La civilta islamica: teoria fisica, metodo sperimentale e conoscenza approssimata. Dinamica
Dinamica
Scrivere la storia della dinamica araba non è facile, principalmente per due ragioni: la prima è che la storia della dinamica preclassica è un terreno pieno di insidie, sul quale le ricerche dei più arditi precursori convivono a fianco delle più ingenue credenze sull'autogenesi; la seconda ragione è che l'analisi storica ‒ e archeologica ‒ dei testi arabi attinenti alla dinamica sta compiendo ora i suoi primi passi. Per evitare di cadere nelle letture retrospettive o nella storia delle mentalità, la via più sicura rimane quella di osservare ciò che accomuna e ciò che separa i testi greci, arabi e latini che si esprimono in modo più esplicito sulla questione del movimento e della forza. Ci si avvedrà così ben presto di un paradosso: mentre da Filopono a Galilei ‒ passando per la scuola di Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī, Avempace, gli scolastici latini e Benedetti ‒ quasi tutti gli autori che si sono occupati del movimento hanno finito col proporre una 'legge' della velocità media della caduta dei gravi, sembra che né Ibn al-Hayṯam né Avicenna si siano preoccupati di giungere a un risultato analogo. Tale mancanza di interesse ha fatto sì che questi autori fossero relegati ai margini di una storia concepita come un processo lineare e progressivo, nel corso del quale la dinamica si sarebbe gradualmente disfatta dell''errore' aristotelico per rinascere nella sua forma classica con Galilei.
Il capitolo si articola intorno a tre momenti principali. In primo luogo, passeremo brevemente in rassegna, nel modo più conciso possibile, le varie 'leggi' della caduta dei gravi da Filopono a Galilei, mettendone in luce gli elementi comuni e quelli distintivi. Analizzeremo quindi la dinamica di Avicenna, per mostrare come in essa sia assente qualsiasi traccia di una legge della velocità media di caduta dei gravi. Le ragioni di questa assenza sono, come vedremo, di ordine epistemologico, e furono dettate ad Avicenna dalla nuova ontologia del movimento, da lui elaborata allo scopo di integrare in una cornice più o meno aristotelica la nozione di infinito in atto di Ṯābit ibn Qurra. Per finire, studieremo il superamento della posizione aristotelica operato da Ibn al-Hayṯam, più radicale (poiché non risparmia nulla del movimento aristotelico) ma meno esplicitamente dichiarato di quello di Avicenna (Ibn al-Hayṯam non rileva mai il suo disaccordo con le tesi aristoteliche oppure la novità delle proprie posizioni).
Come vedremo, il problema della caduta dei gravi ha svolto un ruolo centrale nella strutturazione del dibattito filosofico preclassico. È in questo quadro che sono state poste per la prima volta in discussione le grandi distinzioni aristoteliche (ossia movimento celeste/movimento sublunare; movimento circolare/movimento rettilineo; movimento/quiete) e ci si è mossi in direzione di un superamento del finalismo di Aristotele.
Filopono
Le due proposizioni aristoteliche che la tradizione ha successivamente combinato tra loro per ricavarne una 'legge' della caduta dei gravi, si trovano entrambe nella Fisica (IV, 8) dove Aristotele confuta l'esistenza del vuoto. Ora, queste due proposizioni non solo sono indipendenti tra loro, ma possiedono uno status argomentativo molto diverso. La prima (215b 6 e segg.) mette in relazione la velocità di spostamento del mobile e la densità del mezzo; la seconda (216a 13 e segg.) la velocità di spostamento e il peso. Questa seconda relazione giustifica la differenza tra la velocità di caduta dei corpi in un unico mezzo e fonda la possibilità dell'esistenza di differenti velocità anche nel vuoto, in contrasto con la tesi dell'uguaglianza delle velocità di caduta nel vuoto, sostenuta dagli atomisti. L'argomentazione utilizzata, nonostante la sua apparenza alquanto contorta, si basa su una premessa perfettamente accettata da Aristotele. Non è questo il caso della prima proposizione. Qui Aristotele si limita ad ammettere, come i suoi avversari, l'esistenza di una relazione tra la velocità di spostamento e la densità del mezzo, e a supporre, per ragioni puramente espositive, una 'proporzionalità' tra le due grandezze. La tesi dell'istantaneità della velocità nel vuoto è perciò una semplice ipotesi, che non è possibile attribuire tale e quale ad Aristotele. In altri termini, Aristotele si limita ad affermare che, se si accettano i presupposti degli atomisti, allora la velocità di caduta nel vuoto non è invariabile ma infinita. Non solo, dunque, non esistono elementi che permettano di attribuire una 'legge' della caduta dei gravi ad Aristotele, ma niente fa ritenere che sia stata sua intenzione formulare una legge del genere. È vero che il quinto capitolo del Libro VII della Fisica, spesso interpretato come un'esposizione delle "equazioni fondamentali della dinamica", e il sesto capitolo del Libro I del De caelo possono dare l'impressione, a causa soprattutto dell'andamento matematico dell'esposizione, della ricerca di una legge della velocità media degli spostamenti corporei di qualunque tipo da parte di Aristotele. Tuttavia, in nessuno dei due casi si tiene conto della resistenza del mezzo, ma solo del peso del corpo e, soprattutto, le modalità delle forze agenti sono completamente diverse dal momento che il peso, a differenza della spinta o della trazione applicate, è per sua natura 'infaticabile'. Niente sta a indicare dunque che sia possibile leggere le osservazioni contenute nella Fisica (IV, 8) alla luce di quanto si afferma successivamente (VII, 5) e nel De caelo (I, 6). Tuttavia, questo è ciò che ha fatto una lunga e unanime tradizione, che risale, come minimo, a Giovanni Filopono (VI sec. d.C.).
Quest'ultimo, per un insieme di ragioni, ha fuso i due passaggi di Aristotele in un'unica legge, cercando poi di sostituirla con una migliore. Nel Corollarium de inani, Filopono non fatica molto per evidenziare le incongruenze che derivano dal tentativo di calcolare la velocità media in misura direttamente proporzionale al peso. La semplice esperienza ci insegna che un oggetto due volte più pesante di un altro non impiega la metà del tempo per cadere da una stessa altezza. Filopono propone quindi, contro quella che egli considera la 'legge' aristotelica, un'altra legge che rinuncia a dividere il peso per la densità del mezzo, ma postula che il tempo sia inversamente proporzionale al peso, con l'aggiunta di una certa quantità di tempo (t=1/P+x). La densità del mezzo interviene solo nella determinazione di questa x. L'idea di Filopono è chiara: la velocità media del movimento è direttamente proporzionale al peso del corpo, ma è diminuita dalla densità del mezzo, che svolge un ruolo di resistenza passiva (conformemente alla formulazione della legge proposta da Moody nel 1951: V=P−R, dove V è la velocità, P il peso e R la resistenza dovuta al mezzo). Così facendo, Filopono ha aperto un campo di discussione che caratterizzerà l'intera fisica preclassica arabo-latina.
La scuola di Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī
Prima di occuparci dei successori arabi di Filopono, è necessario accennare a una discussione interna al mutazilismo, che ruotava intorno agli stessi brani della Fisica. Secondo Ibn Mattawayh e Abū Rašīd al-Nīsābūrī, i seguaci della scuola di Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī (m. 321 h.) sostenevano che la velocità dei corpi che cadono nel vuoto è costante. Quanto allo stesso Abū Hāšim, sembra che, dopo aver abbracciato questa tesi, se ne sia in seguito allontanato. Queste riflessioni mutazilite si inseriscono in una discussione più generale riguardante il problema della 'pressione' (i῾timād) e della densità dei mezzi. L'atomismo mutazilita, prendendo come riferimento, implicitamente nel caso di Abū 'l-Huḏayl ed esplicitamente in seguito, la geometria continua di Euclide, tende a postulare l'esistenza di atomi totalmente indifferenziati tra loro. Un atomo non differisce da un altro atomo più di quanto un punto euclideo differisca da un altro punto. Questa concezione astratta trova una sua espressione dinamica: la pressione di ciascun atomo, cioè la sua tendenza abituale (corrispondente teologico della tendenza 'naturale' degli aristotelici) a spostarsi verso il basso, deve avere la stessa intensità. Non c'è motivo di supporre che Dio abbia dotato certi atomi di una pressione superiore a quella di altri.
Se l'estrema velocità di spostamento degli atomi nel vuoto postulata dagli atomisti greci rappresentava dunque il caso limite di un'esperienza puramente teorica, la tesi mutazilita dell'isotachia nel vuoto trae le conseguenze di due premesse, una ontologica (invariabilità dell'i῾timād atomico) e una fisica (la velocità di caduta dei corpi varia in funzione del loro peso). La fusione delle due premesse avviene esattamente come in Giovanni Battista Benedetti (1530-1590) due atomi in caduta libera, separati tra loro, sottoposti per definizione a un i῾timād di uguale intensità, cadono alla stessa velocità. Supponiamo di unire i due atomi tramite l'accidente della 'composizione' (ta᾽līf). Poiché non esistono accidenti di accidenti, quest'ultima non può avere peso. I due atomi, collegati tra loro, cadranno quindi alla stessa velocità di quando erano separati. È sufficiente allora identificare, in modo intuitivo, la causa della differenza delle velocità di caduta nel mondo che ci circonda per stabilire, a contrario, l'esistenza dell'isotachia nel vuoto: si tratta, come il lettore avrà compreso, della resistenza del mezzo che ritarda la caduta dei corpi dotati di una minore densità atomica.
Considerando questa teoria come un semplice ritorno alla tesi atomista menzionata da Aristotele nella Fisica (IV, 8) si rischierebbe di perdere di vista l'originalità della posizione mutazilita. Se è evidente che la lettura di questo capitolo ‒ che i mutaziliti non potevano non conoscere (si pensi solo al fatto che l'unico manoscritto della versione araba della Fisica pervenutoci, il ms. Or. 583 conservato nella Universiteitsbibliotheek di Leida, era la copia personale del celebre teologo e giurista mutazilita Abū 'l-Ḥusayn al-Baṣrī, m. 1044) ‒ non poteva che confermare i mutaziliti nella loro tesi, quest'ultima d'altra parte discende direttamente dalle premesse da cui erano partiti. A ben vedere, la discussione mutazilita si spiega soprattutto nel contesto della revisione della fisica di Aristotele operata da Filopono, come costruzione di una legge su base atomistica, alternativa a quella proposta da quest'ultimo. Non si può escludere, del resto, che sia proprio la tesi di Filopono quella abbracciata in definitiva da Abū Hāšim al-Ǧubbā᾽ī.
È possibile dunque, senza pericolo di cadere nell'anacronismo (dato che già Filopono si era incamminato su questa strada), proporre la seguente espressione della legge mutazilita: v=c(P−Pm)/P, dove c è una costante, v la velocità, P la 'pressione' (densità) del grave e Pm la 'pressione' (densità) del mezzo. Nel vuoto (in cui Pm=0), v=c quale che sia il valore di P. Ci si potrebbe tuttavia chiedere a questo punto come si debba concepire esattamente il rapporto tra la pressione del grave (cioè di un dato insieme di atomi) e quella di ciascuno degli atomi che lo compongono. Torneremo su questo punto durante la discussione delle teorie di Ibn al-Hayṯam.
Avempace e Averroè
Il lungo dibattito dei mutaziliti sulla questione dell'i῾timād, che difficilmente avrebbe potuto lasciare indifferenti gli aristotelici, costituì certamente il retroterra 'culturale' della celebre discussione che oppose Ibn Rušd (1126-1198) a Ibn Bāǧǧa (1070/1080-1139) o forse dovrei scrivere qui Averroè e Avempace a seguito dell'interesse degli scolastici latini per questa disputa che sembra aver superato quello dei loro colleghi arabi. Come ha riconosciuto E.A. Moody in un pionieristico articolo del 1951, confermato dalle ricerche di A. Maier (1955), è proprio nel commentario di Avempace alla Fisica, citato a sua volta da Averroè nel proprio commentario (il celebre Commento 71 al Libro IV della Fisica), che gli studiosi latini trovarono lo spunto per una revisione della dinamica aristotelica ‒ ossia della 'legge' aristotelica del movimento, così come l'aveva formulata Filopono. Nella sua forma esteriore, la legge di Avempace sembra grosso modo identica a quella di Filopono. Tuttavia l'oscurità della formulazione è tale che la sua interpretazione ha dato origine a una disputa moderna, che è venuta a prolungare le discussioni medievali. Gli interventi che hanno contribuito maggiormente alla definizione dei termini del dibattito sono stati quelli di Moody (1951) e di Maier (1958). Occorre notare che entrambi credevano l'originale arabo perduto e si sono basati unicamente sull'estratto citato da Averroè. Nel 1964, S. Pinès ha tradotto, a partire unicamente dal ms. Pococke 206 della Bodleian Library di Oxford (essendo allora considerato perduto il ms. Wezstein 87 della Deutsche Staatsbibliothek di Berlino), l'insieme del testo in questione, ma sia la traduzione francese sia l'analisi che ne propone appaiono di difficile lettura.
Il testo arabo è stato recentemente edito da P. Lettinck (1994) e discusso in maniera più soddisfacente dello stesso Pinès, in una prospettiva vicina a quella di Maier.
Mentre Moody sembra incline ad attribuire ad Avempace la paternità di una riforma generale della dinamica, la cui influenza sarebbe giunta fino a Galilei, Maier ritiene di poter circoscrivere le riflessioni del filosofo arabo alla risoluzione di una difficoltà più specifica, legata all'esegesi del Libro VII della Fisica e alla sua interpretazione come analisi del 'motore mosso'. Non vi sarebbe così alcun motivo per ipotizzare, alla base delle riflessioni di Avempace, una nuova legge dinamica del tipo v=p−r, che, nel caso della caduta dei gravi, assumerebbe la forma v=D−Dm, differenza tra la densità del corpo e quella del mezzo attraversato. Tutt'al più, si può dire che per Avempace la velocità di caduta di un corpo attraverso mezzi determinati è una costante diminuita da un certo quantum legato alla densità del mezzo. Non disponiamo di alcun indizio che ci permetta di formulare in modo rigoroso la legge di Avempace. La questione è tuttavia di importanza cruciale, poiché il testo di Avempace, mentre stabilisce chiaramente un legame diretto tra la velocità e il peso, lascia nell'ombra un punto fondamentale, quello del ruolo giocato dal peso del corpo nella resistenza del mezzo al suo movimento, né precisa se si debba formulare l'esistenza di un fattore quale la 'resistenza del vuoto' (come fanno Avicenna, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, per i quali la semplice estensione dello spazio implica una durata dello spostamento superiore a zero; Say¦l¦ 1984), ovvero se la caduta di un grave nel vuoto avvenga a velocità finita a causa della finitezza del peso oppure delle condizioni intrinseche dello spostamento. In ogni caso, di fronte a questa 'sopravvalutazione' del ruolo del peso, Averroè intende ribadire, con 'Aristotele', l'importanza del mezzo:
Quanto a noi diciamo che è di per sé manifesto che se la causa dell'uguaglianza delle cose mosse, che hanno lo stesso peso, la stessa figura e la stessa grandezza, quando si muovono nello stesso mezzo o in due mezzi di uguale densità o rarefazione, è l'uguaglianza del mezzo, allora è evidente anche che la sua differenza di rarefazione secondo il più e il meno è la causa della differenza del movimento, in lentezza o in velocità, e che questa differenza, la cui causa è la differenza del mezzo, è in funzione della sottigliezza; in altre parole, l'aumento di questa differenza è una conseguenza dell'aumento della sottigliezza e la diminuzione di questa differenza una conseguenza della sua diminuzione. È dunque evidente che la proporzione dei movimenti è uguale a quella della densità e rarefazione dei mezzi. (Aristotelis de physica auditu, IV, Comm. 71)
Questo testo ha il merito di esprimere chiaramente la posizione 'aristotelica'. Abbiamo qui la rivendicazione aristotelica minima, quella che ogni autore successivo che intendesse richiamarsi all'aristotelismo doveva essere in grado di giustificare, anche nel caso in cui si proponesse di difendere la tesi della finitezza della velocità di caduta dei gravi nel vuoto: la velocità dello spostamento è proporzionale non solo al peso, ma anche alla sottigliezza del mezzo.
Saranno i successori latini di Avempace ad assumersi il compito di proseguire e perfezionare questo dialogo andaluso. Interpretando così la legge di Avempace, v=P/(R0+Dm), dove P è il peso, R0 la 'resistenza del vuoto' e Dm la densità del mezzo, Tommaso d'Aquino sceglie esplicitamente di non escludere il peso dal calcolo del rallentamento del movimento in un mezzo determinato e di ammettere il ruolo della resistenza del vuoto. Si ha infatti: 1/v=R0/P+Dm/P. Il tempo di spostamento sarà dunque superiore a quello nel vuoto di una quantità pari a Dm/P. Quanto maggiore sarà il peso, tanto più il tempo di spostamento sarà prossimo a quello nel vuoto. Avempace si sarebbe quindi limitato a fondare, meglio di quanto non avesse fatto Aristotele, la proporzionalità diretta della velocità di spostamento e del peso. La lettura dell'Aquinate era destinata a esercitare un'enorme influenza sui suoi successori latini.
La legge al-Kindī-Bradwardine
Il fatto che una delle più importanti leggi della velocità media tragga la propria origine non dagli studi di dinamica, bensì dalle ricerche sulla quantificazione delle qualità tattili, rappresenta uno dei paradossi della storia della dinamica preclassica. Cercando di stabilire il rapporto (quantitativo) tra la composizione elementare delle droghe e l'effetto prodotto da queste sostanze sull'organismo, al-Kindī (IX sec.) enuncia la relazione logaritmica sulla quale si fonderà la dinamica di Tommaso Bradwardine (m. 1349) e dei suoi discepoli.
Al-Kindī ci informa che i suoi predecessori avevano assegnato quattro gradi di intensità a ciascuna delle quattro qualità tattili fondamentali (caldo, freddo, secco e umido) e avevano messo in relazione i medicamenti semplici con una delle sedici possibili combinazioni. Non si erano tuttavia pronunciati sulla questione dell'effetto dei medicamenti composti, la cui definizione avrebbe richiesto l'impiego di regole di calcolo più rigorose. Al-Kindī si era assunto così il compito di stabilire il rapporto esistente tra le proporzioni dei diversi elementi nei medicinali composti e gli effetti da essi prodotti. L'interesse di queste ricerche, dal punto di vista della storia della dinamica, risiede nel fatto che non viene stabilita una relazione diretta tra l'accrescimento della qualità dominante nel medicamento e la sensazione che esso produce su di noi. Al-Kindī sostiene invece che, per aumentare di un grado, è necessario che il valore di un elemento sia moltiplicato per sé stesso. Prendiamo, come fa al-Kindī, l'esempio di un medicamento composto di elementi caldi e di elementi freddi. Il primo caso sarà quello del composto 'temperato', in cui il caldo e il freddo sono contenuti in quantità uguale, a cui è attribuito il valore di 1/2, mentre il loro rapporto reciproco sarà uguale a 1. Naturalmente, in questo caso, non si avverte la sensazione né di caldo né di freddo. Il medicamento sarà caldo al primo grado, ossia produrrà un calore di 1 grado sul paziente, quando il suo calore sarà il doppio della sua freddezza; sarà caldo al secondo grado quando il suo calore sarà il quadruplo della sua freddezza; sarà caldo al terzo grado, quando il suo calore sarà pari a otto volte la sua freddezza e, infine, sarà caldo al quarto grado quando il suo calore sarà pari a sedici volte la sua freddezza. La regola stabilita da al-Kindī è chiara: perché la sensazione passi da n a n+1, è necessario che il rapporto (caldo/freddo)n sia moltiplicato per sé stesso.
Al-Kindī si mantiene entro i limiti delle qualità tattili (secondo la terminologia di Aristotele) ed è in relazione a questo che è criticato da Averroè nel Colliget. Niente lascia supporre che egli volesse utilizzare i risultati delle sue ricerche per riformare la dinamica aristotelica, dove tra l'altro avrebbero perso gran parte della loro pertinenza 'psicofisica'. È innegabile, tuttavia, che la portata della sua indagine oltrepassasse di molto il quadro della farmacopea. Dal momento che le qualità tattili di cui si parla sono le stesse della 'chimica' aristotelica, la scoperta di al-Kindī riguardava in effetti il principio di composizione di tutte le sostanze sensibili.
È interessante notare come il traduttore latino, Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187), abbia accentuato la virtuale universalità delle osservazioni del filosofo arabo. Così, il titolo originale del libro, Fī ma῾rifat quwāt al-adwiya al-murakkaba (Sulla conoscenza delle facoltà dei farmaci composti), diventa in latino De rerum gradibus. Una tale scelta predisponeva il testo di al-Kindī a divenire la 'Bibbia' dei 'calcolatori' latini, il cui progetto era quello di quantificare le variazioni qualitative delle sostanze, ma si prestava ugualmente bene al tentativo di concepire le variazioni della velocità sulla base delle variazioni qualitative dei corpi. È questo il percorso storico che ha condotto Bradwardine ad allineare la dinamica aristotelica alla chimica di al-Kindī. Il fisico inglese non mette infatti in rapporto la progressione aritmetica della velocità media con la progressione aritmetica del quoziente P/R, bensì con la sua progressione geometrica, ossia con la sua potenza; la velocità si raddoppia quando il quoziente è elevato al quadrato, si triplica quando è elevato al cubo, ecc. Ovvero, per servirci di una terminologia anacronistica, v=klog(P/R), dove k è una costante. Questa legge, stabilita naturalmente senza la minima verifica sperimentale, tendeva a rendere la velocità media meno direttamente dipendente dai suoi due parametri, allo scopo di giustificare l'estrema vicinanza dei tempi di caduta dei gravi. Sviluppata e perfezionata dagli immediati successori di Bradwardine, e in particolare da Richard Swineshead e John Dumbleton, questa teoria conobbe un notevole successo a Parigi e in Italia fino al XV-XVI secolo.
Pur senza implicare necessariamente la teoria della caduta dei gravi nel vuoto adottata da Buridano, Bradwardine e Alberto di Sassonia, questa legge 'logaritmica' vi si adatta tuttavia alla perfezione. Il ragionamento proposto da questi fisici è il seguente: poiché ogni corpo omeomero è un composto formato, in determinate proporzioni, dai quattro elementi, e dunque da particelle tendenti sia verso l'alto sia verso il basso, il suo movimento in una delle due direzioni può essere solo il risultato della preminenza di una tendenza sull'altra, senza per questo eliminare mai del tutto il ruolo della resistenza intrinseca. Poiché volumi diversi del medesimo omeomero obbediscono alle stesse proporzioni elementari, due corpi omeomeri cadranno nel vuoto alla stessa velocità (finita). Il carattere arcaico di queste considerazioni dimostra come il desiderio di salvare la legge fondamentale di Aristotele stesse a cuore ai fisici del XIV sec. più del rigore del ragionamento con cui si giungeva a tale risultato.
Questa complessa teoria della velocità media chiarisce meglio il reale significato dei diagrammi delle velocità 'uniformemente difformi' utilizzati dai fisici latini del XIV secolo. Il loro scopo non era la determinazione delle velocità istantanee, escluse dalla stessa formulazione delle leggi dinamiche del movimento, bensì quello di ricondurre il caso del movimento uniformemente accelerato, e in primo luogo la caduta libera dei gravi, nell'ambito dei movimenti a velocità costante, gli unici ai quali fosse possibile applicare la formula matematica di al-Kindī.
Benedetti e Galilei
Abbiamo già accennato alla legge di Benedetti e alle sue analogie con quella dei mutakallimūn. L'unica differenza è che questi ultimi erano atomisti, mentre Benedetti seguiva la concezione aristotelica della materia (costituita da omeomeri). Si attribuisce generalmente a Benedetti il merito di aver per primo distinto chiaramente la resistenza frizionale del mezzo dalla spinta archimedea, ma questo è vero solo per ciò che riguarda la sua esplicitazione formale. In effetti, nel Colliget di Averroè si trova già una frase che va nella stessa direzione quando parla della "causa dell'uguaglianza [delle velocità] delle cose mosse, che hanno lo stesso 'peso', la stessa 'figura' e la stessa 'grandezza', quando si muovono nello stesso 'mezzo' o in due mezzi di uguale densità o rarefazione" (ff. 130-132) e, come vedremo, è probabile che questa distinzione fosse alla base delle concezioni dinamiche di Ibn al-Hayṯam. In ogni caso, Benedetti concepisce il peso come il prodotto del volume e della differenza dei mezzi P=V(D−Dm) e giunge alla velocità media della caduta dei corpi applicando la legge aristotelica, sostituendo alla resistenza "del mezzo" la superficie S del corpo in caduta (in questo caso, una sfera) v=V(D−Dm)/S. Queste riflessioni di Benedetti si segnalano dunque in primo luogo come un tentativo di lettura statica ‒ nel senso archimedeo ‒ della questione dinamica, così come era posta nel Medioevo.
Le riflessioni di Galilei sulla velocità media della caduta dei gravi proseguono lungo la linea tracciata da Benedetti. Nel De motu, anche Galilei cerca di dedurre la velocità dal peso e giunge a ipotizzare l'uguaglianza delle velocità nel vuoto, facendo corrispondere la velocità alla differenza tra la densità del corpo e quella del mezzo, v=D−Dm. È questa la formula paragonata da Moody a quella di Avempace.
Lettinck (1994) ritiene molto improbabile che Avempace (o Filopono) potessero pensare che il rallentamento causato dal mezzo dovesse essere calcolato sulla base della forza archimedea e delle densità specifiche, affermando che non esistono indizi dell'esistenza a quel tempo del concetto stesso di densità specifica; ma ha torto. Non solo infatti Abū Hāšim al-ǧubbā᾽ī, verso il 900, aveva assimilato esplicitamente la resistenza opposta dal mezzo all'i῾timād del corpo che lo attraversa alla spinta archimedea, ma il concetto di densità specifica è alla base di una lunga tradizione araba di statica archimedea. Nel De motu, Galilei si è quindi limitato a riprendere un filone di ricerca inaugurato almeno cinquecento anni prima. In compenso, il risultato dei Discorsi, che afferma l'uguaglianza della caduta dei gravi nel vuoto, è senz'altro più originale, essendo all'epoca i testi fisici mutaziliti ancora sconosciuti. Galilei giunge a questo risultato osservando che lo scarto tra le velocità di caduta decresce con l'aumento della sottigliezza del mezzo. Ne conclude che lo scarto deve essere nullo nel vuoto e modifica la legge di Benedetti in modo tale da esprimere questo concetto, v=c(D−Dm)/D. Il percorso seguito per giungere a questo risultato rimane quindi almeno parzialmente di natura logica.
Come hanno osservato gli storici della meccanica (Dijksterhuis 1956), questo aspetto delle ricerche di Galilei si colloca sul versante medievale della storia della dinamica. Non soltanto infatti esso appare ancora legato a una concezione tutto sommato aristotelica della questione, dal momento che l'obiettivo è quello di giungere a una formulazione della velocità in funzione tanto del peso quanto della resistenza, ma la variante tempo rimane del tutto assente da questa fase (ancora di impronta benedettiana) delle ricerche di Galilei.
Le leggi preclassiche della dinamica
Questo rapido giro d'orizzonte, che non aveva beninteso lo scopo di riscrivere la storia della dinamica tra il VI e il XVII sec., ma solo quello di dare un'idea dei problemi e delle risposte più interessanti, può essere dunque riassunto nel seguente modo: a partire da Filopono, la 'legge' fondamentale della dinamica aristotelica è sottoposta a una serie di revisioni, che si distinguono principalmente sulla base dei loro rispettivi presupposti ontologici. In particolare, è possibile isolare una legge legata alla teoria neoplatonica della causa effettiva (Filopono), una legge legata all'indifferenziazione geometrica dei punti-atomi (scuola di Abū Hāšim al-ǧubbā᾽ī) e una legge legata alla teoria aristotelica del leggero e del pesante (Buridano).
È interessante notare che due sistemi ontologici diversi conducono a volte alla stessa legge (scuola di Abū Hāšim, da un lato, Benedetti-Galilei, dall'altro) e che due sostenitori dello stesso sistema possono invece giungere alla formulazione di due leggi diverse (Avempace, Averroè e Bradwardine nel quadro dell'aristotelismo). Resta il fatto che tutte queste rielaborazioni della teoria aristotelica non possono essere considerate dei reali 'progressi' scientifici. Non soltanto infatti il modo di porre il problema ‒ velocità, peso, resistenza ‒ rimane quello di Aristotele, ma la forma dell'argomentazione, che mescola richiami all'esperienza comune, ragionamenti per assurdo ed estrapolazioni di natura dialettica oppure logica, non ha nulla di moderno. Tutt'al più si può rilevare in alcuni casi ‒ soprattutto in Abū Hāšim, Benedetti e Galilei ‒ un tentativo di prendere in considerazione l'aspetto statico della questione.
Il silenzio di Avicenna sulla 'legge' del movimento
Per comprendere l'esatta portata della dinamica di Avicenna il modo più istruttivo è quello di partire da quanto vi è di più aristotelico in essa: la sua negazione dell'esistenza del vuoto sulla base della velocità dei movimenti naturali. Procedendo lungo la linea della Fisica (IV, 8) Avicenna comincia con l'osservare le differenze di velocità del movimento naturale dei corpi che ci circondano, attribuendole "sia a qualcosa nel corpo mosso, sia a qualcosa nella distanza". Si tratta nel primo caso della "forza del suo impulso", che è dovuta a sua volta, nel caso del corpo che cade, al suo peso e al suo volume. Avicenna osserva inoltre l'importanza della forma dell'oggetto. Il cilindro che precipita con la punta rivolta in basso fende l'aria più facilmente del cubo che le oppone la resistenza di una delle sue facce. In ogni caso, dopo una descrizione piuttosto minuziosa di questo punto, assente dalla Fisica di Aristotele e ripreso da tutti gli autori successivi, da Averroè a Benedetti, Avicenna conclude la propria analisi facendo notare la sua 'scarsa utilità' ai fini della risoluzione del problema.
Avicenna torna in effetti nel vivo dell'argomento distinguendo chiaramente tra la forma più o meno dinamica del corpo mosso e la resistenza prodotta dalla densità del mezzo. Più il mezzo è denso, afferma chiaramente Avicenna, più il movimento è lento. Tranne una descrizione un po' più precisa dei differenti fattori, non vi è quindi nulla che differenzi, a questo stadio, la negazione del vuoto di Avicenna da quella di Aristotele. È solo nell'enunciato della conclusione della dimostrazione e nelle poche osservazioni da cui è seguita, che si può rilevare un cambiamento di prospettiva:
È necessario, pertanto, che il movimento non sia nel tempo, e che non sia fuori del tempo, il che è assurdo. E non vi è bisogno, in questa prova da noi addotta, di porre, per questa resistenza che è secondo il rapporto menzionato, un imperativo interno di esistenza o di non esistenza (istiḥqāqu wuǧūdin aw ῾adamin). Infatti diciamo che il tempo di questo movimento nel vuoto è uguale al tempo del movimento in una certa resistenza, 'supponendo che essa sia esistente' (law kānat mawǧūdatan). Ora, questa premessa è veridica e noi abbiamo messo in luce la sua verità. E ogni movimento nel vuoto è un movimento in assenza di resistenza; anche questa premessa è veridica. E ogni movimento in assenza di resistenza non può essere uguale, secondo qualsiasi rapporto, a un movimento in presenza di una data resistenza, 'supponendo che questa resistenza sia esistente' (law kānat mawǧūdatan). Da queste premesse consegue che nessun movimento nel vuoto può essere uguale, dal punto di vista del tempo, al tempo di un movimento in presenza di una certa resistenza, 'supponendo che essa esista' (law kānat). (al-Šifā᾽, al-ṭabī῾iyyāt, p. 131)
Il ragionamento di Avicenna si differenzia per due aspetti da quello di Aristotele. Questi aveva messo i partigiani del vuoto non di fronte a un dilemma (che lo spostamento potesse essere insieme istantaneo e nel tempo) ma di fronte a un'aporia (che la velocità potesse essere infinita). Avicenna rifiuta senza mezzi termini l'istantaneità di un percorso spaziale e postula di conseguenza la durata di ogni traslazione, ivi comprese quelle nel vuoto. Questa prima deviazione dalle posizioni di Aristotele spiega almeno in parte la seconda: poiché diveniva impossibile far nascere la negazione del vuoto dalla semplice idea di una velocità infinita, era necessario dedurla dal suo contrario, ossia dalla finitezza della velocità del movimento nel vuoto.
Supponiamo dunque un movimento nel vuoto. La sua velocità, finita, è in un certo rapporto con la velocità dello stesso corpo in un dato mezzo. Avicenna insiste per ben quattro volte sul fatto che non è necessario che la resistenza, considerata come elemento di proporzione, sia realmente esistente. Il solo fatto che la si possa concepire è infatti sufficiente a confutare la possibilità del movimento nel vuoto, poiché un movimento privo di resistenza si svolgerebbe allora in modo identico a un movimento in presenza di una resistenza. Non si tratta tanto di stabilire che la velocità è inversamente proporzionale alla resistenza, quanto piuttosto di sostenere che un mezzo sufficientemente denso è in grado di rallentare qualunque corpo, in rapporto a una velocità superiore. Si ha dunque una velocità rallentata di intensità pari a quella del movimento nel vuoto. È questa potenza del rallentamento che l'accettazione del principio della velocità finita nel vuoto renderebbe superflua.
Avicenna si guarda bene dunque dal riprendere la legge aristotelica o la revisione di Filopono della stessa legge. Questa impressione trova conferma nell'ultimo capitolo della Fisica di al-Šifā᾽, dove Avicenna si rifiuta in maniera esplicita di accettare nella loro totalità le 'equazioni della dinamica' aristoteliche. Con un simile comportamento egli lascerà così in eredità ai posteri una delle più fruttuose esitazioni della storia della fisica preclassica.
Il mayl
Per riuscire a comprendere le ragioni profonde di questo rifiuto, occorre necessariamente esaminare più da vicino gli scopi e le premesse della sua dinamica. A costo di una leggera forzatura dei testi, è possibile interpretare la fisica aristotelica come un meccanismo di moto perpetuo. Le sfere celesti sono mosse dal primo motore e muovono a loro volta il Sole in un duplice movimento, che produce le variazioni di calore necessarie alla generazione e al mantenimento della vita sulla Terra. Un arresto della sfera esterna provocherebbe quindi un arresto di tutto ciò che ne dipende, con la conseguente rottura di tutte le catene cinetiche che rendono possibile la vita sulla Terra. Queste considerazioni spiegano l'importanza decisiva attribuita alla questione della quies media (v. cap. III). Detto ciò, le sostanze primarie del Cosmo, a differenza delle parti di un meccanismo, possiedono in sé stesse il principio del loro movimento e del loro riposo. Aristotele non si è mai espresso con assoluta chiarezza sulla natura di questo impulso e la teoria avicenniana dell'impetus (mayl) si propone di sistematizzare tale aspetto della teoria.
A livello esteriore, questa sistematizzazione si traduce in una semplificazione terminologica. Avicenna postula l'esistenza di tre tipi di mayl, uno psichico, uno naturale e uno violento, grazie ai quali è possibile spiegare tutti i movimenti che avvengono nell'Universo. Il mayl naturale si suddivide a sua volta in un mayl rettilineo, che spinge i quattro elementi a raggiungere i loro luoghi naturali, e in un mayl circolare, che è proprio dei corpi celesti. Il mayl violento è responsabile di tutti i movimenti sublunari diversi dal moto rettilineo, e in particolare dei movimenti dei proietti.
L'aspetto più interessante di questo tentativo di sistematizzazione non è però la classificazione scolastica, ma piuttosto l'impossibilità di costruire al suo interno una spiegazione coerente del più comune moto rettilineo, quello della caduta dei gravi. Impossibilità storicamente feconda. Nel caso del mayl naturale circolare, infatti, le variazioni di velocità rimangono accidentali; in altri termini, l'impulso che spinge un corpo celeste a compiere il proprio tragitto deve essere concepito allo stesso modo del mayl psichico, attraverso il quale un animale controlla, per così dire, la sua velocità. Lo spostamento da un punto A a un punto B non implica un aumento costante di velocità lungo il percorso. Avicenna tuttavia sa bene che le cose vanno diversamente nel caso del mayl naturale rettilineo. Una zolla di terra lasciata cadere da una certa altezza precipita verso il centro della Terra a velocità crescente. Esiste dunque una frattura tra i due tipi di mayl naturale che tende a schiacciare il mayl rettilineo su quello violento ed è questa la ragione profonda per la quale Avempace, come abbiamo visto, era giunto a considerare la caduta dei corpi nel vuoto come l'unica realizzazione adeguata del 'movimento naturale'.
La semplice constatazione dell'accelerazione della caduta dei gravi costringe di fatto Avicenna ad ammettere una duplice accezione del mayl: è mayl (mayl-1) l'impulso di un corpo verso il suo luogo naturale, ma è mayl (mayl-2) anche l'impulso concreto di un corpo in un momento qualsiasi del suo percorso. Il mayl-2 costituisce, se si vuole, la realizzazione intensiva, attribuibile a una certa posizione nel tempo e nello spazio, di una proprietà ontologica, il mayl-1. Naturalmente, è nella natura del fuoco dirigersi verso l'alto e in quella della terra cadere verso il basso, ma il processo di traslazione effettivo obbedisce evidentemente a un'altra regola, meno direttamente ontologizzante: l'accelerazione.
Avicenna, cosciente di questa difficoltà, ci ha lasciato due testi in apparenza contraddittori, segnalati e discussi per la prima volta da Hasnaoui (1984). Il primo, tratto dalle Mubāḥaṯāt (Le ricerche) può apparire a prima vista come un tentativo di ontologizzare l'accelerazione, ossia come un ritorno alla spiegazione proposta da Temistio (317-388) nella sua parafrasi del De caelo, diffusa anche in arabo (Clagett 1959). L'accelerazione costante del grave è dovuta alla sua natura e al fatto che la sua velocità aumenta in funzione della vicinanza alla Terra (il suo luogo naturale). Tale spiegazione appare tuttavia insoddisfacente, dato che Avicenna non poteva ignorare che un grave impiega esattamente lo stesso tempo a cadere in fondo a un pozzo o dall'alto di una montagna, ceteris paribus. Il testo di Avicenna, però, non è del tutto chiaro e non si può escludere che la vicinanza variabile alla Terra fosse considerata più un sintomo che una causa. Il testo del De generatione et corruptione di al-Šifā᾽ sembra dunque avanzare un'altra possibile soluzione: è lo stesso mayl naturale a produrre, nell'istante successivo, un altro mayl di intensità superiore, che a sua volta produce un mayl di intensità ancora maggiore e così via. A differenza della spiegazione di stampo temistiano delle Mubāḥaṯāt, non si parla qui della posizione nello stato di riposo, ma solo della dinamica interna dei mayl. Questo non significa però che lo stato non naturale (del grave) non influisca, in ogni punto della (sua) traiettoria, sull'accelerazione. Prima di esaminare un testo di Avicenna che dimostra come senza dubbio ai suoi occhi i due tipi di interpretazione non apparissero contraddittori, ci accontenteremo per il momento di notare l'insistenza con cui Avicenna fa ricorso in questo tipo di analisi al concetto di mayl. In un contesto identico, Olimpiodoro (In Aristotelis meteora commentaria, 279, 15-18) si limita a osservare vagamente, sempre in margine al De generatione et corruptione (II, 9, 336a 1-12), la tendenza del caldo, quando non sia controllato da una potenza attiva, a progredire all'infinito e ad accrescersi, senza accennare tuttavia a nessuna dinamica degli impulsi.
Aristotele, meno interessato di Avicenna alla questione dell'intensità del movimento, poteva trascurare, come 'caso limite', quanto si verifica nell'istante, essendo per lui quest'ultimo il limite fittizio della durata. Però, dal momento in cui si ammetteva l'esistenza del mayl-2, era necessario affrontare una scelta cruciale: o si postulava, per evitare il rischio di una regressione all'infinito, che il movimento naturale di un corpo fosse composto da movimenti minimi separati da intervalli più o meno lunghi di riposo (soluzione adottata dalla maggioranza dei mutakallimūn); oppure si decideva di mantenere la perfetta continuità del movimento. Il secondo punto del dilemma implicava però una scelta ulteriore: ammettere l'infinito in atto (soluzione contenuta in germe nelle opere di ṯĀbit ibn Qurra), oppure tentare di riformulare la distinzione aristotelica tra atto e potenza su un terreno divenuto assai poco favorevole. È questa la soluzione scelta da Avicenna che lo costringe a riprendere il problema alla base, ovvero ad approfondire la discussione aristotelica sull'infinito e il movimento.
Prima di passare all'aspetto costruttivo della dottrina di Avicenna, ci sembra opportuno accennare brevemente alla sua negazione dell'atomismo. La teoria dell'impulso (al-i῾timād) dei mutakallimūn si colloca all'interno di una visione fondamentalmente discontinua della realtà, nella quale il movimento da un punto A a un punto B è composto da una serie discreta di movimenti minimi.
Gli stessi fisici islamici erano stati i primi a percepire l'approssimativa equivalenza concettuale di mayl e i῾timād. Nel quadro della fisica discontinua di Abū Hāšim, l'accelerazione non poteva essere quindi concepita se non facendo ricorso a diversi livelli. Un corpo gettato in aria, per esempio possiede un i῾timād d'intensità 1000 nell'istante t0, 900 nell'istante successivo t1, 800 nell'istante t2, ecc. Quando l'i῾timād violento residuo non è più sufficiente a bilanciare quello naturale che lo porta verso il basso, il corpo inverte la sua corsa e precipita verso terra. Ma la cosa più difficile da ammettere per un aristotelico è che queste unità di movimento siano separate tra loro da intervalli di quiete e siano ricreate ogni volta dalla benevolenza divina. La confutazione di Avicenna è contenuta nella Fisica di al-Šifā᾽. Nella sua presentazione delle diverse ipotesi avanzate per spiegare il movimento dei proietti, Avicenna critica con queste parole la dottrina mutazilita della 'generazione' (tawallud): "Alcuni sono sostenitori del tawallud. Infatti, affermano, è nella natura del movimento che un altro movimento sia generato dopo di lui, e nella natura dell'i῾timād che un altro i῾timād sia generato dopo di lui. Secondo costoro è possibile che un movimento cessi, sia seguito da un periodo di riposo e poi un nuovo movimento sia generato dall' i῾timād. È una completa assurdità" (325, 18-326, 1).
Avicenna riassume così, al punto da renderle irriconoscibili, le opposte posizioni di un dibattito interno al mutazilismo. Sappiamo infatti (v. cap. III) che tra i mutaziliti di Baghdad, e in particolare al-Balḫī, e i mutaziliti di Bassora era sorta una disputa riguardante il rapporto tra movimento e i῾timād. A quanto pare, al-Balḫī e i suoi discepoli consideravano la 'spinta' una semplice conseguenza del movimento del corpo e in nessun caso la sua causa, tanto che alcuni giungevano a negare la realtà stessa dell'i῾timād. Secondo al-Balḫī, solo un movimento può generare un altro movimento, mentre secondo Abū Hāšim è l'i῾timād dell'istante t1 che genera il movimento dell'istante t2, l'i῾timād dell'istante t2 che genera il movimento dell'istante t3 e così via. Generazione dal movimento e generazione dall'i῾timād non sono dunque fenomeni simmetrici. Nel primo caso, il movimento è la causa di sé stesso, mentre nel secondo il mobile è mosso da una sorta di motore interno. La scarsa precisione di Avicenna è sintomatica del fatto che la sua critica si appuntava altrove: non gli premeva infatti tanto stabilire il primato del movimento o quello dell'impetus, quanto stigmatizzare l'assurdità del processo discontinuo teorizzato dai mutakallimūn. Concepire la traslazione di un corpo da un punto A a un punto B come una serie di spostamenti atomici separati da intervalli di quiete gli appare completamente privo di senso. Questa idea soffocava in effetti ab ovo quell'idea di energia cinetica a cui sembrava voler dare adito. L'accelerazione costante dei gravi è concepita dunque da Avicenna al contrario, come un processo continuo e reale allo stesso tempo.
Qual è dunque la realtà del continuo? La risposta fornita da Avicenna si può comprendere soltanto alla luce del lavoro di chiarificazione teoretica imposto dalla lettura delle tesi sull'infinito in atto di ṯĀbit ibn Qurra. Avicenna, conscio dell'impossibilità di rifiutare in toto l'idea di infinito attuale, è costretto a effettuare due distinzioni. La prima, che era già contenuta in germe nella dottrina di Aristotele e che doveva certamente essere stata sviluppata nel trattato perduto di al-Fārābī Fī 'l-mawǧūdāt al-mutaġayyira (Sugli esseri variabili), è legata al modo di interpretare il concetto di esistenza in atto. Avicenna esclude prima di tutto da questa categoria gli insiemi infiniti di avvenimenti non concomitanti. Così, il numero infinito di anni che precedono quello in cui viviamo non è infinito in atto, dato che questi anni non esistono tutti contemporaneamente. Qualcuno avrebbe potuto tuttavia rinnovare l'attacco finitista sollevando la questione delle anime sopravvissute alla morte, che esistono senza dubbio tutte insieme. Avicenna ribatte a questa obiezione con una teoria originale: l'infinito in atto è in effetti possibile quando gli elementi dell'insieme non si trovano tra loro in una relazione d'ordine (tartīb), come nel caso delle anime, che quindi possono essere infinite in atto. Avicenna si è limitato però a trasmetterci ‒ non sappiamo se per pura negligenza o per una tenace riluttanza ad ammettere la possibilità dell'infinito in atto ‒ solo l'enunciato negativo di questo principio: "Noi diciamo […] che è impossibile, nelle cose numerate e dotate di un ordine naturale o posizionale (la-hā tartībun fī 'l-ṭab῾ aw fī 'l-waḍ῾), che si dia una grandezza o un numero che si trovino a esistere in atto, infiniti" (al-Šifā᾽, al-ṭabī῾iyyāt, p. 212).
Avicenna riformula dunque la bipartizione aristotelica dell'infinito, superando la concezione dell'infinito in atto come categoria priva di contenuto. Non si deve sottovalutare l'importanza di questo passo anche solo a livello ideologico, data l'influenza esercitata dal suo autore sui successivi sviluppi della filosofia araba e latina. Tuttavia, questa tendenza ad attribuire all'infinito in atto una realtà non solo teorica si riverbera, con effetti ancora più profondi e fecondi, anche sulla lettura dell'infinito in potenza aristotelico proposta da Avicenna.
Essenzialmente Avicenna, nel ridurre la frattura tra infinito per divisione e infinito temporale, avvicina l'analisi del primo a quella del secondo.
In altri termini, il caso paradigmatico dell'infinito in potenza offerto da Aristotele (la dicotomia), è deliberatamente letto alla luce della sola configurazione per la quale Aristotele ammetteva, a fior di labbra, la possibilità di qualcosa di molto simile a un'infinità in atto: la successione indefinita delle rivoluzioni celesti. Dopo aver ammesso l'infinità in atto degli insiemi non ordinati, Avicenna interpreta quindi l'infinito in potenza di Aristotele come un infinito in atto virtuale. Avicenna si contrappone inoltre diffusamente ad Aristotele sulla questione dell'esistenza 'in atto' dei punti della retta, rifiutando per essi una condizione di pura potenzialità, pur sottolineandone l'evanescenza e la non sostanzialità (nel senso aristotelico). Esiste un'infinità 'in entelechia' dei punti della retta, intesa però come insieme infinito di avvenimenti e non di sostanze.
I testi più significativi su questa questione non sono ancora stati studiati e provengono dalla parte delle Ta῾līqāt (Glosse) di Avicenna dedicata alla discussione del mayl delle sostanze celesti. Nell'esame degli aspetti che lo distinguono dal mayl dei corpi sublunari, Avicenna fornisce alcuni chiarimenti sul movimento rettilineo dei corpi naturali e cerca di dimostrare, contro Aristotele, che ogni punto della traiettoria di caduta di un grave possiede un principio attuale di distinzione, il suo mayl-2:
La ragione dell'alterazione (al-istiḥāla) che si verifica nei corpi naturali dotati di forza si trova nei luoghi e nelle posizioni, mentre il movimento rettilineo dipende dalla Natura e dal fatto che il mobile non si trova nel suo luogo naturale. E la causa della rinnovazione [leggendo taǧaddud in luogo di taḥaddud] e della ripetizione dei suoi movimenti, come dell'alterazione (tendente all'annichilimento di una forza e al rinnovamento di un'altra) della sua natura, è l'esistenza di ubi e di posizioni determinate in atto (wuǧūdu uyūnin wa awḍā῾in mutaḥaddidatin bi-'l-fi῾l), dall'inizio del suo movimento fino al momento della stabilizzazione. La Natura infatti non cessa, a ogni istante [fī kulli ānin], di essere in uno stato rinnovato diverso dal precedente e questi stati sono prodotti dal cambiamento dei mayl (wa-hāḏihi aḥwālun li-'l-muyūli 'l-mutabaddila). Lo stesso dicasi per l'alterazione di questa o quella qualità, per esempio per il calore estraneo nell'acqua, che non cessa in ogni istante di alterarsi, mutare, aumentare o diminuire fino a quando non ritrova il suo stato naturale. La causa rinnovata di questo è l'esistenza degli ubi e delle posizioni determinate in atto. (Badawi 1972, p. 105, 6-13)
Quattro punti ci sembrano particolarmente degni di nota.
1) L'uso ripetuto dei termini 'rinnovazione' (taǧaddud, taǧaddada) e 'stato' (ḥāl) consente di cogliere in tutta la sua complessità la posizione di Avicenna nei riguardi del mutazilismo della sua epoca, e in particolare di quello di Abū Hāšim. Egli condivide infatti con i discepoli di quest'ultimo l'idea che il movimento si rinnovi a ogni istante e che il mobile si trovi, in ogni istante del suo percorso, in uno stato diverso dal precedente, caratterizzato da una posizione (il waḍ῾ di Avicenna corrisponde allo ḥayyiz dei mutakallimūn) e prodotto da un certo impulso (mayl in Avicenna e i῾timād per i i discepoli di Abū Hāšim). Queste somiglianze, che richiederebbero uno studio più dettagliato, rendono ancora più palpabile la differenza di fondo tra i due sistemi, la loro analisi del continuo: per Avicenna, infatti, tra due siti ve n'è sempre un terzo, mentre i seguaci di Abū Hāšim concepiscono i siti come una serie discreta, pur guardandosi bene dal fissarne le soglie atomiche in modo quantitativo. Questo passaggio conferma dunque pienamente il fatto che il vero obiettivo delle critiche espresse da Avicenna nella Fisica di al-Šifā᾽ non era tanto il tawallud (equivalente concettuale del taǧaddud) in sé, quanto piuttosto la discontinuità atomica postulata dai mutakallimūn. L'operazione portata a termine da Avicenna si configura quindi, almeno in una certa misura, come una riformulazione continuista dei principî dinamici di Abū Hāšim.
2) Questa influenza implica una presa di distanza immediata dalla teoria aristotelica del continuo, dal momento che Avicenna concorda con i mutakallimūn sulla necessità di riconoscere a ciascun punto della traiettoria un particolare principio di distinzione, legato al suo mayl. A livello terminologico, questa tensione si traduce nell'impiego del termine 'alterazione', istiḥāla, per descrivere le variazioni del movimento. Sappiamo che nella tradizione peripatetica araba questo termine traduce alloíōsis, il cambiamento nella categoria della qualità poiótēs dei peripatetici greci. Avicenna si è trovato dunque a dover fondere insieme strumenti tenuti meticolosamente separati dalla dottrina tradizionale.
3) L'introduzione di questa analisi dell''alterazione' del movimento in un quadro continuista dimostra che Avicenna era cosciente di trovarsi a operare ai margini dell'infinito in atto. Da questo punto di vista, non è casuale che egli precisi per due volte che tutte le posizioni successive sono determinate "in atto" (bi-'l-fi῾l). Dato che Avicenna ammette naturalmente l'infinità dei punti e dunque delle posizioni lungo una traiettoria AB, ne deriva che tutti gli elementi di un insieme infinito sono determinati in atto. Si può notare tuttavia che Avicenna non afferma mai che essi sono infiniti in atto, per una ragione molto chiara: i diversi stati della traiettoria non si realizzano tutti insieme (ma῾an). Abbiamo così la conferma dell'ipotesi suggerita sopra: costretto dalle esigenze della sua nuova dinamica, Avicenna ha riformulato l'analisi aristotelica dell'infinito per divisione accostandola a quella dell'infinito temporale. Ciò gli ha permesso di introdurre anche nell'infinito per divisione una dose non trascurabile di attualità, totalmente estranea al pensiero 'anti-zenoniano' dello Stagirita, pur continuando a rivendicarne il carattere "potenziale".
4) L'ultima originalità della dinamica delle Ta῾līqāt può essere colta solo alla luce della teoria cinematica della Fisica di al-Šifā᾽ (Libro II, cap. 1), già oggetto di due importanti contributi (Maier 1958; Hasnawi 2001). Sotto il termine 'movimento', Avicenna descrive qui due realtà ben distinte. La prima, designata da A. Hasnawi come movimento-1, corrisponde al movimento-percorso, che dipende solo dalla nostra facoltà immaginativa e che possiamo concepire solo lungo una traiettoria dotata di un inizio e, soprattutto, di una fine. Il secondo, il movimento-stato intermedio, ossia il movimento-2 di Hasnawi, può essere invece attribuito a qualsiasi momento spazio-temporale della traiettoria del mobile e lo caratterizza in quanto tale, a esclusione di tutti gli altri. Il brano delle Ta῾līqāt che abbiamo presentato è l'unico testo in cui movimento-2 e mayl-2 siano messi esplicitamente in rapporto. Il vero principio di distinzione di ciascuna posizione della traiettoria sono i mayl, secondo quanto afferma Avicenna. Tale relazione dimostra inoltre come l'approccio delle Mubāḥaṯāt e quello del De generatione et corruptione di al-Šifā᾽ non siano in effetti contraddittori. La teoria di Avicenna è che ogni sostanza allontanata, sul piano spaziale o qualitativo, dal suo luogo naturale, tende a farvi ritorno, attraversando tutti gli stati intermedi, ciascuno dei quali, non costituendo il termine del processo, produce un nuovo mayl, che viene ad aggiungersi a quello provocato da tutti gli stati precedenti. Ogni istante si caratterizza quindi per un'intensità cinetica propria. In un certo senso, l'accelerazione è dovuta alla nuova posizione, ma in un altro è dovuta all'impulso che la precede. L'intensità del mayl cresce quindi continuamente. Esiste uno stretto legame tra il mayl-1 e il movimento-1, da una parte, e il mayl-2 e il movimento-2, dall'altra: il mayl-2 garantisce la legittimità analitica del movimento-2 che, senza di questo, potrebbe essere interpretato come un modo puramente verbale di rapportare all'istante ciò che è dotato di esistenza reale solo a livello della durata. L'esistenza di un mayl-2 che contraddistingue ciascun istante del movimento rende utile e necessario riformare la dottrina di Aristotele, introducendovi il concetto di movimento-2, "la cosa che abbiamo dimostrato essere il movimento reale", come si compiace di definirlo lo stesso Avicenna (Hasnawi 2001, p. 236, n. 44).
Un'ulteriore conferma ci viene fornita dall'analisi delle traiettorie circolari dei corpi celesti, proposta da Avicenna. Contrariamente a quanto accade nel caso dei quattro corpi sublunari, qui il principio di distinzione delle posizioni non è reale, ma esiste solo nella facoltà immaginativa dell'anima degli astri. In altri termini, Avicenna si riappropria in questo caso ‒ solo in questo caso ‒ di una teoria di stampo puramente aristotelico, quella cioè in cui l'essere in potenza tò dynámei si confonde con l'esistenza puramente immaginativa, priva di un principio di distinzione reale (Physica, VIII, 8): "l'alterazione del corpo celeste non è dovuta alle sue posizioni ma alla sua immaginazione e alla sua volontà rinnovate, atto immaginativo dopo atto immaginativo (wa laysa sababu istiḥālati-hi awḍā῾a-hu bal tawahhuma-hu wa irādata-hu al-mutaǧaddidata tawahhuman ba῾da tawahhumin; al-Šifā᾽, al-Ta῾līqāt, p. 105).
Benché Avicenna insista molto sull'originalità della propria analisi ‒ innegabile sul piano della sintesi filosofica, questo è ovvio ‒ essa appare riconducibile, almeno in parte, alle indagini combinate dei matematici e dei mutakallimūn a lui contemporanei. Il modello proposto da ṯĀbit ibn Qurra per dimostrare il quinto postulato, o quello di al-Qūhī per negare la quies media, per servirci di due esempi di natura molto diversa, presuppongono entrambi l'infinito in atto. Al-Qūhī giunge del resto fino a dimostrare geometricamente che, se si ammette la propagazione istantanea della luce, è possibile percorrere una distanza infinita in un tempo finito. Pur disponendo di indizi piuttosto labili a tale proposito, non bisogna sottovalutare il contraccolpo di un uso sempre più massiccio del movimento in campo geometrico su una fisica infinitista. Sappiamo per esempio che un autore anonimo, criticato dal geometra al-Šannī aveva immaginato di muovere una retta perpendicolare a un piano parallelamente a quest'ultimo. La retta realizza in atto, a ogni istante della sua traslazione, un punto diverso del piano. Di fronte a riflessioni di questo genere, erano possibili solo due soluzioni: abbracciare l'atomismo, oppure accordare un certo spazio alla nozione di infinito in atto e, soprattutto, riformulare la concezione dell'infinito per divisione e del movimento (cioè, del movimento-1) di Aristotele. Questa è stata la strada percorsa da Avicenna.
La posizione di Avicenna si trova così all'incrocio di due dottrine. Con i matematici, egli riconosce che ogni punto della traiettoria, pur non essendo perfettamente reale, è concettualmente e qualitativamente distinto da ogni altro punto. Con i mutakallimūn, individua nella dinamica dei mayl il principio efficiente di tale distinzione. Partito da un progetto di classificazione dei mayl, Avicenna giunge così, quasi suo malgrado, a una teoria del movimento istantaneo in un punto. Questo ponte gettato, nel cuore stesso dell'aristotelismo, tra la cinematica dei geometri e la dinamica dei mutakallimūn sarà percorso più tardi, senza una chiara coscienza storica, da molti studiosi arabi e latini. Avicenna aveva effettuato un discreto riposizionamento della questione dinamica. Per ogni lettore sufficientemente lucido era chiaro che, da quel momento in poi, le soluzioni si sarebbero dovute cercare a livello infinitesimale.
Avicenna non ha tentato di riformulare la 'legge' fondamentale della dinamica aristotelica ma le ha, almeno in parte, girato le spalle, per dedicarsi a un'ontologia dinamista del mayl-2 e del movimento-2. Il mantenimento del movimento-1 sembra indicare tuttavia che egli avrebbe potuto accordare, insieme ad Aristotele e ai suoi seguaci, una certa legittimità a una formula del tipo v=p/r o v=p−r. Il primo autore al quale si può effettivamente imputare la rottura con l'aristotelismo su questo punto non è altri che il fondatore della fisica come disciplina autonoma: Ibn al-Hayṯam. Questo celebre matematico infatti non solo non ha sostenuto la legge nella sua forma aristotelica, ma non si è rifatto neppure alla tradizione filoponiana che aveva cercato di riformare la dottrina del Filosofo giocando sulla posizione e l'importanza relativa dei diversi parametri.
Prima di proseguire, è necessario effettuare alcune osservazioni sulle fonti di cui disponiamo. Fino a oggi, si conoscevano soprattutto le poche pagine del Kitāb al-Manāẓir (Ottica) dedicate alla discussione del rimbalzo dei corpi come referente di un'analogia formulata nel quadro della trattazione del raggio luminoso come fenomeno puramente fisico. È molto e poco allo stesso tempo. Molto, perché queste pagine di Ibn al-Hayṯam, tradotte in latino sin dal XIII sec., contengono in germe le prime riflessioni scientifiche sull'urto, che anticipano quelle portate avanti tra il XV e il XVII secolo. Poco, perché questo passaggio dell'Ottica si riferisce, ancora una volta, alla natura della luce e non a quella dei proietti. Ibn al-Hayṯam non le dedica quindi molto spazio.
Un recente contributo (Bancel 2001) ha gettato tuttavia una nuova luce sulla questione. Grazie a una dettagliata analisi di un capitolo della summa di statica di al-ḫĀzinī, il Kitāb Mīzān al-ḥikma (Libro della bilancia della saggezza), Bancel è riuscita a ricostruire alcuni preziosi paragrafi introduttivi di un trattato di statica perduto di Ibn al-Hayṯam. Può essere interessante mettere a confronto questo testo, in cui l'autore sviluppava una fonte statica, ripresa anche da al-Qūhī, in un senso almeno parzialmente dinamico, con le pagine summenzionate dell'Ottica e, soprattutto, con la tradizione dinamica aristotelico-filoponiana.
Procederemo in tre tappe. In primo luogo, studieremo il retroterra aristotelico delle discussioni sul comportamento spaziale della luce. L'originalità della posizione di Ibn al-Hayṯam è duplice: non solo infatti egli ammette un movimento nel tempo della luce ma respinge il modello ondulatorio, sviluppato dagli aristotelici per rendere conto del movimento del suono. Da questa conclusione si ricava che l'impetus dei corpuscoli fisici deve essere concepito come una 'forza viva' inerente al mobile. Passeremo quindi a esaminare le idee dinamiche di Ibn al-Hayṯam, come emergono dal suo trattato di statica. Infine, rileggeremo le pagine dell'Ottica in questa nuova luce.
Al-Kindī e Aḥmad ibn Miskawayh interpreti di De anima, II, 8
Per Aristotele e gli aristotelici, esiste una scissione tra il modo in cui una fonte luminosa rischiara un oggetto e il modo in cui una fonte sonora diffonde un rumore. Nel primo caso, la fonte luminosa permette la realizzazione in atto del mezzo in quanto mezzo, che si illumina istantaneamente per un'alterazione globale delle sue parti. Non si tratta quindi di un movimento locale. Nel secondo caso, discusso da Aristotele in De anima, II, 8, il modello adottato è decisamente più meccanico. Scrive Aristotele "Il suono in atto è sempre prodotto dall'urto di qualcosa contro qualcosa e in qualcosa, perché ciò che lo produce è una percussione. […] Ma […] non la percussione di due oggetti qualsiasi. Infatti la lana, se viene battuta, non produce alcun suono, e invece il bronzo e i corpi lisci e cavi sì. […] Inoltre il suono è udito nell'aria e anche (ma di meno) nell'acqua. Non è però l'aria né l'acqua la causa principale del suono, ma deve prodursi un urto dei corpi solidi l'uno contro l'altro e contro l'aria" (419b 9-20). Questa concezione generale permette ad Aristotele di fornire la seguente spiegazione dell'eco:
L'eco si produce quando, da una massa d'aria che s'è formata in un corpo cavo che la limita e le impedisce di disperdersi, l'aria viene respinta indietro come una palla. Sembra che l'eco si formi sempre, ma non sia perspicua, poiché avviene per il suono un fenomeno analogo a quello che accade per la luce. Anche la luce, infatti, si riflette sempre (in caso contrario la luce non si estenderebbe dappertutto, ma ci sarebbe buio, eccetto che nella zona illuminata dal Sole), ma non sempre si riflette come quando viene riflessa dall'acqua o dal bronzo o da un'altra superficie liscia. (ibidem, 25-32)
Parrebbe quindi che Aristotele, sull'onda di una meticolosa analisi del fenomeno acustico, giunga qui a relativizzare la teoria dell'alterazione istantanea del mezzo illuminato 'tutto in una volta', sostenuta in precedenza. Ma occorre fare attenzione a non esagerare la portata di tale relativizzazione. Aristotele si guarda bene in effetti dall'azzardare qualunque ipotesi sul modo di propagazione della luce o del suono, cosa che avrebbe consentito di misurare a pieno la consistenza dell'analogia. è particolarmente significativo, a tale riguardo, che nel brano citato il fenomeno del riflesso luminoso non sia paragonato direttamente al rimbalzo di una palla, ma ci si limiti ad accostare l'eco, dapprima al rimbalzo e poi al riflesso. La teoria dell'alterazione luminosa istantanea è messa in forse, a scopo argomentativo, solo per il breve spazio di un'analogia, e conserva la sua validità di fondo.
L'analisi di Aristotele era ben nota ai fisici arabi. Il paragone tra l'analogia e la propagazione del suono compare già in al-Kindī (seconda metà del IX sec.), che gli consacra un paragrafo del suo trattato sulla causa della neve, della grandine, del lampo, della folgore, del tuono e delle gelate. Il lampo si percepisce prima del tuono, afferma al-Kindī, perché "la vista percepisce i suoi oggetti istantaneamente (bi-lā zamānin)" (Rasā᾽il, II, pp. 83-84). Il filosofo precisa inoltre che "vediamo gli astri della sfera più esterna immediatamente, non appena apriamo gli occhi, malgrado la loro distanza". Seguono alcune righe dedicate al suono:
Nel caso dell'udito, le cose si svolgono in maniera del tutto diversa, poiché l'udito percepisce i suoi oggetti dopo un certo tempo. Così, quando vediamo qualcuno percuotere un pezzo di legno o un altro corpo in grado di emettere un suono udibile a distanza, l'udito percepisce il colpo sull'oggetto percosso. Ma percepiamo [subito] con la vista colui che percuote il legno, mentre sentiamo il rumore solo più tardi, dopo un intervallo di tempo corrispondente alla distanza (se la distanza è grande, l'intervallo è maggiore, se è piccola, l'intervallo è più breve). Così può accaderci di vedere un follone che batte un panno contro una pietra lungo una delle rive del grande fiume, mentre ci troviamo sulla riva opposta. Lo vediamo battere, poi fermarsi, ma percepiamo il rumore solo in un secondo momento, dopo un certo intervallo di tempo. (ibidem)
Al-Kindī non si limita a ripetere il discorso di Aristotele, ma lo indirizza in un senso più fisico. Due innovazioni ci sembrano particolarmente degne di nota. In primo luogo, al-Kindī postula esplicitamente l'esistenza di una proporzione diretta tra la durata della propagazione del suono e la distanza percorsa. Ciò presuppone evidentemente la possibilità di determinare la durata media del movimento sonoro. In secondo luogo, al-Kindī si preoccupa, come fa spesso, di dimostrare la validità della sua tesi per mezzo di un dispositivo sperimentale (per esempio, nel trattato sul flusso e il riflusso, in: Rasā᾽il, I, p. 118: wa-qad ǧarrabnā hāḏā 'l-qawl). Resta il fatto che, proprio come Aristotele, al-Kindī non tenta di spiegare cosa accade esattamente durante la propagazione del suono.
Su questo punto particolarmente interessante, la riflessione di al-Kindī è largamente ripresa, ma anche approfondita, da Aḥmad ibn Miskawayh (m. 421/1030). La questione 173 posta da Abū Ḥayyān al-Tawḥīdī in al-Hawāmil wa-'l-šawāmil è la seguente: "perché il suono del tuono giunge più lentamente e meno distintamente ai nostri orecchi della luce del lampo ai nostri occhi?". Risposta: l'illuminazione dell'aria è un'alterazione istantanea (fī ġayri zamānin) ‒ Ibn Miskawayh non esita a riprendere qui da al-Kindī la sua analisi del modo in cui percepiamo gli astri ‒, mentre il tuono "si imprime nell'aria attraverso un movimento e un'ondulazione, non un'alterazione". La struttura fisica del suono spiega perché esso impieghi un certo tempo a percorrere una certa distanza. Questa struttura ondulatoria del suono è oggetto di una precisa analogia con alcuni fenomeni osservabili nell'acqua:
Quanto al tuono, poiché esso si imprime nell'aria attraverso un movimento e un'ondulazione e non un'alterazione (kāna aṯaru-hu fī 'l-hawā᾽i bi-ṭarīqi 'l-ḥaraka wa-'l-tamawwuǧ, lā bi-ṭarīqi 'l-istiḥāla), è necessario che esso giunga al nostro orecchio in un tempo proporzionale alla sua velocità e alla sua lentezza. Infatti il suono, che è una percussione dell'aria, imprime un movimento ondulatorio (yumawwiǧu) all'aria che le sta accanto, così come la pietra imprime un movimento ondulatorio all'acqua che la circonda, quando la colpisce. Di conseguenza, come l'acqua è sospinta, una parte dopo l'altra, dal movimento delle onde, così accade anche all'aria, a causa della resistenza (al-mudāfa῾a) esistente tra le diverse parti, quando sono adiacenti l'una all'altra.
Come dunque l'acqua adiacente al bordo di una vasca, quando subisce un movimento ondulatorio, lo comunica dopo un certo tempo all'acqua che le sta accanto, poi a quella un po' più distante, fino a raggiungere il bordo opposto della vasca, dopo un intervallo di tempo proporzionale all'estensione della superficie dell'acqua, così l'aria, quando è percossa da un corpo rigido, muove l'aria che le sta accanto, che muove a sua volta [l'aria che le sta accanto] e così via, in momenti successivi, fino a raggiungere la parte che muove il nostro orecchio, facendoci percepire il suono. (al-Hawāmil wa-'l-šawāmil, II, p. 366)
Dopo aver completamente sviluppato l'analogia, Ibn Miskawayh conclude la sua riflessione riproponendo l'esempio del lavatore di panni, senza citare neppure qui la sua fonte. La specificità di questo esempio dimostra che ci troviamo di fronte a una lettura interpretativa del passo di al-Kindī. Rispetto alla sua fonte, Ibn Miskawayh insiste ancora più a lungo sulla proporzionalità tra la durata del percorso del suono e la lunghezza della distanza attraversata, tentando inoltre di fornire una spiegazione più soddisfacente del meccanismo di propagazione del suono, sulla base di una riflessione circa il movimento dei liquidi. L'analogia è fondata sull'idea di ondulazione o di movimento per onde (tamawwuǧ), che permea tutto il ragionamento. Poiché l'aria e l'acqua sono entrambe dei fluidi, è possibile applicare anche all'aria le modalità del movimento ondulatorio dell'acqua. Si è dunque autorizzati a postulare l'esistenza nell'aria di onde che, sospingendosi l'una dopo l'altra, trasferiscono la vibrazione dal luogo in cui avviene l'urto a un altro, posto a una certa distanza.
L'interesse di questa spiegazione, che anticipa le ricerche di Leonardo da Vinci sullo stesso tema, non risiede solo nella sua ingegnosità intrinseca, ma anche nella sua carica dirompente rispetto alla dottrina aristotelica originale. Secondo Aristotele, come abbiamo già detto, esisteva un'analogia tra l'eco e il rimbalzo di una palla, da una parte, e tra l'eco e il riflesso, dall'altra. Ma tali analogie erano inficiate dal fatto che, da un lato, l'evento suono era costituito dall'urto di due corpi solidi in un luogo determinato e, dall'altro, la teoria del mezzo non poteva essere adattata alla concezione del raggio luminoso come movimento locale. È questa la ragione che impediva ad Aristotele di costruire, a partire dalle prime due analogie, la terza, quella tra il rimbalzo di una palla e il riflesso luminoso. Al-Kindī e Ibn Miskawayh si videro quindi costretti, in un certo senso, a riformulare il problema. Entrambi sostenitori della teoria dell'illuminazione istantanea del mezzo, essi dovettero infatti, per non cadere in contraddizione, abbandonare le due prime analogie aristoteliche. Al-Kindī sceglie pertanto di limitarsi a una considerazione quantitativa del fenomeno acustico, la cui durata diviene una semplice funzione della distanza, mentre Ibn Miskawayh fa sua l'analisi di al-Kindī del fenomeno, sviluppando inoltre un'analogia diversa (e, a dire il vero, più penetrante) da quella di Aristotele.
Al-Kindī e Ibn Miskawayh potevano vantarsi dunque di aver formulato una teoria più adeguata della natura del suono. Restava tuttavia da risolvere il problema della luce, e la tentazione di rendere esplicita l'analogia aristotelica tra il rimbalzo di una palla e il riflesso luminoso. Per ogni fisico (nel senso aristotelico del termine) coerente, ciò avrebbe implicato la rinuncia a tre principi fondamentali: l'illuminazione istantanea del mezzo; il movimento dei proietti come prodotto dello spostamento dell'aria circostante; l'opposizione tra movimento naturale e movimento violento. Il prezzo teorico da pagare appariva quindi altissimo e ciò spiega senza dubbio perché gli aristotelici abbiano preferito gettare un velo pietoso sulla terza analogia.
La statica 'dinamica' di Ibn al-Hayṯam
Ci si potrebbe chiedere se Ibn al-Hayṯam fosse cosciente di dover pagare un prezzo per la sua scelta di realizzare l'analogia latente di Aristotele. In compenso, non c'è alcun dubbio che avesse individuato perfettamente i tre dogmi aristotelici messi in discussione dalla sua scelta. In questa sede non ci occuperemo né dell'aspetto ottico (raggio luminoso) né di quello ontologico-fisico (nuova teoria del luogo), della revisione operata da Ibn al-Hayṯam, ma esamineremo esclusivamente il suo modo di affrontare le questioni propriamente dinamiche. Non è facile negare che il movimento dei raggi luminosi avvenga in modo più rapido di quello dell'aria e una teoria che affermasse che ciascun raggio luminoso è trasportato nel suo movimento dall'aria che lo circonda apparirebbe piuttosto insensata. Non era necessario essere seguaci di Filopono per aderire, in questo contesto, a una teoria dell'impetus. Prima di esaminare il testo dell'Ottica, ci occuperemo tuttavia dei paragrafi introduttivi del trattato di statica, recentemente restituiti.
In essi Ibn al-Hayṯam definisce i parametri da cui dipende il peso di un corpo: il volume, la forma, la densità del corpo e quella del mezzo: "corpi identici quanto a forza, dimensioni, forma e distanza dal centro della Terra sono identici [anche quanto al peso]" (sez. 4, par. 4).
La forma interviene nella determinazione del peso in quanto il corpo oppone una certa superficie al mezzo che attraversa. Tanto più ampia è questa superficie, tanto più potente è il freno che si oppone al movimento del corpo. La densità del mezzo dipende invece dalla natura del corpo da cui è costituito e dalla distanza dal centro della Terra. Tanto maggiore è la distanza, tanto minore è la densità. Questa idea si trova già negli allievi di Abū Hāšim al-ğubbā᾽ī.
Due riflessioni si impongono a questo punto: prima di tutto, Ibn al-Hayṯam non parla di densità dei corpi, ma della loro forza (quwwa). Tuttavia, definisce esplicitamente la forza attraverso la quantità di materia di un corpo: "i corpi di forza uguale sono quelli di uguale densità o rarefazione, vale a dire quelli di cui quantità uguali, dotate di forma uguale, hanno uguale pesantezza; li chiameremo 'corpi di forza uguale'; i corpi dotati di forza differente sono quelli che non hanno queste caratteristiche; li chiameremo 'corpi di forza differente'" (sez. 2, parr. 5-6).
Ibn al-Hayṯam non precisa ulteriormente ciò che intende per superficie che il corpo oppone al mezzo. Un cono che precipita con la punta rivolta verso il basso e l'asse perpendicolare al terreno e un cilindro dello stesso diametro che precipita sempre in direzione perpendicolare rispetto al terreno, oppongono al mezzo la stessa superficie? È evidente che Ibn al-Hayṯam non disponeva degli strumenti matematici necessari per risolvere un problema di aerodinamica così complesso, il che non toglie che sia stato il primo a distinguere nettamente tra resistenza frizionale al movimento e spinta archimedea opposta dal mezzo. In effetti, è lo stesso percorso seguito dal ragionamento di Ibn al-Hayṯam a rivelare l'idea che lo sorregge. La progressione (sez. 3, parr. 2-4) è infatti parallela a quella seguita nel trattato sul luogo, in cui l'autore varia dapprima il volume del corpo mantenendo costante la sua superficie e poi la sua superficie, mantenendone invariato il volume. Lo scopo era quello di liberare l'oggetto nel luogo dalla tirannia dell'ontologia aristotelica della materia e della forma. Questa argomentazione si inseriva a sua volta nel quadro della ricerca propriamente matematica sugli isoperimetri e gli isoepifani. La precisione del trattato di statica si spiega senza dubbio con questa stessa idea: tra due corpi di volume identico, quello dotato della superficie maggiore opporrà una maggior resistenza al movimento.
Possono esserci a volte silenzi molto eloquenti. Abbiamo visto in che modo, a partire almeno da Filopono, la tradizione avesse interpretato alcuni passi oscuri della Fisica di Aristotele come l'espressione di una 'legge' della caduta dei gravi. È significativo il fatto che quest'ultima, che assume sempre la forma di un quoziente, sia resa differentemente a seconda degli autori, che oscillano, per quanto riguarda il numeratore, tra l'idea di 'massa', di 'forza motrice', di 'forza' o di 'peso' e, per il denominatore, tra quella di 'densità del mezzo' e di 'resistenza'. Tale oscillazione tuttavia scompare quando si tratta di definire la grandezza che il quoziente così formato dovrebbe tradurre. Gli autori sono a tal proposito unanimi: si tratta della velocità dell'oggetto che cade. Ora, si può affermare che su questo punto tutta la tradizione, fino a Galilei, è rimasta aristotelica. Qualunque modifica avesse apportato alla 'legge' di Aristotele, vuoi per avvicinarla a criteri metafisici di stampo neoplatonico, vuoi per spiegare l'esistenza di alcuni innegabili fenomeni fisici, la tradizione non abbandonò mai l'idea che la velocità di caduta dei gravi fosse funzione diretta di una forza motrice (peso, massa) e funzione indiretta di ostacoli connessi in un modo o nell'altro all'ambiente (densità, resistenza). Da parte sua, Ibn al-Hayṯam, pur non escludendo l'intervento delle forze motrici e delle resistenze al movimento, non definisce mai in questa maniera la 'velocità', ma, anche se in modo ancora indefinito, il 'peso'. Inoltre, nessuno dei numerosi paragrafi in cui Ibn al-Hayṯam sviluppa questo punto (dalla sez. 2, par. 4, alla sez. 4, par. 4) si ritrova nel trattato parallelo redatto da al-Qūhī. Ci troviamo, dunque, di fronte a una completa innovazione. Possiamo d'altra parte osservare, a conferma di questa ipotesi, che il Liber Euclidis de levi et ponderoso non solo non affronta così da vicino il problema del peso, ma presenta in modo del tutto aristotelico il rapporto tra la velocità e il quoziente della forza sulla resistenza.
La definizione del peso proposta da Ibn al-Hayṯam appare in effetti senza precedenti nella tradizione fisica e matematica. In essa intervengono innegabili elementi dinamici, che la caratterizzano come una forza cinetica infinitesimale e primordiale, quella posseduta dal corpo che si trova per così dire sospeso tra quiete e movimento. È un vero peccato che Ibn al-Hayṯam non abbia espresso più chiaramente la sua posizione su questo punto. In ogni caso, egli è l'unico autore che abbia legato il peso non solo alla quantità di materia del corpo considerato (volume e 'massa volumica') ma anche alla forma del corpo e alla densità del mezzo in cui si trova. Secondo Ibn al-Hayṯam, il peso del corpo cresce quando, a parità di volume e di quantità di materia, la sua superficie, oppure la densità del mezzo, diminuiscono. È evidente che il contesto statico della discussione spiega, almeno in parte, tali restrizioni: dovendo affrontare la questione dei centri di gravità, Ibn al-Hayṯam cerca di tener conto di tutti i fattori che influiscono sulla conservazione di un equilibrio. Ciò non toglie che tutti i fattori, diretti e indiretti, descritti da Ibn al-Hayṯam nella determinazione del peso siano gli stessi (esposti certo con maggiore finezza) che tutti i fisici facevano intervenire nella determinazione della velocità.
Come spiegare questo trasferimento? Per farlo, dobbiamo tornare a ciò che i fisici aristotelici ‒ in senso ampio: da Filopono ai terministi del XIV sec., all'aspetto 'benedettiano' delle ricerche di Galilei ‒ intendevano con il termine 'velocità' (tachýtēs, sur῾a, velocitas), ossia, in primo luogo, il tempo impiegato da un mobile per percorrere una certa distanza. Per riprendere la definizione canonica del decano dei medievali, al-Kindī: "chiamiamo lento ciò che si muove in un tempo lungo e rapido ciò che si muove in un tempo breve" (Sermo de tempore, in: Rasā᾽il, II, p. 33). Questo significato si ritrova fino a Ibn al-Hayṯam, coerentemente con il Liber Euclidis de levi et ponderoso, quando si allude alla fluidità del mezzo: "Se un corpo pesante si muove attraverso dei corpi fluidi, il suo movimento [in questi corpi] avverrà in funzione della loro fluidità; così, il suo movimento in un corpo più fluido sarà più rapido" (sez. 3, par. 1).
Quanto è maggiore la fluidità del mezzo, tanto minore sarà il tempo impiegato dal corpo per attraversarlo, ceteris paribus. Per Ibn al-Hayṯam però si tratta di una definizione, o forse di una semplice caratterizzazione, della fluidità, e certamente non di una legge del movimento dei gravi. Vi è in effetti una grande differenza tra il dire che alcuni parametri influiscono sulla velocità e l'affermare che la definiscono. Se si parla di una semplice influenza sulla 'velocità', questo termine può riferirsi a un'esperienza immediata della realtà: un movimento nell'acqua incontrerà maggiore resistenza, sarà più lento, di un movimento nell'aria. Ma ci troviamo di fronte a un semplice giro di parole. Ci si limita ad affermare che, a parità di condizioni, l'intensità del movimento nel mezzo che oppone maggiore resistenza sarà minore, ma non si dice nulla sul valore quantitativo di questa intensità.
La legge fondamentale di Aristotele, che stabiliva una relazione diretta tra la velocità, da un lato, e il quoziente della forza e della resistenza, dall'altro, cancellava l'autonomia concettuale del movimento, dato che la velocità non si riferiva a quest'ultimo, ma a una situazione dinamica (un rapporto di forze) determinata. Inoltre, la stessa formulazione di Aristotele rendeva per definizione non calcolabile la velocità istantanea, poiché né la forza né la resistenza potevano essere fatte oggetto di una trattazione quantitativa. Restituendo il quoziente fondamentale di Aristotele al suo unico campo di applicazione legittimo, la determinazione statica (ossia effettuata con l'aiuto di una bilancia) dei pesi, Ibn al-Hayṯam libera la velocità dall'impasse in cui l'aveva mantenuta tutta la fisica preclassica. La velocità istantanea dipende ora solo da un movimento istantaneo, che a sua volta è prodotto dallo sviluppo temporale, a un istante t dato, di una determinata situazione dinamica.
Si potrebbe tentare di ridurre questa opposizione affermando che si tratta di due aspetti dello stesso problema. Sarebbe sufficiente aggiungere, ai criteri enumerati nel testo citato da al-ḫĀzinī, l'altezza della caduta per ottenere di nuovo una 'legge' della caduta dei gravi di tipo filopono-galileiano. Ma questo è per l'appunto ciò che Ibn al-Hayṯam non fa, dimostrando una profonda riluttanza a formulare la 'velocità media della caduta dei corpi' che, in realtà, è uno pseudo-concetto, un doppione semantico della durata. Calcolare, lungo un percorso irregolare disseminato di ostacoli, la 'velocità media' del tragitto, si riduce in definitiva a dire in quanto tempo è stata percorsa la distanza che separa la partenza dall'arrivo. La velocità media è un'astrazione, un universale che non corrisponde ad alcuno stato fisico reale, se non casualmente (il punto mediano nel caso di un movimento uniformemente accelerato, per esempio).
Dall'analisi dei frammenti superstiti del trattato di statica, risulta dunque che Ibn al-Hayṯam definiva il peso nello stesso modo in cui tutti i fisici vissuti prima di lui, e anche per un lungo tempo dopo di lui, definivano la velocità media; per Ibn al-Hayṯam, parlare del rapporto tra forza e resistenza ha senso in una situazione di equilibrio statico e non in una di movimento. Tuttavia ancora più significativo, per i rapporti che cominciano già a delinearsi tra statica e dinamica, appare il fatto che questo equilibrio statico non possa a sua volta essere definito che nei termini di un 'movimento infinitesimale', cioè di una propensione al movimento, un impulso primordiale, del grave equilibrato da un contrappeso. Questo impulso si realizza in un movimento di intensità crescente dal momento in cui si sopprime il contrappeso.
Le pagine dell'Ottica di Ibn al-Hayṯam relative alla dinamica
Quella che potrebbe essere considerata una semplice ipotesi storica trova, tuttavia, una conferma nelle pagine dell'Ottica dedicate alla dinamica. Come abbiamo visto, nel trattato di statica Ibn al-Hayṯam identifica la forza-peso (al-ṯiql) con la densità (al-kaṯāfa) del corpo preso in esame. Con l'aumentare della densità della sua composizione, cresce anche la forza. Nell'Ottica egli sostiene in apparenza una cosa diversa: la forza F1 con cui un corpo colpisce il suolo è direttamente proporzionale all'altezza (h1) dalla quale cade. L'altezza alla quale rimbalzerà (h2) è direttamente proporzionale alla forza F1 con cui colpisce il suolo e inversamente proporzionale alla passibilità (infi῾āl) di quest'ultimo:
Quanto alla ragione per cui il mobile ritorna al livello della resistenza (῾inda al-mumāna῾a), essa risiede nel fatto che il corpo acquisisce, dalla resistenza, un movimento nella direzione del ritorno. Ciò che dimostra che il movimento del ritorno si produce solo per effetto della resistenza, è che questo movimento ha luogo in funzione della resistenza: vale a dire, quando la resistenza è più forte anche il ritorno è più forte. E la forza della resistenza è in funzione della forza del movimento primo e in funzione della non passibilità dell'ostacolo. (Nazif 1942, p. 125)
Sembra quindi necessario operare una distinzione tra la forza statica del corpo, quella per così dire dell'impulso originario e primo verso il basso del corpo in stato di quiete, la stessa già incontrata nelle citazioni di al-ḫĀzinī, e la sua forza propriamente cinetica, che (senza tener conto delle variazioni della densità del mezzo nel corso della caduta) dipende dall'intervento non solo della forza del corpo, ma anche dell'altezza della caduta.
Osserveremo innanzi tutto che questa rappresentazione della caduta dei gravi conferma l'esclusione della velocità media già attuata nel trattato di statica. Dal momento che l'intensità del rimbalzo, vale a dire dell'urto alla fine della traiettoria, varia in funzione dell'altezza da cui il corpo cade, non ha alcun senso concepire la sua velocità come il risultato della divisione di una forza per una resistenza.
La velocità del grave tra un punto situato a un metro di distanza dal suolo e il suolo stesso non avrà niente a che vedere con il fatto che esso sia stato rilasciato da un'altezza di due metri o di cento. Ibn al-Hayṯam concorda nell'affermare che in statica, il peso è in funzione di una certa forza inerente al corpo e di una certa resistenza del mezzo. Tuttavia ciò non ha niente a che vedere con la velocità che aumenta proporzionalmente all'altezza della caduta. In altri termini: la velocità può essere concepita matematicamente, a prescindere da qualsiasi forza e da qualsiasi mezzo. Una forza di movimento possiede quindi una realtà fisica.
Ibn al-Hayṯam giunge così a offrire una spiegazione fino ad allora impensabile della nozione di movimento. Esso non è più un vago termine impiegato per designare tutti gli aspetti di un processo i cui soli elementi 'reali' sarebbero la velocità, da un lato, e la forza e la resistenza, dall'altro. D'ora in poi il movimento stesso sarà in possesso di una 'potenza' (quwwa), definibile in termini quantitativi, precisamente nella misura in cui è possibile concepire il movimento in un punto (come dimostrano le variazioni dell'altezza del rimbalzo, che dipendono dall'intensità del movimento nel punto di caduta). Il movimento viene così a occupare la posizione centrale nella definizione degli altri concetti dinamici. Esso è caratterizzato, ma non prodotto, dalla velocità, e il peso stesso può essere compreso solo come tendenza puntuale al movimento.
Si pone quindi un'importante questione: questa potenza puntuale dei corpi in movimento, che Ibn al-Hayṯam designa con il termine di i῾timād, ripreso dai mutaziliti (v. cap. III), può essere paragonata alla quantità di moto (mv) della fisica classica? Sembra proprio di sì. Ibn al-Hayṯam, infatti, non si è limitato a identificarne le due grandezze scalari ma, a differenza sia degli aristotelici che dei neoplatonici, non adotta una concezione essenzialista del movimento (il movimento semplice che per definizione non ammette scomposizione), ma una concezione prevettoriale. Egli, infatti, afferma esplicitamente che ogni movimento è suscettibile di essere diviso in due componenti ortogonali, una delle quali segue la normale al punto di impatto e l'altra la perpendicolare alla normale: "La spinta (i῾timād) del mobile sul corpo-ostacolo è composta dal movimento che segue la direzione dell'asse (al-῾umūd) perpendicolare al piano del corpo-ostacolo e che attraversa il corpo-ostacolo stesso, e dal movimento in direzione dell'asse perpendicolare a quest'asse nel piano in cui ha luogo il movimento" (Nazif 1942, p. 128).
Roshdi Rashed ha sottolineato la differenza che separa Ibn al-Hayṯam dai suoi predecessori greci, Erone di Alessandria e lo Pseudo-Aristotele dei Mechanicha. È vero che questi ultimi avevano combinato tra loro due movimenti che davano luogo a un movimento risultante; tuttavia, per Ibn al-Hayṯam "non si tratta solo di comporre la risultante, ma soprattutto, per le esigenze della sua ottica, di mettere in luce le componenti del movimento, delle quali una segue la direzione della normale e l'altra la perpendicolare a questa normale nel piano d'incidenza al punto d'impatto" (Rashed 1970, p. 284, n. 39).
Ibn al-Hayṯam però non si ferma qui, collegando esplicitamente la traiettoria del movimento riflesso all'analisi del movimento incidente correttamente scomposto. Il testo dell'Ottica è molto chiaro su questo punto:
Quando la spinta (i῾timād) è composta da questi due movimenti, il movimento prodotto dalla resistenza è composto dal movimento che ha luogo lungo l'asse perpendicolare alla superficie del corpo-ostacolo nella direzione proveniente dal corpo-ostacolo e dal movimento che aveva luogo nella direzione dell'asse perpendicolare a questo asse nella direzione del movimento. Ciò deriva dal fatto che se la spinta è composta dai due movimenti summenzionati, la componente relativa al movimento che segue l'asse che penetra nel corpo-ostacolo viene meno per il fatto che il corpo-ostacolo rientra in questa direzione e fa ostacolo al mobile proveniente da questa direzione. Tale componente della spinta e della resistenza del corpo ostacolo produce quindi, in ragione di questa componente della spinta, un movimento che segue l'asse stesso lungo il quale si trovava questa componente della spinta, nella direzione opposta a quella della spinta. E la seconda componente della spinta, quella relativa al movimento che segue l'asse perpendicolare a quest'asse, rimane immutata. Questa non viene meno, nessun movimento opposto si è prodotto a partire da essa, poiché la direzione di quest'asse non contiene ostacoli.
E se questa componente rimane e, a partire dalla prima componente, è prodotto un movimento che segue la perpendicolare al piano del corpo-ostacolo nella direzione proveniente dal corpo-ostacolo, il movimento prodotto è composto dal movimento che segue l'asse perpendicolare alla superficie del corpo-ostacolo e dal movimento che segue l'asse perpendicolare a questo asse del movimento. E se è così, la retta lungo la quale ha luogo il movimento di riflessione si collocherà tra l'asse perpendicolare al piano del corpo-ostacolo e l'asse a quest'ultimo perpendicolare, poiché il movimento di riflessione è prodotto a partire dal movimento lungo questi due assi. E la distanza tra questa retta inclinata e il secondo asse è uguale alla distanza tra la retta lungo la quale avrebbe avuto luogo il movimento e lo stesso asse, se il mobile avesse continuato il suo cammino sprofondando in linea retta, per il fatto che la componente di questo asse del movimento non viene meno, non è né ridotta né aumentata, e che questa retta è nel piano in cui si trova l'asse. E il primo movimento è anch'esso in questo piano […]. E se la distanza tra questa retta e il secondo asse è uguale alla distanza tra il prolungamento della retta lungo la quale aveva avuto luogo il primo movimento e il secondo asse, l'inclinazione di questa retta in rapporto al primo asse (quello perpendicolare alla superficie del corpo-ostacolo) è uguale all'inclinazione della retta lungo la quale ha avuto luogo il primo movimento in rapporto a questo stesso asse. (ibidem, pp. 129-130)
Il rigore dell'esposizione di Ibn al-Hayṯam dimostra che si tratta di un modello profondamente meditato e non di una vaga improvvisazione. Oltre all'evidente progresso, rispetto a tutti gli autori precedenti, della precisione delle analisi, la scomposizione del movimento consente all'autore di elaborare dal punto di vista geometrico un modello azione-reazione che rendeva obsoleto quello dell'agire-patire degli aristotelici. Siamo in presenza di una neutralizzazione ontologica degli attori del movimento: è significativo che il 'patire', tò páschein, l'infi῾āl dei traduttori arabi di Aristotele, figuri nell'analisi dell'urto come l'inverso della resistenza assoluta opposta dal corpo urtato, e non come funzione dell'intensità dell'urto. Così l'i῾timād del corpo incidente verrà a contrapporsi non alla 'passione', ma alla resistenza (al-mumāna῾a) del corpo urtato; il patire è solo una componente parassita, in via di principio sempre riducibile. Siamo dunque molto lontani dall'ontologia aristotelica del poieĩn/páschein. D'ora in poi l'azione potrà produrre solo un'altra azione, senza contrapporsi più al patire dell'oggetto colpito. Al contrario, la passione denota solo la mancanza di ricettività dell'oggetto su cui è esercitata l'azione.
Mustafa Nazif (1942) aveva suggerito di vedere nella 'forza di movimento' di Ibn al-Hayṯam la prima anticipazione delle nozioni classiche di quantità di movimento (oggi diremmo 'di moto') e di energia cinetica. Senza spingersi tanto lontano e senza cercare a tutti i costi di modernizzare il pensiero del celebre matematico, ci limiteremo a osservare che non si può fare a meno di ammirare la modernità delle sue riflessioni, tanto più che, anche in questo caso, la traduzione latina dell'Ottica era ben conosciuta dai geometri e dai fisici del XVII secolo. A livello propriamente concettuale, l'instaurazione di un rapporto tra la Statica e l'Ottica mette chiaramente in luce non solo l'interesse, ma anche la complessità della posizione di Ibn al-Hayṯam. Scontrandosi con una tradizione unanime, questo autore è riuscito a liberarsi della "dinamica" aristotelica, ma soprattutto, come dimostra la sua definizione del peso, ha saputo intuire, in modo vago ma non per questo meno reale, che il linguaggio della vera dinamica poteva essere solo quello del calcolo infinitesimale.
Due questioni aperte: il movimento uniformemente accelerato e l'inerzia
L'Antichità non era stata avara di spiegazioni sulle presunte cause dell'accelerazione nella caduta dei gravi. Ipparco (II sec. a.C.) si era richiamato all'indebolimento progressivo del residuo di forza ascendente; Temistio la considerava una conseguenza dell'avvicinamento al luogo naturale, mentre una terza tesi, di carattere più statico e che secondo Simplicio aveva un largo seguito, la attribuiva all'indebolimento della resistenza dell'aria in proporzione della diminuzione dello strato d'aria residuo tra la superficie terrestre e l'oggetto. Solo Stratone di Lampsaco, che dopo la morte di Aristotele e Teofrasto aveva assunto la guida del Liceo, sembra aver incentrato la sua spiegazione sulla variazione dell'altezza di caduta. Purtroppo non sappiamo molto di più della sua posizione. È interessante osservare che la tesi 'statica' è implicitamente contraddetta da al-Qūhī e Ibn al-Hayṯam, i quali al contrario sostengono che la resistenza del mezzo diminuisce via via che ci si allontana dal centro del mondo. Dal momento che la tesi di Ipparco era contraddetta dalla caduta degli oggetti che precipitano dopo essere rimasti a lungo immobili e quella di Temistio era decisamente troppo aristotelica, diventava inevitabile prendere in considerazione l'altezza della caduta.
Benché Ibn al-Hayṯam non lo affermi esplicitamente, la combinazione dei frammenti di carattere dinamico del suo trattato di statica con il brano dell'Ottica suggeriscono che il primo enunciato corretto della legge dell'accelerazione uniforme dei corpi sotto l'azione costante di una forza di intensità costante, che troviamo formulato per la prima volta a chiare lettere in Abū 'l-Barakāt al-Baġdādī, era implicitamente contenuto nel suo tentativo. Questa circostanza non deve essere considerata sorprendente; sappiamo, infatti, che al-Baġdādī era perfettamente al corrente delle critiche anti-aristoteliche dei matematici.
La questione dell'intuizione 'inerziale', contenuta nelle analisi dinamiche di Ibn al-Hayṯam, è più complessa. In effetti bisogna sempre operare una netta distinzione in questo contesto tra il vago presentimento del principio di inerzia ‒ da alcuni ritrovato persino in Aristotele ‒ e la concezione, e a fortiori la chiara formulazione, del suo enunciato. Tuttavia, la precisione analitica della descrizione del fenomeno del rimbalzo di Ibn al-Hayṯam è molto istruttiva. Se il grave, una volta toccato il suolo, non rimane aderente a quest'ultimo, è perché, nel momento in cui torna sui propri passi, esso è abitato da un movimento di intensità uguale (supponendo nulla l'infi῾āl) a quella che possedeva nel momento in cui aveva toccato il suolo, ma di direzione opposta. Dal momento che il suolo non è dotato della facoltà di proiettare gli oggetti verso l'alto, il rimbalzo può essere spiegato solo con il fatto che il movimento tende a perseverare nel suo stato e non a condurre il mobile verso la sua quiete 'naturale'. L'i῾timād, per impiegare il linguaggio dei mutaziliti, genera l'i῾timād.
Conclusioni
Le ricerche degli studiosi islamici nel campo della dinamica si segnalano dunque all'attenzione degli storici della scienza per due ragioni: per l'opera di delucidazione di un passato filosofico confuso e per i contributi scientifici positivi che hanno prodotto.
Al primo livello la tradizione araba, e quella peripatetica in particolare, reintegrando la revisione filoponiana nel quadro della fisica e della cosmologia aristoteliche, ha mostrato di comprendere la portata reale del gesto dell'Alessandrino in modo più lucido di tanti esegeti moderni. Si trattava in definitiva di un ingegnoso adattamento della legge fondamentale della dinamica aristotelica. Questa revisione, conducendo gli studi di dinamica in una sorta di vicolo cieco, ha avuto tuttavia conseguenze ideologiche non trascurabili. La querelle della velocità media di caduta dei corpi era destinata ad alimentare per oltre un millennio il dibattito sulla natura del peso, del movimento e della velocità. Tra il IX e il XIII sec., si sono affrontate nel mondo islamico almeno tre formulazioni di questa 'legge'.
Al secondo livello, assistiamo con Ibn al-Hayṯam alla prima chiara delimitazione del campo di attività della dinamica classica: abbandono della velocità media; netta distinzione tra velocità e movimento; costruzione geometrica per decomposizione normalizzata della quantità di moto. Non occorre aggiungere che questa nuova dinamica si basava a sua volta su una cinematica a cui l'infinito in atto non faceva più paura (ṯĀbit ibn Qurra, Abū Sahl al-Qūhī).
Il caso più problematico in questo contesto è quello di Avicenna, che ha cercato di integrare nell'aristotelismo non soltanto una nuova interpretazione dell'impetus, ma anche, più profondamente, una versione modificata dell'infinito in atto di ṯĀbit ibn Qurra e dell'infinito per divisione. Questo stratagemma gli ha consentito di proporre una versione aristotelica, cioè esprimibile nei termini di una 'filosofia naturale', della critica serrata a cui i mutakallimūn, da un punto di vista dinamico, e i matematici infinitesimali, da un punto di vista cinematico, sottoponevano contemporaneamente l'ontologia aristotelica del movimento. Attraverso la mediazione di Avicenna, questa nuova episteme bifronte troverà una lontana eco nel mondo latino, nei tentativi istantaneisti dei fisici attivi tra il XIV e il XVI secolo.
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