsīm al-῾ilal wa-'l-tašǧīr (Libro della distribuzione e ramificazione) fu tradotto da Mōšeh ibn Tibbōn. Il Kitāb al-Bawl (Libro dell'urina) di Isḥāq al-Isrā᾽īlī fu reso una volta dal testo arabo e tre volte dalla versione latina di Costantino l'Africano; il Kitāb al-Aġḏiya (Libro degli alimenti), dello stesso autore, restano ‒ in un solo codice ‒ una traduzione anonima dall'arabo della sezione sulle diete universali e ‒ in numerosi manoscritti ‒ una traduzione anonima (1197-1199) della sezione sulle diete particolari, condotta sulla rielaborazione latina di Costantino l'Africano (Diaetae particulares). Infine, di Ibn Zuhr restano, in una versione anonima, il Kitāb al-Aġḏiya e, in una versione di un certo Bonsenior ibn Ḥasday (fine del XIII sec.), il Trattato sulla differenza tra lo zucchero e il miele, perduto nell'originale arabo.
Per quanto concerne l'igiene, allo stesso Ibn Zuhr viene attribuito, dalla tradizione latina, un De regimine sanitatis, che fu tradotto in ebraico da un anonimo; invece a Mōšeh ibn Tibbōn si deve la traduzione nel 1244 del Kitāb Tadbīr al-ṣiḥḥa (Regime della salute) di Maimonide. Ci è pervenuto inoltre un solo manoscritto dell'anonima versione ebraica del Kitāb fī 'l-faṣd (Libro sul salasso) e, nel campo dell'oftalmologia, esistono un unico codice della traduzione latino-ebraica eseguita da Ya῾aqōv ha-Lēwī nel 1297 di Ma᾽mar hā-῾ayn mi-mele᾽ket ha-yād niqrā᾽ Mûsî (Trattato sull'occhio dalla Chirurgia di Mesue), della quale non conosciamo la fonte araba, e un codice della versione arabo-ebraica del Kitāb al-Muntaḫab fī ῾ilāǧ amrāḍ al-῾ayn (Scelta concernente il trattamento delle malattie dell'occhio) di ῾Ammār ibn ῾Alī al-Mawṣilī (X-XI sec.), che fu edito a Roma da Nātān ha-Me᾽āṭī.
Nel settore dell'etica medica, fu tradotto in ebraico lo scritto di al-Rāzī, Mā ya῾riḍu fī ṣinā῾at al-ṭibb (Su ciò che accade nella medicina), un'opera perduta in arabo (ma non ignota ai bibliografi) in cui l'autore esalta l'operato del vero medico a scapito del ciarlatano. Per quanto riguarda l'opera I costumi dei medici, conservata solo in una traduzione ebraica, più volte edita, che l'attribuisce ad al-Isrā᾽īlī, è stata messa in dubbio la sua autenticità. Infine, di Yehûdāh al-Ḥarīzī ci è pervenuta la traduzione dell'opera di Abū Sa῾īd ῾Ubayd Allāh ibn Baḫtīšū῾ (m. dopo il 450/1058), Kitāb Taḥrīm dafn al-aḥyā᾽ (Libro sul divieto di seppellire i vivi), un compendio del Divieto della sepoltura attribuito falsamente a Galeno.
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