Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Settecento il dibattito sui fondamenti antropologici e sulla funzione sociale dell’esperienza teatrale si intreccia con lo studio dei principi che governano l’arte dell’attore. Mentre i teatranti riformatori si interrogano sulle vie da percorrere per conseguire una recitazione “naturale”, gli allestimenti scenici tendono alla conquista di una maggiore verosimiglianza.
Il teatro nel Settecento: la difficile ricerca di un’identità
Nel corso del Settecento si combatte una dura battaglia per l’affermazione della dignità sociale e culturale dell’istituzione teatrale. In tutta Europa sono pubblicati i primi studi sistematici di storia del teatro che, in sintonia con certa cultura erudita del tempo, segnano un tentativo di approccio “scientifico” alla vita della scena. All’inizio del secolo Luigi Riccoboni scrive una Storia del teatro italiano (1728) cui fanno seguito le Riflessioni storiche e critiche sui diversi teatri d’Europa (1738); in Francia François e Claude Parfaict pubblicano la Storia del teatro francese (1735-1749); in Inghilterra esce a nome di Thomas Betterton Storia del teatro inglese (1741); in Germania Lessing dà infine alle stampe la Ricerca sulla storia del teatro (1749-1750). Parallelamente nasce il moderno “giornalismo” teatrale: il “Mercure de France” o il “Daily Courant” dedicano ampio spazio agli spettacoli e compaiono i primi periodici “specializzati” nella discussione dei problemi della scena, come “The Prompter” (1734) di Aaron Hill e William Popple, e il “Theaterjournal” (1753) di Konrad Ekhof.
Com’era già accaduto in passato, anche nel Settecento la legittimità dell’esistenza del teatro in una società ben ordinata e governata nel rispetto dei principi religiosi è però messa ripetutamente in discussione e da più parti si muovono accuse di immoralità alla scena. Nel 1698 esce l’opuscolo di Jeremy Collier Breve rassegna dell’immoralità e dell’irriverenza del teatro inglese; nel 1759 l’ex compagno di strada di Diderot, Jean-Baptiste Gresset compone la Lettera sulla commedia in cui dichiara che “le leggi sacre della religione e le massime della morale profana, il santuario e il teatro, sono assolutamente inconciliabili”; nel 1752 il domenicano Daniele Concina pubblica il trattato antiteatrale Sugli spettacoli aprendo una polemica che vede l’intervento in difesa della scena di Scipione Maffei e di padre Antonio Bianchi. Le polemiche continuano anche nella seconda metà del secolo: nel 1760 viene rifiutata la sepoltura in terra consacrata all’attrice Caroline Neuber e nel 1789, in pieno clima rivoluzionario, il clero protesta quando Mirabeau fa approvare l’estensione dei diritti civili agli ebrei, ai protestanti e agli attori.
Il razionalismo laico dei philosophes oppone ai pregiudizi religiosi in materia di teatro un progetto di riforma della scena che, censurando le degenerazioni spettacolari e recuperando la centralità del testo, esalta la funzione pedagogica del teatro.
Tipica esemplificazione di questa rivalutazione della componente letteraria dell’evento teatrale, sostenuta pure da numerosi attori a partire da Luigi Riccoboni, è la voce “Drame” dell’ Encyclopédie. Marmontel elenca in questo lemma cinque diverse forme drammatiche: la tragedia, la commedia, la pastorale, l’opera tragica e a balletto e la farsa, ma conclude osservando che “questi due ultimi generi si potrebbero forse chiamare più esattamente spettacoli, perché le regole autentiche del dramma vi sono normalmente violate”.
Spostandosi dal piano della definizione di un sistema poetico a quello dell’elaborazione di modelli sociali e antropologici, il dibattito sul teatro tra gli intellettuali del Settecento si va progressivamente complicando e sfocia in prese di posizioni apparentemente contraddittorie che aprono nuove strade per la scienza e la pratica teatrale dei secoli successivi. Le discussioni programmatiche che accompagnano in Italia la sperimentazione sul genere tragico – avviate all’inizio del secolo in ambiente arcadico da studiosi e letterati quali Muratori, Orsi, Zeno, Maffei, Martello e Gravina e proseguite nel corso del Settecento fino ad Alfieri – si legano indissolubilmente alla volontà di elaborare uno strumento educativo, non solo artistico, ma etico-filosofico e socio-politico. Curando la voce “Genève” (1757) per l’ Encyclopédie, D’Alembert critica aspramente le autorità della città svizzera per avere proibito l’esercizio dell’arte teatrale nella loro comunità. Le osservazioni di D’Alembert provocano l’immediata replica di Jean-Jacques Rousseau che nel 1758 scrive la Lettera sugli spettacoli. Nel quadro di un relativismo culturale che gli impedisce di stabilire se il divertimento pubblico sia in assoluto positivo o negativo, Rousseau, riferendosi alla realtà di Ginevra, nega che il teatro abbia un’utilità etica e contesta la tradizionale dottrina della catarsi: solo la ragione può purificare le passioni e “la ragione non ottiene alcun effetto in teatro”. Dopo la serrata analisi critica del valore diseducativo di una commedia come Il misantropo e la ferma condanna della passionalità della tragedia, con sguardo attento a Bérénice di Racine, Rousseau denuncia la corruzione mondana del teatro contemporaneo a fronte della sua funzione sacra nella Grecia antica. Come già nei suoi precedenti interventi legati alla querelle des bouffons, la riflessione di Rousseau sullo spettacolo si dilata in prospettiva antropologica: sul finire della Lettera il filosofo spiega infatti che la teatralità non deve essere bandita dalla vita del consorzio umano, ma si deve celebrare nella dimensione alternativa della festa popolare. Il suggerimento che ne consegue, di offrire gli spettatori in spettacolo rendendoli essi stessi attori, delinea un paradigma teatrale le cui concrete applicazioni vanno dalle feste della Rivoluzione francese alla sperimentazione scenica del Novecento.
Jean-Jacques Rousseau
Lettera a D’Alembert sugli spettacoli
Corrispondenze
Non ci vuole dunque nessuno spettacolo in una repubblica? Al contrario, ce ne vogliono molti. Essi sono nati nelle repubbliche, ed è nel loro seno che li si vede risplendere in una vera aria di festa. Quali sono i popoli ai quali più s’addice di riunirsi spesso e di formare tra loro i dolci legami del piacere e della gioia, se non quelli che hanno tante ragioni per amarsi e restare sempre uniti? Noi abbiamo già parecchie di queste feste pubbliche: aumentiamole ancora, ne sarò felicissimo. Ma non adottiamo questi spettacoli esclusivi che rinchiudono tristemente un piccolo numero di persone in un antro oscuro, che le tengono timorose e immobili nel silenzio e nell’inazione, che offrono agli occhi soltanto tendaggi, punte di ferro, soldati, e avvilenti immagini della servitù e dell’ineguaglianza. No, popoli felici, non sono queste le vostre feste. All’aria aperta, sotto il cielo vi dovete riunire per abbandonarvi al dolce sentimento della felicità. Non siano i vostri piaceri né effeminati né mercenari, non li avveleni niente di ciò che sa di costrizione e di interesse, siano liberi e generosi come voi, e il sole illumini i vostri innocenti spettacoli: formerete voi stessi il più degno spettacolo che il sole possa illuminare.
Ma quali saranno insomma i temi di questi spettacoli? Che cosa vi si mostrerà? Niente, se si vuole. Con la libertà, ovunque c’è affluenza di pubblico, regna pure il benessere. Piantate un palo adorno di fiori in mezzo a una piazza, riunitevi intorno il popolo, e avrete una festa. Ancor meglio: offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più uniti. Non ho bisogno di rinviare ai giochi degli antichi Greci, ve ne sono di più moderni che esistono ancora, e io li ritrovo precisamente tra di noi. Abbiamo tutti gli anni parate, gare pubbliche, i re dell’archibugio, del cannone, della navigazione. Istituzioni così utili e così piacevoli non bastano mai, non si hanno mai a sufficienza simili re. Perché non fare, per diventare sani e robusti, gli esercizi che si fanno per impratichirsi con le armi? La repubblica ha forse più bisogno di soldati che di operai? Perché, sul modello delle gare militari, non istituiamo gare di ginnastica, di lotta, di corsa, di lancio del disco, e di altri esercizi fisici? Perché non rianimare i nostri barcaioli con corse sul lago? Ci sarebbe spettacolo più bello al mondo di questo vasto e superbo bacino con centinaia di imbarcazioni elegantemente addobbate, che a un dato segnale partono insieme per andare a strappare una bandiera issata sul traguardo, e poi accompagnano in corteo il vincitore che si reca in trionfo a ricevere il meritato premio? Tutte queste feste sono dispendiose solo se lo si vuole, e l’affluenza della gente basta da sola a renderle splendide. Tuttavia bisogna avervi assistito per capire come i ginevrini vi si dedichino con passione. Sono irriconoscibili, non sembrano più lo stesso popolo sempre ligio a regole economiche dalle quali non si stacca, non sono più quei pedanti calcolatori che valutano tutto col metro dell’interesse, fino ai limiti della caricatura. Sono invece vivaci, gai, gentili, hanno il cuore sugli occhi oltre che sulle labbra, cercano di comunicare la loro gioia e il loro piacere, invitano, insistono, costringono, si disputano i contendenti. Tutti i gruppi ne formano uno solo, tutto è comune a tutti. Diviene quasi indifferente sedersi a una tavola o all’altra: sarebbe il ritratto delle mense dei Lacedemoni, se non vi regnasse una maggiore abbondanza; ma questa stessa abbondanza diventa allora giusta e conveniente, e la visione di una tale profusione rende più commovente quella della libertà che la produce.
J.-J. Rousseau, Corrispondenze, a cura di D. Balestra, Firenze, La Nuova Italia, 1987
Nella Germania battuta dai venti di ribellione dello Sturm und Drang la tendenza a un appiattimento razionalistico e moralistico della complessità delle dinamiche teatrali viene messa definitivamente in crisi. Nella Vocazione teatrale di Wilhelm Meisters, Goethe, gettando uno sguardo nei più cupi recessi dell’animo umano, di fronte all’eccitazione con cui il pubblico segue le esecuzioni capitali è costretto ad ammettere che tanto più il teatro sarà “purificato”, quanto più esso andrà perdendo la propria originaria efficacia e destinazione. Secondo Goethe nuovi modelli vanno dunque studiati per restituire vigore all’evento teatrale: gli spettacoli degli zingari, le danze dell’orso, i pericolosi volteggiamenti degli acrobati delle fiere.
Teatro e Potere
Il difficile rapporto che si stabilisce nel corso del Settecento tra l’istituzione teatrale e le autorità pubbliche appare condizionato tanto dalla necessità della classe dirigente di mantenere sotto controllo le forti tensioni sociali che caratterizzano il secolo, quanto dalla ricerca da parte dei teatranti riformatori di un sostegno istituzionale alle proprie scelte artistiche.
In Inghilterra la relativa libertà di cui la scena aveva goduto all’indomani della Restaurazione viene di colpo annullata dal Licensing Act del 1737 che istituisce una rigida censura sulle rappresentazioni teatrali revocata solo nel 1843 con le leggi vittoriane in materia di spettacolo.
In Francia la profonda instabilità politica rende vano lo sforzo della corte di esercitare un controllo effettivo sulla vita teatrale della nazione. I ripetuti tentativi di boicottare le satire del teatro forain compiuti a partire dal 1690 – e fra i quali va forse annoverata anche la riapertura del Théâtre Italien nel 1716 – risultano di scarsa efficacia, tanto che i burlesques delle fiere prosperano per i primi 40 anni del secolo. L’ostilità di Luigi XVI alla rappresentazione del Matrimonio di Figaro riesce soltanto a ritardare il debutto dell’opera, che il 27 aprile del 1784 viene infatti messa in scena alla Comédie Française. Quattro anni prima Beaumarchais aveva vinto il contenzioso aperto proprio con la Comédie Française per il riconoscimento dei diritti d’autore.
La legislazione teatrale muta profondamente durante la Rivoluzione: nel 1790 sono soppresse le sovvenzioni statali alla Comédie e l’anno successivo, a seguito delle pressioni di Marie-Joseph Chénier e Jean-François de La Harpe, si elimina il monopolio teatrale di Stato. Con l’avvento del Direttorio la situazione torna rapidamente alla normalità; superato un periodo di transizione, nel 1812 Napoleone sigla la nuova convenzione tra la Comédie Française e lo Stato.
La contraddittorietà dei rapporti tra pubblici poteri e teatro appare più che mai evidente in Russia. Nella prima fase del suo regno Caterina II prosegue sulla strada tracciata dalla zarina Elisabetta e dà un forte impulso alla vita teatrale della nazione scrivendo testi destinati alla scena e facendo costruire a San Pietroburgo il Teatro dell’Ermitage. Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese Caterina si arrocca invece su posizioni rigorosamente autocratiche che la portano a instaurare un regime di censura. Nel 1789 l’attività del Teatro Petrovski di Mosca è messa sotto controllo, nel 1793 è disposto il rogo pubblico della tragedia Vadim di Knjaznin.
La mancanza di un forte stato unitario rende più incerte le posizioni della Germania e dell’Italia.
Nel 1767 viene fondato ad Amburgo il Deutsches Nationaltheater sul modello della Comédie Française. Johann Friedrich Löwen è nominato direttore del teatro, mentre a Lessing è affidato l’incarico di Dramaturg. Il finanziamento dell’impresa grava in gran parte sulla cittadinanza attraverso lo stanziamento di una parte dei fondi raccolti con l’esazione delle tasse locali. Non essendo il pubblico di Amburgo pronto a dare il giusto sostegno a una simile iniziativa, l’esperimento è però di breve durata: nel marzo del 1769, dopo circa due anni di attività, il teatro chiude i battenti. L’esperienza di Amburgo lascia comunque un segno nella vita culturale della Germania e, negli anni successivi, i governanti delle maggiori città tedesche (Lipsia, Mannheim, Monaco ecc.) cominciano a patrocinare una regolare attività teatrale. In particolare nel 1775 Ekhof è nominato direttore artistico dell’Hoftheater di Gotha e nel 1786 Döbbelin assume la direzione del Koniglisches Nationaltheater di Berlino. Anche l’Impero asburgico si dota di proprie strutture teatrali: nel 1776 l’imperatore Giuseppe II trasforma il vecchio Hoftheater di Vienna in Nationaltheater, affidandone la direzione a Brockmann.
In Italia sono in molti a chiedere l’intervento del potere politico nella gestione della vita teatrale.
Luigi Riccoboni dedica il saggio La riforma del teatro a Elisabetta I di Russia e invoca l’appoggio di un monarca per l’attuazione dei suoi progetti di riforma della scena. Milizia teorizza la necessità di una pubblica iniziativa in materia di spettacolo.
Pietro Verri, Giovanni de Gamerra e Ranieri de’Calzabigi sperano nel patrocinio di un principe: il primo indica nel duca di Parma il promotore di una possibile compagnia italiana, il secondo indirizza a Ferdinando IV di Borbone il proprio Piano per lo stabilimento del nuovo Teatro Nazionale (1786). Alfieri traduce infine in termini democratici la richiesta di un sostegno principesco designando come autentico protettore del teatro “un popolo libero”. Soltanto nel 1807, durante il Regno d’Italia, il viceré Eugenio Beauharnais realizzerà l’utopia settecentesca di un teatro d’arte pubblico italiano con l’istituzione della Società dei commedianti ordinari di Sua Maestà operante presso il Teatro alla Scala di Milano.
Riflessioni sull’arte dell’attore
La tendenza della drammaturgia europea settecentesca a instaurare un nuovo rapporto col reale si riflette, nell’ambito della recitazione, in una ricerca di maggior naturalezza espressiva. Attori come Luigi Riccoboni, Mademoiselle Clairon, Henri-Louis Lekain, Charles Macklin e soprattutto David Garrick si impongono all’attenzione del pubblico per l’abbandono degli stereotipi declamatori a favore di una messa in voce e di una gestualità più fluide e naturali. Se la semplicità di espressione è in generale ritenuta dai riformatori della recitazione la prima condizione per ottenere un forte impatto emotivo sugli spettatori, differenti sono però le vie da ciascuno individuate per raggiungere un tale risultato.
Nei suoi scritti dedicati alla recitazione (Dell’arte rappresentativa, 1728), Luigi Riccoboni, criticando lo stile francese troppo ricercato, coglie nella sincerità interiore il nucleo fondamentale dell’esperienza attoriale. Approfondendo le idee di Riccoboni, Pierre Rémond de Sainte-Albine compone nel 1749 il saggio L’attore. Il canone oraziano del decoro, applicato alla distribuzione dei ruoli, induce Sainte-Albine a teorizzare la necessità di scegliere attori la cui costituzione fisica, le cui doti vocali e la cui indole emotiva si confacciano ai personaggi che essi devono rappresentare. A prescindere dalle diverse inclinazioni personali tre doti sono però richieste a ogni vero attore: sensibilità, sentimento e “fuoco”. La mimesi meccanica della realtà non è infatti sufficiente ad assicurare una buona interpretazione; essa può forse soddisfare un pubblico mediocre, ma non potrà che deludere lo spettatore dotato di “gusto e discernimento”.
Sainte-Albine conclude quindi che il grande attore deve essere un “creatore” più che un “fedele riproduttore”. Nel 1750 viene pubblicato in Inghilterra un adattamento de L’attore intitolato L’attore o un trattato sull’arte di recitare. L’opuscolo, anonimo, è probabilmente opera di Aaron Hill e viene riedito nel 1755, da un nuovo curatore sconosciuto, in forma ulteriormente rielaborata. Il trattato di Sainte-Albine va così ad articolare il dibattito inglese sulla recitazione avviato dal saggio di Garrick Breve trattato sulla recitazione (1744). Anche Garrick è convinto che l’attore non debba imitare la realtà, ma la debba “assimilare” e “nutrire” col “calore geniale” della propria “idea”.
Di parere sostanzialmente diverso da Luigi Riccoboni è però suo figlio Antoine-François-Valentin. Nel breve trattato Arte teatrale (1750) il giovane Riccoboni, pur dichiarandosi convinto come il padre dell’importanza della naturalezza sulla scena, esorta gli interpreti a concentrarsi sulle proprie tecniche espressive piuttosto che tendere alla spontaneità interiore. Solo grazie a una perfetta consapevolezza dei propri mezzi l’attore può infatti risultare naturale nella recitazione. Tocca a Diderot portare alle estreme conseguenze le teorie di François-Valentin Riccoboni nel celebre Paradosso sull’attore.
Nelle Conversazioni con Dorval e nei Discorsi sulla poesia drammatica (1758) Diderot aveva inizialmente manifestato la propria inclinazione per una recitazione libera da stereotipi e convenzioni e sorretta da una forte carica emotiva. Coinvolto nel 1758 in una polemica con la moglie del giovane Riccoboni, egli aveva accusato gli attori di essersi ridotti a puri “manichini”. Nel 1764 Diderot può assistere di persona alle performance parigine di Garrick ed è sulla base di questa esperienza che nel 1769 recensisce Garrick o gli attori inglesi, traduzione francese curata da Michel Sticotti dell’edizione del 1755 de L’attore. Sviluppando il nucleo centrale di quest’ultima recensione Diderot capovolge le proprie posizioni di partenza ed elabora la tesi fondamentale del proprio Paradosso: durante la rappresentazione l’attore non può abbandonarsi al sentimento, ma ne imita “i segni esteriori […] così scrupolosamente da trarre in inganno”.
Denis Diderot
Nessuna sensibilità
Paradosso sull’attore
IL PRIMO: Ma il punto fondamentale (...) riguarda le qualità fondamentali di un grande attore. Da parte mia, esigo che abbia molto raziocinio; voglio che quest’uomo sia uno spettatore freddo e tranquillo; di conseguenza, richiedo da lui penetrazione e punta sensibilità, la capacità di imitare tutto, o, ciò che in fondo è lo stesso, un’uguale disposizione per ogni sorta di caratteri e di parti.
IL SECONDO: Nessuna sensibilità!
IL PRIMO: Nessuna. (...) Se l’attore fosse sensibile, gli sarebbe veramente possibile interpretare due volte di seguito la medesima parte con lo stesso calore e lo stesso successo? Pieno di slancio alla prima rappresentazione, diventerebbe fiacco e freddo come il marmo alla terza replica. Mentre invece, se sarà un imitatore attento, un fedele discepolo della natura, la prima volta che si presenterà sulla scena nelle vesti di Augusto, di Cinna, di Orosmane, di Agamennone, di Maometto, copiando rigorosamente se stesso o i propri studi e osservando di continuo le nostre sensazioni, riuscirà, invece d’indebolirla, a rafforzare la sua recitazione con le nuove riflessioni che avrà raccolto; si esalterà o si modererà, e sarete via via più soddisfatto di lui. Se è se stesso quando recita, come farà a smettere di esserlo? Se vuole smettere di essere se stesso, come farà a cogliere il punto esatto in cui porsi e arrestarsi?
Ciò che mi conferma nella mia opinione, è la mancanza di uniformità negli attori che recitano d’istinto. Non attendetevi da loro alcuna unità; la loro recitazione è alternativamente forte e debole, calda e fredda, piatta e sublime. Saranno domani mediocri là dove oggi sono stati eccelsi; in compenso eccelleranno là dove la sera precedente saranno stati mediocri. Mentre invece l’attore che punterà sulla riflessione, sullo studio della natura umana, sull’imitazione costante di un modello ideale, sull’immaginazione, sulla memoria, sarà sempre uguale, sempre lo stesso ad ogni rappresentazione, sempre ugualmente perfetto: tutto è stato calcolato, combinato, fissato, ordinato nella sua mente; nella sua declamazione non vi è né monotonia né dissonanza. Il calore ha un suo sviluppo, i suoi slanci, i suoi abbandoni; ha un inizio, una fase intermedia, un punto estremo. Son sempre gli stessi toni, le stesse posizioni, gli stessi movimenti; e se vi è qualche differenza tra una rappresentazione e l’altra, sarà generalmente a vantaggio dell’ultima. Non conoscerà giornate buone e cattive: sarà come uno specchio, sempre pronto a riflettere i medesimi oggetti, e a rifletterli con la stessa precisione, la stessa forza e la stessa verità. Al pari del poeta, attingerà continuamente al pozzo inesauribile della natura, mentre in caso contrario avrebbe visto ben presto la fine della propria ricchezza.
Quale recitazione più perfetta di quella della Clairon? Eppure seguitela, studiatela, e vi convincerete che alla sesta rappresentazione, non solo conosce a memoria il testo parola per parola, ma anche tutti i dettagli della sua recitazione. (...)
IL PRIMO: (...) Ciò che sto per raccontarvi, l’ho visto io stesso coi miei occhi.
Garrick sporge la testa tra i due battenti di una porta, e in un intervallo di quattro o cinque secondi il suo viso passa successivamente da una gioia smodata a una gioia moderata, dalla gioia alla tranquillità, dalla tranquillità alla sorpresa, dalla sorpresa allo stupore, dallo stupore alla tristezza, dalla tristezza all’abbattimento, dall’abbattimento al terrore, dal terrore all’orrore, dall’orrore alla disperazione, e poi risale da quest’ultimo stadio fino a quello da cui era partito. Forse che il suo animo ha potuto provare tutte queste sensazioni, ed eseguire, di concerto col viso, tutta questa gamma di espressioni? Io non ci credo affatto, e neanche voi. Se chiedevate a quell’uomo così celebre che merita un viaggio apposta in Inghilterra soltanto per vederlo, allo stesso modo che le rovine di Roma meritano un viaggio in Italia; se gli chiedevate, dicevo, la scena del garzone pasticcere, ve la recitava; e se, subito dopo, gli chiedevate la scena di Amleto, ve la recitava, egualmente disposto a piangere per la caduta dei suoi pasticcini e a seguire nell’aria il balenar di un pugnale. Si può forse ridere o piangere a comando? Se ne possono imitare le smorfie, più o meno fedeli, più o meno credibili, a seconda che si sia o che non si sia Garrick. (...)
Che cosa è dunque un grande attore? Un grande mistificatore, un essere dotato di grandi capacità imitative, tragiche o comiche, al quale il poeta detta le parole.
D. Diderot, Paradosso sull’attore, a cura di P. Alatri, Roma, Editori Riuniti, 1978
Sul versante tedesco Lessing tenta una conciliazione tra le opposte tesi di Sainte-Albine e François-Valentin Riccoboni: l’attore deve a suo avviso aspirare a un realistico e autentico “tono medio”, ma non può rinunciare alla perfezione dell’arte. Dalle sparse riflessioni di Lessing in materia di recitazione nasce la proposta di Johann Jakob Engel di fondare scientificamente l’arte dell’attore (Riflessioni sulla recitazione, 1785-1786). Utilizzando come punto di riferimento concreto le magistrali interpretazioni di Konrad Ekhof, Engel elabora un paradigma di recitazione in cui la corrispondenza tra le idee e le passioni, da un lato, e la loro manifestazione esteriore, dall’altro, viene regolata da parametri ricavabili dalle scienze umane, con particolare attenzione agli studi di Lavater e Lichtenberg. Dalla concreta esperienza del palcoscenico nascono invece gli appunti goethiani sull’arte dell’attore risalenti al 1803, ma pubblicati solo nel 1824 col titolo Disciplina per l’attore. Partendo dal presupposto che l’attore deve sempre gestire la propria presenza scenica in funzione del pubblico, Goethe punta alla costruzione di un armonico effetto d’insieme che ha nello spettatore il proprio centro unificante. Già Dubos nelle proprie Riflessioni antiche sulla poesia e sulla pittura (1719) aveva posto l’accento sull’importanza di un’orchestrazione omogenea della recitazione proponendo di affidare a una sola persona il compito di organizzare l’esecuzione dei singoli interpreti dall’inizio alla fine del dramma.
Anche se con estrema fatica, gli attori conquistano nel Settecento riconoscimenti pubblici del valore della loro arte e i progetti di Luigi Riccoboni trovano le prime concrete attuazioni: nel 1753 Ekhof fonda a Schwerin una Theatralische Akademie (con annessa pubblicazione periodica) e nel 1774 nasce a Parigi l’Ecole Royale d’Art Dramatique. Il 20 novembre 1782 Alfieri non esita a indossare i panni di Creonte, nella messa in scena della sua Antigone presso il teatrino romano di Palazzo di Spagna del duca Grimaldi, nel tentativo di fornire un modello di recitazione agli attori italiani.
Inserendosi in un dibattito già avviato da Gianvito Manfredi (L’attore in scena, 1746), Alfieri affronterà teoricamente il problema dell’arte attoriale nel Parere dell’Autore sull’arte comica in Italia (1787), proponendo soluzioni alla crisi del teatro italiano sul piano del reclutamento, della formazione e della sistemazione professionale degli attori. Non a caso, dunque, a partire dalla messa in scena fiorentina di Saul (1794), protagonista Antonio Marrocchesi, proprio il repertorio alfieriano diventerà la strada maestra per il rinnovamento dell’arte interpretativa in Italia.
La messa in scena
Parallelamente alla ricerca della naturalezza espressiva la prassi teatrale settecentesca si distingue per la particolare attenzione accordata alla componente visiva degli allestimenti nel quadro di una generale tendenza alla verosimiglianza. È significativo che nel 1788 un critico sostanzialmente fedele agli orientamenti classicisti come Henry James Pye, commentando la Poetica di Aristotele, osasse dissentire dalla tendenza del filosofo greco a svalutare i riflessi spettacolari dell’esperienza drammaturgica ed esaltasse al contrario il contributo dato alla potenza dell’effetto poetico del dramma dal “realismo” delle situazioni sceniche, specie nelle commedie e nelle tragedie borghesi.
Nel corso del XVIII secolo un po’ in tutta Europa si abolisce gradatamente la consuetudine di far sedere in palcoscenico gli spettatori eccellenti: nel 1754 John Lee libera la scena del suo teatro di Edimburgo; nel 1759, grazie a una generosa sovvenzione del conte di Lauraguais, Lekain elimina i posti privilegiati alla Comédie Française; intorno al 1763 è invece Garrick a cacciare gli spettatori dal palcoscenico del Drury Lane. Ottenuto questo successo, nel 1771 Garrick chiama Philippe Jacques de Loutherbourg a dirigere tutti gli aspetti dell’impianto scenico dei propri spettacoli. Loutherbourg comincia così a sperimentare al Drury Lane l’impiego di fasci luminosi direzionali provenienti dalle quinte per creare particolari effetti atmosferici o per simulare l’apertura delle porte.
La tendenza delle compagnie inglesi a ricercare un certo “realismo” nella messa in scena viene presa a modello nei teatri del continente. Alla voce “Décoration” del quarto volume dell’ Encyclopédie (1754) Marmontel critica la scarsa attenzione dedicata nei teatri del tempo alla progettazione di ambientazioni verosimili. Nel 1759 Brunetti cura l’allestimento parigino della Semiramide di Voltaire e crea per l’occasione scene “rispettose d’un certo colore locale, secondo l’esempio inglese”. Quattro anni dopo l’allestimento ideato da Brunetti per la Merope segna la vittoria definitiva delle scene successive sulla scena unica o simultanea. Un importante passo avanti in direzione di un’ambientazione “realistica” si compie all’apparire sui palcoscenici francesi del “genere serio”. Sin dalle Conversazioni con Dorval la poetica teatrale di Diderot imponeva infatti di spostare il “luogo deputato” all’azione drammatica dalla scena convenzionale al salotto privato, e l’idea di tableau come “disposizione dei personaggi in scena, così naturale e vera, che, resa fedelmente da un pittore, […] piacerebbe sulla tela” metteva chiaramente a fuoco le istanze rappresentative implicite nella struttura drammaturgica del genre sérieux. La stessa attenzione alla verosimiglianza delle scene, con particolare riguardo alla connotazione storica, si ritrova in Germania: Schröder, allestendo per la prima volta il Götz di Berlichingen nel 1774, si sforza di ricreare il contesto ambientale della Riforma nelle sale del castello di Götz e nella corte del vescovo di Bamberga (si tenga presente che il dramma goethiano comporta complessivamente 49 cambi di scena). Ispirato agli orientamenti estetici di Winckelmann è invece l’allestimento classicheggiante della Ifigenia in Tauride di Goethe (1779) con l’autore nei panni di Oreste e Corona Schröder in quelli di Ifigenia.
Pare che Goethe – sensibile ai problemi della traduzione scenica dei testi teatrali come risulta dai suoi numerosi schizzi di scenografie per gli spettacoli di Weimar –, dovendo allestire nel 1798 Il campo di Wallenstein , raccogliesse il maggior numero possibile di incisioni raffiguranti scene di vita dei campi militari della guerra dei Trent’anni. Uno stesso scrupolo “filologico” anima anche uno dei più importanti collaboratori di Goethe a Weimar : per l’allestimento dell’ Ifigenia in Tauride di Gluck (27 dicembre 1800), Schiller si avvale della consulenza di un esperto conoscitore dell’antichità, Karl August Böttiger, e affida al pittore Heinrich Meyer la realizzazione dei costumi ispirati alla pittura vascolare antica. Una riforma è infatti avviata anche nel campo del costume. Garrick elimina le tradizionali piume utilizzate per le acconciature degli eroi. Marie-Justine-Benoite du Ronceray semplifica il costume teatrale recitando nel 1753 Gli amori di Bastiano e Bastiana in zoccoli e veste di lana.
Un contributo decisivo alla ricerca della verosimiglianza nell’abbigliamento è dato da Mademoiselle Clairon che nel 1755, per dare maggiore credibilità alla messa in scena dell’ Orpheline de la Chine di Voltaire, fa confezionare da Joseph Vernet abiti “abbastanza cinesi e abbastanza francesi per non destare il riso”, guadagnandosi in tal modo le lodi dello stesso autore. Se ancora nel 1765 l’apparizione di Jean Maudit in tunica nella rappresentazione di Agide e Cleomene poteva suscitare le parodie della troupe del Théâtre Italien, poco più di vent’anni dopo il pubblico parigino è invece pronto ad accogliere la riforma neoclassica del costume promossa da Talma in collaborazione con David.