La classe politica nazionalfascista
All’indomani della conclusione della prima guerra mondiale, la ripresa dell’attività politica a Venezia fu immediata. La guerra in effetti sembrava essere stata una parentesi; tragica, ma pur sempre una parentesi. La città si lasciava alle spalle le febbrili giornate della primavera di quattro anni prima. Rimanevano le tracce delle pesanti distruzioni subite con i bombardamenti austriaci; rimanevano tutte le difficoltà di una città che, venuta a trovarsi ad un passo dal fronte, dopo Caporetto si era trasformata in un baluardo difensivo di primaria importanza e che per lunghi mesi aveva seriamente corso il rischio di vedere di nuovo sventolare l’aquila bicipite sui suoi pennoni più alti. In realtà la politica non si era mai fermata. Pur in presenza di morti e distruzioni, e proprio in coincidenza con il momento più difficile del conflitto, aveva preso ufficialmente il via il progetto per la realizzazione del polo industriale di Porto Marghera. Questo avvenimento — decisivo, come sappiamo da una ricca storiografia, per le sorti novecentesche di Venezia, capace di determinare un capovolgimento del baricentro degli interessi finanziari e industriali regionali — era solo in apparenza in stridente contraddizione con il contesto bellico in cui prese corpo(1).
Ma andiamo con ordine e tentiamo di ricostruire alcuni passaggi, ritornando alle decisive giornate dell’estate 1914. Quando il rombo dei cannoni iniziò a rompere l’incantesimo della pace alla quale si erano da tempo abituati i popoli europei, a Venezia i segnali del rapido avanzare di una nuova stagione della politica erano già chiaramente percepibili. Un nuovo blocco, nazional-liberal-cattolico, formatosi a ridosso delle elezioni politiche del 1913 e di quelle amministrative del 1914, aveva assunto la guida della vita politica cittadina. Il padovano d’adozione Alfredo Rocco, coadiuvato da un gruppo di fidati referenti veneziani — tra cui spiccava, per il profilo e per il ruolo nell’establishment locale, il giornalista Gino Damerini(2) — ne era l’ispiratore. La vecchia classe dirigente liberale, che era ancora in grado con il sindaco Grimani di esercitare un forte controllo sulla borghesia cittadina, ma in realtà era ormai priva di capacità progettuali e quindi condannata ad «amministrare» l’esistente, si accodò, fornendo un indispensabile appoggio alla formazione di una destra conservatrice. I cattolici, infine, videro in questa nuova aggregazione il baluardo all’avanzata delle forze socialiste e misero a disposizione le loro truppe e i loro voti(3).
Il 28 giugno 1914 per i veneziani fu giornata elettorale: dalle 8 del mattino e fino alle 16 rimasero infatti aperte le urne per l’elezione del consiglio comunale e di quello provinciale. Mentre la città era intenta a votare, lo studente serbo Gavrilo Princip uccideva a Sarajevo Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’Impero austro-ungarico. Il responso delle urne gelò le aspettative dei socialisti, i quali speravano di bissare i risultati ottenuti nelle politiche del ’13 quando erano divenuti la prima forza politica cittadina(4). Il blocco «d’ordine» ottenne una netta vittoria e Filippo Grimani il 15 luglio, in una burrascosa seduta del nuovo consiglio comunale, venne confermato sindaco. Il successo elettorale della nuova coalizione e il clima generato dallo scoppio della guerra offrirono l’occasione ai nazionalisti veneziani di assumere con decisione il comando del fronte interventista. Per settimane si susseguirono riunioni, comizi ed iniziative propagandistiche belliciste nelle quali si distinsero i giovani del neonato Gruppo nazionalista veneziano. La sera del 28 agosto 1914, durante un concerto della banda municipale in piazza S. Marco, i giovani nazionalisti, affiancati da un gruppo di studenti, salirono sul palco ed interruppero il maestro chiedendo che venisse suonata la Marcia reale. Al termine dell’esecuzione, mentre il direttore si accingeva a riprendere il programma del concerto, i giovani chiesero che venissero eseguiti anche gli inni di Garibaldi e di Mameli. Di fronte al rifiuto del direttore, i nazionalisti intonarono «Fratelli d’Italia» e gridarono: «Viva l’Italia», «Viva Trento e Trieste». Per le fonti di polizia, che parlarono di circa 150 partecipanti, si trattò della prima manifestazione interventista promossa dai gruppi nazionalisti veneziani ed una delle prime in Italia(5). Inutilmente nelle settimane successive le autorità tentarono di porre un freno alla montante propaganda interventista. Il prefetto, «essendo ormai accertato che vero e unico scopo associazione [era] quello di promuovere grande dimostrazione contro Austria ed a favore guerra»(6), proibì una manifestazione patriottica indetta dalla Trento e Trieste per la ricorrenza del 20 settembre. Ignorando il divieto, Giovanni Giuriati, presidente del gruppo irredentista, scelse di celebrare lo stesso la ricorrenza sfilando per la città e concludendo la manifestazione con un pellegrinaggio al sarcofago di Daniele Manin.
Un altro spazio che in poco tempo divenne un punto di riferimento del fronte interventista fu l’Ateneo Veneto. Qui con regolarità nei mesi di settembre e ottobre — successivamente il gruppo giovanile fu ospitato nei locali de «Il Gazzettino»(7) — si diedero appuntamento i giovani nazionalisti per assistere alle conferenze dei seniors quali Alberto Musatti, Piero Foscari e Giuriati. Nelle stesse settimane Alfredo Rocco iniziò a teorizzare, con una serie di articoli pubblicati su «Il Dovere Nazionale», la necessità di strappare alla sinistra il controllo della piazza(8).
In quelle settimane dell’autunno del ’14, le incursioni dei nazionalisti in piazza S. Marco e altrove in città si fecero sempre più frequenti; aumentarono di pari passo anche gli scontri con gli esponenti socialisti e gli uomini della Camera del lavoro che tentavano in qualche modo di arginare l’onda interventista. Tra la fine del ’14 e i primi mesi del ’15 il movimento operaio veneziano, alle prese con una gravissima crisi occupazionale, era impegnato a potenziare le proprie strutture. Il 14 febbraio 1915 venne solennemente inaugurata la Casa del popolo al Malcanton con gli interventi di Musatti, Serrati e Costantino Lazzari, segretario del P.S.I. (Partito Socialista Italiano). Nello stesso pomeriggio la nuova sede sindacale ospitò una conferenza contro la guerra di Giuseppe Modigliani.
Significativo della tensione politica che oramai avvolgeva la città, il fatto che una settimana più tardi (21 febbraio) la Casa del popolo divenisse teatro di uno scontro tra neutralisti (in netta maggioranza) e un gruppo di interventisti capeggiati da Piero Marsich, Giovanni Giuriati e il «radico-socialista» Marco Fano. Convenuti per un contraddittorio, l’incontro presto degenerò in uno scontro fisico, sedato solo dall’intervento della forza pubblica(9). La controffensiva fu però troppo debole, frenata dalle divisioni che da alcuni mesi erano chiaramente emerse all’interno del partito socialista e del mondo sindacale. Già nel novembre del ’14 sul «Secolo Nuovo», giornale fondato da Elia Musatti(10), cominciarono ad uscire articoli contro i «traditori del socialismo». Gli strali della stampa socialista colpirono un primo drappello di sindacalisti rivoluzionari tra i quali spiccavano Luciano Ciardi, ex membro del direttivo della Camera del lavoro, e il fratello Livio, presidente nazionale del sindacato ferrovieri(11).
Mentre nell’area sindacale non si registrarono gravi perdite a favore del fronte interventista(12), più significative furono quelle nel partito socialista, tra le quali grande impressione destò, ad esempio, quella di Ernesto Cesare Longobardi. Di origini campane, nato a Sarno in provincia di Salerno nel luglio del 1877, Longobardi aveva alle spalle una lunga militanza nelle fila del gruppo socialista napoletano di Arturo Labriola(13). Arrivato a Venezia nel 1909 per insegnare Storia della letteratura inglese a Ca’ Foscari, tra il 1914 e il 1915 fu consigliere comunale. Per Longobardi la scelta a favore dell’Intesa — certamente influenzata anche dalle questioni adriatiche(14) — era necessaria per inserire l’Italia nei paesi della democrazia industriale ed indispensabile per l’avanzata del socialismo tra le masse, sviluppando così l’offensiva contro le forze clericali e conservatrici(15). Già nell’ottobre del ’14 egli aveva esplicitato queste sue posizioni senza avviare alcuna operazione scissionista all’interno del partito, ma la sua partecipazione nel maggio del 1915 alle manifestazioni di piazza destò scandalo tra i suoi e provocò tra l’altro la reazione di Girolamo Li Causi, allora studente a Ca’ Foscari, che lo apostrofò pubblicamente in piazza S. Marco(16).
In sostanza dal giugno 1914 al maggio 1915 Venezia visse una situazione di costante mobilitazione. Oltre agli episodi già descritti, tra le manifestazioni più imponenti va ricordata quella del 29 novembre quando alla palestra della Società Reyer, presenti circa 2.000 persone, si tenne il comizio di Cesare Battisti(17) al termine del quale si verificarono gravi incidenti conclusisi con l’arresto di sei manifestanti(18). Il 7 dicembre si costituì un Fascio rivoluzionario intervenzionista dietro il quale si raggruppava tutto l’interventismo di sinistra comprendente repubblicani, socialisti dissidenti, sindacalisti rivoluzionari, dichiarandosi in collegamento con «Il Popolo d’Italia» di Mussolini. La mobilitazione nazionalista continuò con varie iniziative per tutte le ultime settimane del ’14. Tra queste si ricordano alcune affollatissime conferenze di Attilio Tamaro, replicate in più occasioni in vari teatri veneziani e al Toniolo di Mestre, e una serata dedicata alla commemorazione di Guglielmo Oberdan tenutasi a palazzo Faccanon. Tutti gli incontri furono accompagnati da incidenti che richiesero l’intervento della polizia. Il ritmo delle iniziative non si attenuò nel corso dei primi mesi del 1915; a quella data, secondo quanto riporta Pomoni, il «partito della guerra» veneziano poteva contare su 500 esponenti dell’Associazione nazionalista e sui circa 1.000 della Trento e Trieste(19). Attorno a quest’ultima gravitavano altre associazioni come la Dante Alighieri e la Garibaldi Pro Venezia Giulia, senza contare che essa era il punto di riferimento dei tanti profughi adriatici rifugiatisi a Venezia. La propaganda interventista continuò senza soste, fino a toccare l’apice nelle giornate del «maggio radioso». In quei decisivi mesi si definirono le collocazioni di alcuni gruppi politici rimasti in bilico tra i due schieramenti e soprattutto presero posizione quasi tutti i maggiori giornali cittadini. A febbraio i radicali, ad esempio, dopo vari tentennamenti decisero di appoggiare il fronte interventista. Circa i giornali, le posizioni possono essere così riassunte: con i neutralisti si schierò solo «La Difesa», mentre interventisti si dichiararono «il Gazzettino» e «L’Adriatico»: la «Gazzetta di Venezia» rimase l’unico grande giornale a non prendere posizione scegliendo una linea attendista.
Ma al di là degli equilibri politici in via di assestamento e dell’intensità degli scontri tra le parti che presero una cadenza giornaliera, fu soprattutto il clima politico cittadino a cambiare repentinamente. Un nuovo vento di destra soffiava sulla città, portando con sé infausti presagi. Non tutti i protagonisti della vita politica percepirono chiaramente il significato di quanto avvenne nei pochi mesi precedenti l’ingresso in guerra dell’Italia. Tra i pochi a descrivere lucidamente il significato di quegli avvenimenti vi fu il già citato Li Causi, al tempo impegnato in un difficile apprendistato politico e sindacale a Venezia. La sua testimonianza autobiografica ricostruisce il clima di quei mesi, ma chiarisce anche con efficacia i meccanismi che portarono alla «conquista della piazza» da parte dei nazionalisti e i mezzi usati nella battaglia politica(20). Altro centro nevralgico dello scontro fu Ca’ Foscari. Qui le osservazioni di Li Causi si soffermano sull’universo giovanile — decisivo, probabilmente, nel determinare lo spostamento degli equilibri a favore del fronte interventista — proveniente da ogni parte d’Italia, tracciando una mappa degli orientamenti prevalenti tra i diversi gruppi regionali: «Erano neutralisti, per lo più, gli studenti emiliani, marchigiani, siciliani e meridionali in genere, mentre la massa degli interventisti era data dagli studenti dell’Italia settentrionale, specialmente della Lombardia e del Veneto e dagli strati socialmente più elevati della popolazione»(21).
Come l’allora diciannovenne Li Causi spiegò in altre pagine mirabili, il progressivo arretramento dei neutralisti dagli spazi della sociabilità e dalle piazze — meglio sarebbe dire «dalla» Piazza, in quanto il vero ed unico palcoscenico conteso rimaneva quello di S. Marco — avvenne anche con la complicità delle forze dell’ordine che, dopo aver a lungo mantenuto un atteggiamento equidistante tra le parti, a partire dai primi di maggio del 1915 mutarono radicalmente atteggiamento favorendo le manifestazioni interventiste e impedendo quelle dei neutralisti(22). Le giornate del «maggio radioso» furono scandite da un crescendo inarrestabile di manifestazioni con epicentro in Ca’ Foscari — praticamente divenuta il quartier generale degli interventisti — dove da settimane la maggioranza degli studenti scioperava e partecipava alle iniziative in favore della guerra. Il culmine di questa lunga preparazione si ebbe il 13 maggio, il giorno stesso in cui il presidente del Consiglio Salandra, convinto di non disporre più della maggioranza parlamentare, presentò le sue dimissioni. Quella che solo apparentemente sembrò una vittoria di Giolitti e dei neutralisti si trasformò nella molla che fece scattare la rabbiosa reazione degli interventisti che affidarono a D’Annunzio il compito di mobilitare le folle per dare la spallata finale al sistema liberale e impedire il ritorno di Giolitti al governo. In quell’occasione il principe degli oratori di guerra diede il meglio di sé con un discorso nel quale incitò il popolo di Roma a combattere prima di tutto contro il nemico interno, cioè contro l’ipotesi di qualsiasi accordo che potesse tenere l’Italia fuori dal conflitto europeo(23). A chi lo ascoltò D’Annunzio fece «cogliere l’aria infetta della Roma parlamentare», fece sentire il «peso obbrobrioso» del tradimento architettato da «quel vecchio boia labbrone», il «mestatore di Dronero»(24).
Mentre dunque il poeta-vate concludeva il suo discorso romano invitando a passare all’azione «col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno» contro i traditori della patria, «i leccapiatti e i leccazampe dell’Ex-cancelliere tedesco», in piazza S. Marco si svolgeva una delle più imponenti manifestazioni interventiste tenutesi dall’inizio della guerra. Non a caso tra gli oratori spiccavano il citato Cesare Longobardi e altri ex di un certo peso come Giovanni Bordiga, già assessore nella giunta ‘bloccarda’ Selvatico, il socialista Angelo Fano e il radicale Antonio Feder. Era il segno della definitiva resa di interi settori del mondo democratico e socialista e del loro passaggio sotto le bandiere del «partito della guerra». La manifestazione, cui parteciparono circa 3.000 persone, si prolungò fino a tarda notte con scontri con le forze dell’ordine e un tentato assalto al consolato tedesco. Dimostrazioni si susseguirono ininterrottamente anche il 14 maggio, con assemblee studentesche a Ca’ Foscari e scontri in piazza S. Marco tra gli esponenti delle opposte fazioni, e il 15, una delle giornate più calde del «maggio radioso» nel corso della quale il partito socialista provò l’ultima mobilitazione nel disperato tentativo di arginare la fiumana interventista(25). L’adesione fu molto inferiore alle aspettative; le fonti di polizia parlarono di circa 300 militanti, tanti quanti riuscirono a portarne in piazza i nazionalisti. I due gruppi entrarono subito in contatto dando vita a pesanti incidenti durati fino a quando gli agenti riuscirono a dividerli con un cordone di uomini. Quando la polizia riuscì a riportare l’ordine, scattò la trappola architettata dagli interventisti. Da sotto la Torre dell’Orologio circa 300 giovani reclutati nelle società sportive cittadine, armati di bastoni, entrarono nel ‘campo’ di battaglia travolgendo tutto ciò che trovarono di fronte e rompendo il cordone a fatica creato dalle forze dell’ordine. A quel punto i socialisti furono completamente sopraffatti dagli avversari e subirono pesanti violenze che persino la stampa moderata fu costretta ad ammettere(26). Gli scontri del 15 maggio 1915 sancirono, dunque, la definitiva conquista ‘militare’ della Piazza da parte delle forze interventiste(27). Gli avvenimenti del giorno successivo (la conferma di Salandra da parte del re) ratificarono la vittoria politica del partito bellicista. Pochi giorni dopo due idrovolanti austriaci sganciavano le prime bombe su Venezia, che assisteva a questo inedito spettacolo come se si trattasse di una esibizione, di un gioco, ignara della bufera che a breve si sarebbe abbattuta sulla città(28). La fine della lunga lotta politica in favore della guerra terminava così con la netta vittoria del fronte interventista che, formatosi nei dieci mesi intercorsi tra il giugno 1914 e il maggio 1915, portò a termine la ‘conquista’ della città, divenuta a tutti gli effetti una delle capitali del nazionalismo italiano.
Ma fu vera vittoria? Fu questo fronte totalmente schiacciato sulle posizioni del gruppo nazionalista? La risposta riveste a nostro giudizio un notevole interesse per capire, come si vedrà, il peso di questa mobilitazione prebellica nel determinare le nuove forme di aggregazione politica dell’immediato dopoguerra. Se guardiamo meglio dentro il vecchio universo liberale, possiamo cogliere alcuni elementi utili a muovere il quadro sin qui descritto. Non può ad esempio sfuggire il ritrovato protagonismo di un vecchio esponente della classe dirigente liberale — transitato per il partito radicale nei primi anni del Novecento e poi approdato ad un’autonoma posizione — da decenni protagonista della vita culturale cittadina prima ancora che di quella politica, come Antonio Fradeletto(29).
Eletto per la quarta volta alla Camera per il collegio di Venezia III, con il determinante appoggio dei moderati, dei nazionalisti e quello all’inizio più contrastato dei cattolici(30), Fradeletto si era venuto a trovare in una situazione di isolamento politico; aveva rotto definitivamente i ponti con il suo ex partito, era mal sopportato dai cattolici, si era infine legato al carro ormai traballante di Grimani: l’unico ruolo di prestigio rimastogli era quello di segretario della Biennale. Allo scoppio della guerra Fradeletto, come larga parte della deputazione veneta, assunse una posizione neutralista(31) che mantenne fino all’aprile del ’15 quando all’improvviso annunciò di aderire al fronte interventista(32). L’11 aprile tenne a Conegliano la sua prima conferenza pubblica, pochi giorni dopo a Bologna, in occasione di un discorso su Carducci organizzato dalla Dante Alighieri, riconobbe di aver esitato di fronte alla prospettiva di un intervento militare perché prematuro rispetto allo stato di preparazione dell’esercito ed affermò che la difesa dei valori della tradizione italiana rendeva necessario l’intervento(33). Da quel momento Fradeletto mise la propria persona e la propria autorevolezza a completa disposizione della causa interventista. Oltre ad un’intensa attività come conferenziere, fu lui nella famosa giornata del 15 maggio a guidare la delegazione dei parlamentari veneziani recatasi dal prefetto per esprimere il pieno appoggio al dimissionario governo Salandra.
Da sempre attento alla salvaguardia del patrimonio artistico della città, intervenne spesso sulle decisioni prese da Ugo Ojetti cui era stata affidata la difesa dei monumenti veneziani e criticò anche il sistema difensivo aereo approntato da Piero Foscari(34). Ma è soprattutto l’attività di conferenziere che merita di essere presa in considerazione(35). Già affermato per le sue doti oratorie(36), egli appariva l’unico esponente della classe dirigente liberale veneziana capace di adattare il proprio linguaggio alle novità introdotte nello stile della politica dai nazionalisti e dai socialisti. Egli riuscì a far proprio il linguaggio nazionalista e a reinterpretarlo, coniugando la retorica interventista con alcuni dei topoi più classici della venezianità. Lo schema di quello che negli anni di guerra diverrà l’impianto di tanti suoi discorsi pubblici, lo troviamo mirabilmente esposto nelle pagine de La storia di Venezia e l’ora presente, scritte tra il dicembre del ’15 e il gennaio del ’16, dove l’autore richiama il carattere eccezionale di questa impresa bellica per indicarne poi la legittimazione nella difesa della grande tradizione veneziana:
Sì, la guerra che combattiamo si distacca da tutte le altre nostre per alcuni sostanziali caratteri: è di tutte la più formidabile, dopo i giorni remoti di Roma; è la prima alla quale partecipi il popolo intero, fuso insieme, senza distinzione di regioni e di ceti; è la prima che, mirando a preventiva difesa contro meditate e preparate invasioni, abbia assunto un iniziale atteggiamento offensivo; è l’unica che rientri come vasto episodio nazionale nella cornice d’una immensa tragedia mondiale. Tuttavia, noi sentiamo ch’essa non costituisce un fatto divelto dalla tradizione, uno di quei fatti crudamente inattesi che possono di colpo sorprendere e capovolgere la politica di uno Stato. Noi sentiamo che essa, spezzando la catena d’una trentennale alleanza, riprende, amplia, integra le lotte sostenute dai nostri padri per l’indipendenza e per l’unità, due ideali che mai non si disgiunsero, nelle loro coscienze, da un principio superiore di giustizia. […] Pochi, invece, pensano altra cosa. Pochi pensano, o meglio ricordano, che gli eventi odierni possono ricollegarsi, con intimo nesso, a vicende ben altrimenti lontane. Ora è appunto questo nesso un altro documento, forse il maggior documento, della sacra legittimità della nostra guerra; perché le imprese corrispondenti davvero ai bisogni e alle aspirazioni, agli interessi e ai diritti di un popolo, sono quelle che meglio si saldano ai lontani anelli del tempo [...]. L’Italia moderna rientra oggi nel solco segnato dalla piccola Venezia antica. Piccola nello spazio, singolarmente ampia nel tempo(37).
E quali furono le caratteristiche preminenti della millenaria storia di Venezia?
Essa fu municipale per le origini e per il singolarissimo reggimento politico [...], fu italiana, anzi, più largamente, latina, perché le isole venete, protette dalle ‘salse paludi’, sfuggirono all’invasione germanica [...], fu mondiale, per l’azione che spiegò sui mari e sulle terre del vecchio continente. Azione vasta, varia, complessa, mutevole, secondo l’avvicendarsi delle correnti politiche. Pure in essa si delineano spiccatamente […] tre fatti capitali: Lotta per l’Adriatico, a fine di conquistarvi piena libertà di respiro e sicurezza di movimenti. Lotta contro gli Asburgo pel confine orientale e settentrionale di terra ferma e per l’indipendenza italiana. Lotta contro il Turco per la difesa degli interessi coloniali e commerciali d’oltremare.
Secondo Fradeletto le vicende della prima decade del Novecento avevano dunque riproposto a Venezia — e all’Italia del 1915 — le stesse sfide già affrontate in passato.
Non sono questi i lontani preludi dell’ora presente? Anche noi combattiamo per la libertà dell’Adriatico, dove ora abbiamo soltanto servitù o paralisi. Anche noi combattiamo contro la casa d’Asburgo, per conservare e compiere l’unità nazionale. Anche noi ci troviamo di fronte la Turchia, anzi da una guerra con la Turchia è cominciata la nostra rinascita alla vita militante.
Come è naturale attendersi, la rivendicazione nazionalista dell’Adriatico occupava un posto centrale nel suo schema oratorio. Essa era sì legata a considerazioni di carattere strategico-militare, dettate dalla nuova situazione creatasi con lo scoppio della guerra, ma veniva prima di tutto posta in stretta connessione con la millenaria vocazione di Venezia a porsi come ‘porta’ verso Oriente. Distaccandosi, almeno nei toni usati, dal nazionalismo adriatico di D’Annunzio e Foscari, Fradeletto scriveva:
Alla vigilia della nostra partecipazione alla guerra presente, la stampa germanica, o amica della Germania, ci rivolgeva un monito affettuoso. A che attribuite tanto valore all’angusto, al povero Adriatico? Il vostro campo naturale è ben più vasto [...]. Mirate dunque al Mediterraneo, ambizione più degna. Fuori d’ogni reminiscenza e allusione storica: unitevi agli Imperi centrali contro l’Inghilterra e la Francia, o se non altro, rimanete inerti spettatori del conflitto, in attesa di un premio che riceverete sulle sponde mediterranee. Distinzione artificiosa, tentazione ingannevole [...]. Per la nostra sicurezza ed espansione nel Mediterraneo orientale, ci è necessaria la preminenza o, almeno, un sicuro equilibrio nell’Adriatico [...]. Costruita sul margine delle acque, staccata per lungo tempo dalle vicende della terraferma, naturalmente povera e stimolata dalla povertà, essa [Venezia] deve volgersi all’Oriente, ove la chiamano la ricchezza dei mercati e i legami politici con l’impero bizantino. Ma all’Oriente non può giungere che per una sola via: percorrendo l’Adriatico. Di qui la necessità di assicurarselo in ogni modo, ad ogni costo, contro ogni nemico o possibile concorrente(38).
In questo tentativo di rivisitare la storia di Venezia, non poteva mancare un’incursione in quel grandioso deposito della memoria che era costituito dall’epopea del ’48-’49 e dal sacrificio della città caduta dopo l’assedio austriaco(39). Oggi come allora, Venezia diventava martire della patria(40). Attorno a questi punti fermi Fradeletto negli anni della guerra costruì gran parte dei suoi interventi pubblici pronunciati a Venezia e in giro per l’Italia, dopo la sua svolta filointerventista. Spesso queste performances oratorie prevedevano anche un passaggio dedicato alla gioventù caduta per la liberazione delle terre irredente, stabilendo così un ponte tra la generazione caduta nelle guerre per l’indipendenza(41) e quella partita per la guerra del 1915(42). Il nesso che legava le due generazioni di giovani combattenti era il «garibaldinismo», che secondo Fradeletto costituiva l’unico vero alimento spirituale per gli uomini dell’Italia chiamata a combattere il nuovo nemico austriaco.
Si sbaglierebbe a considerare l’azione condotta da questo personaggio unicamente come mero sfoggio d’arte oratoria. In realtà egli continuò ad occuparsi della politica attiva e soprattutto delle condizioni materiali della città, divenute col passare dei mesi sempre più pesanti. Nei difficili giorni del dopo Caporetto non solo prese l’iniziativa, assieme ad altri parlamentari, per convincere Giolitti a ritornare in Parlamento rimarcando in questo modo la sua partecipazione alla mobilitazione di tutto il paese(43), ma si attivò per bloccare l’esodo dalla città e migliorare le condizioni di vita dei veneziani. Con l’aiuto del Comitato di assistenza e difesa civile, nel maggio del ’18 sostenne l’istituzione di incentivi economici a coloro che desideravano rimanere in città o ritornarvi. Continuò a sostenere le ragioni del fronte interventista(44) anche dopo la disfatta dell’ottobre del ’17, facendo leva su un repertorio tematico caro alla tradizione liberale: esaltazione del ruolo e della figura del re «soldato» che non esitava ad affrontare i rischi della prima linea(45), attacchi alla propaganda pacifista promossa dai socialisti. In circa tre anni di intensa e martellante attività propagandistica Fradeletto era tornato ad occupare una posizione centrale nella vita politica veneziana: a lui guardavano quanti, nella difficile situazione determinata dalla guerra e di fronte ad un quadro politico entrato in una fase di transizione, non avevano smesso di progettare il futuro di Venezia. Chi conosceva in profondità il ventre molle della borghesia veneziana sapeva che le grida, le esagerazioni verbali e le esibizioni muscolari dei nazionalisti potevano al massimo essere usate per scardinare vecchi e ormai obsoleti assetti di potere e per bloccare l’avanzata del movimento operaio e socialista e il suo radicamento nella società. Ma non potevano essere usate per realizzare quei progetti di espansione industriale ai quali guardavano già da qualche anno Giuseppe Volpi, la Banca Commerciale e il gruppo di imprenditori ed esponenti della finanza che con Volpi avevano condiviso le avventure economiche e commerciali nell’area balcanica(46), le prime iniziative nel settore elettrico e la nascita della S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità) nel 1905(47).
Negli anni della guerra l’attività imprenditoriale di Volpi diventò febbrile e si allargò progressivamente a diversi settori. La Società Adriatica crebbe ulteriormente attraverso una politica di accorpamenti che interessò le principali società elettriche del Triveneto e altre imprese del settore(48). Questa società, che tra il 1915 e il 1918 conobbe continui aumenti di capitale — il più consistente proprio alla vigilia di Caporetto il 23 ottobre 1917 —, divenne il perno attorno al quale ruotarono le più importanti iniziative imprenditoriali e finanziarie realizzate da Volpi in quegli anni. Senza la pretesa di dare conto in maniera esaustiva del labirinto di società e di partecipazioni intrecciate che in pochi anni diedero vita ad uno degli imperi finanziari e industriali più importanti del paese, va ricordato che proprio in quel fatidico 1917 la S.A.D.E. concorse alla costituzione, nel giugno, della Società Porto industriale, presieduta da Volpi, che divenne la società capofila della colossale operazione politico-finanziaria-industriale che di lì a poco diede il via alla nascita di Porto Marghera. Nel breve volgere di pochi mesi la costellazione degli interessi economico-finanziari di Volpi si arricchì di molte altre società. Sempre nel 1917 la S.A.D.E. avviò la costituzione della Società Cantieri Navali e Acciaierie di Venezia, presieduta ancora da Volpi(49). Nel maggio del 1918 Volpi fondò, assieme ad Angelo Pogliani e Gino Toso, il Lloyd Adriatico e la Società Veneta di Beni Immobili incaricata della commercializzazione delle aree fabbricabili; in maggio nacque, ancora con il concorso di Vittorio Cini(50), Achille Gaggia, direttore della S.A.D.E., Giancarlo Stucky e Volpi, la Società Italiana Costruzioni che nel 1920 siglò con il Comune di Venezia un accordo per realizzare un primo lotto di quartieri popolari a Marghera.
Pur limitandoci a queste sommarie informazioni, si può intuire che nel primo decennio del Novecento a Venezia venne lentamente incubato un progetto economico-industriale destinato a lasciare un segno fondamentale nella storia economica regionale e nazionale per tutto il primo quarantennio del secolo(51). Si trattò di un progetto che fece convergere a Venezia il fior fiore del capitale finanziario italiano (basterebbe citare i nomi dei Perrone, dei Piaggio, degli Orlando) e ridiede slancio e nuove ambizioni alle storiche famiglie del capitalismo veneto; un progetto che richiese nuove risorse politiche e un’adeguata cornice normativo-legislativa, in grado di fornire incentivi economici e particolari condizioni per il controllo e il disciplinamento della forza lavoro, oltre al supporto di un collante ideologico che consentisse di tenere insieme istanze, aspirazioni e interessi così diversi come quelli formatisi attorno al progetto del porto industriale. In ogni caso, quando lanciò il progetto di Porto Marghera, Volpi era già un protagonista assoluto della «guerra parallela» in corso nel capitalismo italiano, guerra destinata ad incidere pesantemente nelle vicende economiche del primo dopoguerra e negli avvenimenti politici degli anni che portarono il fascismo alla conquista del potere(52).
Negli anni della guerra il quarantenne imprenditore e finanziere veneziano aveva già consolidato la sua presenza nei settori chiave dell’economia cittadina e regionale. Il suo nome compariva nei consigli d’amministrazione della Società di navigazione a vapore, nella Società veneta per la costruzione ed esercizio di ferrovie secondarie, nelle Officine di Battaglia, nella Cartiera Reali di Treviso, nella Società di navigazione libera triestina, nelle Assicurazioni Generali, nella Società di bonifica del II bacino S. Michele al Tagliamento oltre che in quelle già citate. I titolari di queste imprese erano Alberto Treves de’ Bonfili, Nicolò Aldobrandini Papadopoli, Marco Besso, Giulio Coen, Luigi Ceresa, Antonio Revedin, Giancarlo Stucky, Piero Foscari, Gino Toso e altri(53). La spina dorsale della nuova impresa appariva dunque ben impiantata nel corpo dell’economia veneta; nessuna delle grandi famiglie dell’imprenditoria veneziana mancava all’appello. Tutto ciò a nostro giudizio rende più chiaro il significato della ‘resurrezione’ politica di Fradeletto. Essa era funzionale a questo grande progetto politico-economico, serviva da copertura e ‘garanzia’ per quella parte del mondo politico cittadino che fino a quel momento si era riconosciuta nella tradizione del moderatismo liberale. Fradeletto appariva l’unico in grado di traghettare la vecchia Venezia verso la nuova. In uno dei suoi primi discorsi parlamentari dopo la conclusione della guerra, del 25 novembre 1918, egli chiese per Venezia il ruolo di «coordinamento tecnico ed economico tra i vari porti dell’Adriatico»(54).
Le sue posizioni circa lo sviluppo futuro del porto cittadino cominciarono a delinearsi chiaramente nella prefazione al testo di Adriano Augusto Michieli(55). Fu lui nel 1921 ad esaltare l’univocità delle interdipendenze e la nascita di una più grande Venezia nella quale si fondessero la città antica e quella nuova, protesa al futuro(56). Il suo impegno diretto per favorire il decollo dell’operazione era già da anni totale e perfettamente sintonizzato con il verbo volpiano(57). Non solo, come ministro delle Terre liberate, aveva chiesto e ottenuto la concessione di un provveditore al Porto e avviato la collaborazione con i Ministeri della Marina e dei Trasporti(58), ma in molte altre occasioni era intervenuto per sostenere in sede governativa gli interessi del nuovo porto. Decisivo fu ad esempio il suo ruolo nella vicenda della concessione ottenuta dalla società di Volpi (la Cantieri Navali e Acciaierie) della gestione dell’Arsenale, vincendo la concorrenza del Consorzio cooperative operai metallurgici sostenuto da Elia Musatti(59). Non va soprattutto scordato che tutti i decisivi passaggi finali che portarono alla nascita di Porto Marghera videro la sua attenta regia. Fu infatti Fradeletto a sollecitare il presidente del Consiglio Boselli a far approvare rapidamente il progetto del nuovo porto industriale(60). La stessa convenzione sottoscritta il 23 luglio 1917 tra il governo e la Società Porto industriale di Venezia recava la sua firma assieme a quella di Piero Foscari(61).
È nostra opinione che la storia del fascismo veneziano non possa prescindere da questi passaggi. In essi Venezia ritrovò, dopo la crisi della tarda età giolittiana e le ferite della guerra, un grande progetto di rinascita e un ruolo da protagonista nella scena politica nazionale. Con esso la città ritrovò anche un nuovo doge: a partire dall’immediato dopoguerra Giuseppe Volpi apparve come il grande burattinaio della lotta politica che si consumò dopo il ’22 entro il fascismo veneziano. Volpi si mosse fra i due schieramenti che da subito si contrapposero al suo interno, sostenendo ora l’uno ora l’altro, coagulando nel contempo attorno a sé quanto rimaneva del vecchio ceto politico moderato e conservatore. Il suo ruolo fu dunque decisivo sia nel definire gli assetti di potere interni al movimento e al partito fascista, sia nel controllo della vita politica e amministrativa cittadina.
Il primo dopoguerra è il momento cruciale per capire cosa cambia nella politica veneziana. Esula dai compiti del presente contributo un’analisi dettagliata degli avvenimenti del periodo che precede la marcia su Roma e l’ascesa al potere del fascismo(62). Ciò che soprattutto interessa è cogliere alcuni passaggi chiave e soffermarci sugli elementi che contribuirono a modificare le modalità dell’agire, le forme di organizzazione e i rapporti di forza interni ai vari gruppi e movimenti politici: tutti quegli elementi, insomma, che portarono alla vittoria del fascismo e che fecero di quello veneziano un’anomalia sul piano nazionale. È necessario dunque soffermarci sugli anni del conflitto e mettere a fuoco due elementi in particolare: il ruolo di alcuni personaggi che occupano la scena politica in quel periodo e l’impatto che la guerra ebbe sulla società veneziana.
Ritorniamo al giugno del 1914. La notizia dell’attentato di Sarajevo aveva spezzato l’incantesimo di una città da anni al centro della vita mondana internazionale. Mai come allora l’Esposizione d’arte, giunta alla sua XIV edizione e inaugurata in primavera dal re, aveva richiamato a Venezia il meglio del bel mondo internazionale. La città si presentava come la passerella ideale per quel mondo nel quale si mescolavano vecchia nobiltà e nuovi ceti borghesi, intellettuali e rampolli delle nuove aristocrazie europee. A Venezia insomma troviamo perfettamente rappresentata la società di ancien régime descritta da Arno Mayer(63). Scriveva uno dei protagonisti di quel dorato mondo, spazzato via dallo scoppio della guerra:
La città e il Lido non erano stati mai così gremiti; una folla immensa di stranieri si pigiava negli alberghi, nelle locande, nei ristoranti, sulla spiaggia, in Piazza San Marco, ai balli, alle serenate; americani, inglesi, francesi, tedeschi, ungheresi, russi, si contendevano il sole e il mare, il palpito delle ore lunari, i favori delle belle donne, le gondole, i posti al caffè, in una gara di lussi, di esibizionismi nudisti, di follie edonistiche [...]. I palazzi sul Canal Grande, tutti aperti, innondavano di luci e di suoni le notti afose [...]. [Con lo scoppio delle ostilità lo scenario cittadino mutò completamente:] l’ombra tragica della guerra soverchiò il balenio delle luminarie, dei gioielli, delle sete; agghiacciò ogni desiderio di divertimento; la prima eco del cannone fece scomparire tutta quella gente come se fosse stata succhiata dai lontani vortici della distruzione. Venezia sprofondò ad un tratto nella solitudine, in un silenzio fosco [...](64).
In poche settimane dunque la città cambiò completamente volto: gli alberghi si svuotarono, le attività del porto si ridussero drasticamente, quelle commerciali e artigianali legate al turismo subirono un immediato contraccolpo(65). Con l’inverno arrivarono anche la crisi economica e la disoccupazione. Nei mesi successivi Venezia assunse rapidamente le sembianze di una città in armi. Allo scoppio delle ostilità la città aveva completato la sua metamorfosi: i canali di navigazione esterna e gli accessi a quella interna erano stati bloccati, molti alberghi erano stati requisiti e trasformati in ospedali, l’illuminazione notturna era stata eliminata, sulle altane erano state collocate le difese antiaeree affidate alla supervisione di Piero Foscari e a un gruppo di ufficiali della guardia aerea tra cui spiccava la folta pattuglia di artisti e di letterati, comprendente tra gli altri Sem Benelli, Umberto Fracchia, Rosso di San Secondo, Antonio Beltramelli, Umberto Brunelleschi, Ezio Maria Grey. Erano state realizzate speciali protezioni per i principali monumenti, svuotate le chiese e le gallerie.
Durante gli anni della guerra Venezia subì numerosi bombardamenti. Tra gli obiettivi più volte sfiorati ma mai centrati, vi fu la Casetta Rossa (la Casina delle Rose) sul Canal Grande, sul lato del palazzo Corner, di fronte al palazzo Venier dei Leoni, che Gabriele D’Annunzio, stanco di dimorare in albergo, aveva preso in affitto dalla famiglia Hohenlohe, trasferitasi a Lugano. Come sappiamo dal racconto del suo biografo veneziano, il poeta era giunto a Venezia nel luglio 1915 proveniente da Pescara dove aveva fatto visita alla madre. Vi giunse con un «mandato» militare molto ampio; aveva infatti strappato al generale Cadorna «ampia facoltà di correre su tutta la fronte della battaglia» e al Ministero della Marina la promessa di lasciarlo «prendere parte a movimenti e combattimenti navali»(66). Pochi giorni dopo si cimentò nella prima azione: il 20 luglio, anniversario della battaglia navale di Lissa, partecipò ad una missione con una flottiglia di siluranti compiendo un ampio giro sulla rotta Venezia-Trieste-Pola. All’arrivo nel porto il poeta tenne il suo primo discorso rivolgendosi ai superstiti dell’«Amalfi», un incrociatore silurato nelle settimane precedenti. Da quel momento D’Annunzio trasformò Venezia nella base operativa per le sue missioni dimostrative e nel palcoscenico per le sue esibizioni retoriche. Superate le ultime difficoltà frapposte dalle autorità militari, il 7 agosto volò su Trieste lanciando messaggi tricolori da lui stesso preparati(67).
La risonanza delle sue gesta fu enorme e venne ingigantita dalla ricaduta sulla stampa locale e nazionale. L’analisi dei messaggi dannunziani rivela elementi assai significativi: l’insistenza, in primo luogo, con cui il poeta-combattente sposta nei suoi discorsi l’accento su Trieste, relegando su un piano secondario Trento. Ciò significò spostare nell’immaginario del suo vastissimo pubblico i confini del conflitto: non solo guerra per il confine alpino simboleggiata da Trento, ma guerra per un confine più ampio e indefinito, simboleggiata da Trieste, dall’Istria e dalla Dalmazia. Così D’Annunzio realizzava tre obiettivi. Si rivolgeva direttamente ai veneziani dicendo loro: Trieste, Fiume, Istria e la Dalmazia rappresentano il passato glorioso della Serenissima che occorre ricomporre in una nuova unità territoriale. In secondo luogo forniva una straordinaria copertura ideologica ai progetti espansionistici del gruppo Volpi. Infine, anticipando lo scenario del dopoguerra, poneva le premesse e un marchio indelebile sull’impresa fiumana che di fatto nacque in quei mesi. Non occorre elencare le altre «azioni» di cui egli fu protagonista tra il luglio del ’15 e «il volo su Vienna» dell’agosto 1918(68), per capire come l’opinione pubblica veneziana si venne a trovare nel mezzo di un bombardamento ideologico e retorico senza eguali: D’Annunzio realizzò uno spostamento «dell’asse ideologico, geografico e semantico della guerra, che interpreta e ridefinisce nel vivo del conflitto i moventi e gli scopi di guerra»(69).
Ci preme piuttosto a questo punto sottolineare un aspetto altrettanto interessante. Contrasta con questa dimensione, tutta schiacciata sul piano dell’immaginario, la cruda realtà della guerra. L’assenza di studi analitici su questo periodo della storia veneziana ha sino ad oggi impedito di valutare con la dovuta attenzione le conseguenze del conflitto sull’economia e la società veneziane(70). In quarantuno mesi di guerra la città subì più di quaranta incursioni aeree; circa un migliaio di bombe fu scaricato su vari obiettivi, in prevalenza non militari. In rapporto al numero delle incursioni, i danni arrecati al patrimonio artistico non furono ingentissimi, con l’eccezione del soffitto tiepolesco della chiesa degli Scalzi. Rimasero per fortuna inesplose le bombe sganciate sulla basilica di S. Marco e sul Palazzo Ducale; subirono invece danni le chiese di S. Pietro di Castello, dei Frari, di S. Maria Formosa, di S. Francesco della Vigna, dei SS. Giovanni e Paolo(71). Ma ad essere colpiti non furono solo i monumenti. Gli aerei austriaci si accanirono anche sulla stazione ferroviaria, sull’Arsenale, provocando vari incendi; molte fabbriche furono distrutte, così come ingenti danni subirono alcuni conventi, asili per l’infanzia e abitazioni private. Tra i bombardamenti più pesanti quello della notte del 26 febbraio che vide la partecipazione di circa 50 aerei e si prolungò per otto ore(72). Il quadro della situazione cittadina venne crudamente descritto nelle lettere del cardinale Pietro La Fontaine che aveva preso possesso della diocesi veneziana nel giugno 1915, un mese dopo l’entrata in guerra dell’Italia. L’11 aprile 1916 scrisse a Benedetto XV delle gravissime angustie in cui si trovava la città, delle uccisioni di civili, delle distruzioni che colpirono edifici storici e di culto, ma anche impianti industriali: quella del cotonificio aveva gettato 1.500 operai sul lastrico(73).
La fitta corrispondenza che il patriarca intrattenne con la Santa Sede evidenzia come Venezia, sottoposta all’incessante ritmo dei bombardamenti, iniziò a spopolarsi. Dopo Caporetto questo fenomeno assunse i contorni di un vero e proprio esodo(74). La ritirata oltre il Piave delle truppe italiane provocò un profondo mutamento del sistema difensivo italiano(75); Venezia divenne un baluardo di prima linea, la più importante base italiana dell’Adriatico. Di fronte alla nuova situazione e alla concreta possibilità di un ulteriore arretramento delle linee italiane, per settimane l’opinione pubblica si divise tra chi pensava convenisse abbandonare la città al suo destino e chi invece era disposto a difenderla a tutti i costi rinverdendo così lo spirito del 1848. Chi poteva, insomma, scappava, e lo fecero soprattutto le famiglie aristocratiche e quelle borghesi più facoltose: rimasero gli operai delle industrie belliche, molti anziani e quanti con la guerra si erano venuti a trovare in gravi ristrettezze economiche(76). Lasciarono la città quasi 100.000 persone, più dei due terzi degli abitanti(77), la gran parte dirigendosi verso la costa romagnola. L’assistenza di quanti erano rimasti — in una città in cui scarseggiavano i generi alimentari, erano stati sospesi quasi tutti i principali servizi pubblici e l’oscuramento serale era totale — fu coordinata da un Comitato di difesa e assistenza civile affidato alle cure di un gruppo di volontari tra cui si distinse l’avvocato e docente universitario Mario Marinoni, di simpatie radicali. Venezia rimase in queste condizioni fino alla firma dell’armistizio, quando iniziò il rientro dei profughi e il lento ritorno alla normalità. L’eredità materiale lasciata dalla guerra fu dunque pesante: la fisionomia degli spazi urbani e la vita cittadina ne uscivano sconvolte. Della città gaudente e spensierata, crocevia della mondanità europea, conosciuta nel 1914 non vi era più traccia. Ma accanto alle condizioni materiali, che in passato sono spesso state trascurate — quasi che Venezia non fosse stata sfiorata dal dramma della guerra — l’eredità del conflitto riguardava anche il lascito culturale-ideologico che gli uomini, vecchi e nuovi, della politica si trovavano ad armeggiare. L’utensileria ideologica e simbolica che avevano a disposizione era costituita da due materiali: quello dannunziano, prodotto dalle imprese del poeta-vate e dalla sua straripante retorica, e quello proveniente dall’articolato ambiente dell’irredentismo e del combattentismo che trovò nell’immediato dopoguerra un suo primo rielaboratore nella figura di Piero Marsich. Come vennero usati questi strumenti ideologici e quali effetti produssero sulla situazione politica del dopoguerra? E che peso ebbero nella vicenda del fascismo?
Le risposte vanno naturalmente cercate nella complessa situazione che si determina alla fine del conflitto con la ripresa dell’attività politica(78). Se è vero che il quadro è estremamente vario e di difficile interpretazione, è pur vero che in esso troviamo presenti tutte le componenti culturali e politiche che hanno caratterizzato la storia del fascismo italiano. L’intreccio che ne deriva e la peculiarità di alcuni percorsi personali sono tali, dunque, da rendere la nascita e la successiva evoluzione del fascismo veneziano un caso di indubbio interesse nazionale. Nel trattarne, si cercherà di orientare le nostre osservazioni esclusivamente sul tema della trasformazione-rigenerazione della politica prodotta dalla guerra e sulla genesi del fascismo-movimento. Si guarderà qui alle tre eredità che la guerra trasmette alla nuova politica: la prima, solo di recente messa ben in luce da un’ampia ricerca che attende di essere ulteriormente perfezionata(79), riguarda la portata e le modalità dell’uso della violenza nello scontro politico apertosi nei primi mesi del ’19. La seconda, più conosciuta, rimanda alla precoce costituzione del primo Fascio di combattimento veneziano e alle sue specifiche caratteristiche. La terza riguarda invece la nascita della Democrazia Sociale di Silvio Trentin e il rapporto che essa intrattenne con i neonati Fasci di combattimento e con tutta l’area dell’interventismo e del combattentismo.
Partiamo dunque dal tema della violenza, facendo parlare le cifre di cui disponiamo. Tra il 1919 e il 1922 a Venezia si contarono circa 200 scontri tra fascisti e forze di polizia, tra socialisti e fascisti e tra questi ultimi e i comunisti. In seguito a tali scontri morirono 11 persone: 4 fascisti e 1 socialista, negli altri casi si trattava di civili coinvolti casualmente negli scontri(80). Se a questi dati accostiamo anche tutti gli episodi riguardanti azioni violente promosse contro bersagli politici quali gli appartenenti a partiti avversari a quello fascista o contro i simboli di queste parti avverse (sedi di partito e luoghi di riunione, giornali, bandiere), il quadro assume contorni più definiti, paragonabili a pochi altri contesti urbani sin qui studiati(81). La stampa locale disse e non disse e in generale si tese a sminuire i fatti. L’unico periodico che affrontò in termini espliciti la questione fu il giornale fascista «Italia Nuova», fondato da Piero Marsich nel luglio 1920. Questa testata, a differenza delle altre che al massimo relegavano in trafiletti poco evidenti nelle pagine di cronaca le notizie di aggressioni(82), parlò della violenza non solo come strumento di intimidazione nei confronti degli avversari politici, ma anche come di una forma specifica dell’azione politica e come espressione di una nuova forma di cittadinanza(83).
Dalle poche notizie ricavabili dalla stampa coeva e dalla altrettanto scarna memorialistica(84), due sembrano essere le figure sociali protagoniste dei fatti di violenza verificatisi a Venezia nell’immediato dopoguerra: gli ufficiali e gli studenti. Figure che, in diverso modo, avevano partecipato alla guerra, ne avevano incorporato l’enorme carica simbolica e la varietà dei miti(85) elaborando l’immagine del «nemico» che adesso proiettavano sull’avversario politico, ergendosi a combattenti al servizio di una missione storica quale quella di dare continuità agli sforzi e ai sacrifici compiuti nelle trincee. Parafrasando un articolo del giovane Bottai si potrebbe dire che per questi uomini, protagonisti della violenza civile postbellica, la guerra non era finita il 4 novembre 1918, ma continuava nell’impegno per «rinnovare» la politica(86). D’altro canto, che in prima fila in questa azione di bonifica dell’Italia «marcia» degli imboscati e dei vecchi politicanti, ci fossero i giovani non deve stupire. Molti lavori hanno ampiamente chiarito la loro presenza nel fascismo delle origini(87). Nel caso di Venezia possiamo ricordare la forte mobilitazione interventista che aveva coinvolto gli studenti di Ca’ Foscari nel «maggio radioso», l’esistenza cioè di un humus culturale ben radicato nel mondo universitario e studentesco cittadino. E non a caso queste mobilitazioni riprendono subito dopo il 1918, prima ancora della costituzione del Fascio di combattimento, con cortei e manifestazioni a favore della Dalmazia, trovando nella Scuola Superiore di Commercio e nell’Istituto navale due attivi capisaldi(88).
Le indicazioni metodologiche fornite dagli studi di settore suggeriscono di distinguere, tra i giovani che aderirono subito al fascismo, due gruppi: quelli che parteciparono alla guerra e quelli nati troppo tardi per poter combattere(89). Tuttavia guardando all’universo giovanile veneziano tali distinzioni, spesso legate a minime differenze anagrafiche (si pensi ai ragazzi del ’99), sembrano meno nette: l’uso della violenza e la partecipazione all’esperienza dello squadrismo accomunano i due gruppi. Semmai a Venezia andrebbe segnalata la prevalenza, tra le squadre protagoniste degli episodi di violenza che per due anni insanguinarono la città, della componente più giovane(90). Ma al di là di queste considerazioni, il cui approfondimento richiederebbe elementi certi sulla consistenza dell’associazionismo giovanile e studentesco di cui attualmente non disponiamo(91), rimane il dato incontrovertibile circa il carattere nuovo e la portata della violenza politica messa in atto sin dai primi mesi del ’19 e culminata, in un crescendo di attentati, pestaggi e intimidazioni, con i fatti del 22 luglio 1920 che vale la pena ricordare essendo stati a lungo oscurati da quelli attinenti l’incendio dell’Hotel Balkan di Trieste di due giorni prima(92). In quella giornata, nel solito scenario di piazza S. Marco, si affrontarono da una parte socialisti e lavoratori convenuti per una manifestazione indetta dalla Camera del lavoro, dall’altra i fascisti che si diedero appuntamento davanti al Caffè Florian per impedire che la Piazza fosse «contaminata dai senza patria»(93). Scoppiarono pesanti tafferugli nel corso dei quali si udirono i colpi di una rivoltella. Quando i fascisti stavano per essere sopraffatti fu lanciata una bomba che pose fine allo scontro provocando il ferimento di 17 persone, per lo più cittadini che non vi avevano preso parte(94).
L’uso della violenza fu tale da consentire alla destra di giungere in pochi mesi ad una ‘riconquista’ della Piazza, già egemonizzata nel corso della campagna interventista. In questo clima, dalla stessa nebulosa che si rese protagonista dei primi episodi di violenza, nacque il Fascio di combattimento. A questo proposito esistono tuttora molti interrogativi irrisolti, a partire dalla data di fondazione che taluni porrebbero già prima dell’adunata milanese di S. Sepolcro del 23 marzo 1919(95), altri in aprile(96). L’ipotesi più attendibile la fa risalire all’appello di Amedeo Giurin — uomo di fiducia di Mussolini mandato in Veneto per coordinare la formazione dei Fasci in varie città — pubblicato ne «Il Gazzettino» del 15 aprile(97). Altrettanto incerta la composizione dei primi aderenti all’iniziativa. Secondo Vicentini tra quanti risposero all’appello vi sarebbero stati: Eugenio Genero, Andrea Baroni, Annibale Dorigo, Edgardo De Blasio, Giulia Marconi, Raffaele Bordignon, Emilio Canta, Silvio Vardanega, Giuseppe Pagan, Aldo Genero ed Ennio Paladini(98). In molti casi le biografie di questi personaggi non consentono di individuare una precisa area di provenienza politica. In compenso sappiamo che, per esempio, Eugenio Genero era un callista che si dilettava a comporre poesie in dialetto veneziano che avevano una discreta circolazione(99), Edgardo De Blasio un ex ufficiale che ritroveremo anche nelle successive vicende del Fascio, Giulia Marconi una maestra ebrea di cui presto si perdono le tracce. È noto anche che Giuseppe Pagan, proprietario di un cantiere navale, era uno degli animatori delle manifestazioni nazionaliste in campo S. Margherita.
In effetti questi elementi ci confermano che la fase costitutiva del Fascio maturò nel contesto di una situazione magmatica dove si incrociarono gruppi ed esperienze estremamente diverse e che la sua origine si deve far risalire alla con-fusione di queste diverse realtà(100). È difficile dunque stabilire i confini di quest’area coagulatasi attorno al Fascio; in continuo movimento, essa era caratterizzata da adesioni trasversali a tutti gli schieramenti e movimenti. Rispetto alla composizione politica degli aderenti al Fascio ‘primogenito’ milanese, il tratto prevalente era la presenza di uomini a diverso titolo legati all’area del combattentismo e dell’arditismo, piuttosto che a quella del sindacalismo rivoluzionario e della sinistra socialista(101). Un’elevata mobilità e instabilità degli aderenti e dei simpatizzanti caratterizzarono tutta la fase di consolidamento organizzativo del movimento. Guardando, per esempio, alla composizione del comitato provvisorio costituitosi dopo la prima riunione del 20 aprile 1919 troviamo, accanto ai personaggi già citati, altri nomi. In quella riunione furono infatti eletti: Edgardo De Blasio, presidente, Amedeo Giurin, segretario, e Giovanni Zara, amministratore, mentre tra i consiglieri, secondo quanto riportò «Il Gazzettino»(102), furono eletti Eugenio Genero, Giovanni Viviani e Giuseppe Talamini(103), uno dei figli di Gianpietro Talamini, anch’egli impegnato all’interno del quotidiano veneziano divenuto sede in quelle settimane delle riunioni del Fascio e delle associazioni combattentistiche(104).
Tutte le prime attività promosse dal Fascio (comizi, comunicati affidati alla stampa locale, partecipazione a manifestazioni pubbliche) furono realizzate assieme alle associazioni patriottiche, combattentistiche e a quelle che raccoglievano gli smobilitati, gli ufficiali, gli arditi(105). Le più significative di queste attività si svolsero nel mese di aprile, nel momento di massima spinta delle manifestazioni patriottiche per l’annessione di Fiume e della Dalmazia(106). Il 25 aprile si tenne una grande manifestazione in S. Marco con la partecipazione «delle bandiere delle città venete liberate e quelle delle città redente e ancora irredente»(107) e con l’intervento di Gabriele D’Annunzio che al termine del suo discorso fu portato in trionfo dalla folla. In quell’occasione il Fascio di combattimento attuò una delle prime azioni propagandistiche con il lancio dal campanile di S. Marco di 15.000 manifestini inneggianti alla lotta antibolscevica(108).
Contrasta con questa capacità di mobilitazione e di occupazione delle piazze, l’assenza di una qualsiasi organizzazione interna a conferma del carattere spontaneo delle adesioni e della mancanza di un gruppo dirigente capace di incanalare la protesta verso un progetto politico. Questa evanescenza organizzativa è stata di recente evidenziata come elemento di debolezza del Fascio veneziano(109). Ciò fu senz’altro vero; ma va tuttavia ricordato che secondo Mussolini il Fascio si proponeva come aggregazione «antipartito», in netta contrapposizione alle macchine organizzative dei vecchi partiti. Rivolgendosi in prima istanza ai reduci, Mussolini propose l’idea dell’«antipartito» come «lo scheletro, l’armatura attorno a cui raccogliere i ritornanti e le loro energie potentemente rinnovatrici. I vecchi partiti sono reliquie cadaveriche e non sarà difficile sommergerli del tutto»(110). L’adunata di S. Sepolcro si concluse con scarne indicazioni sul modo di organizzare il movimento dei Fasci. Il 24 marzo 1919 «Il Popolo d’Italia» precisò che la vita interna dei Fasci «è assolutamente autonoma. Statuti, regolamenti, ecc. tutto ciò è roba di partito. Ogni fascio munirà i suoi soci di una tessera per il riconoscimento personale e avrà un regolamento con un solo articolo: il socio che manca tre volte consecutive all’adunata è automaticamente dimesso. Basta. Non c’è bisogno d’altro»(111). L’«antipartito» fascista doveva essere un’organizzazione «snodata, libertaria e potente», basata sull’apporto di pochi militanti. È ancora il giornale mussoliniano che sottolinea come non fosse importante «essere in molti» e che anzi era preferibile «essere in pochi. Cinque, dieci individui, bastano per costituire un fascio»(112). I Fasci, come amava ripetere il loro fondatore, rappresentavano l’«antipartito» in quanto esprimevano «una mentalità, uno stato d’animo, proprio di spiriti liberi e spregiudicati che si raccoglievano in un’associazione temporanea per raggiungere determinati scopi e quindi riprendere la propria strada verso altre mete»(113).
Il caso veneziano sembra dunque ricalcare questa tendenza. Il processo organizzativo fu lento, limitato, sia a livello centrale che periferico, a garantire il minimo supporto alle attività politiche e al proselitismo. Solo a partire da maggio, parallelamente all’intensificarsi delle azioni di propaganda, il Fascio veneziano tentò di avviare una fase di organizzazione interna(114). Si cercò, per esempio, di stringere i rapporti con il Comitato centrale dei Fasci, individuando nel pubblicista Mario Baseggio(115) la figura incaricata di tenere i contatti con la struttura milanese. Questi primi tentativi di uscire da una fase costituente vanno posti in stretta relazione a quanto si muoveva all’interno dell’area del combattentismo — che rimaneva l’epicentro delle trasformazioni più significative della politica veneziana nell’immediato dopoguerra — all’interno della quale nell’agosto del ’19 si costituì la Democrazia Sociale, movimento che raggruppava varie sigle del vasto arcipelago delle associazioni combattentistiche, dell’area radicale e repubblicana. Tra i fondatori spiccava Mario Marinoni — personaggio già citato come animatore dell’attività di assistenza negli anni della guerra, la cui figura meriterebbe di essere approfondita —, docente universitario di Diritto internazionale, con un bagaglio di varie esperienze nelle associazioni di area radicale vicine alle posizioni di Massimo Fovel(116), dalle quali provenivano anche gli avvocati Marco Fano, Renzo Ascoli, Piero Marsich. Del vecchio progetto foveliano era rimasta l’idea di porsi come forza intermedia tra il vecchio blocco liberal-conservatore e il partito socialista massimalista di Musatti, nuovi erano invece i contenuti programmatici, le strategie e le alleanze su cui si puntava.
A differenza della situazione prebellica, nel ’19 le ipotesi di collaborazione con il partito socialista erano state definitivamente accantonate; sfruttando la radicalizzazione delle posizioni socialiste, la Democrazia Sociale pensava di poter andare alla conquista dell’elettorato composto dai ceti medi e da quella fascia del ceto popolare che storicamente si era riconosciuta nella democrazia tardo-ottocentesca e che in città si era identificata in Sebastiano Tecchio. Per intercettarne il voto divenne decisivo trasferire l’offensiva sul terreno sindacale, con la nascita di una camera sindacale aderente alla Unione Italiana del Lavoro. L’offensiva non produsse risultati significativi tra le categorie operaie, ma riuscì ad ottenere qualche risultato tra i lavoratori del settore pubblico, grazie soprattutto ai rapporti stabiliti con il Sindacato veneziano dell’impiego pubblico e privato di cui Marinoni stesso, assieme a Virgilio Gruppelli — anch’egli tra i fondatori della Democrazia Sociale —, era uno dei massimi dirigenti. Altri contatti significativi furono presi con la federazione fra impiegati e salariati delle Opere Pie, guidata dall’avvocato Igino Magrini, fondatore dell’associazione veneziana dei volontari di guerra e degli arditi, con l’Unione magistrale e con il mondo delle cooperative. Accanto a combattenti e radicali, va infine ricordata all’interno della Democrazia Sociale una terza componente formata dal gruppo della Democrazia Costituzionale. Si trattava di una sigla che raggruppava gli appartenenti alla Unione Democratica, numericamente esigua, ma che esprimeva personaggi di peso come Guglielmo Marangoni e Giovanni Bordiga, già assessore all’istruzione nella giunta Selvatico tra il 1890 e il 1895.
La storiografia recente, accentuando le origini di sinistra del primo fascismo, ha in sostanza presentato il Fascio di combattimento come «un’appendice secondaria dell’area interventista egemonizzata dalla Democrazia Sociale»(117). Parere che sembra dover essere rivisto, partendo da una prima, semplice, constatazione: le alleanze elettorali non vanno confuse con gli aspetti programmatici. Partiamo proprio da questi ultimi. L’unico vero punto comune alle due esperienze fu il riferimento all’area del combattentismo. Tuttavia, come è stato di recente ribadito(118), è in pratica impossibile classificare tale movimento a destra o a sinistra; esso rappresentava la più tipicamente diciannovista delle esperienze sorte nel dopoguerra. Schematicamente sono due i raggruppamenti che si possono individuare nel combattentismo: uno radicale, comprendente l’associazione degli arditi e figure come D’Annunzio, Marinetti e lo stesso Mussolini, e l’altro moderato, rappresentato dall’Associazione nazionale combattenti, sorta sul finire del 1918 con finalità sindacali e poi trasformatasi in gruppo politico. In tale area potevano insomma convivere le rappresentazioni del mondo dei combattenti di Curzio Suckert-Malaparte de La rivolta dei santi maledetti e le tematiche autonomistiche di un personaggio come il sardo Umberto Cao(119). Ritornando alla realtà veneziana l’esempio è quanto mai calzante, perché l’universo del combattentismo fu certo percorso e conquistato dai miti e dal vitalismo dannunziani, ma prestò attenzione anche alle tematiche autonomistiche suscitate dal giovane Silvio Trentin, distintosi nel corso della guerra con il grado di tenente dell’aviazione. È probabile che all’origine della citata assimilazione dei Fasci di combattimento al movimento della Democrazia Sociale, e quindi della stessa interpretazione attribuita a quest’ultima esperienza politica, vi sia stata una errata valutazione del ruolo e delle posizioni di Trentin. Ciò si spiega solo con il fatto che nel momento in cui Piva pubblicò Lotte contadine e origini del fascismo (1977), le conoscenze sull’attività politica e la produzione scientifica del giovane costituzionalista erano assai limitate(120). Alla luce delle successive acquisizioni(121), la posizione di Trentin in relazione alle vicende qui analizzate appare più chiara. Precisiamo dunque alcuni punti partendo dai dati certi. Tornato dal fronte, Trentin entrò subito a far parte dell’Associazione nazionale combattenti; prima dell’adesione alla Democrazia Sociale, avvenuta solo alla vigilia delle elezioni(122), egli invece sottoscrisse il programma dei Fasci di combattimento come risulta da «Il Popolo d’Italia» del 13 aprile 1919(123). Pochi giorni dopo Mussolini pubblicò una lettera di Trentin — di solito usata come ‘prova’ dell’allineamento del giovane uomo politico(124) ai Fasci — nella quale esprimeva ammirazione nei confronti del fondatore del fascismo italiano(125).
In realtà quel breve testo conteneva anche dure critiche a Mussolini per non aver prestato la dovuta attenzione ai problemi delle zone del Veneto devastate dalla guerra, indizio questo che a nostro parere rivela il tipo di prospettiva politica alla quale Trentin stava guardando(126). Egli infatti in quei mesi, con l’appoggio determinante di Luigi Luzzatti(127), elaborò un piano di ricostruzione organizzato su basi regionali attingendo ai finanziamenti statali. In quel periodo, Trentin svolse un ruolo decisivo nel preparare gli strumenti amministrativi destinati a gestire il piano di risanamento: nel marzo del ’19 fu, infatti, tra i promotori dell’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie. Le scelte di Trentin andavano dunque nella direzione di un programma politico strettamente legato al territorio regionale, caratterizzato dal decentramento amministrativo dei poteri dallo Stato verso gli enti collettivi periferici. Pochi anni più tardi Trentin mise a punto queste sue riflessioni nel famoso discorso tenuto all’Istituto universitario di Ca’ Foscari per l’inaugurazione dell’anno accademico 1924-1925(128). Siamo ancora lontani dall’approdo al federalismo che caratterizzò la sua piena maturità ideologica(129), tuttavia, come è stato messo in luce(130), questa ipotesi di riforma era del tutto inconciliabile con la centralizzazione dei poteri verso la quale si sarebbe indirizzato il regime fascista. Oltre a questo tipo di impegno, Trentin si fece promotore della creazione di un istituto professionale marittimo e si dedicò allo studio del problema delle bonifiche(131), al quale attribuiva grande importanza per la ripresa economica del Veneto e che divenne un cavallo di battaglia della sua esperienza parlamentare(132).
Mentre Trentin era impegnato su questi temi, nell’agosto del ’19 compariva nelle edicole veneziane il primo numero de «Il Popolo», organo ufficiale della Democrazia Sociale. La lettura del settimanale non lascia dubbi circa gli orientamenti programmatici del nuovo movimento. Esso guardava al modello della socialdemocrazia tedesca, auspicava la costruzione di un «ordine sociale essenzialmente cooperativo, che conservasse gli aspetti migliori dell’iniziativa privata pur promuovendo attraverso una serie di riforme gli interessi e i diritti delle classi lavoratrici»(133). Nel dettaglio, tra i punti programmatici più qualificanti sostenuti da «Il Popolo» vi furono «una riforma amministrativa sulle basi di un larghissimo decentramento», la giornata lavorativa di otto ore, l’introduzione della scala mobile, la collaborazione attiva tra capitale e lavoro da raggiungere attraverso «la partecipazione dei lavoratori alla direzione e agli utili delle imprese», una politica agraria mirata che prevedeva l’espropriazione delle terre lasciate incoltivate dai proprietari. Se ci trasferiamo nel clima della battaglia politica, possiamo facilmente verificare che le posizioni de «Il Popolo» e di Trentin diventarono antitetiche a quelle espresse dall’area in cui si collocava il neonato Fascio di combattimento. Il giornale e il giovane giurista si distinsero per la vis polemica — che non ritroviamo nelle posizioni assunte dagli uomini vicini al Fascio di combattimento — usata nei confronti dei progetti di sviluppo di Volpi e del monopolio della S.A.D.E. nel settore idroelettrico. Insomma gli elementi di differenziazione programmatica erano tanti e tali da rendere impossibile un accordo politico tra i due movimenti. Certo, entrambi nascevano all’interno del vasto arcipelago del combattentismo ma sin da subito assunsero prospettive divergenti.
Diverso è il discorso che riguarda i percorsi personali di alcuni personaggi presenti, almeno in fase iniziale, in entrambe le organizzazioni ed altrettanto diversa è la questione dell’alleanza che si determinò in vista delle elezioni politiche del novembre 1919, dettata soprattutto dalle difficoltà organizzative dei Fasci e dai «calcoli meramente elettoralistici» dei suoi rappresentanti(134). Gli esiti di quella consultazione furono decisivi per chiarire i destini politici della Democrazia Sociale e del Fascio di combattimento. Con la rottura determinatasi dopo il voto, il fascismo veneziano uscì definitivamente dallo stadio di incubazione per assumere contorni organizzativi definiti. Da quel momento è infatti possibile iniziare a tratteggiare il profilo dei gruppi dirigenti, l’ascesa e il declino di alcune carriere, le lotte per la leadership interna, il rapporto con le istituzioni e il potere economico. Insomma, la nebbia che avvolgeva i primi aderenti al Fascio si dirada e al posto dei comprimari emergono i nuovi protagonisti della battaglia fascista per la conquista del potere.
Come è stato evidenziato da un’ampia letteratura(135), le consultazioni del 16 novembre 1919 provocarono un vero terremoto politico decretando la crisi finale del sistema liberale. Il nuovo meccanismo elettorale, basato su un sistema proporzionale a scrutinio di lista, provocò una profonda modificazione della geografia parlamentare. La Camera si rinnovò per circa due terzi: su 508 deputati eletti, 327 erano nuovi(136), la stessa composizione sociale della Camera risultò ampiamente modificata(137). I vincitori delle elezioni furono i socialisti che raddoppiarono la percentuale di voti (dal 17,7% al 32,3%) e triplicarono i seggi (da 52 a 156). Il partito popolare si affermò come seconda forza parlamentare ottenendo il 20,5% dei voti e conquistando 100 deputati, rispetto ai 29 precedenti. Le varie forze liberal-democratiche, che nel ’13 avevano ottenuto il 67,6% dei voti e 383 seggi, scesero al 38,9% e a 216 seggi, frammentando ancor più quest’area. I Fasci di combattimento non ottennero seggi avendo raccolto in tutto circa 5.000 voti, mentre il partito dei combattenti, diviso al suo interno, raggiunse il 4,1% dei consensi e 20 deputati(138). Il risultato fu la «paralisi parlamentare»(139).
A Venezia i risultati misero in luce un quadro diverso. I socialisti si confermarono prima forza politica della città ottenendo 9.883 voti (50,4%). I consensi ottenuti dalle altre forze in campo confermarono che, a differenza della polarizzazione verificatasi a livello nazionale con la crescita del partito socialista e di quello popolare, il quadro locale si caratterizzava per la sua forte articolazione. Dietro al P.S.I., infatti, tre forze si spartirono, in pratica con le stesse percentuali, il restante consenso elettorale: la Democrazia Sociale di Marinoni e Trentin ottenne 3.329 voti (17,1%), i liberali e i nazionalisti 3.200 (16,4%), i popolari 3.156 (16,2%)(140). Tenendo conto dei risultati ottenuti e dell’astensionismo che aveva interessato l’area liberale, le forze moderate uscirono tutt’altro che scompaginate dal confronto elettorale. Esse infatti mantennero, come dimostrano i dati disaggregati per circoscrizione elettorale, il primato nel centro storico, mentre persero consensi nei comuni limitrofi(141), riuscendo tuttavia a mandare alla Camera Amedeo Sandrini, deputato uscente nel collegio di Portogruaro, che si impose su altri due parlamentari uscenti: Piero Foscari (già eletto a Mirano) e Roberto Galli, che da anni aveva il suo feudo elettorale a Chioggia. In complesso il ricambio della deputazione parlamentare interessò 3 dei 6 eletti: il socialista Cesare Alessandri che affiancò Elia Musatti e Angelo Galeno, il popolare Guglielmo Sandroni e Silvio Trentin per Democrazia Sociale. Quest’ultimo ottenne i consensi maggiori a Venezia, San Donà, Pellestrina e Mestre. Egli fu uno dei 32 esponenti dell’Associazione nazionale combattenti eletti alla Camera(142).
Questi risultati provocarono immediate ripercussioni nell’area del combattentismo. La sconfitta del Fascio mise in crisi la fragile alleanza raggiunta con la Democrazia Sociale e portò alla chiarificazione delle posizioni di Piero Marsich e Giovanni Giuriati, il leader emergente all’interno del Fascio e l’uomo che aveva guidato la campagna interventista e si era distinto sui campi di battaglia guadagnando due decorazioni. La ricostruzione del pensiero di Marsich è un lavoro in larga parte ancora da compiere. Ciò che preme qui sottolineare è piuttosto il ruolo assunto dal settimanale «Italia Nuova. Voce del Fascismo e del Fiumanesimo» nel processo di riorganizzazione del Fascio di combattimento. La nuova testata divenne la palestra del primo fascismo e il punto di aggregazione di un’area di simpatizzanti e militanti che attraverso di essa si avvicinarono all’area del fascismo. Una spia di questi movimenti è, per esempio, data dall’elenco dei sottoscrittori che sin dall’inizio ne sostengono la pubblicazione: attraverso gli elenchi delle sottoscrizioni, pubblicate regolarmente a partire dal primo numero, si può cogliere la portata e la direzione dei movimenti che accompagnarono l’ascesa del fascismo veneziano. Tra i primi sottoscrittori, oltre a Giuriati, il già citato Ippolito Radaelli, Mario Stoppoloni, Eugenio Genero, che aderì al Fascio sin dall’aprile 1919(143), il colonnello Micheroux, l’ex ufficiale Ugo Leonardi, che di lì a poco divenne comandante delle squadre fasciste veneziane, l’avvocato Ugo Gioppo, anch’egli proveniente dall’irredentismo(144), Giorgio Marsich, fratello di Piero, i nazionalisti Alberto Musatti, uno dei «sette savi», e Pietro Orsi, l’avvocato Davide Levi, presidente della Dante Alighieri, il nobile Ferruccio Fioroli della Lena(145), uno squadrista come Dante Raffaele Bordignon, l’esponente della finanza ebraica Max Ravà, di orientamento liberale(146). Nutrito anche il numero dei militari che da subito sostennero l’impresa: tra di essi spiccavano l’ammiraglio Guglielmo Pepe e il colonnello Enrico Armando, comandante del presidio cittadino, assieme ad altri ufficiali della stessa struttura. Molte furono inoltre le sottoscrizioni tra gli operai in aperto dissenso con i dirigenti della Camera del lavoro e quelle provenienti dai legionari fiumani.
Questa prima descrizione dei sostenitori che si mobilitarono garantendo un aiuto al neonato giornale di Marsich conferma che il nucleo più cospicuo dei fascisti della prima ora provenivano dall’area interventista, dal nazionalismo e dalle fila degli ufficiali, ma nel contempo indica anche una capacità di penetrazione nel mondo operaio e tra il ceto medio. L’altro elemento che emerge chiaramente è la forte compenetrazione tra giornale e gruppo dirigente del Fascio di combattimento che risultò coralmente impegnato nell’appoggiare l’iniziativa di Marsich. Quando a partire dal settembre 1920 fu chiaro che questi aiuti non consentivano al giornale di far fronte alle ingenti spese di stampa, si moltiplicarono gli appelli per nuove sottoscrizioni. La situazione divenne ancor più pesante in seguito alla presa di posizione di Marsich contro Volpi e contro il trattato di Rapallo — siglato il 13 novembre — fortemente voluto dall’imprenditore veneziano. La rottura dei rapporti provocò infatti l’interruzione dei finanziamenti che sia il giornale che il Fascio avevano ricevuto da parte di Volpi(147); a quel punto Marsich lanciò l’ennesimo appello al quale risposero compatti i dirigenti del Fascio(148), a conferma del legame sempre più stretto che era venuto a crearsi tra il movimento e il giornale. Su entrambi il controllo di Marsich era completo. In realtà il problema, ormai emerso in tutta la sua evidenza, era il rapporto con la borghesia cittadina e i ceti produttivi. La svolta di Marsich, la radicalizzazione del contrasto con Mussolini dopo la firma del trattato di Rapallo, la proposta di una sollevazione armata che doveva interessare tutta la Dalmazia, il tentativo, infine, di organizzare un moto insurrezionale a Venezia con l’occupazione degli uffici pubblici — fallito per il ‘tradimento’ di Giuseppe Lanfranchi, segretario politico del Fascio(149) — furono tutti elementi che posero in maniera netta il problema di un rapporto tra il Fascio e la politica cittadina. La paura del pericolo «rosso», che cominciò a serpeggiare in città con l’occupazione delle fabbriche iniziata nell’agosto del ’20(150), accelerò questo processo; le elezioni amministrative all’orizzonte lo resero necessario.
Chi intuì la necessità di spostare il terreno dello scontro politico su un piano istituzionale fu Giovanni Giuriati(151). Definitivamente congedato dal fronte nel gennaio 1918, Giuriati riprese le redini della Trento e Trieste e tornò subito all’impegno politico dando corpo ad un’idea alla quale aveva iniziato a pensare dopo Caporetto. Nel giugno del ’18 fondò a Roma l’associazione Patto Nuovo, nel cui comitato direttivo entrarono il sindacalista rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti e l’ex anarchico Massimo Rocca (che spesso usava lo pseudonimo di Libero Tancredi); appoggi convinti all’iniziativa vennero dai nazionalisti e dallo stesso Mussolini che mise a disposizione «Il Popolo d’Italia». L’idea di Giuriati fu di dar vita a un’associazione interclassista che si proponeva di rinsaldare «il patto di fratellanza» fra le classi «suggellato col sangue sui campi di battaglia, col lavoro nelle officine, col fervore della fede nelle opere di assistenza»(152). Nel programma, accanto al tipico repertorio che mescolava liberismo antistatalista, produttivismo e riforme agrarie, attacchi al centralismo burocratico e vaghe ipotesi di decentramento, si riconosceva il chiaro intento della borghesia intellettuale e produttiva di riprendere in mano le redini del gioco politico, introducendo nuove vie per disciplinare le masse in nome del valore supremo della patria(153). L’esperienza del Patto Nuovo si esaurì in pochi mesi. Giuriati sciolse l’associazione e tornò a occuparsi della questione adriatica, sostenendo le richieste italiane su Fiume e sulla Dalmazia, utilizzando ancora una volta la Trento e Trieste, da lui rivitalizzata e riorganizzata dopo un periodo di stasi delle attività(154). Non vale la pena di soffermarsi sul suo ruolo nell’impresa fiumana, già ampiamente studiato(155).
Ritornato a dicembre sulla scena veneziana Giuriati aderì alla Democrazia Sociale e sostenne l’accordo elettorale delle elezioni politiche del ’19. Il distacco dalla formazione guidata da Marinoni e Trentin avvenne più lentamente rispetto a Marsich. Ancora nel maggio del 1920 Giuriati propose all’assemblea della Democrazia Sociale l’ipotesi di un’alleanza di tutte le forze «nazionali» contro il pericolo bolscevico. Il secco rifiuto dei dirigenti democratici portò all’immediato abbandono del movimento da parte di Giuriati che tuttavia non accantonò il suo progetto. Infatti, di lì a pochi giorni egli fu in grado di presentare l’ultima sua iniziativa politica — alla quale evidentemente lavorava da tempo —, erede diretta dell’esperienza del Patto Nuovo: si trattava dell’Alleanza Nazionale, un esperimento di concentrazione delle forze liberali, monarchiche, nazionaliste, fasciste e democratiche che doveva impedire la paventata conquista del Comune da parte del partito socialista(156). In seguito infatti alle dimissioni della giunta Grimani, avvenute nel dicembre del ’19 per contrasti interni alla maggioranza, e dopo il commissariamento del Comune, le elezioni amministrative erano state fissate per il 31 ottobre 1920. Restavano dunque pochi mesi per costruire il nuovo blocco elettorale. Promotori dell’Alleanza assieme a Giuriati furono Celso Coletti e Pietro Orsi(157). L’iniziativa di Giuriati e le adesioni che subito arrivarono rappresentarono una svolta importante nella vita politica cittadina. Nonostante i distinguo di alcuni dirigenti come Ferruccio Fioroli della Lena(158), il Fascio aderì all’iniziativa elettorale. A fianco dell’Alleanza Nazionale si schierarono tutti i principali giornali cittadini tranne «Il Secolo Nuovo» e «Il Popolo». Tra gli esponenti politici più in vista aderirono l’inquieto Giovanni Bordiga, Igino Magrini, segretario dell’Associazione degli arditi che controllava la federazione fra impiegati e salariati delle Opere Pie, entrambi provenienti dall’area della Democrazia Sociale. Il 9 luglio, in una delle sue prime assemblee, l’Alleanza Nazionale nominava suo presidente il chirurgo Davide Giordano, nome nuovo della scena politica(159), legato, come vedremo, a Magrini. La nascita della nuova formazione ebbe effetti importanti sul sistema politico locale: in primo luogo rese possibile il ricompattamento delle forze liberali e il rapido ritorno alla competizione elettorale della borghesia cittadina che un anno prima — alle elezioni politiche del ’19 — aveva in larga parte preferito assistere alle trasformazioni in corso. In secondo luogo diede una rappresentanza al Fascio di combattimento che, completamente assorbito dalla questione fiumana, di fatto delegò alla nuova formazione, e a Giuriati in particolare, la gestione dell’operazione politica, la definizione delle alleanze e la scelta dei candidati(160). Ma il risultato politico più significativo fu in ogni caso l’accordo con i popolari(161). È interessante ricordare come questo fosse inizialmente stato cercato dalla Democrazia Sociale, orientata verso l’astensione e solo successivamente decisasi a correre da sola(162). Da ultimo va segnalato il ruolo di Volpi. Egli si tenne in disparte ma in realtà affiancò Giuriati nel lavoro di ricompattamento del fronte borghese nel garantire l’appoggio all’alleanza delle forze economiche. Troppi e troppo importanti erano gli interessi che legavano Volpi all’amministrazione comunale: dalla questione della gestione dell’Arsenale, per la quale si erano fatte avanti le cooperative rosse, a quelle connesse con la gestione della convenzione del 1917 tra Comune, Società del Porto e Stato, fino alla definizione dei criteri per l’esproprio dei terreni destinati agli insediamenti industriali di Porto Marghera. Non fu un caso quindi se a guidare la riscossa della borghesia ci fu la «Gazzetta», seguita dalla stampa cattolica con in testa l’intransigente «La Venezia»(163). Il Fascio di combattimento concentrò i propri sforzi propagandistici nelle roccaforti del voto socialista come Castello, Dorsoduro e Cannaregio. In queste zone, di notte, gli squadristi imbrattavano i muri di scritte a favore dell’Alleanza e distruggevano i cartelli elettorali degli avversari. Notevole fu pure l’impegno profuso in prima persona da Marsich, preoccupatissimo, come traspare dagli interventi apparsi su «Italia Nuova», di evidenziare la centralità all’interno dell’Alleanza della componente fascista e l’idea del blocco come «terza forza», come unica via, cioè, per il superamento dello Stato liberale e per fermare le forze dell’antistato(164).
Le votazioni diedero la vittoria al blocco conservatore dell’Unione per il rinnovamento cittadino (composto dal partito popolare, dal partito liberale e dall’Alleanza Nazionale) che ottenne 13.180 voti contro gli 11.263 del partito socialista. La partecipazione al voto aumentò notevolmente passando dal 41,2% del 1919 al 50,6%. Il risultato era chiaro e determinò quella polarizzazione degli schieramenti che non si era verificata con le elezioni del ’19: a farne le spese furono soprattutto i democratico-sociali di Trentin e Marinoni che videro dimezzati i loro consensi(165). La dura sconfitta elettorale provocò le dimissioni da deputato di Trentin — che si era presentato candidato alle elezioni provinciali nel primo collegio di Venezia e aveva perso la sfida con il conte Grimani —; ma gli amici lo convinsero a ritirarle, rimandando così di poco la crisi finale del gruppo(166). Il blocco guidato dall’Alleanza conquistò 48 dei 60 consiglieri di Ca’ Farsetti: l’elenco dei più votati rifletteva efficacemente la composizione del blocco elettorale vincente. Al primo posto si piazzò Davide Giordano, seguito da Pietro Orsi e da Giuriati. Dietro questo terzetto spiccavano vecchi liberali come Gino Fogolari, direttore delle gallerie civiche, nazionalisti della prima ora come Alberto Musatti, uomini del Fascio come Pietro Radaelli e Igino Magrini, ma anche molti homines novi, saliti per la prima volta alla ribalta della vita pubblica cittadina. Il 12 novembre 1920, durante la prima seduta del nuovo consiglio comunale, Davide Giordano fu eletto sindaco; subito dopo nella sala consiliare scoppiarono i primi tafferugli tra socialisti e rappresentanti del Fascio plaudenti all’elezione del loro candidato. Nella sua giunta Giordano chiamò ben quattro esponenti del partito popolare (Giovanni Ponti, Giulio Pavanini, Andrea Benzoni e Ettore Jogna, che ricoprirono rispettivamente i referati del lavoro e beneficenza, della polizia urbana e dei servizi pubblici, dell’istruzione e cultura, e dei lavori pubblici)(167). Il peso di questa componente fu dunque molto elevato, tale a nostro parere da mettere in seria discussione il carattere fascista dell’amministrazione uscita dalle urne, che invece fu prontamente rivendicato nei commenti a caldo che seguirono il voto e nelle ricostruzioni postume(168). L’amministrazione Giordano rappresentò uno spartiacque nella storia politica e amministrativa veneziana. Con essa, in primo luogo, si chiudeva la lunga era Grimani, contrassegnata da 25 anni di dominio assoluto delle forze liberali prima e del blocco clerico-moderato dopo. Questo passaggio portò un notevole ricambio dei gruppi dirigenti e del ceto politico-amministrativo. Ma ciò che a nostro giudizio rappresentò l’elemento più interessante della giunta Giordano furono le ricadute di questa esperienza amministrativa sugli equilibri interni del fascismo veneziano. La vittoria del blocco fu soprattutto una vittoria di Giuriati; da quel momento si può far iniziare la crisi della pax interna al movimento e l’acuirsi dello scontro tra Marsich da una parte e Giuriati (e Volpi) dall’altra. Sul piano istituzionale, invece, con l’amministrazione Giordano iniziò quel processo di disarticolazione del potere liberale che dapprima si tradusse nello svuotamento delle funzioni del consiglio comunale e successivamente portò alla sua abolizione. Appena un anno dopo la nascita della nuova giunta, nella seduta del 15 novembre 1921, dai banchi dell’opposizione Elia Musatti — che guidava la pattuglia della minoranza composta da 12 consiglieri tra cui spiccavano Girolamo Li Causi e il socialista riformista Eugenio Florian — denunciò «il malcostume adottato dall’Amministrazione di amministrare senza il Consiglio Comunale» e il fatto che «da quattro mesi non [è stato] convocato il Consiglio Comunale, ed in questioni veramente gravi che compromettono l’amministrazione, la Giunta ha deliberato d’urgenza [...]»(169). La tendenza denunciata da Musatti era ormai irreversibile; nel corso del ’23 il consiglio fu convocato solo in due occasioni, ma la seconda adunanza, prevista per il 7 aprile, non si svolse perché il giorno precedente il sindaco Giordano comunicò d’urgenza ai consiglieri che «in seguito alla rinuncia presentata da alcuni Consiglieri, e alla (mia) conseguente nomina a Commissario Straordinario per la temporanea amministrazione del Comune di Venezia, [era] sospesa la seduta del Consiglio Comunale indetta per domani 7 aprile corr.»(170).
Eletto nel novembre del 1920, il 4 aprile del ’23 Davide Giordano fu nominato con decreto prefettizio commissario straordinario(171). Mantenne questo incarico fino al 17 maggio 1924 quando rassegnò le dimissioni. Il commissariamento del Comune proseguì, e fu prima affidato a Bruno Fornaciari (3 agosto 1924-10 settembre 1926), poi a Pietro Orsi (10 settembre-16 dicembre 1926), quando lo stesso Orsi fu nominato, in applicazione alla legge del 4 febbraio 1926, nr. 237, che sopprimeva le cariche elettive, podestà(172). Giordano non si occupò solo di ridurre al silenzio le voci dell’opposizione(173), ma il sindaco che aveva salvato Venezia dal «pericolo rosso» tentò anche di dare un governo ad una città che versava in pesanti condizioni economiche e sociali. Come molti altri Comuni italiani, anche quello di Venezia pativa una pesante situazione finanziaria. La crisi delle finanze comunali era in larga parte attribuibile alle spese straordinarie sostenute durante la guerra e alle precarie condizioni dell’economia cittadina nel primo dopoguerra(174). La situazione si era inoltre aggravata in seguito ai numerosi provvedimenti in materia tributaria adottati dallo Stato, che avevano modificato la distribuzione delle entrate e delle competenze tra centro e periferia(175). Da un lato la contrazione di alcune tasse finalizzata alla riduzione della pressione fiscale municipale, dall’altro l’attribuzione di nuove competenze di spesa ai Comuni — mantenimento delle scuole, aumento degli stipendi agli insegnanti, spese per la leva militare e per l’impianto di laboratori provinciali di igiene e profilassi — produssero una grave crisi delle finanze degli enti locali.
Entrando nello specifico della situazione veneziana, il bilancio di previsione del 1924 fu lo specchio di queste problematiche. Il Comune chiudeva, per il quarto anno consecutivo, con un deficit(176). Giordano spiegò che questa situazione era in parte dovuta ai seguenti provvedimenti assunti dal governo centrale: la riduzione della sovraimposta sulla ricchezza mobile decisa con decreto del 18 novembre 1923, i nuovi contributi imposti per le scuole secondarie adottati con decreto dell’11 marzo 1923, il blocco dalla sovraimposta comunale sui terreni e sui fabbricati, decisa con legge nr. 419 del 18 febbraio 1923(177). Alla ricerca di nuove entrate il commissario decise l’aumento di alcuni dazi già esistenti e l’istituzione di nuovi: non vi fu quindi alcuna manovra che interessasse mutamenti strutturali(178). Giordano scelse di aumentare la tassa di soggiorno, quelle sulla famiglia e sulla licenza degli esercizi e istituì una nuova tassa sulle insegne, realizzò inoltre tagli di alcune spese e avviò trattative per la cessione dell’Azienda Comunale di Navigazione ai privati. Non solo questi provvedimenti non furono sufficienti a raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio — nel quale da anni la cifra più alta tra gli investimenti era costituita dai lavori per il completamento di Porto Marghera — ma provocarono anche la protesta dei commercianti, la cui associazione, raggruppante circa 5.000 esercenti, dichiarò guerra a Giordano e ne chiese l’allontanamento, dopo essere stata tra i pilastri dell’alleanza uscita vittoriosa dalle elezioni del 1920. Il settore del commercio non fu l’unico che si schierò contro l’ex sindaco. Scese in campo anche la potente lobby che da anni chiedeva l’apertura di alcune case da gioco al Lido, progetto che Giordano avversò recisamente. Tuttavia le dimissioni che alla fine il commissario presentò non furono solo l’esito delle pressioni esterne che le categorie economiche esercitarono. Su quella decisione pesò soprattutto lo scontro che da anni si consumava all’interno del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Nel resoconto di un colloquio avuto con Mussolini nel novembre del ’24, Giuriati scrisse: «Il Presidente obiettò che sono il solo che posso mettere a posto Venezia. Replicai essere questo impossibile: che se anche Magrini se ne andasse resterebbero a portare confusione nel Fascio e la ostilità contro di me i magriniani che si sono costituiti una rete di clientele e di interessi: che l’amministrazione Giordano ha guastato tutte le basi elettorali create da me con un lavoro di mesi»(179). L’uscita di scena di Giordano corrispose a un cambiamento degli assetti interni al P.N.F. Il 18 maggio 1924, il giorno dopo le dimissioni, Giorgio Suppiej, personaggio legato a Giuriati, fu nominato segretario federale, mentre Ippolito Radaelli, fedele a Marsich, fu designato segretario cittadino. La coincidenza non era certo casuale: come vedremo in dettaglio analizzando la struttura del potere locale negli anni dopo la marcia su Roma, da quel momento il rapporto tra cariche amministrative e cariche politiche si era fatto molto stretto. In sostanza con l’amministrazione Giordano il Comune divenne lo spazio in cui si scaricarono le tensioni interne al fascismo veneziano e, per oltre un decennio, il principale terreno di scontro tra le fazioni che se ne contesero la leadership.
La conclusione della vicenda Giordano rimanda alla situazione interna al fascismo veneziano. Riprendiamo dunque il ragionamento dove l’avevamo lasciato e cioè alla crisi innescata dal caso Lanfranchi, ricostruendo i passaggi che portarono alla caduta di Marsich. Nel febbraio del 1921 Lanfranchi fu sostituito da Vincenzo Bucca, commerciante di origini palermitane, «ardito» e «ferito di guerra» come egli si definì firmando un appello su «Italia Nuova» del 21 marzo di quello stesso anno. Pochi mesi prima di questa promozione, Bucca aveva assunto il ruolo di comandante delle squadre d’azione. La sua nomina a segretario politico rivestì un significato preciso. A lui infatti fu affidato il compito di riorganizzare le squadre e di garantirne la progressiva militarizzazione(180). L’obiettivo era scatenare l’offensiva in città contro le roccaforti socialiste e le organizzazioni operaie. Tra febbraio e marzo, come è stato ricostruito(181), si ebbero numerosi scontri in città. Da metà marzo in poi questi crebbero ulteriormente e aumentò l’uso della violenza. Oltre ai socialisti gli scontri cominciarono a coinvolgere anche le forze dell’ordine, come accadde il 13 marzo al termine di una manifestazione al Teatro Ridotto per l’inaugurazione, alla presenza del sindaco Giordano, dei gagliardetti delle squadre d’azione «Ardita», «Disperata» e «Avanguardia Studentesca». Usciti dal teatro i partecipanti, circa 400 secondo le fonti di polizia, si diressero verso piazza S. Marco ma furono bloccati dalle guardie regie. Scoppiarono pesanti tafferugli che si conclusero con alcuni arresti(182). Pochi giorni dopo, il 15 e il 16 marzo, furono le aule del consiglio comunale a essere teatro degli incidenti. In quell’occasione i fascisti tentarono di impedire alle opposizioni di intervenire nella discussione. Gli scontri scoppiati all’interno del palazzo coinvolsero ben presto anche il pubblico presente all’esterno(183). In un crescendo di attentati, pestaggi, assalti alle sedi istituzionali, a quelle dei giornali e alla Camera del lavoro, a circoli dei lavoratori, scontri in campo aperto tra militanti socialisti e quelli del Fascio, il clima politico in città divenne incandescente. Nel mese di aprile, in concomitanza dello sciopero di protesta proclamato a partire dal giorno 9, di fronte a questa escalation, la Democrazia Sociale, per iniziativa di Marinoni, Ascoli e Gironda, decise di convincere le parti a una tregua(184). Formalmente la proposta venne accettata da entrambi gli schieramenti, ma nei fatti durò poche ore: nel pomeriggio del 9 aprile, in campo S. Margherita, mentre si svolgeva il comizio di Gioacchino Giordano, segretario della Camera del lavoro, Elia Musatti e Girolamo Li Causi, le squadre fasciste che avevano aggirato il blocco delle guardie regie posto sul ponte dell’Accademia entrarono nella piazza e iniziarono a sparare contro i militanti socialisti che risposero al fuoco ferendo quattro avversari(185). Seguirono altri clamorosi episodi, come la spedizione punitiva a Castello del 26 aprile 1921 nel corso della quale vi fu la terza vittima della guerra con i socialisti(186). Il giorno successivo i fascisti ritentarono l’invasione del quartiere organizzando la più imponente operazione militare fino a quel momento; alle quattro squadre d’azione veneziane si unì per l’occasione l’«Ardita» di Ferrara comandata da Italo Balbo. Anche allora vi furono pesanti scontri con scambi di colpi di arma da fuoco. I fascisti si impossessarono della bandiera rossa che sventolava sul pennone dei giardini pubblici e tentarono di penetrare per le calli del sestiere, ma furono «accolti» dal lancio di pietre e tegole dai tetti(187).
Dopo l’invasione di Castello le azioni squadriste fecero registrare una parziale tregua con l’avvicinarsi delle elezioni politiche convocate per il 15 maggio 1921. Questi gravi episodi incisero pesantemente sulla strategia delle alleanze. Il blocco formatosi pochi mesi prima per la vittoriosa tornata amministrativa puntò a una riedizione dell’accordo. L’operazione riuscì solo in parte, con poche ma significative eccezioni. Alludiamo, ad esempio, alla decisione di Gianpietro Talamini, direttore e proprietario de «Il Gazzettino», di candidarsi con la lista della Democrazia Sociale. La decisione fu quanto mai significativa se si pensa alla violenta campagna condotta per le amministrative dal quotidiano. Negli ultimi mesi «Il Gazzettino» aveva in realtà mutato atteggiamento, prima prendendo posizione sull’affaire Lanfranchi, poi cominciando a dimostrare un evidente imbarazzo di fronte alle violenze fasciste.
Più difficile da decifrare, invece, la posizione dei cattolici e del partito popolare. Don Sturzo aveva ufficialmente comunicato la decisione di non aderire alle liste del blocco(188); a livello locale il partito e il mondo cattolico erano spaccati tra chi approvava la linea nazionale e chi invece era favorevole a un accordo con le forze del blocco. Subito dopo il decreto di scioglimento della Camera, firmato dal re il 7 aprile, iniziarono infatti i contatti dei diversi esponenti cattolici con il patriarca La Fontaine. Per settimane sfilarono davanti al patriarca tutti i massimi dirigenti dei vari organismi del laicato cattolico e del partito popolare. Anche il conte Grimani, latore di una proposta di inclusione nella lista popolare del conte Pietro Bon(189), incontrò il patriarca. Al termine di questa fase di consultazioni un accordo fu trovato in extremis pochi giorni prima del voto su una linea, suggerita dai prelati più influenti della diocesi convocati da La Fontaine, di accettazione della lista popolare con l’aggiunta dei nomi di Bon e di un altro liberal-moderato come il possidente Giovanni Chiggiato, presidente della deputazione provinciale. La «correzione in senso liberale» chiesta dai parroci fu però duramente contestata dalla sinistra del partito guidata da Giuseppe Donati e così alla fine la decisione fu «di votare la lista popolare con preferenza a Merlin e a Bon»(190).
In apparenza più facili furono invece le scelte compiute dagli esponenti fascisti. Il 15 aprile Marsich con un intervento su «Italia Nuova» chiarì la linea del movimento. Dopo aver ribadito la validità della scelta a favore dei blocchi nazionali, sottolineò il ruolo che i fascisti avrebbero dovuto svolgere all’interno delle coalizioni. Scrisse in quell’occasione: «esigiamo che lo spirito del programma del movimento fascista sia l’anima dei blocchi. È questa una condizione sine qua non che gli alleati devono accettare». Se così non fosse stato, con il solito linguaggio minaccioso Marsich scrisse che le forze della borghesia dovevano essere considerate avversarie e pertanto trattate «con gli stessi metodi finora adoperati nei confronti dei sovversivi»(191). Nelle settimane successive il giornale, divenuto nel frattempo, come diceva il sottotitolo, «Voce del Fascismo Veneto», diede ampio spazio alle questioni elettorali. Gran parte degli articoli furono scritti direttamente da Marsich o da Francesco Bonaldi, il suo più stretto collaboratore(192). Il 17 aprile del ’21 l’assemblea regionale dei delegati dei Fasci scelse i candidati per le varie circoscrizioni; per quella di Venezia-Treviso fu indicato Giuriati, mentre Marsich, coerente con il suo antiparlamentarismo, rifiutò la candidatura(193). Pochi giorni dopo giustificò la sua scelta con una lettera aperta nella quale spiegò che «il fascismo antiparlamentare avrà una funzione non meno grave del fascismo parlamentare»(194). «Italia Nuova» iniziò a quel punto una martellante campagna a sostegno dei candidati fascisti di cui fornì dettagliati profili biografici. È interessante notare come, pur dando spazio a tutte le candidature, il giornale sin da subito indicò la candidatura di Igino Magrini come quella da appoggiare(195).
Rispetto a quanto avvenne in molte parti del paese, a Venezia la campagna elettorale si svolse senza gravi incidenti, mentre intimidazioni e violenze si registrarono nei comuni della provincia. La partecipazione al voto aumentò rispetto al 1919 e i risultati confermarono chiaramente il partito socialista come prima forza politica cittadina con il 46,1% dei consensi. Furono eletti 4 deputati: Elia Musatti, Tommaso Tonello, Angelo Galeno ed Eugenio Florian. Democrazia Sociale recuperò qualcosa rispetto al voto amministrativo, ma non fu in grado di rieleggere Trentin. Ma i dati più interessanti riguardarono il partito popolare e la lista del blocco che assunse la denominazione di Unione Nazionale. I primi pagarono pesantemente le divisioni interne, perdendo più di un terzo dell’elettorato e passando dal 16,2% del 1919 al 10,3%, calo consistente se si considera che a livello regionale il partito popolare si mantenne sui livelli delle precedenti elezioni politiche. Tra i popolari eletti figurarono Luigi Corazzin, Ottavio Frova, Umberto Merlin, Giovanni Cicogna e Guglielmo Sandroni. Tenuto conto della diversa composizione dell’alleanza elettorale, anche il risultato dell’Unione Nazionale, che si attestò sul 27,4%, fu negativo. Per la lista del blocco risultarono eletti Giuriati, di gran lunga il più votato, Gino Caccianiga e Giovanni Chiggiato(196). L’elezione di Giuriati fu duramente contestata dai socialisti per i «voti conseguiti dal fascio nei comuni di Cavarzere, Chioggia e Pellestrina ove la violenza e l’intimidazione non [avevano] permesso la libertà di esplicazione del diritto di voto da parte dei lavoratori»(197). Più circostanziata e pesante la presa di posizione della Democrazia Sociale che il 19 maggio 1921 presentò un ricorso alla Corte d’Assise contro «la lista bandiera e fascio» basato sui seguenti elementi: 1) l’impedimento della propaganda e della organizzazione politica nei comuni di Chioggia, Cavarzere e Cona; 2) gli atti di violenza, intimidazione e sequestro di persona al fine di impedire di esercitare il diritto di voto nei citati comuni e soprattutto in quello di Pellestrina; 3) gli episodi di corruzione e intimidazione di carattere economico in diversi altri comuni e specialmente nelle circoscrizioni di San Donà e di Oderzo(198). La Corte respinse il ricorso perché mancante di prove sostanziali e le elezioni furono convalidate.
I risultati produssero pesanti conseguenze sulle due forze più penalizzate dal confronto elettorale. Il 7 giugno 1921 la direzione centrale del partito popolare sciolse il comitato provinciale. In meno di un mese si arrivò all’elezione dei nuovi organismi locali, nei quali la sinistra interna ebbe una larga maggioranza, e alla conseguente nomina di Giuseppe Donati a segretario. Diverso fu invece il dopo voto in casa dell’Unione Nazionale. La sconfitta fu solo parzialmente ammessa e si cercò di minimizzare il valore delle elezioni. Il giorno dopo il voto, Marsich intervenne su «Italia Nuova» parlando di «episodio elettorale» che non doveva frenare la battaglia fascista(199). Qualche giorno più tardi il giornale dedicava alle elezioni un’analisi più articolata in un testo(200), sicuramente attribuibile a Marsich, nel quale si coglieva il nocciolo del problema evidenziato dal passaggio elettorale: la borghesia veneziana cominciava a manifestare i primi segnali di insofferenza e di chiusura nei confronti del fascismo. Marsich dimostrò di aver colto il significato politico delle elezioni, ma non modificò la sua linea destinata inevitabilmente a entrare in rotta di collisione con quella di Giuriati e con quella di Mussolini.
Analizziamo ora la fase che si aprì dopo le elezioni del ’21 — fase che non solo segnò l’inizio della parabola discendente della vicenda politica di Marsich ma preparò anche una profonda trasformazione del fascismo veneziano — cercando soprattutto di guardare a quali furono i punti di rottura che progressivamente si delinearono tra Marsich e Giuriati nei mesi successivi al voto. Il primo riguardò l’ipotesi della pacificazione che lentamente si fece strada nel dibattito nazionale con l’appoggio dello stesso Mussolini. A Venezia, passata la tregua delle elezioni, le intenzioni dei fascisti furono esplicitate in un articolo apparso su «Italia Nuova»: «Disarmare? Lo invocano i preti e i filosofi. E noi rispondiamo: no. Vogliamo e dobbiamo far valere la ragione anche con la forza, quando la ragione sia offesa o violentata [...]»(201). L’unica correzione di linea che Marsich sembrava disposto a concedere fu di definire una sorta di galateo del buon squadrista. Raccomandò una maggiore disciplina alle squadre e introdusse la distinzione tra violenza «utile» e violenza «inutile»(202).
Il principio di una nuova disciplina nell’uso della violenza implicò anche l’esigenza di una selezione ed epurazione delle forze dello squadrismo che fu in effetti avviata puntando soprattutto sull’inquadramento di ex ufficiali che davano maggiori garanzie. In sostanza non solo nell’estate del ’21 le violenze ripresero in grande stile, ma nel volgere di poche settimane toccarono le punte più alte mai fatte registrare fino allora. L’offensiva si concentrò tra l’11 e il 18 giugno 1921, con ripetuti attacchi contro esponenti socialisti e comunisti. Modalità e obiettivi furono gli stessi già sperimentati in precedenza, cambiarono intensità degli scontri e quantità degli uomini impegnati. A metà giugno le squadre veneziane furono rimpolpate dai rinforzi arrivati da Udine, Bologna, Rovigo e Trieste. Chi, come il segretario politico e comandante delle squadre Ippolito Radaelli espresse riserve sulle azioni, venne emarginato o indotto a dimettersi. La ricostruzione degli episodi di sangue che costellarono la «settimana fascista», ci conferma che già attorno al 20 di giugno il prefetto convocò una riunione presso la deputazione provinciale, aperta a tutte le forze politiche, per tentare di definire un primo accordo di pacificazione(203). A quel tavolo nessun rappresentante del Fascio si presentò, mentre fu presente l’onorevole Giuriati che contribuì a definire un’ipotesi di accordo che fu poi riprodotta anche a livello nazionale. Nei giorni successivi Marsich non mutò la sua posizione intransigente, rendendo così sempre più esplicito il contrasto con Giuriati. A fine giugno sostituì il dimissionario Radaelli con Gino Covre, segretario politico del Fascio di Udine (dove era stato criticato all’interno dello stesso movimento per gli eccessi violenti(204)) trasferitosi per motivi di lavoro a Venezia. A lui Marsich affidò il compito di riorganizzare e potenziare le squadre del fascismo veneziano(205).
Quando ai primi di luglio si diffuse la notizia dell’avvio di trattative a livello nazionale tra deputati fascisti e socialisti per una tregua(206), Marsich si dimise dal Consiglio nazionale. Con un’evidente prova di forza interna, convocò l’assemblea del Fascio veneziano e fece votare il testo di un telegramma da inviare a Giuriati nel quale lo si invitava a non trattare «con coloro che sono stati e saranno sempre i nemici giurati della Patria»(207). Al contempo scrisse una lettera a Pasella nella quale illustrò i termini del suo dissenso, attaccando in particolare — come in realtà aveva iniziato a fare prima e subito dopo le elezioni(208) — la politica «parlamentaristica» di Mussolini, «troppo accomodante colle vecchie caste politiche». Per Marsich la svolta di Mussolini significava una rinuncia alla possibilità di realizzare la «rivoluzione italiana»; era un gesto di abdicazione verso lo Stato liberale. Di qui il ricorso al linguaggio tipico del dannunzianesimo e del «diciannovismo», esemplarmente riprodotto nell’articolo pubblicato l’11 luglio quando, alla vigilia del congresso nazionale dei Fasci che doveva affrontare la questione del patto, Marsich scrisse:
La lotta parlamentare era la riaffermazione del nostro spirito antiparlamentare. Volevamo improntare al nostro spirito i blocchi e inviare al Parlamento una pattuglia intrepida [...]. Oggi conviene che nessuno dei nostri rappresentanti dimentichi il significato della lotta. Da molteplici segni appare esservi chi troppo si adatta all’ambiente corrompitore, chi soffre il perfido contagio, chi smarrisce lo spirito fascista [...](209).
Il giorno dopo la pubblicazione di questo articolo, mentre a Milano erano in corso i lavori del Consiglio nazionale, durante il quale Giuriati disse delle trattative in corso, 1.500 squadristi veneti guidati da Gino Covre invasero e occuparono Treviso assaltando e distruggendo l’edificio delle «Sedi Riunite» dove si trovavano redazione e tipografia del giornale repubblicano «La Riscossa», oltre che le sedi della Federazione provinciale repubblicana, della Camera del lavoro e del Consorzio autonomo delle cooperative e altri organismi collegati al Partito Repubblicano Italiano(210). Lo scopo manifesto di questa vera e propria operazione militare fu di mandare ai capi del movimento riuniti a Milano un messaggio chiaro circa l’indisponibilità del fascismo veneziano e veneto a qualsiasi ipotesi di pacificazione. Mentre Treviso veniva presa d’assalto dagli squadristi, a Milano Marsich, con l’appoggio di altri esponenti dei «fascismi provinciali» quali De Vecchi, Mastromattei, Scarpa, Bastiniani, Padovani, Scaffa, presentò un ordine del giorno contrario a quello proposto da Mussolini, ritirato all’ultimo momento solo grazie alla mediazione e alle pressioni di Giuseppe Aversa(211). Nei commenti dei giorni successivi, Mussolini si sforzò di minimizzare il dissenso. In realtà il voto finale non cancellò le perplessità e le contrarietà del gruppo dissidente. Localmente le reazioni alla spedizione di Treviso non si fecero attendere: la stampa, unica eccezione la «Gazzetta di Venezia», prese posizione contro l’iniziativa. Oltre agli attacchi della stampa e alla reazione dell’opinione pubblica, il Fascio registrò anche le defezioni di alcuni militanti in polemica con la linea Marsich. Di fronte alla nuova situazione il movimento dovette avviare un’ulteriore fase di riorganizzazione interna e introdurre regole più rigide nella preparazione delle azioni squadristiche che dovevano escludere le iniziative individuali. Il direttorio annunciò anche la sostituzione di Covre con il vicesegretario politico Ugo Leonardi, decisione presa con tutta probabilità per liberarsi di una figura divenuta ormai ingombrante.
Nonostante questi provvedimenti straordinari, il Fascio non fu in grado di uscire dalla difficile situazione politica. I dati sull’andamento degli iscritti testimoniavano chiaramente la stasi nelle adesioni. Nel marzo del ’21 gli aderenti risultavano essere 1.355, un mese dopo salirono a 1.405 per arrivare in maggio a 1.545. Con il mese di giugno giunsero a 1.565 e così nelle rilevazioni di luglio, agosto e settembre, riprendendo a crescere solo a ottobre quando si toccò quota 1.575; da quel momento il numero di adesioni rimase stabile fino alla fine dell’anno(212). La linea politica perseguita da Marsich non pagava, isolava il movimento e ne impediva la penetrazione tra i ceti medi e la borghesia. Malgrado ciò il leader del fascismo veneziano non modificò la sua posizione. Con perfetta scelta di tempo, il 31 luglio 1921 egli pilotò l’assemblea regionale dei Fasci alla votazione di un ordine del giorno contrario al patto, del tutto simile a quello approvato pochi giorni prima dai fascisti toscani. Due giorni dopo, il 2 agosto, Mussolini, De Vecchi, Giuriati, Rossi, Pasella, Polverelli e Sansanelli per il consiglio dei Fasci e il gruppo parlamentare fascista, Bacci, Zannerini, Musatti e Morgari per la direzione del P.S.I. e per il gruppo parlamentare socialista, Baldesi, Galli e Caporali per la C.G.d.L., firmarono a Roma il patto(213). A quel punto Marsich uscì definitivamente allo scoperto dirigendo i suoi attacchi direttamente su Mussolini. Il capo del fascismo veneziano fu con Grandi e Balbo alla guida della ‘rivolta’ dei fascismi provinciali contro Mussolini. L’atto decisivo fu la convocazione della riunione svoltasi a Bologna il 16 agosto alla presenza di 65 Fasci provenienti dalla provincia di Bologna, 45 dal Modenese, 20 dal Ravennate, 64 dal Cremonese, 15 dal Mantovano, 68 dal Polesine e circa 100 dal Veneto(214). Il convegno si chiuse con un ordine del giorno che respingeva i «trattati insidiosi», ribadiva la necessità di continuare, «finché perduri l’aggressiva violenza di parte», nell’opera di organizzazione delle attività fasciste in campo civile e sindacale, e sollecitava la convocazione del congresso nazionale(215). Ma il dato più interessante emerso da questa prova di forza fu la conferma che la contestazione a Mussolini avvenne nel nome di una ripresa del fiumanesimo. La «notte di Ronchi» — disse Grandi nell’intervento politicamente più importante dell’assemblea — fu «il primo e il puro battesimo del fascismo italiano»(216). Gli stessi concetti espresse Marsich(217).
In quello stesso giorno Mussolini annunciò dalle colonne de «Il Popolo d’Italia» le sue dimissioni dalla commissione esecutiva dei Fasci. Analoga decisione prese Giuriati dimettendosi dal Fascio veneziano(218). In realtà, se è certo che questo fu l’unico caso di aperto dissenso contro Marsich e che esso non intaccò la struttura organizzativa, di diversa natura furono le conseguenze dell’allontanamento di Covre. Questi infatti, negli stessi giorni in cui si infiammava la polemica tra Marsich e i vertici del Fascio nazionale, annunciò la costituzione della sezione veneziana dei Cavalieri della morte, associazione già esistente a Trieste da alcuni anni e gravitante nell’area dell’associazionismo irredentistico. Sorvolando sulla complessa vicenda dei legami con la rete nazionale di questa associazione(219), certo è che vi fu da subito una prima emorragia di militanti del Fascio verso la nuova organizzazione che coinvolse più di 20 persone, guidate da Giuseppe Tieuli(220). Questi passaggi continuarono anche nei mesi seguenti soprattutto per i militanti più giovani, attirati forse dalla figura di Covre, arrivando verso la fine del ’21 a interessare circa una quarantina di iscritti(221). Dotati di struttura e rituali di iniziazione tipici delle organizzazioni paramilitari, i Cavalieri della morte furono subito protagonisti di episodi di violenza che attirarono l’attenzione dell’opinione pubblica. Tra questi l’aggressione e il sequestro di Girolamo Li Causi, segretario della federazione socialista veneziana, avvenuto il 17 settembre 1921(222), e la devastazione dei circoli comunisti di Castello, Cannaregio e Giudecca nella notte tra il 16 e il 17 novembre dello stesso anno(223). Puntualmente dopo ogni azione dei Cavalieri della morte scoppiava la polemica con il Fascio di combattimento, in evidente difficoltà nel contrastare l’attivismo del gruppo di Covre e nel prendere, almeno formalmente, le distanze(224). In realtà la ripresa della violenza politica aveva rinfocolato le critiche provenienti dai settori economici importanti della città, quali gli albergatori e i commercianti, che denunciarono i danni provocati alle loro attività dal clima di terrore instauratosi. Tra le forze moderate e conservatrici cittadine si faceva strada la convinzione che, allontanato il pericolo «rosso», il fascismo avesse esaurito il suo compito e dovesse rientrare nel gioco politico accettando la guida delle forze politiche tradizionali(225). Marsich era di tutt’altro parere: la sua preoccupazione era di non cadere nella «trappola» che l’«ignava» borghesia veneziana gli aveva preparato.
Nella già difficile situazione in cui il fascismo veneziano venne a trovarsi tra l’estate e l’autunno del ’21, la questione della trasformazione del movimento in partito acuì ulteriormente le divisioni interne. A ben guardare, le due questioni, quella della polemica con la borghesia cittadina e quella interna al movimento, erano strettamente legate, al punto da rappresentare le due facce di una stessa medaglia. Su questi temi si giocò quindi il futuro politico sia di Marsich, sia di Giuriati.
La questione dell’istituzionalizzazione del fascismo fu posta per la prima volta da Mussolini in alcuni articoli pubblicati dopo le sue dimissioni annunciate il 18 agosto. Quel gesto clamoroso, ma attentamente calcolato, aveva provocato le reazioni che Mussolini sperava. Le pagine de «Il Popolo d’Italia» si riempirono di messaggi di solidarietà al duce, da tutti invitato a recedere dalle sue posizioni. Il giornale diede spazio anche alla voce di molti «fascismi provinciali» contrari alla pacificazione, che si pronunciarono per accettare disciplinatamente il patto. Con le dimissioni Mussolini aveva ottenuto un secondo risultato: mettere con le spalle al muro i rivoltosi ponendoli di fronte al rischio di una scissione o di una crisi dalle conseguenze catastrofiche per il fascismo. Inoltre, fallito il tentativo di affidare a D’Annunzio la guida del movimento, i capi del dissenso si resero conto che non vi erano alternative a Mussolini. Quest’ultimo pochi giorni dopo aver annunciato le dimissioni aveva cominciato a lanciare segnali di riconciliazione verso i «ribelli», arrivando anche a fare qualche concessione circa l’uso dello squadrismo. Fu proprio durante questa offensiva diplomatica che Mussolini cominciò a parlare della necessità di passare dal movimento al partito. Come sua abitudine non lanciò direttamente la proposta, ma mandò in avanscoperta Enrico Rocca che il 23 agosto pubblicò su «Il Popolo d’Italia» l’articolo Verso il Congresso nazionale fascista. I suoi compiti. Mussolini, prendendo spunto da questo articolo, due giorni dopo intervenne con un contributo nel quale si dichiarava favorevole all’ipotesi annunciata da Rocca(226). Dopo il ritiro formale delle dimissioni nel corso del Consiglio nazionale tenutosi a Firenze il 26-27 agosto — che di fatto segnò la cessazione della rivolta interna —, Mussolini accelerò i tempi del progetto per la trasformazione del movimento, convinto che l’aumento delle tensioni locali tra le correnti e la crescente forza dei ras locali avrebbero minacciato le basi del fascismo. Non a caso egli trovò necessario intervenire su questo problema con un articolo dai toni allarmati, nel quale denunciò le difficoltà del fascismo che mentre «doveva essere un moto superbo di unità nazionale in questa Italia assassinata da mille campanilismi, si sfalda nel regionalismo che fa da sé; e il regionalismo si disintegra nel provincialismo e questo precipita nel comunalismo di Portolongone, che si autoproclamerà asse della storia mondiale»(227). Mussolini percepì con largo anticipo che il peso dei localismi e le lotte interne potevano portare il movimento in un terreno minato e provocarne la crisi. Decise dunque di accelerare i tempi e di adottare una terapia choc(228). Come si rapportarono Marsich e Giuriati rispetto a questa svolta? Appena Mussolini nell’agosto del ’21 iniziò a porre la questione del nuovo partito, Marsich prese subito posizione con un editoriale pubblicato su «Italia Nuova», nel quale pose le condizioni per la permanenza sua e dei suoi seguaci nel fascismo: «1) che si accettino i principi fondamentali ispiratori dello statuto della reggenza del Carnaro perché in essi è il credo spirituale-politico che deve vivificare il movimento fascista; 2) che non si creino intorno al fascismo barriere di alcun genere permettendo a tutti quelli che vogliono sinceramente il bene della Nazione di collaborare; 3) che — chiusa e sigillata la pagina dell’antibolscevismo ed esclusa la violenza faziosa — si impegni a fondo la grande lotta antiparlamentare contro tutti gli elementi dissolvitori (uomini, partiti, caste) che agiscono all’interno della Nazione»(229).
Marsich era convinto che il fascismo dovesse rimanere aperto all’apporto di quanti volevano l’abbattimento dello Stato liberale e la creazione di uno Stato nuovo. In quest’opera vedeva un legame indissolubile con il nazionalismo. Scrisse a tal proposito: «Se il fascismo oggi si sforzerà di entrare nel numero dei partiti politici costituendo un partito nuovo, succederà fatalmente che, o esso saprà rimanere fedele alle sue origini e si confonderà col movimento dottrinario nazionalista di cui sarà un bis in idem, o tradirà le sue origini corrotto dal parlamentarismo e si butterà in braccio al socialismo, sia pure a tinta nazionale come la democrazia sociale o simili nebulose che si chiamano partiti [...]. Fascismo sta a nazionalismo come movimento sta a dottrina»(230).
Impegnato a tenere alti i toni della polemica, Marsich partecipò a tutti i passaggi interni del lungo e laborioso iter che portò alla formalizzazione della proposta di trasformazione dei Fasci in partito. Dopo, infatti, una prima approvazione data dal gruppo parlamentare il 7 settembre, la questione fu affrontata il 28 da un’apposita commissione interna nella quale si delinearono due schieramenti. Marsich si collocò con quanti (De Vecchi e Bolzon tra gli altri) votarono contro, mentre con Mussolini si schierarono De Stefani, Starace, Lupi ed altri(231). La stessa commissione fissò inoltre le date per il congresso nazionale, previsto per il 7-11 novembre a Roma. Nelle settimane precedenti l’assise, la polemica si infiammò ulteriormente. Marsich ribadì con forza i concetti che gli stavano a cuore. Egli vedeva nella strategia mussoliniana la volontà di trasformare il fascismo «nell’operatore sanitario della crisi delle caste dirigenti», che ponendosi alla guida di un blocco di destra avrebbe rivitalizzato le forze liberali(232). Ormai lo scontro con Mussolini era frontale. Il capo del fascismo veneziano non esitò ad accusare il duce del fascismo italiano di aver tradito lo spirito originario e perso i contatti con il movimento(233).
A parere di Emilio Gentile molte delle critiche mosse da Marsich al movimento e a Mussolini erano condivise da Giuriati. Ciò sembra in parte vero, anche se le posizioni di Marsich furono molto più ideologizzate. L’approccio di Giuriati fu più pragmatico. Sentiamo in proposito cosa egli scrisse nel mezzo del dibattito sulla trasformazione del movimento, questione che egli considerava «inutile ed oziosa» e che a suo giudizio poteva condurre «se non al disastro, a un grave, evidente detrimento. Anche tra i nostri, sono numerosi coloro che si potranno allontanare — e non sono né i peggiori, né i più ignoranti. Questi, domani, potrebbero, allarmati dalla trasformazione del fascismo in partito, credere che qualche cosa sia, dopo la trasformazione, mutato e a buon diritto allontanarsi dalle nostre file. Noi avremmo pertanto il pericolo di perdere molti anche ottimi gregari per una riforma... che non riformerebbe»(234).
Ma quali furono le reazioni nella base del movimento rispetto alla proposta di Mussolini? Secondo Raffaele Vicentini il dibattito precongressuale delineò tre correnti interne al fascismo veneziano: una prima composta prevalentemente dagli squadristi della «Spartaco Bello», della «Franco Gozzi» e della «Gino Allegri» schierati con Mussolini. Vicentini stesso si collocò in quest’area, assieme a personaggi di secondo piano quali Degli Esposti, Aldo e Sandro Testero, il «ferroviere fascista» Gino Nassuato. Una seconda, formata dai massimi dirigenti locali, comprendente il segretario politico Ugo Leonardi, il segretario amministrativo Camillo Favero, la squadra «Serenissima» e il suo comandante Umberto Cherubini, tutti allineati con Marsich. Una terza, che Vicentini definisce dei «benpensanti», composta «da coloro che di una sola cosa si preoccupano; del bene e della salvezza del fascismo veneziano». Si trattava in pratica dell’ala moderata guidata da Giuriati. Infine vi era, sempre secondo Vicentini(235), un’area di non schierati, definiti «propagandisti», comprendente l’avvocato Giorgio Suppiej, il sindaco Giordano e Giuseppe Roberto Mendel, ex ufficiale di guerra, autore di numerose opere letterarie e poetiche, impegnato da alcuni mesi nell’organizzazione dei sindacati fascisti(236). Al di là dell’attendibilità delle informazioni, il quadro tracciato da Vicentini appariva credibile, almeno nell’individuazione delle correnti interne. Esso inoltre confermava, assieme ad altri elementi già segnalati, l’indebolimento delle posizioni di Marsich che in effetti non sembrava più in grado di controllare in maniera monolitica il movimento veneziano. Per quanto invece riguardava Giuriati, la sua strategia era evidente: a livello locale non era ancora in grado di rompere con Marsich, mentre a livello nazionale evitò d’esporsi troppo per non compromettere i rapporti con i futuri dirigenti del partito. Il congresso di Roma non solo chiarì queste posizioni ma accelerò anche i processi interni al fascismo veneziano. Quando la mattina del 7 novembre all’Augusteo si aprirono i lavori del terzo congresso nazionale fascista, Mussolini aveva già in tasca l’appoggio di gran parte dei vertici del fascismo e l’adesione alla sua proposta di una larga parte dei congressi provinciali che nelle settimane precedenti si erano espressi sulla discussa questione(237). Il congresso si risolse con la netta vittoria di Mussolini, salutata dall’ovazione che accolse la chiusura del suo discorso «unitario» nella seconda giornata dei lavori e sancito dall’abbraccio con Grandi e Marsich davanti alla platea festante. Grandi e Marsich intervennero nella terza giornata(238). Il veneziano scelse di non attaccare frontalmente Mussolini come tanti si aspettavano: forse aveva capito — dopo l’intervento di Grandi — che ormai attorno a lui Mussolini aveva fatto terra bruciata. Il congresso si concluse con la votazione a maggioranza di un ordine del giorno presentato da Bianchi a sostegno della linea mussoliniana. Grandi, Giuriati e Piccinato votarono contro; Marsich dichiarò di votare a favore dell’ordine del giorno di Arangio Ruiz(239). Seguì la votazione dei nuovi organismi del partito: Marsich fu eletto nella commissione esecutiva, di fatto la direzione del partito, mentre nel comitato centrale a rappresentare il Veneto entrò De Stefani. Giuriati non trovò posto in nessuno dei nuovi organismi.
Il congresso di Roma segnò una svolta importante nella vita del Fascio veneziano. La crisi nella quale da alcuni mesi versava si aggravò. Marsich appariva notevolmente indebolito nel suo prestigio personale dallo scontro sostenuto a livello nazionale nei mesi precedenti il congresso. Egli mantenne il controllo del movimento a livello locale ma, ad esempio, non riuscì a contenere le crescenti iniziative dei Cavalieri della morte che a partire dai primi mesi del ’22 intensificarono e diversificarono le loro azioni violente. Le squadre guidate da Covre furono protagoniste non solo di attacchi portati agli antifascisti ma cominciarono a intervenire nelle vertenze sindacali, ad agire come ‘polizia privata’ disponibile, in cambio di un compenso economico, a essere usata per risolvere controversie di varia natura, ad avviare l’occupazione di case(240). Tra le varie iniziative, assalti alla Camera del lavoro, uccisione di alcuni militanti, le violenze dei Cavalieri continuarono fino all’8 giugno del 1922 quando il prefetto ne ordinò lo scioglimento(241).
Intanto la situazione interna al partito si evolveva rapidamente. Giuriati, dopo il congresso di Roma, iniziò a essere sempre più presente nelle vicende politiche veneziane. Riavvicinatosi alle posizioni mussoliniane, assistette, senza cercare il confronto diretto, al progressivo indebolimento e isolamento di Marsich. Mentre infatti anche Grandi si stava avvicinando a Mussolini, Marsich era invece rimasto sulle proprie posizioni, radicalizzandole e allontanandosi dal partito. La rottura non tardò ad arrivare. Quando, infatti, il 6 febbraio Mussolini rilasciò al «Resto del Carlino» un’intervista nella quale parlando della crisi del governo Bonomi avanzò l’ipotesi di un ritorno di Giolitti, Marsich ruppe gli indugi e scrisse una durissima lettera a Michele Bianchi, segretario del P.N.F. Nella missiva egli mise sotto accusa la «mentalità parlamentare» che ormai aveva avuto il sopravvento su quella «nazionale» e deplorò l’alleanza di destra alla quale guardava Mussolini. Nella lettera c’era anche un passaggio interessante per le sue implicazioni locali. Marsich parlò esplicitamente della «doppiezza» di Giuriati, e riferendosi al suo comportamento disse che «quando è fra i nostri squadristi, ne beve il profumo dell’anima ingenua» ma a Roma propone «un ordine del giorno in cui la destra dichiara di vigilare perché dalla crisi esca un governo capace di risolvere i grandi problemi nazionali, quando sappiamo a priori che nessun governo espresso dall’attuale Camera potrà risolverli, che la via delle crisi parlamentari è una via senza uscita, e che solo dal paese, non da Montecitorio, si deve attendere la nostra riscossa»(242).
La lettera rimase segreta fino al 5 marzo quando fu pubblicata dalla «Riscossa dei legionari fiumani» e ripresa anche dall’«Avanti». A quel punto il caso Marsich scoppiò in tutta la sua potenza. Il successivo sviluppo degli avvenimenti è noto. Mussolini decise di pubblicare la lettera sul suo giornale, con un breve ma secco commento nel quale definiva miserevoli le accuse di Marsich(243). Dopo questo intervento l’epilogo fu rapido. Marsich sfidò apertamente il duce e il partito inviando a D’Annunzio un telegramma annunciante la costituzione di una Legione veneta che intendeva mettersi agli ordini del poeta. È probabile, ma non certo, che in quei giorni egli abbia tentato di organizzare un incontro a Venezia con Grandi, Balbo e il generale Capello per organizzare una rivolta contro Mussolini(244). Il tentativo in ogni caso non riuscì, mentre è provato che uno dopo l’altro tutti i dirigenti in passato vicini a Marsich lo abbandonarono, con Grandi in testa, che alla vigilia del Consiglio nazionale convocato a Milano per il 3-5 aprile ‘scaricò’ l’alleato di tante battaglie(245). L’esito fu scontato. A parte un poco convinto tentativo di difesa di Giuriati e un altro di Davy Gabrielli, segretario provinciale del partito(246), tutti concordarono nell’assunzione di un provvedimento di deplorazione nei confronti di Marsich, il quale il 4 aprile, già prima di conoscere l’esito dei lavori, formalizzò alla direzione del partito le sue dimissioni.
La decisione ebbe pesanti ripercussioni all’interno del fascismo veneziano ed alimentò un duro scontro con le strutture centrali del partito. Dapprima la maggioranza si schierò con Marsich e votò, in un’assemblea tenutasi alla metà di aprile, l’espulsione della componente ‘mussoliniana’ guidata da Vicentini(247). In poche settimane la minoranza si organizzò e riuscì ad ottenere un intervento della direzione del partito che inviò a Venezia il vicesegretario nazionale Attilio Teruzzi. La resa dei conti finale si svolse l’8 giugno nel corso dell’assemblea generale del Fascio. Quanto accadde in quella adunata non fu tanto importante per l’ormai segnato destino di Marsich, quanto per individuare le figure emergenti all’interno del fascismo. L’adunanza si aprì con un intervento di Giorgio Suppiej che tentò un’ultima mediazione, ma il successivo lungo intervento di Marsich non lasciò spazio ad alcuna possibilità di dialogo. Egli confermò le sue dimissioni e ne spiegò le motivazioni invitando i suoi sostenitori a rimanere nel partito. A quel punto lo strappo era consumato: Teruzzi non poté far altro che difendere le ragioni del partito e contrattaccare, respingendo al mittente i riferimenti a D’Annunzio fatti da Marsich che di nuovo lo aveva proposto come guida per la rinascita fascista. Durante il dibattito uscì allo scoperto anche l’ala moderata del partito. Giuriati non intervenne ma mandò avanti il fidato Igino Magrini che attaccò duramente Marsich(248).
Gli ultimi passaggi della vicenda presentano qualche lato oscuro. Non fu chiaro ad esempio cosa successe dopo una prima votazione che aveva dato la maggioranza del Fascio a Marsich(249). Comunque, la conferma finale del direttorio in carica con l’aggiunta di Giuriati risultò a tutti gli effetti un provvedimento imposto dal «centro»; provvedimento che provocò la scissione all’interno del partito e la costituzione, avvenuta il 10 giugno 1922, di un Fascio autonomo(250) al quale subito aderirono l’ex segretario Davy Gabrielli, quasi tutti i «diciannovisti» (Cesco Bonaldi, Ippolito Radaelli, Mario Stoppoloni, Camillo Favero, De Blasio, Micheroux) oltre ad una settantina di militanti(251). Davy illustrò un programma incentrato sul rilancio delle squadre d’azione e sul miglioramento della loro preparazione militare. Il cuore del programma politico era invece costituito dal fascismo adriatico di Marsich e dal rilancio dei temi cari all’irredentismo. Il 30 luglio fu annunciato lo scioglimento del Fascio autonomo: con questo atto Marsich si ritirò dalla vita politica(252). Tutti gli aderenti al Fascio dissidente rientrarono nel partito veneziano, ma a metà dicembre molti degli ex marsichiani furono espulsi dopo aver dato vita ad un’azione nei confronti dei vertici del partito, per protesta contro l’ostracismo usato nei loro confronti(253). La conclusione era scontata. L’ultimo Marsich aveva perso del tutto la carica eversiva espressa negli anni precedenti. I suoi progetti si fecero nebulosi: «il fascismo [scrisse in quei giorni] è ormai per noi una forma politica superata: l’idea vuol essere reincarnata in forme nuove»(254). Il leader del fascismo veneziano non riuscì tuttavia a definire un programma politico capace di superare quella che ai suoi occhi appariva una crisi irreversibile che aveva fossilizzato il movimento fascista. Ciò tuttavia non basta a spiegare la fine dell’esperienza politica marsichiana. Non può infatti sfuggire che quanti rimasero all’interno del partito continuando, con minor forza, la polemica contro i nuovi dirigenti (Giuriati e Magrini) usarono essenzialmente due accuse: quella di essere dei fascisti dell’«ultima ora» e soprattutto quella di essersi ormai ridotti a strumenti nelle mani della grande borghesia veneziana. Gli accusatori circostanziarono più volte l’argomento, riferendosi esplicitamente a Volpi e indicandolo come regista dell’operazione che aveva portato all’emarginazione di Marsich. Che non si trattasse di semplici congetture è confermato dalla relazione redatta qualche anno dopo i fatti del giugno 1922 da Giorgio Suppiej, al tempo segretario provinciale del P.N.F. Figura tra le più importanti del fascismo veneziano, protagonista di alcuni passaggi decisivi nelle vicende interne del partito, Suppiej scrisse in quell’occasione che i rapporti con Volpi erano stati all’origine della crisi interna del Fascio cittadino e delle divisioni tra quanti erano disposti a sostenere i progetti del finanziere, accettando di conseguenza il condizionamento della politica del partito, e quanti invece non lo erano. Il segretario della sezione cittadina del partito narrò che egli stesso, eletto a quella carica nel gennaio 1923, fu vittima delle manovre di Volpi e del suo gruppo per essersi opposto alle loro «mire esorbitanti»: «Quando mi accorsi che il gruppo industriale andava a mano a mano assorbendo e monopolizzando tutte le attività economiche cittadine, tentando di conquistare anche ogni potere politico e amministrativo locale, vidi in ciò […] un pericolo grave per il fascismo il quale doveva evitare sia di essere battuto come di accodarsi a quella potenza a base particolaristica». La relazione proseguiva facendo intravedere, con le cautele del caso, che il referente di Volpi dentro il Fascio era Giuriati. Suppiej scrisse infatti di aver più volte esposto il problema a Giuriati chiedendogli un suo impegno per «sottrarre il fascismo locale alle influenze dirette e indirette di una categoria di finanzieri e industriali […] cui non dovrebbe esser certo riservato dal fascismo il dominio di Venezia». Ma aveva ricevuto in risposta solo la proposta di sciogliere il direttorio in carica e sostituirlo con una commissione straordinaria ancor più vicina a Volpi. Il nome dell’industriale non venne mai citato nel testo, ma Suppiej parlò di un gruppo industriale che «tende[va] ad accaparrarsi ogni attività economica ed amministrativa con indubbio indirizzo di monopolio. Naturalmente perché il piano [potesse riuscire], il fascismo della provincia [doveva] essere addormentato e ridotto ad una buona e pia società patriottica di stampo liberale, oppure [doveva] essere in sue mani»(255). Che questo fosse il disegno di Volpi appare sin troppo chiaro. Basti ricordare, ad esempio, l’accoglienza positiva che la sconfitta politica di Marsich suscitò tra i liberali come Giovanni Chiggiato, presidente della deputazione provinciale, che vide nel fascismo la rinascita dei «vecchi principi liberali sotto espressioni più nuove, più giovanili, più ardenti»(256).
L’uscita di scena di Marsich non fu solo l’ultimo atto di una battaglia politica combattuta dall’avvocato veneziano e dallo sparuto gruppo di fedelissimi che lo seguirono fino alla fine. Quel passaggio assunse a nostro giudizio altri significati. L’entusiasmo con cui le vecchie classi dirigenti liberali accolsero la sconfitta di Marsich — che coincise con l’adesione ufficiale di Volpi al fascismo — fa il pari con i toni distaccati con cui le stesse assistettero ai preparativi della Marcia su Roma(257). Per loro fu più naturale salutare la nascita del governo Mussolini avvenuta il 31 ottobre(258), giudicata il vero fatto importante dell’happening fascista iniziato cinque giorni prima. Insomma, mentre Mussolini si accingeva con la Marcia su Roma a compiere l’atto finale della conquista del potere, celebrando così il funerale dello Stato liberale, a Venezia con l’emarginazione di Marsich fu il fascismo a morire. In altre parole, se prendiamo per buono il giudizio espresso da Giuseppe Antonio Borgese nel 1934 quando, spiegando ad un pubblico americano le origini culturali del fascismo, affermò che «l’Uomo del destino fu Gabriele D’Annunzio [...] tutto ciò che è fascista sta nei suoi volumi»(259), e lo applichiamo alla vicenda veneziana, non possiamo in effetti non vedere nella caduta di Marsich la fine del fascismo e la nascita di un sistema di potere in cui spinte tecnocratiche e corporativiste — unitamente alla persistenza di un reticolo notabilare fortemente radicato nel tessuto sociale e al peso degli interessi economici — furono determinanti nel dar vita ad un esperimento di controllo totalitario della società del tutto originale nel panorama del fascismo italiano(260). Cercheremo quindi di evidenziare gli elementi di quest’anomalia analizzando in particolare due ambiti che risultano decisivi per interpretare sia l’evoluzione delle dinamiche interne al fascismo, sia l’articolazione del potere su scala locale: il Comune e il P.N.F.
Mentre iniziava l’opera mussoliniana di svuotamento e trasformazione delle istituzioni liberali, come prese forma la nuova geografia del potere cittadino(261)? Lungo tutto il corso del 1921 e del 1922 le organizzazioni sindacali e gli esponenti del partito socialista e comunista continuarono a subire attacchi da parte delle squadre fasciste. All’azione squadristica il fascismo marsichiano seppe affiancare un’azione sindacale tesa ad entrare in concorrenza con le organizzazioni socialiste. Tale azione trovò terreno fertile tra quei sindacati autonomi che già raccoglievano il consenso di alcune categorie come la federazione degli impiegati delle imprese elettriche, il sindacato dell’impiego pubblico, la federazione fra gli impiegati e salariati delle Opere Pie, da sempre controllata da Igino Magrini. Queste categorie costituirono a livello locale i primi nuclei della Confederazione italiana dei sindacati economici(262). La crisi economica della provincia veneziana nel biennio ’21-’22 diede ampio spazio all’azione dei sindacati fascisti tra i disoccupati, il cui numero era molto cresciuto nel settore turistico, tra i portuali ed anche nel settore impiegatizio(263). Trascinato dall’attivismo di Roberto Mendel, che realizzò l’apertura di un ufficio del lavoro dei lavoratori fascisti e degli ex combattenti, il sindacalismo fascista riuscì nel corso del ’21 ad incunearsi in alcune di queste categorie, ottenendo significativi successi soprattutto, come già segnalato, nel terziario e tra i lavoratori dei servizi(264). Nel ’22, dopo la cacciata di Marsich e la definizione dei nuovi equilibri politici con la borghesia cittadina e il mondo imprenditoriale, partì, invece, l’offensiva contro le cooperative portuali socialiste che da anni rappresentavano le strutture operaie più importanti del socialismo veneziano. La guerra contro la roccaforte «rossa» e le sue cooperative contribuì ad acuire le divisioni già esistenti nelle organizzazioni dei portuali(265) e della Camera del lavoro, dove, dopo la scissione comunista del gennaio 1921, le tensioni con i socialisti aumentarono. Le divisioni interne al partito socialista tra riformisti e massimalisti — culminate dopo il congresso di Roma del 1° ottobre 1922 nella nascita del Partito Socialista Unitario di Turati, Treves e Matteotti — diedero un colpo decisivo alla precaria situazione interna delle organizzazioni sindacali. Le tappe della disfatta sono così riassumibili: il 4 ottobre furono sanciti lo scioglimento e la liquidazione della Cooperativa Casa del popolo, il 31 ottobre i fascisti occuparono la Camera del lavoro, in quello stesso giorno uscì l’ultimo numero del «Secolo Nuovo»; si spegneva così anche la voce più significativa del movimento operaio veneziano(266).
Proprio dai giornali vennero, del resto, i primi e più rapidi segnali di allineamento al fascismo. Nel maggio del ’22, in seguito alla morte di Virgilio Avi, la «Gazzetta di Venezia» cambiò direttore. Gino Damerini, avvicinatosi al fascismo sin dal ’19, ne assunse la direzione che mantenne per circa vent’anni, fino alla cessione del giornale all’Editoriale San Marco (di proprietà dei gruppi S.A.D.E.-Volpi, Snia Viscosa-Cini e VetroCoke-Agnelli), che nel 1939 portò a termine l’acquisizione de «Il Gazzettino» e che trasformò la «Gazzetta», almeno inizialmente, nell’edizione serale del quotidiano fino a quel momento controllato dalla famiglia Talamini. Sotto la direzione Damerini l’antico foglio della borghesia moderata e conservatrice, che aveva già assunto negli anni precedenti una posizione favorevole al fascismo(267), completò l’allineamento al nuovo potere. Nell’organigramma vennero inseriti nuovi corrispondenti come Maffio Maffi che scriveva da Roma(268), mentre tra le personalità veneziane figuravano i vecchi esponenti del mondo liberale quali il senatore Pompeo Molmenti, e nazionalisti come Piero Foscari e Alberto Musatti. Dal novembre 1922 il giornale attuò una chiara forma di autocensura nei confronti delle notizie di politica nazionale e della cronaca cittadina, mentre diede sempre maggiore spazio alle attività del P.N.F. veneziano e alle iniziative economiche di Volpi. L’altro grande giornale che si schierò subito a fianco del fascismo fu «Il Gazzettino». Se, infatti, fino alla Marcia su Roma l’atteggiamento del giornale era stato ambiguo e ondivago, dopo la presa di potere di Mussolini esso passò decisamente dalla parte della nuova coalizione governativa. Il rapido allineamento garantì alla testata, diretta ancora dal vecchio Talamini, affiancato in questo compito dal genero Ludovico Sartorelli, marito della figlia Isoletta, e dagli altri figli (Giuseppe Mario, Giovanni Antonio e Giorgio) a vario titolo impegnati nel giornale, una tranquilla convivenza con il fascismo di cui si sforzò di fornire, almeno fino alla crisi Matteotti, un’immagine positiva, di partito d’ordine(269). La momentanea sospensione delle pubblicazioni di «Italia Nuova», coincidente con l’abbandono della politica da parte di Mar;sich, fu ampiamente compensata dal sostegno dato dai due maggiori quotidiani cittadini. Già nell’autunno del ’22 il fascismo raggiunse dunque il controllo della stampa. Che questa situazione fosse ampiamente sufficiente a garantire le esigenze propagandistiche del regime in via di costruzione è testimoniato da due elementi: per anni gli unici scontri all’interno del fascismo veneziano su questo tema riguardarono la complessa partita relativa all’acquisizione de «Il Gazzettino». In secondo luogo, fino al 1929 la federazione locale non avvertì l’esigenza di dotarsi di un proprio organo di informazione: nel 1925 era invece sorta la rivista mensile «Le Tre Venezie», diretta da Giovanni Giuriati jr. e da Antonio Galata, che «esamina[va] e studia[va] i problemi economici, artistici e turistici della Regione»(270). Del resto se Suppiej nel marzo 1930, durante il suo lungo secondo mandato alla guida della federazione provinciale, poteva affermare che «i due quotidiani veneziani, pur non essendo organi di partito, [erano] stati simpaticamente ai miei ordini, utilissimi nell’opera della federazione»(271), significava che la situazione sopra descritta si era consolidata, consentendo al P.N.F. di rimandare un impegno diretto nella pubblicazione di altri strumenti informativi.
Analizzata la situazione esterna al partito, possiamo a questo punto passare ad inquadrare quella interna. Dopo il ’22 il P.N.F. sembrava in apparenza godere buona salute. Il numero degli iscritti, dopo la stasi registrata nel corso del 1921, aveva ricominciato a salire. Nel maggio del ’22 gli aderenti al Fascio erano 4.000, al 31 dicembre gli iscritti al P.N.F. risultavano 5.160; complessivamente la federazione veneziana era la seconda del Veneto dopo quella veronese(272). Ma la realtà era ben diversa: nel dopo Marsich la ricerca di un equilibrio interno fu ardua. Nel P.N.F. veneziano si aprì una lunga stagione caratterizzata dalla costante ricerca di un compromesso tra Giuriati e Volpi, durata almeno fino alla fine degli anni Trenta. Il primo, già deputato, fu subito chiamato da Mussolini nel suo primo governo con l’incarico di ministro delle Terre liberate, che mantenne fino al marzo 1923. Da quel momento la sua fu una carriera in continua crescita, divisa tra governo, incarichi istituzionali e di partito. Egli infatti rimase per alcuni anni costantemente nell’area di governo; fu ministro «a disposizione» con speciali incarichi dal marzo ’23 al febbraio ’24, quando divenne ambasciatore straordinario in Sudamerica fino all’ottobre dello stesso anno. Pochi mesi dopo, nel gennaio del ’25, fu nominato ministro dei Lavori pubblici, dicastero che guidò fino all’aprile 1929. Emilio Gentile scrive che nel fascismo di Giuriati vi era «molto mussolinismo, piena adesione agli istituti del regime, e una tiepida partecipazione agli ideali del movimento», citando, a conferma di ciò, il discorso pronunciato da Giuriati il 30 aprile del 1929, in occasione dell’insediamento alla presidenza della Camera, incarico che ricoprì fino al gennaio del ’34(273). Il giudizio è in larga parte condivisibile e delinea, come è stato scritto(274), il profilo di un «notabile del regime» più che di un esponente di partito, aspetto che guardando al Giuriati veneziano viene vieppiù confermato come tratto della sua azione politica e di mediazione tra i diversi livelli del potere locale. Proprio per questo profilo e per la sua estraneità alle correnti e ai vari clan del fascismo, la sua nomina, avvenuta il 24 settembre 1930, a segretario del P.N.F., in successione di Augusto Turati, fu accolta dagli uomini di regime con grande meraviglia. Resse questo incarico fino al dicembre 1931, sovvertendo molti pronostici che lo volevano un semplice strumento nelle mani di Mussolini(275). Con la fine del segretariato iniziò il suo progressivo allontanamento dalla politica nazionale. Il 19 gennaio 1934, non più deputato, lasciò la carica di presidente della Camera; un mese più tardi, il 19 febbraio, concluse il mandato di membro del Gran consiglio. Il suo ‘pensionamento’ fu suggellato dalla nomina a senatore il 1° marzo del ’34.
La carriera di Giuseppe Volpi nel fascismo fu molto diversa. I due erano legati da alcuni tratti comuni. Coetanei, entrambi nati nel 1877, appartenevano ad una generazione nata troppo tardi per impegnarsi direttamente nelle lotte per l’unificazione nazionale. Avevano tuttavia respirato l’aria del Risorgimento, essendo cresciuti in famiglie della borghesia delle professioni a diverso titolo impegnate nelle battaglie per l’indipendenza; il padre di Volpi, ingegnere edile, aveva partecipato con i Cacciatori delle Alpi comandati da Garibaldi alle campagne militari del ’59, il padre di Giuriati, il notaio Giuseppe, fu uno dei protagonisti del ’48-’49 veneziano(276). Per Volpi l’ascesa ai massimi vertici del fascismo non avvenne come in Giuriati per meriti acquisiti sul campo e grazie a un cursus honorum pressoché perfetto per il gerarca-tipo del primo fascismo. Il finanziere veneziano si era politicamente formato sotto l’ala protettiva di Giovanni Giolitti. Questi nel giugno del ’21, poco prima di dimettersi da presidente del Consiglio, lo aveva nominato governatore della Tripolitania. Giocando sulla lontananza dalle vicende italiane, Volpi riuscì a mantenere un atteggiamento ambiguo sia nei confronti del mondo liberale in declino che del fascismo della prima ora. Non a caso la sua nomina a senatore avvenne ad opera dell’ormai moribondo governo Facta pochi giorni prima della Marcia su Roma. La sua adesione al P.N.F. fu tardiva. Le fonti ufficiali la facevano risalire al gennaio 1922(277), ma è assai più probabile che essa corrisponda invece al luglio 1923(278). Comunque che egli avesse ormai orientato le sue simpatie verso il movimento fascista è provato dall’attenzione — seppur discreta — che dedicò alle vicende veneziane, e soprattutto dalla tempestività con la quale il 1° novembre si precipitò a Roma per intrattenersi con Mussolini in un lungo colloquio. La consacrazione di Volpi ai vertici del fascismo avvenne sulla base della posizione di forza che egli aveva acquisito come imprenditore. Nel ’22 era azionista di 55 società in Italia e all’estero, era inoltre presente nel consiglio d’amministrazione di 46 aziende italiane. Fu il re Vittorio Emanuele III in persona, il 17 maggio di quell’anno, ad inaugurare il canale di grande navigazione che univa la stazione marittima alla nuova zona industriale di Marghera(279). Insomma, Volpi in quegli anni rappresentò il trait d’union ideale tra il mondo industriale-finanziario e il fascismo. Quando infatti Mussolini decise di sostituire De Stefani, ormai inviso alla maggior parte degli industriali italiani, alla guida del Ministero delle Finanze, la sua candidatura ottenne larghi consensi nel mondo imprenditoriale e finanziario italiano e il diretto appoggio di alcuni grandi imprenditori quali Agnelli, Olivetti e Benni(280). Il 13 luglio 1925 Volpi divenne ministro delle Finanze, carica che mantenne fino al luglio del 1928. Pochi giorni prima il re lo aveva elevato al rango di conte di Misurata.
Dopo il ’22 fu quindi inevitabile che due personalità del calibro di Giuriati e Volpi si scontrassero per il controllo del potere locale e del partito. Come già accennato, dapprima prevalse una sorta di compromesso che di fatto imbalsamò le strutture del partito, ai cui vertici non a caso troviamo in quegli anni figure di basso profilo, quasi sempre proiettate in periferia dal centro, nel tentativo di stemperare le tensioni interne. Fu il caso, ad esempio, di Stefano Sciaccalunga, nominato nel luglio del ’22 dalla direzione nazionale del P.N.F. durante la crisi Marsich, e rimasto in carica dal luglio al novembre di quell’anno(281). Nato a Lucca, caporale aviatore, invalido e decorato della Grande guerra, Sciaccalunga era un fascista della prima ora(282). Rimase a Venezia fino a quando non fu ricomposta la frattura tra il partito e il Fascio autonomo, rendendosi protagonista di pochi ma significativi episodi di violenza nei confronti degli avversari politici, tra cui la gazzarra organizzata, con la partecipazione dei nazionalisti guidati da Piero Foscari(283), il 24 settembre 1922 per impedire la conferenza di Antonio Fradeletto all’Ateneo Veneto su Il XX settembre e la questione romana. Non nuovo ad aggressioni da parte fascista(284), in quell’occasione il senatore — tra gli ultimi esponenti assieme a Pompeo Molmenti e Luigi Luzzatti della classe dirigente liberale — sospese il suo intervento e protestò con forza contro le autorità che non erano intervenute a disperdere il gruppo dei fascisti che dall’esterno avevano interrotto la conferenza(285). Sciaccalunga gestì le iniziative messe in atto contro lo sciopero generale indetto dall’Alleanza del Lavoro per la fine di luglio e la preparazione della Marcia su Roma e poi fu sostituito dal rodigino Talete Barbieri. Personaggio dal curriculum simile a quello di Sciaccalunga, Barbieri aveva partecipato alla Grande guerra come ufficiale dell’esercito ed era stato decorato con medaglia d’argento al valor militare. Fascista antemarcia, resse la federazione dal novembre 1922 al maggio 1924 quando, eletto deputato, lasciò l’incarico a Giorgio Suppiej. Questi si trovò a guidare il partito in un momento particolarmente difficile, durante il quale il debole compromesso tra Giuriati e Volpi cominciò a scricchiolare aprendo nel fascismo veneziano qualche pericolosa falla(286). Tre i motivi che aggravarono la crisi interna: le elezioni politiche dell’aprile ’24, la crisi Matteotti, l’inizio della lunga guerra di logoramento combattuta dalle due fazioni interne per il controllo de «Il Gazzettino» oltre a quella già in corso da anni per la conquista del Comune.
Partiamo dalle elezioni, tenutesi con la nuova legge elettorale approvata nel dicembre del ’23 che aveva introdotto il meccanismo del collegio unico nazionale diviso in varie circoscrizioni elettorali (in quella veneta fu, ad esempio, accorpata anche la provincia di Trento). Con questa legge, fortemente voluta da Mussolini — anche se nota con il nome dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo —, il capo del fascismo pose le premesse per l’eliminazione delle opposizioni antifasciste, ma anche per il ridimensionamento degli alleati di governo e dell’intera classe dirigente liberale(287). I risultati del voto nella circoscrizione veneta e a Venezia non furono molto brillanti per il «listone» nel quale erano confluite tutte le forze liberali. Rileggendo le percentuali elaborate da Gianni Riccamboni(288), si evince che la lista fascista, sulla quale confluì larga parte del voto cattolico(289), ottenne il 36,5% dei suffragi contro una media nazionale del 64,9%(290). Inoltre, accanto alla percentuale elevata del non voto (comprensivo degli astenuti e dei voti non validi) corrispondente al 49,3%, colpisce il 40,5% che si ottiene sommando i voti delle diverse liste con le quali si presentarono le forze socialiste, comuniste e repubblicane, a dimostrazione della tenuta delle organizzazioni operaie e socialiste a fronte di una campagna elettorale che fu pesantemente condizionata da brogli e intimidazioni di vario genere(291). Quanto invece agli eletti nel listone si può in effetti parlare di «estinzione» o «suicidio» della classe dirigente liberale, la cui presenza nella lista fu inferiore al 30% del totale(292). Tra i nuovi deputati veneziani solo Amedeo Sandrini era direttamente collegabile alla destra liberale(293). A quel punto a rappresentare il vecchio mondo liberale rimaneva la cospicua pattuglia di senatori comprendente il già citato Fradeletto (nato nel 1858), Pompeo Molmenti (1852), Luigi Luzzatti (1841) e Sebastiano Tecchio (1844), quasi tutti ormai ritirati dalla politica attiva e destinati a morire a poca distanza l’uno dall’altro(294). L’elezione di Giuriati (giunto al suo secondo mandato), di Igino Magrini e di Talete Barbieri, confermò dunque per Venezia la difficoltà di ricambio della classe parlamentare che invece a livello nazionale era stato assai elevato(295).
La crisi Matteotti ci rimanda alla questione de «Il Gazzettino». Questo fu infatti l’unico giornale che diede spazio alla vicenda e stigmatizzò l’uccisione del deputato socialista chiedendo la punizione dei responsabili, i cui nomi vennero più volte pubblicati sulla prima pagina del quotidiano, escludendo qualsiasi implicazione di Mussolini. La linea seguita tese in sostanza ad accreditare l’immagine di un fascismo normalizzatore contro il fascismo intransigente dei ras locali e degli squadristi provinciali. Tale posizione fu dunque in linea con quella della federazione provinciale guidata dal moderato Suppiej(296), in quel momento vicino a Giuriati, affiancato da Radaelli, fedele di Marsich, come segretario cittadino. Suppiej rimase in carica fino al 17 marzo 1925 — in pratica fino all’avvio della segreteria Farinacci, avvenuto un mese prima — quando si dimise e il partito fu affidato al controllo di una pentarchia composta da Talete Barbieri, presidente, Carlo Brandolini D’Adda, Luigi Cappelletti, Vilfredo Casellati, Giuseppe Toffano. Oltre a una convergenza di indirizzi, anche i legami familiari spiegavano la posizione assunta da «Il Gazzettino». Avendo sposato Agnese Sartorelli, figlia di Isoletta Talamini e quindi nipote di Gianpietro Talamini, Suppiej era particolarmente vicino alle vicende del quotidiano, che con la copertura politica del segretario federale poté quindi seguire nei mesi della crisi una condotta non del tutto appiattita sulle posizioni ufficiali del partito(297). Una volta superata la crisi Matteotti, questa situazione era tuttavia destinata a mutare per l’inasprirsi dello scontro tra Giuriati e Volpi. Entrambi i gruppi avevano come obiettivo il controllo del giornale. Nel 1952 Ennio Talamini, figlio del direttore, ricostruì il clima dello scontro in una memoria presentata in occasione della causa legale intentata dagli eredi Talamini contro la Società Editoriale San Marco per riottenere la proprietà del giornale, e ne retrodatò l’inizio usando queste parole: «Ancora prima del ’24 le mire dei politicanti, di gerarchi fascisti, di affaristi erano avidamente protese verso questo giornale che, perciò, divenne oggetto di continue persecuzioni. Predominavano in quel tempo due forti correnti che andavano sotto il nome di Giuseppe Volpi e di Giovanni Giuriati. Erano due partiti avversi gelosi uno dell’altro, entro il grande ‘Partito Comune’, due fazioni accanite intese a contendersi il dominio della città. Sia l’una che l’altra ambivano alla conquista del ‘Gazzettino’. Fra queste due forze il giornale doveva dibattersi, difendersi ora dall’una ora dall’altra, ora da tutte e due confuse assieme. Erano già in pectore i nomi del direttore del giornale prescelti dalle due fazioni: il comm. Giuseppe Toffano per la prima e il giornalista Piero Pedrazza per la seconda [...]»(298).
Le considerazioni espresse da Talamini corrispondono in effetti a quanto già da qualche anno si era verificato all’interno dell’amministrazione comunale. Come abbiamo visto il sindaco Giordano, eletto nel novembre 1920, aveva guidato il Comune, tra molte difficoltà e tensioni interne alla maggioranza, fino all’aprile del ’23 e poi in qualità di commissario straordinario fino al 17 maggio 1924 quando si dimise. Il 18 maggio 1924 Suppiej fu nominato segretario della federazione provinciale del P.N.F. La coincidenza delle date non fu casuale, ma evidenziò lo stretto rapporto creatosi tra cariche amministrative e cariche politiche, destinato a ripetersi con regolarità negli anni a seguire. In sostanza al cambio della guardia a Ca’ Farsetti corrispose quasi sempre un nuovo assetto interno al P.N.F., secondo uno schema che portava alla guida del Comune un personaggio legato alle vecchie élites cittadine e ai ceti produttivi e lasciava la guida del partito a figure quasi sempre provenienti dalla ‘carriera’ interna al partito. Questo schema ‘spartitorio’ funzionò almeno fino a quando, nella seconda metà degli anni Trenta, dopo aver risolto il contrasto con Giuriati a suo favore, il dominio di Volpi sulla vita politica veneziana non fu totale. Guardando alla sequenza dei cambi verificatisi a Ca’ Farsetti, questa ipotesi interpretativa sembra funzionare. Dopo le dimissioni di Giordano si verificò una situazione di stallo: dal 3 agosto 1924 al 10 settembre 1926 il Comune fu affidato alla gestione del commissario Bruno Fornaciari. Durante questo lungo periodo nel partito si verificarono vari movimenti, condizionati dai contrasti interni e con tutta probabilità anche dalla collocazione a livello nazionale di Giuriati e di Volpi. Vediamone dunque la sequenza partendo dalle dimissioni di Suppiej nel marzo del ’25, passaggio che si può mettere in relazione alla nomina di Giuriati a ministro dei Lavori pubblici nel gennaio del ’25. Fino al luglio di quello stesso anno il P.N.F. fu retto da una pentarchia presieduta da Talete Barbieri. Tra i pentarchi figurava anche Vilfredo Casellati(299), altro personaggio centrale delle vicende del fascismo veneziano per oltre un decennio, di fatto il plenipotenziario a cui Volpi affidò la gestione delle vicende politiche cittadine. La situazione del partito si sbloccò pochi giorni dopo la nomina di Volpi a ministro delle Finanze avvenuta il 13 luglio del ’25. La federazione del P.N.F. fu infatti affidata a Casellati che mantenne l’incarico prima dal 20 luglio al 18 dicembre del ’25, poi come commissario straordinario fino al 10 maggio del ’26, ed infine di nuovo come federale fino al dicembre 1928, quando iniziò il secondo mandato affidato a Suppiej che si protrasse fino al maggio 1934. Subito dopo l’insediamento di Casellati alla guida del partito si sbloccò anche la situazione all’interno del Comune. Si noti pure in questo caso la stretta correlazione tra le date. Il commissariamento affidato a Fornaciari si concluse il 10 settembre 1926, pochi mesi dopo che Casellati aveva assunto saldamente le redini del P.N.F. Alla guida dell’amministrazione comunale arrivò, prima come commissario (dal 12 settembre al 16 dicembre 1926) e poi come podestà, Pietro Orsi, lo storico nazionalista che resse il Comune fino al 13 giugno del ’29. Se a questa situazione aggiungiamo che anche l’amministrazione provinciale conobbe un lungo periodo di instabilità contrassegnata dalla gestione commissariale affidata, dal giugno del ’26 all’aprile del ’29, ad un altro notabile liberale come Antonio Garioni(300), abbiamo la netta percezione di trovarci di fronte ad una crisi profonda del fascismo locale, la cui natura può essere solo in parte collegabile al processo di costruzione del regime fascista iniziato nel ’26(301) e alla conseguente metamorfosi del P.N.F. che mutò profondamente i rapporti tra Stato e partito(302), sancendo l’avvio dell’inquadramento giuridico del secondo nel primo, portato a compimento tra il ’26 e il ’32(303). In effetti, vista dalla periferia questa crisi può essere interpretata come il risultato di una lotta per il controllo del potere locale alla quale furono estranee le divisioni ideologiche — pure esistenti — tra i diversi gruppi(304). Il fascismo veneziano scontava la difficoltà di conciliare due differenti obiettivi: conquistarsi l’appoggio dei vecchi gruppi notabilari e garantire l’ascesa di uomini nuovi. Il Comune fu il terreno dove la dialettica tra vecchio e nuovo fu più forte e produsse gli esiti più dirompenti, mettendo in luce i ritardi del partito nel dotarsi di una classe dirigente all’altezza dei compiti che il governo di Venezia richiedeva(305).
La biografia del primo podestà confermò la necessità del fascismo di appoggiarsi ad uomini appartenenti alle vecchie élites. Di nobile famiglia, nazionalista della prima ora, ben introdotto negli ambienti culturali cittadini, più volte consigliere comunale, assessore nella giunta Giordano, Pietro Orsi(306) oltre alla fama di valente studioso poteva vantare una breve esperienza parlamentare maturata nel 1912, quando a sorpresa aveva vinto il confronto con Elia Musatti nelle elezioni suppletive resesi necessarie per le dimissioni del leader socialista. Rimasto in carica fino al marzo del ’13, nel successivo scontro elettorale l’esponente nazionalista fu sconfitto da Musatti che così poté ritornare alla Camera per il collegio di Venezia I. Orsi fu nominato podestà con decreto regio l’8 maggio 1928, a 65 anni(307), in applicazione alle disposizioni previste dalla legge nr. 237 del 4 febbraio 1926 che aveva modificato l’assetto degli enti locali(308). Il nuovo podestà fu affiancato da due vice e da una consulta municipale, che sostituiva il consiglio comunale elettivo, nominata in parte dal prefetto e in parte dalle categorie economiche, dai sindacati e dalle associazioni locali. Sia la nomina dei vice, sia quella della consulta possono perciò essere prese come indicatori degli equilibri interni al fascismo veneziano e come primo passaggio per verificare il processo di selezione della classe dirigente fascista. La scelta dei vice confermò la situazione interna al partito: Ippolito Radaelli era un marsichiano, uomo della vecchia guardia avvicinatosi in seguito a Giuriati. Carlo Brandolini d’Adda era un ‘emergente’, vicino a Volpi, di estrazione liberale, che nel 1922 aveva aderito al Partito Liberale Italiano: di una nobile casata, si era messo in luce nel mondo dell’associazionismo sportivo come presidente della sezione veneziana della Federazione ginnastica nazionale e della potente Società ginnastica «Costantino Reyer».
Circa invece la composizione della prima consulta occorre fare alcune precisazioni. In generale si può affermare che essa ebbe una funzione assai modesta nell’ordinamento comunale e provinciale fascista(309) e che i criteri relativi alla sua formazione subirono molte modificazioni rispetto all’impianto originario della legge del 1926. Con questa norma, il regime da una parte tentò di garantire un’ampia rappresentanza alle realtà sociali ed economiche presenti sul territorio ma al contempo, attraverso il sistema della nomina dall’alto (nel caso veneziano, ossia di un comune con oltre 100.000 abitanti, la nomina dei consultori passava dal prefetto al Ministero dell’Interno), accentuava il controllo sui conflitti locali e tentava di rompere la paralisi amministrativa causata dalle lotte tra le fazioni e dalle clientele locali(310). Va infine ricordato che l’attuazione di queste norme fu graduale, che l’assestamento definitivo fu trovato solo con l’entrata in vigore del testo unico della legge comunale e provinciale del 1934(311) e che per tutta la fase transitoria il prefetto mantenne un ruolo determinante. La mano di questo funzionario del regime, che rappresentava la massima autorità dello Stato nella provincia e al quale il segretario federale doveva rispetto ed obbedienza(312), fu evidente nella scelta dei primi 32 consultori veneziani(313), divisi in due categorie: «datori di lavoro» e «prestatori d’opera». Tra i primi troviamo dirigenti di partito come Giuriati, nominato per il settore delle attività industriali assieme ad altri tre consultori, quattro rappresentanti del commercio guidati dal presidente della federazione fascista veneziana dei commercianti Emilio Colussi, tre rappresentanti dei trasporti marittimi, tra cui il potente Antonio Revedin, anch’egli parte dell’entourage di Volpi(314). La scelta del secondo gruppo denotava invece un massiccio ricorso ad esponenti di spicco delle professioni liberali, alcuni già vicini al regime, altri avvicinatisi di recente. Fu il caso, tra gli altri, di Alberto Musatti e Alessandro Brass, entrambi in rappresentanza del Sindacato avvocati e procuratori, di Davide Giordano e Giulio Allegrini, per quello dei medici, di Vittorio Umberto Fantucci, personaggio chiave nelle vicende amministrative degli anni Trenta, di Giuseppe Toffano, esponente del partito, per il sindacato giornalisti, e di Gino Damerini per quello degli autori, scrittori e musicisti(315).
Anche il funzionamento della consulta richiederebbe qualche approfondimento. Da una recente ricerca risulta che nel periodo dal giugno 1928 (podesteria Orsi) al luglio 1938 (fine della seconda podesteria Alverà), la consulta si riunì 53 volte, con una media che si avvicinò alla metà di quella richiesta dal governo centrale(316). Un’ulteriore analisi permette di evidenziare un altro elemento interessante: la bassa frequenza delle sedute non si doveva a limiti organizzativi, ma risentiva in maniera diretta del grado di litigiosità e conflittualità interna al P.N.F. locale. In pratica quando lo scontro raggiunse i livelli più alti le sedute della consulta si ridussero drasticamente, oppure, come capitò nel ’29, furono del tutto soppresse. La presenza dei consultori alle sedute fu piuttosto bassa, con la sola eccezione delle sedute inaugurali: prevaleva l’atteggiamento, confermato anche dal dibattito interno alla consulta, di chi era conscio che molte delle decisioni più importanti erano state già prese altrove. Spesso, invece, i consultori non erano messi nelle condizioni di poter svolgere il loro compito in modo adeguato. I materiali relativi agli argomenti all’ordine del giorno arrivavano tardi o non venivano consegnati provocando le proteste dei diretti interessati(317).
Se questa era la nuova cornice istituzionale entro la quale si muovevano i nuovi amministratori, quali erano le reali condizioni del Comune al momento della nomina di Orsi? Con l’amministrazione Giordano il grave deficit di bilancio era molto migliorato grazie all’aumento della pressione tributaria e alla riduzione delle spese. Nel corso del ’26, ancor prima dell’avvio della podesteria, i conti comunali ricominciarono a peggiorare. Ciò era in gran parte dovuto alle forti somme che il Comune stava investendo per realizzare Porto Marghera. Nel corso del ’27 la situazione del bilancio comunale non mutò. L’aggravamento dei conti provocò le critiche delle autorità centrali e l’avvio di un braccio di ferro con quelle locali. Una lettera di chiarimenti inviata dal Ministero dell’Interno nell’agosto del ’27 al prefetto Igino Coffari puntò il dito su alcuni precisi indicatori di bilancio il cui andamento era ritenuto sintomo di cattiva gestione: l’eccessivo ricorso al credito, mediante appositi istituti bancari e anticipazioni del tesoriere, e l’uso di risorse sottratte al controllo, attraverso gestioni speciali. Nella sua risposta l’amministrazione comunale si difese affermando che la difficile situazione di cassa dipendeva solo dal ritardo dei finanziamenti delle spese per le opere iscritte al bilancio, il che aveva reso necessario la richiesta di mutui per evitare la sospensione dei lavori(318). In particolare il podestà fece riferimento alle spese per il quartiere urbano di Marghera e per la zona industriale, riconoscendo la lievitazione delle spese per queste opere, che erano passate dai previsti 5,5 milioni di lire a 42 milioni.
L’analisi delle politiche municipali in questa fase evidenzia dunque l’inadeguatezza della macchina amministrativa nella gestione di grandi interventi per le opere pubbliche. Questa difficoltà generò un meccanismo amministrativo caratterizzato dall’indebitamento e dalla difficoltà di spesa che alla lunga si cronicizzò, dando vita a un circolo vizioso con pesanti conseguenze per l’amministrazione stessa. L’affannosa ricerca di finanziamenti poneva, poi, il Comune in una posizione di debolezza sia nei confronti degli istituti di credito, sia dei privati e soprattutto rafforzava il ruolo dei grandi mediatori come Volpi che potevano condizionare le varie trattative. Ma al di là di questi problemi strutturali, rimanevano quelli prettamente politici che si intrecciavano con il confronto, interno al P.N.F., tra i due gruppi in lotta per il controllo del partito. Uno dei nodi più delicati fu quello del ponte translagunare, che da anni infiammava il dibattito cittadino. Tra i più strenui oppositori al progetto che il gruppo Volpi da tempo riteneva indispensabile per valorizzare al massimo le potenzialità del polo industriale di Marghera, vi era il senatore Pompeo Molmenti, difensore della venezianità e dello «splendido isolamento» della città dalla terraferma(319). Questi il 16 marzo del ’26 aveva rivolto a Mussolini un’interrogazione sul tema. Il duce affidò a Giuriati, di cui conosceva le posizioni in materia, contrarie alla realizzazione del ponte, la risposta, ma volle essere presente in aula dimostrando durante il dibattito di appoggiare le posizioni del suo ministro ai Lavori pubblici. Molmenti continuò anche negli ultimi anni della sua vita la battaglia contro il progetto. La sua morte, giunta nel gennaio del ’28, fu vista come il via libera alla realizzazione dell’opera, prova ne sia la famosa battuta pronunciata da Volpi subito dopo aver accompagnato al cimitero la salma del senatore: «Adesso il ponte lo faremo»(320). In effetti così fu: la discussione attorno al progetto conobbe in quegli anni una forte accelerazione. Stando alla ricostruzione che più tardi ne fece lo stesso Giuriati(321), la presa di posizione di Mussolini scatenò le reazioni dei «pontisti» che iniziarono un pesante pressing sul capo del governo, a base di suppliche, memoriali, pareri di esperti. La consulta se ne occupò nella seduta del 26 luglio 1928. In quell’occasione Giuriati e Damerini sostennero la tesi di valorizzare Mestre, potenziandone la vocazione a divenire il «vero mercato della gente veneta». La crescita di Mestre, privata nel 1926 dell’autonomia amministrativa(322), veniva presentata come l’alternativa alla realizzazione del ponte automobilistico translagunare, che invece Orsi proprio in quella seduta presentò come scelta che godeva già del parere favorevole di Mussolini. Cosa era dunque successo?
Il duce era riuscito a mantenersi a lungo equidistante dai due schieramenti, ma nell’estate del ’28 — forse percependo uno spostamento dell’opinione pubblica a favore delle tesi di Volpi — aveva deciso di investire della questione direttamente il partito veneziano e aveva ordinato al federale Casellati di indire una riunione dei massimi vertici politici e istituzionali cittadini. Il 7 ottobre del ’28 era iniziato un lungo confronto del direttorio del P.N.F., alla presenza del prefetto, del podestà e dei vicepodestà(323), che fu verbalizzato da due stenografi mandati dallo stesso Mussolini, e «riprodotto in un fascicolo alto un dito». Giuriati scrive di essersi trovato in netta minoranza «in quella fossa di leoni pontisti» e circa l’esito della riunione afferma: «Non so che impressione abbia riportato Mussolini: anzi egli non mi disse neppure di averlo letto [il resoconto stenografato]. Certo è però che, fino a quando io conservai la carica di ministro dei Lavori pubblici, il progetto del ponte non fece alcun progresso»(324). Ormai la partita era persa e Mussolini si preparava a sostituire Giuriati alla guida del Ministero ‘promovendolo’ alla presidenza della Camera. L’annuncio fu dato da Mussolini il 22 aprile del ’29 durante i lavori del Consiglio dei ministri: pochi giorni dopo Giuriati assumeva l’alta carica istituzionale. Che la manovra fosse stata concertata con cura è confermato dal fatto che già poche settimane più tardi il governo era pronto a firmare la convenzione per la realizzazione della grande opera i cui lavori — su progetto iniziale di Vittorio Umberto Fantuzzi, fatto proprio dagli uffici comunali — iniziarono nel 1931 e si conclusero con l’inaugurazione in grande stile avvenuta il 25 aprile 1933.
Giuriati non esitò a manifestare le sue critiche e tentò disperatamente di convincere Mussolini a bloccare il progetto. Nella lettera che il 26 maggio 1929 inviò al duce, egli descrisse una Venezia invasa dalle auto, ferita nella sua «singolare bellezza» e destinata a dare per sempre addio alle sue tradizioni marinare. Giuriati individuava le cause della decadenza della città in due precisi provvedimenti presi dal governo fascista: la riduzione delle attività dell’Arsenale e la soppressione del Comando di dipartimento. Rivolgendosi a Mussolini egli scrisse: «Sì, Venezia muore. Muore perché sempre più la si separa dalla sua grande sorgente di vita e ricchezza, dal mare. In contrasto con le tue direttive volte a suscitare in tutto il paese una nuova e più forte coscienza marinara, i provvedimenti del Regime a Venezia sembrano ispirati al criterio di sopprimere nei veneziani ogni senso superstite d’intraprendenza navale»(325). Naturalmente Mussolini respinse le accuse contestando le cifre relative ai flussi di traffico veicolare e difendendo le scelte del regime che, se avevano penalizzato l’Arsenale, avevano però dato il via allo sviluppo dell’aeroporto(326). In effetti lo scontro che da anni si stava combattendo dentro il fascismo veneziano riguardava le grandi scelte relative allo sviluppo urbanistico della città e delle zone limitrofe, interessate da un notevole incremento demografico, e allo sviluppo dell’area industriale(327). Giuriati non era in grado di interpretare questo passaggio e concentrava tutte le sue lamentazioni sulla necessità di rinverdire le tradizioni marinare di Venezia, compito che egli intendeva affidare a una nuova classe dirigente fascista attraverso un ampio programma di educazione alla cultura marinara che in più occasioni illustrò sulla stampa di partito(328).
In realtà, per capire l’esito finale di questa lunga vicenda politica e amministrativa bisogna ritornare alle vicende interne del P.N.F. Quale era lo stato di salute del partito? L’Annuario della federazione provinciale per il 1928 rappresenta una fonte interessante per capire la crescita e l’organizzazione della struttura interna. L’Annuario riporta la relazione pronunciata dal segretario Casellati il 29 gennaio del ’28 alla presenza di Augusto Turati, nella quale il federale aveva affermato che «dopo un tormentoso periodo ormai lontano di interne lotte», il fascismo veneziano aveva ritrovato un assestamento interno. Il lungo conflitto aveva pesantemente inciso sulla crescita del partito: Casellati annunciava in quell’occasione che gli iscritti erano 4.240, ma basta ricordare che nel ’22 erano 5.160 per capire quanto avevano inciso le divisioni esplose dopo la Marcia su Roma. Circa il radicamento nel tessuto politico e sociale cittadino, la relazione contiene alcuni spunti molto interessanti. Casellati precisò che nel suo mandato si era impegnato a fondo affinché tutti i militanti fascisti trovassero un’occupazione; se questo obiettivo non fu raggiunto ciò dipese dal fatto che «non tutti coloro che presiedono a Enti Pubblici [...] sent[ono] il dovere di venire in aiuto agli organi del partito»(329).
Circa invece la struttura organizzativa, nella relazione si parla di 14 circoli di sestiere e si specifica che il Fascio «è composto in grandissima maggioranza di autentici lavoratori, forniti di scarsa capacità economica». Ma l’aspetto più importante che la relazione mette in luce è la scelta strategica di puntare all’occupazione delle organizzazioni assistenziali cittadine: «In questi giorni [si legge nel testo] in seguito ad intese con la Congregazione di Carità, si è stabilito che tutta la beneficenza cittadina passi attraverso i circoli fascisti» per «fondere sempre più il partito con la cittadinanza». L’occupazione delle strutture assistenziali era in effetti iniziata già prima della Marcia su Roma. Un rapido controllo sulla Guida Commerciale pubblicata nel ’22, unica fonte usabile per la ricostruzione della geografia del potere cittadino(330), può confermarlo. Limitandoci agli istituti più importanti possiamo segnalare la presenza di uomini provenienti dalle file del fascismo: Pietro Spandri presiedeva la potentissima congregazione di carità, nel cui consiglio di amministrazione sedevano Giuriati, Radaelli e Magrini. Gli stessi nomi controllavano molte altre istituzioni. Spandri presiedeva anche il Ricovero di mendicità, Giuriati l’orfanotrofio maschile, Radaelli quello femminile, Magrini la Casa di ricovero. Maria Pezzè Pascolato(331) era l’ispettrice generale degli Asili infantili di carità. Un liberale di formazione, avvicinatosi subito al fascismo, come Giovanni Chiggiato, presiedeva l’Ospedale Civile. In genere le altre istituzioni minori erano presiedute o da esponenti cattolici (tra quelli che comparivano più frequentemente vi era l’avvocato Agostino Vian) o da nobili, risultato di una consuetudine consolidatasi negli anni postunitari. Cinque anni più tardi questo quadro presentava significative modificazioni, a conferma dell’importanza strategica che questo settore rivestiva per il partito(332). Alla presidenza della congregazione di carità ritroviamo Pietro Spandri, che assunse anche quella dell’Ospedale Civile, confermandosi uno dei nuovi notabili del fascismo veneziano(333). Persero posizioni sia Giuriati (in quegli anni impegnato nell’incarico ministeriale) che Radaelli, mentre Magrini mantenne il suo posto nel consiglio di amministrazione della congregazione, così come la Pezzè Pascolato quello di ispettrice generale degli asili per l’infanzia. L’organigramma dei vari enti presentava i nomi di nuovi personaggi tra i quali, per la rilevanza delle cariche occupate, segnaliamo Augusto Porto Coen (nei consigli della congregazione di carità, dell’orfanotrofio maschile, dell’Ospedale Civile) e Fabio Vitali, che assunse la presidenza del Comitato generale di beneficenza, organismo municipale che raggruppava vari enti di beneficenza e assistenza.
Come si è in precedenza evidenziato per il rapporto Comune-P.N.F., altrettanto stretto risultò quello tra partito e organizzazioni assistenziali. Tenendo conto delle dinamiche interne al P.N.F. veneziano, non deve quindi stupirci di ritrovare nel 1929 Giuriati alla guida dei due più importanti enti, la congregazione e l’Ospedale Civile(334). Il discorso meriterebbe di essere approfondito, tuttavia in attesa di poter disporre di studi settoriali, ci sembra possibile avanzare alcune ipotesi interpretative. Prima però occorre allargare lo sguardo alle istituzioni culturali(335). Qui infatti, relativamente allo stesso periodo, si possono avanzare altre considerazioni importanti. La presenza delle vecchie élites liberali si mantiene molto elevata e duratura. Prendiamo ad esempio l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, una delle istituzioni culturali più prestigiose della città(336). Dal ’19 alla fine del ’21 l’Istituto è presieduto dal giurista Enrico Catellani, senatore, cancellato come socio nel 1938 in seguito all’entrata in vigore delle leggi razziali(337). Alla vicepresidenza troviamo il docente universitario Pietro Spica, come segretario Giovanni Tamassia e come vicesegretario Giovanni Bordiga. Da questo nucleo, composto di personaggi appartenenti al notabilato liberale, uscirono alcuni dei presidenti negli anni a seguire. Spica sostituì Catellani e guidò l’Istituto dal dicembre del ’21 al dicembre del ’23. È vero che con il successore, il filologo Vincenzo Crescini, un liberale irredentista, nazionalista e poi convinto sostenitore del fascismo che guidò l’Istituto fino al febbraio del ’26(338), si ebbe un più netto allineamento al regime, ma è pur vero che dopo la presidenza di Achille Breda (febbraio ’26-febbraio ’28) l’Istituto fu guidato per un altro biennio dal giurista e senatore Giovanni Tamassia(339). Se passiamo ad un’altra storica istituzione culturale come l’Ateneo Veneto, il quadro presenta alcune analogie. Alla presidenza troviamo per il periodo 1921-1925 Giuseppe Jona, «il medico dei poveri», primario dell’ospedale civile e presidente della comunità israelitica. Nel ’25 gli succederà per un quadriennio il chirurgo Davide Giordano, uno dei nomi più usati dal regime nelle istituzioni culturali cittadine. Egli infatti presiedette dal ’30 al ’32 l’Istituto Veneto, sedendo anche nei consigli direttivi di altre istituzioni. L’alter ego di Giordano fu Giovanni Bordiga(340). Uomo di formazione liberale, che aveva aderito al fascismo solo nel 1925(341), egli fu il vero man- ager della cultura cittadina nel decennio compreso tra il ’22 e la sua morte nel 1933(342). Fu segretario dell’Istituto Veneto dal ’21 fino al ’33, per molti anni membro del consiglio direttivo e nel ’29 presidente della Fondazione Querini Stampalia, ma furono soprattutto le presidenze della Biennale (nelle edizioni del ’20, ’22, ’24 e ’26, quando fu affiancato dal commissario prefettizio Bruno Fornaciari) e la direzione della Scuola di Architettura — che aveva fortemente contribuito a fondare — dal ’26 al ’29 a fare di lui l’uomo di punta del fascismo in ambito culturale negli anni che precedettero la stabilizzazione del regime.
Insomma, il quadro tratteggiato ci induce ad avanzare le seguenti ipotesi interpretative: in primo luogo appare chiaro che da una parte il fascismo annunciava a gran voce il superamento dei legami di potere tradizionali, ma dall’altro era costretto ad appoggiarsi agli uomini del notabilato liberale. In secondo luogo il regime procedette all’occupazione sistematica di un settore come quello dell’assistenza modificando così, ma non eliminando, la diffusione delle pratiche clientelari che avevano caratterizzato il sistema liberale(343). Il trasformismo delle vecchie élites e il clientelismo divennero, dunque, due strumenti decisivi per nascondere la debolezza della classe dirigente fascista e per consolidare il potere e l’inamovibilità di un ristretto ceto politico salito al potere tra il 1923 e il 1925(344). Il ‘plebiscito’ del 24 marzo 1929 (decimo anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento) confermò la divisione interna tra i due gruppi e il loro monopolio nella scelta dei candidati. Il 97% dei votanti si espresse favorevolmente, mentre il 3% dei contrari costituì una percentuale tra le più alte registrate in Italia(345). Nella lista unica dei 400 candidati selezionati dal Gran consiglio del fascismo sulla base delle circa 1.000 segnalazioni avanzate dalle confederazioni, da enti e associazioni(346), trovarono posto i deputati uscenti Talete Barbieri, Giovanni Giuriati e Igino Magrini. Accanto a loro furono inseriti Vittorio Umberto Fantucci, vicino a Volpi, consultore, segretario del sindacato fascista degli ingegneri di Venezia, e Domenico Giuriati, figlio di Giovanni.
Negli anni di cui stiamo parlando, un altro terreno sul quale lo scontro tra volpiani e giuriatiani fu particolarmente acuto fu quello che aveva come obiettivo la conquista de «Il Gazzettino». Con la segreteria Casellati il giornale aveva cessato di godere della personale protezione di Suppiej e, tra il dicembre ’25 e il febbraio ’26, aveva subito i primi sequestri, ripetuti più volte nel corso di quell’anno. Come dimostrano alcuni documenti processuali, il federale e il prefetto Igino Coffari avevano avviato una precisa strategia mirante a inasprire i controlli e a insediare un vicedirettore «di nota marca fascista» a fianco di Talamini(347). I controlli e le intimidazioni continuarono culminando il 31 ottobre del ’26 con l’occupazione della tipografia del quotidiano da parte di una squadra fascista, alla quale fece seguito la decisione del prefetto di sospenderne le pubblicazioni(348). A quel punto il cerchio attorno a Talamini si strinse sempre di più. Il direttore fu convocato dal prefetto Coffari e obbligato ad accettare l’assunzione di Giuseppe Toffano, vicesegretario del P.N.F. veneziano(349), in qualità di condirettore. Il 18 novembre ripresero le pubblicazioni con una linea molto più favorevole alle attività del gruppo Volpi. Per quasi due anni questo equilibrio resse, ma mentre la nuova situazione era ben tollerata dal vecchio Talamini, diversa era la posizione del figlio Ennio, che mal sopportava la presenza di Toffano. Egli tentò dunque di rompere l’accerchiamento, cercando un accordo con Giuriati. Questa iniziativa non fece in tempo a trovare gli appoggi necessari sia in seno alla segreteria nazionale del P.N.F. sia nel governo. Il gruppo avversario (Volpi-Casellati-Toffano) intuì la pericolosità di questa alleanza e alla metà del 1928 passò decisamente al contrattacco, puntando all’acquisizione della proprietà del giornale. La manovra fu diretta dallo stesso segretario del partito Turati che convocò a Roma l’ottantenne Gianpietro Talamini assieme a Casellati, Toffano e al prefetto Coffari riuscendo a fargli firmare un contratto per la cessione delle quote di maggioranza del giornale. Come sappiamo l’operazione fu bloccata in extremis dall’intervento di Ennio Talamini e di Giuriati che si rivolsero direttamente a Mussolini(350). Il fallimento del tentativo costò il posto a Vilfredo Casellati, sostituito da Giorgio Suppiej che il 21 dicembre 1928 — lo stesso giorno in cui moriva Piero Marsich — ritornò alla guida della federazione veneziana rimanendoci fino al maggio 1934.
Questo cambiamento ai vertici del P.N.F. veneziano fu di fondamentale importanza. Il ritorno di Suppiej segnò una svolta nella battaglia interna che da anni si stava combattendo. Il nuovo segretario cominciò da subito ad assumere una posizione più autonoma da Giuriati al quale era stato sempre legato. Tra le sue prime iniziative vi fu quella di avviare le pubblicazioni del «Bollettino della Federazione Provinciale Fascista», mensile da lui ideato e diretto(351). Inizialmente il «Bollettino» funse da cassa di risonanza per le attività delle organizzazioni collaterali al partito: dai Fasci femminili coordinati da Maria Pezzè Pascolato, all’Opera Nazionale Dopolavoro, diretta da Silvio Versino, all’Opera Nazionale Balilla, guidata da Filippo Brogliato, all’Ente sportivo fascista guidato da Alessandro Brass, al Gruppo assistenti universitari fascisti di Carlo Alberto Dall’Agnola, oltre a tutte le federazioni sindacali dei «datori di lavoro e prestatori d’opera». Tra i più assidui collaboratori del settore sindacale vi furono Giovanni Bissi per i Sindacati fascisti dell’industria, Giuriati sr. per la Federazione trasporti terrestri, Fantucci per il Sindacato ingegneri. L’idea di Suppiej era stata di dare il maggior spazio possibile al dibattito interno, per creare in questo modo «il terreno squisitamente fascista per una feconda elaborazione di idee e propositi e per la preparazione pratica dei giovani dirigenti»(352).
Il segretario federale fu uno dei pochi dirigenti del P.N.F. veneziano a porsi in termini chiari il problema della formazione di una nuova classe dirigente e fece del «Bollettino» la palestra per la «preparazione culturale e pratica di elementi giovani capaci di diventare elementi direttivi della cosa pubblica Veneziana»(353). Qualche giovane cominciò in effetti e mettersi in luce. Fu il caso, ad esempio, di Gaetano (Nino) Scorzon, redattore a partire dal ’28 de «Il Gazzettino», protagonista di una carriera per molti versi esemplare, tutta spesa tra partito e stampa. Sottotenente di fanteria, squadrista antemarcia, iscritto al P.N.F. dal ’21, Scorzon dopo l’esperienza al «Gazzettino» divenne capo ufficio stampa della federazione veneziana e poi della mostra internazionale d’arte cinematografica, nonché corrispondente de «Il Popolo d’Italia»: nel ’29 fu delegato da Suppiej a tenere i rapporti tra federazione e «Gazzettino»(354). I legami tra il quotidiano e il bollettino della federazione erano molto stretti: il foglio della federazione si stampava nella stessa tipografia del giornale, inoltre molti giornalisti e collaboratori scrivevano su entrambe le testate. Non bisogna infine dimenticare i già richiamati rapporti di parentela tra Suppiej e la famiglia Talamini; anzi è probabile che essi fossero all’origine del progressivo distacco tra il federale e Giuriati che si ebbe dopo il ’29. Nella primavera di quell’anno si verificò l’ennesimo tentativo di metter le mani sulla proprietà de «Il Gazzettino». Stavolta il protagonista fu proprio Giuriati che sfruttò la collaborazione di Giuseppe Giffi, responsabile della redazione romana. Il tentativo fallì, provocando anche in questa occasione l’intervento di Mussolini che congelò la situazione, facendo capire che così sarebbe rimasta fintantoché Gianpietro Talamini avesse mantenuto la guida del giornale(355).
Ma i contrasti tra Giuriati e Suppiej riguardavano soprattutto il futuro di Venezia. Non è un caso che nell’aprile del ’29 Giuriati pubblichi su «Le Tre Venezie» una lunga lettera aperta a Suppiej, nella quale ritorna sul tema della valorizzazione della cultura marinara, denunciando le trasformazioni che avevano modificato l’identità della città e il carattere dei suoi abitanti: «Invece di dominare i venti e di sfidare gli uragani [scrisse Giuriati] i Veneziani preferiscono dedicarsi oggi a una pleiade di professioni parassitarie e servili». Per Giuriati Venezia era giunta ad un bivio: «O interrarsi, o navigare. O una generazione di calciatori e di atleti dei garetti, o una generazione, dura e intraprendente, di navigatori». Egli sognava una città «non più prona al forestiero panciuto e sprezzante, non impolverita dalle automobili, non straziata dai rumori delle strade moderne, ma innamorata dell’elemento da cui le provenne, nei secoli, la ricchezza e la gloria, ma tesa verso nuove fortune che dovranno essere conquistate con la perseveranza e con l’ardimento. Questo dovrà dare a Venezia il Fascismo, restauratore del passato migliore»(356). Suppiej invece dava molto spazio nel bollettino della federazione all’illustrazione dei grandi progetti che il fascismo stava allestendo con l’obiettivo di «celebrare fascisticamente» il decennale della Marcia su Roma e di risollevare le sorti della «troppo languida Regina»(357). Grande spazio venne dunque dato ai progetti di Fantucci(358) per il ponte di cui fu seguito tutto l’iter fino alla realizzazione. Nell’illustrarne la storia e nello spiegarne l’importanza per lo sviluppo della città, egli non tralasciò di far preciso riferimento alle divisioni interne al fascismo veneziano, superate solo dopo la «storica seduta del direttorio» del 19 ottobre 1929. Secondo Fantucci quelle divergenze erano solo apparenti, poiché da tutti «era sentita l’urgenza di uscire da una situazione di progressivo danno per la nostra città»(359). Dalla ricostruzione proposta sulle pagine del bollettino, si percepisce l’intento di accreditare al partito un ruolo di mediatore nelle controversie riguardanti le grandi scelte per il futuro della città. Scrive a tal proposito Fantucci, riferendosi al progetto del ponte: «Fu compito preminente della Federazione Provinciale Fascista di coordinare i programmi e di far convergere tutte le forze sopra un programma di immediata pratica e realizzazione non abbandonando il programma massimo che fu elaborato e che potrà essere ripreso in un secondo tempo»(360).
Nella fase di massima litigiosità del fascismo veneziano, Suppiej cercò di pilotare il P.N.F. verso una posizione intermedia. La scelta fu azzeccata, perché consentì di sbloccare la situazione che si era creata in Comune con le dimissioni di Orsi formalizzate il 13 giugno 1929. Orsi non aveva retto alla lunga guerra scoppiata nel partito durante il biennio ’28-’29 e ai contrasti interni all’amministrazione, gettando la spugna. Al congedo dall’incarico tracciò un bilancio del suo operato rivendicando innanzitutto alcuni successi: la lotta contro il caro prezzi, la riorganizzazione degli uffici comunali, la creazione di un ufficio per la consulenza artistica al quale affidò la realizzazione della grande mostra sul Settecento italiano, il potenziamento della Biennale, gli interventi di qualificazione al Lido, il nuovo quartiere a S. Elena, l’annessione a Venezia di alcuni comuni limitrofi, il miglioramento della viabilità(361). La relazione conteneva anche riferimenti alla non rosea situazione finanziaria e soprattutto due elementi che rivelavano la natura dei contrasti che con tutta probabilità lo avevano portato alle dimissioni. Il primo passaggio riguardava la legge speciale. Scrisse il podestà: «Io credo che il modo migliore di risolvere i problemi di Venezia non sia quello di raccoglierli in un solo disegno di legge domandando centinaia di milioni, ma (pur avendo in mente la soluzione integrale di tutti i problemi) cercare per ciascuno di essi qualche legge, di cui si possa domandare l’applicazione utile a nostro vantaggio»(362). Il secondo toccava la questione del Casinò, verso il quale l’opposizione di Orsi fu altrettanto chiara: «Fu l’amore di Venezia che mi spinse a promuovere non solo tutte le attività industriali e commerciali ed agricole del nostro Comune, ma anche quelle culturali, artistiche onde sempre maggior luce di fama s’irradii per essa nel mondo: ed è stato questo stesso amore per le purissime glorie della nostra città che mi ha fatto respingere ogni tentativo di trasformare la Venezia d’oggi in quella decadente città del settecento, che allettava il movimento dei forestieri favorendo le meno nobili passioni del giuoco e della corruzione»(363). Come vedremo, entrambe queste due questioni saranno al centro dell’attività amministrativa negli anni a seguire; l’uscita di scena del non più giovane storico ebbe in sostanza motivazioni squisitamente politiche. Non vi è dubbio che il rapporto Comune-P.N.F. fosse di nuovo entrato in crisi. La scelta del successore ne fu un’ulteriore conferma.
Le dimissioni di Orsi portarono a Ca’ Farsetti come commissario Ettore Zorzi. Nobile, nato nel 1885 ad Adria, dove morì nel 1958, apparteneva al ramo degli Zorzi che si era separato dal ceppo veneziano nel 1790. Magistrato di professione, non disponeva di un profilo pubblico particolarmente appariscente; si dilettava nella scrittura di poesie e racconti(364), ma non aveva fino a quel momento ricoperto incarichi né amministrativi né politici di rilievo. Dal momento che lo spazio deputato alla mediazione tra i gruppi di potere in lotta si era spostato all’interno del partito, tanto valeva puntare su una figura di secondo piano che non intralciasse la ricerca di un accordo tra le parti. Zorzi fu insomma il classico traghettatore. Rimase in carica come commissario dal 14 giugno al 23 ottobre del ’29. Il 24 ottobre fu nominato podestà e mantenne l’incarico fino al 15 luglio 1930. Al momento della sua nomina a commissario tentò con forza di difendere la consulta municipale che invece il prefetto aveva sciolto. Senza il supporto della consulta, Zorzi ripiegò su una gestione dei rapporti di tipico stampo notabilare. In vista delle decisioni più delicate come quelle relative al bilancio, si fece promotore di riunioni alle quali invitava tutte le più importanti autorità (prefetto, deputati, senatori, oltre alle più alte cariche del P.N.F.). Questo era naturalmente ben visto da quanti, come Volpi, vedevano nella consulta un possibile ostacolo alla definitiva soluzione della questione del ponte translagunare. E fu proprio in uno di questi meetings — quello del 19 ottobre 1929 — che fu siglato l’accordo finale che concluse il lungo braccio di ferro nel fascismo veneziano e diede il via libera all’iter amministrativo del progetto. Non a caso pochi giorni dopo si concludeva la gestione commissariale del Comune e Zorzi diveniva il secondo podestà di Venezia. La firma apposta in calce alla convenzione stipulata tra il Comune e lo Stato per la realizzazione del nuovo ponte fu l’unico risultato lasciato in eredità da Ettore Zorzi al suo successore quando si dimise(365).
Siglato questo accordo, la ricerca di un nuovo equilibrio amministrativo fu molto più semplice ed esso fu raggiunto puntando sulla figura di Mario Alverà. Il curriculum del nobile veneziano dava ampie garanzie sia al potere politico locale sia a quello centrale. Nato a Venezia nel 1882, facoltoso commerciante, socio della famiglia Ratti nella conduzione di un grande emporio di ferramenta, Alverà era stato eletto alle amministrative del 1914 nella lista clerico-moderata capeggiata da Grimani. Conclusa questa esperienza non era ritornato in consiglio comunale, ma aveva sviluppato i suoi molteplici interessi economici e consolidato la sua posizione nelle istituzioni economiche cittadine. Egli era stato tra i primi investitori nelle società create da Volpi a Porto Marghera(366), a partire dal 1922 aveva assunto importanti cariche nella Camera di commercio e nel ’28 era divenuto componente del consiglio provinciale dell’economia in qualità di presidente della sezione commerciale(367). Sempre nel ’28 ricopriva la carica di sindaco nella federazione provinciale del P.N.F.(368), vantava buoni rapporti con il mondo cattolico ed era ben inserito negli ambienti di corte(369).
Il profilo del nuovo podestà risultava corrispondere perfettamente al compito che doveva affrontare: buon conoscitore della città, molto legato al mondo liberale e alla borghesia cittadina(370), dotato di esperienza amministrativa, impegnato negli apparati di partito. Con lui il fascismo veneziano trovò dunque l’uomo che garantì la stabilizzazione interna e la realizzazione di quegli interventi che assicurarono il definitivo rafforzamento del blocco di potere volpiano e il successo del suo progetto «corporatista», volto cioè ad imporre una gerarchia istituzionale scelta, come era nel caso veneziano, dagli organismi titolari di una rappresentanza sociale ed economica particolarmente forte(371).
Il processo non fu tuttavia immediato. Alverà era ben consapevole della situazione cui si trovava di fronte. Nel suo primo atto pubblico dichiarò: «Al più presto dovrà iniziarsi, sotto il mio controllo, il grande lavoro dell’allargamento del ponte ferroviario [...], la mia fatica sarà meno aspra solo se saprò ottenere, con la collaborazione delle Forze fasciste e con l’approvazione delle Superiori Autorità, il consenso dei miei Concittadini»(372). Il podestà riprendeva alcune idee su cui Volpi aveva insistito nel corso della famosa riunione del 19 ottobre; in altre parole riteneva anch’egli fondamentale ricercare il più ampio consenso attorno al progetto del ponte e alle altre grandi opere da realizzare. Un primo segnale del cambiamento di rotta prodotto dall’accordo tra i due gruppi e dell’appoggio di cui il nuovo podestà godeva fu la nomina della seconda consulta avvenuta nell’agosto del 1930. Composta ancora di 32 persone, essa presentò caratteristiche diverse rispetto alla prima. Poche le riconferme dei membri uscenti, minore risultò la presenza di grandi personalità — nell’elenco spiccano solo Vittorio Cini e Gino Damerini — mentre per lo più i consultori erano figure di secondo piano provenienti dalle categorie economiche e dai sindacati fascisti(373). Un secondo segnale significativo venne dalla seduta inaugurale della consulta. I toni usati dal prefetto e dalle altre autorità cittadine l’11 ottobre 1930 furono tutti improntati alla ricerca della più ampia collaborazione. Il prefetto Giovanni Bianchetti, arrivato in città nel luglio del ’29 e destinato a rimanervi fino al settembre del ’33(374), invitò i consultori alla massima cooperazione, superando «i contrasti e le sterili contese», per affrontare un periodo nel quale le spese dovevano essere contenute e il bilancio si doveva assestare garantendo la realizzazione «dell’opera grandiosa [...] che [doveva] necessariamente far affluire nuove linfe vivificatrici alle sue [di Venezia] istinguibili attività». Il segretario federale Suppiej, che intervenne subito dopo, sintetizzò gli obiettivi principali della nuova amministrazione: il ponte, un piano per l’edilizia scolastica, nuovi alloggi per gli sfrattati, l’acquedotto, il macello, il potenziamento delle infrastrutture turistiche per il Lido. Alverà dal canto suo riprese questi spunti in un’ampia relazione dalla quale emergeva sia lo sforzo di un ripensamento complessivo della città, sia la consapevolezza delle grandi difficoltà da affrontare e l’inadeguatezza dei mezzi(375).
Possiamo in effetti dividere il lungo periodo della podesteria Alverà in due quadrienni distinti: il primo contrassegnato dal risanamento del bilancio comunale e il secondo dalla realizzazione dei progetti ai quali il fascismo intendeva affidare il grande rilancio della città. Nel mezzo possiamo collocare due precisi avvenimenti che interessano la vita politica e amministrativa: il cambio di guardia all’interno del P.N.F. risalente al maggio del ’34 con la nomina di Michele Pascolato alla guida del partito, e la nomina della terza consulta municipale il 30 gennaio 1935. Si tratta di due passaggi che a nostro giudizio suggellavano il dominio incontrastato di Volpi sulla politica cittadina. Appena preso possesso della più alta poltrona di Ca’ Farsetti, Alverà si rese subito conto della gravità della situazione del bilancio comunale, caratterizzato dalla carenza di entrate, dall’impossibiltà cioè di ricorrere ad un aumento dell’imposizione fiscale, già applicata ai massimi livelli consentiti, e dalla difficoltà di ricorrere ulteriormente al credito; la situazione debitoria non consentiva dunque spazi di manovra(376). Problematico si presentava l’intervento sul versante delle spese. Quelle correnti erano in netto aumento, così come quelle per l’edilizia scolastica e per l’erogazione dei servizi essenziali (strade, fognature, illuminazione, servizi pubblici), in seguito alla crescita della popolazione conseguente all’aggregazione di Mestre e di altri comuni minori. Sempre pesanti erano inoltre le spese per Porto Marghera. Tutto ciò portò il disavanzo a 15 milioni di lire. Il quadro era decisamente sconfortante, al punto che Alverà, nella relazione letta nella seduta di insediamento della consulta municipale, con molto realismo affermò che di fronte a questa situazione le possibilità di realizzare il programma di interventi annunciato erano ridotte al minimo. In pratica tutto il suo primo mandato fu dedicato al riordino delle finanze locali. Il raggiungimento di questo obiettivo fu molto arduo. Come si evince dalla lettura del bilancio preventivo del ’32, tale azione dovette fare i conti anche con alcune variabili macro;economiche e con alcune modificazioni intervenute nella legislazione sugli enti locali. Tra queste gli effetti della crisi economica del ’29 sull’economia e sull’occupazione(377), l’applicazione del testo unico sulla finanza locale(378) e l’inasprimento dei controlli attuati attraverso la commissione centrale per la finanza locale. Nella relazione Alverà faceva riferimento anche ad alcuni elementi strutturali che impedivano la crescita delle entrate, quali la configurazione territoriale del comune che non garantiva un proporzionato gettito della sovrimposta fondiaria e lo stesso sviluppo industriale nell’area di Marghera che non consentiva ancora un’adeguata entrata dai tributi di ricchezza mobile. Anche il ’32 si chiuse senza raggiungere il pareggio. Il mancato raggiungimento di questo obiettivo comportò, secondo il testo unico sulla finanza locale, il passaggio del bilancio comunale sotto la tutela della commissione centrale per la finanza locale. Nelle pieghe delle relazioni tecniche si cominciano ad intravedere valutazioni critiche sulle grandi scelte infrastrutturali degli anni precedenti. Ribadendo che la situazione non consentiva ulteriori inasprimenti fiscali, nella relazione preventiva del ’33 il podestà ammetteva il permanere di una difficile situazione di bilancio che di fatto impediva l’avvio di nuovi progetti, stato di cose destinato a durare fino a quando non ci fosse stata la possibilità «di conoscere e di poter valutare senza incertezza gli effetti e le ripercussioni che l’apertura del nuovo ponte sulla Laguna e la esecuzione di altre opere complementari [avrebbero avuto] sull’attività commerciale e industriale del comune e sulla vita cittadina in generale»(379). Accenti critici venivano usati anche verso l’esperienza di Porto Marghera a proposito della sua scarsa redditività per il bilancio comunale. Non mancarono in questo periodo da parte del podestà tentativi, quasi sempre infruttuosi, di arrivare a un recupero autonomo di nuove risorse, e indicazioni di interventi che risultarono poco popolari o andarono a toccare la rete di interessi costruita dal P.N.F. nel settore assistenziale.
Nel corso del ’32 Alverà propose l’istituzione dell’anagrafe fiscale, collegando a questo strumento l’aumento delle entrate per imposte non legate ai servizi pubblici, e cominciò a prospettare tagli nella spesa ospedaliera e per l’assistenza che giudicava troppo elevata; ipotesi subito avversata dal P.N.F. veneziano che controllava questo settore. Fu solo con il bilancio del ’34 che il podestà cominciò ad evidenziare i primi segnali di un’inversione di tendenza, primo fra tutti il riequilibrio della cassa comunale. Ed è proprio a partire da quella data che nei documenti dell’amministrazione Alverà si ricomincia a trovare traccia di nuovi progetti e piani di investimento. Anche l’analisi della crisi economica cittadina si faceva più raffinata. Sui benefici apportati dal ponte del Littorio, inaugurato nell’aprile del ’33, Alverà espresse un giudizio molto cauto, circa invece la creazione di Porto Marghera scrisse che essa aveva «attenuato soltanto in minima parte i danni economici subiti da Venezia nell’ultimo ventennio». Il podestà segnalava che le prospettive di sviluppo rimanevano promettenti, ma sottolineava anche che «il Comune per la creazione di questa zona industriale [ha] dovuto contrarre debiti ingentissimi i cui oneri di ammortamento che [graveranno] per alcuni decenni ancora sulle spese ordinarie, superano notevolmente le entrate che da questa attività affluiscono al bilancio»(380). Per uscire da questa situazione di stagnazione economica Alverà puntò su alcuni progetti: il piano regolatore di Mestre, avviato con un concorso nel ’34, la realizzazione del nuovo macello, la sistemazione dei canali, un piano di edilizia scolastica ed infine il risanamento del centro storico. Alcuni interventi furono effettivamente portati a termine: il completamento dei lavori del rio Nuovo che dal nuovo terminal di piazzale Roma arrivava fino alla curva di Ca’ Foscari nel Canal Grande (1933), il ponte in legno dell’Accademia (1933), quello in pietra degli Scalzi (1934). Accanto a questi progetti che riprendevano idee già esposte all’inizio della podesteria, alcuni documenti archivistici dimostrano che in quegli anni di crisi la podesteria si sforzò di elaborare una sua strategia di sviluppo di più ampio respiro, incentrata sull’ipotesi di ampliamento e sistemazione del porto commerciale, sul potenziamento del sistema dei trasporti per mare e per terra, sullo sviluppo dell’industria armatoriale veneziana. Si fece strada, insomma, l’idea che il Comune potesse recuperare un ruolo propulsivo per l’economia cittadina, il che avrebbe consentito di migliorare la cronica debolezza contributiva e risolvere il grave problema della disoccupazione. Parallelamente non mancarono le critiche alla burocratizzazione e terziarizzazione della città, e i riferimenti allo sconvolgimento del mercato del lavoro prodotto dalla nascita di Porto Marghera(381). Prese forma un progetto — destinato a restare in larga parte irrealizzato — complementare a quello volpiano, un progetto cioè di integrazione della città nel nuovo modello di sviluppo i cui perni fossero la riqualificazione e rivitalizzazione del centro storico e il rilancio di alcune attività produttive. Attorno a queste scelte si giocarono i destini politici di molti protagonisti della vita politica veneziana degli anni Trenta. Non a caso fu proprio nel corso del ’34, in coincidenza con l’annunciato raggiungimento del pareggio di bilancio(382), che si cominciò a parlare della realizzazione di una casa da gioco a Venezia. Dopo la visita di Mussolini in città nel giugno, la proposta venne ufficialmente avanzata alla fine dell’anno. Pochi mesi dopo il Comune decideva anche di avviare una prima indagine conoscitiva affidata a Raffaello Vivante sulla grave situazione di degrado delle abitazioni nel centro storico, che preparò il terreno per la «legge speciale», approvata con regio decreto il 21 agosto 1937, con il titolo «provvedimenti per la salvaguardia del carattere lagunare e monumentale di Venezia». Questa ripresa di iniziativa dell’ente locale segnò senza dubbio una svolta nella vita politica cittadina. Dopo una lunga crisi il Comune rompeva l’isolamento in cui si era venuto a trovare.
Si avviava una fase — coincidente con la seconda podesteria Alverà — di sviluppo e di progettazione di nuove importanti opere. Come si era sbloccata questa situazione? È chiaro che il ritrovato dinamismo della podesteria non era solamente legato al miglioramento dei bilanci. Nei primi anni Trenta la crisi della città e la paralisi dell’amministrazione comunale furono ‘oscurate’ dal grande protagonismo in campo culturale di Giuseppe Volpi. Dopo aver realizzato la Venezia commerciale e industriale in terraferma, egli voleva trasformare la città lagunare nella capitale europea della cultura e della mondanità(383). Ceduto nel 1930 a Vittorio Cini(384) il posto al vertice della Società Porto industriale, Volpi usò tutta la sua influenza, il potere economico e politico di cui disponeva e mise a disposizione del regime uno straordinario palcoscenico dove si esibirono Hitler e Mussolini — nella famosa visita del ’34 in occasione dell’inaugurazione del Festival del teatro —, gerarchi ed esponenti del Reich (Goebbels fu in visita alla Biennale nel ’39), i Savoia e i rappresentanti delle case regnanti europee, protagonisti del bel mondo internazionale, diplomatici, grandi industriali, le stars del cinema europeo e hollywoodiano. Divenuto presidente della Biennale nel 1930, il doge in camicia nera trasformò subito la vecchia istituzione culturale in ente autonomo, dando il via, proprio in quell’anno, al Festival della musica contemporanea, alla Mostra d’arte cinematografica (1932) e al Festival del teatro (1934)(385). La libertà d’azione di cui Volpi godette fu ripagata dal ritorno d’immagine che le varie iniziative da lui ideate garantirono al regime; la Venezia volpiana consentiva al fascismo di esaltare retoricamente gli aspetti modernizzanti della propria politica culturale e di avere a disposizione una formidabile cassa di risonanza per la diffusione di miti, culti e immagini collettivi(386). Non trascurerei infine l’impatto che questo tipo di evoluzione dell’attività culturale veneziana verificatasi nei primi anni Trenta ebbe nella formazione di un’industria culturale(387) che produsse positive ricadute per l’economia e il turismo della città.
La svolta nella vita politica e amministrativa veneziana maturata sul finire del 1934 e l’esplosione della vita culturale con la definitiva consacrazione di Volpi — che in quell’anno divenne anche il presidente degli industriali italiani — coincisero con l’ennesimo cambio di guardia alla guida del P.N.F. Dopo circa sei anni di segreteria, nel maggio del ’34 Giorgio Suppiej fu sostituito da Michele Pascolato. Nato a Venezia nel 1907, avvocato, apparteneva a una famiglia da decenni impegnata nella politica cittadina. Egli era nipote del deputato Alessandro(388), figlio di Mario (nato nel 1877), già assessore alla beneficenza nella giunta Grimani eletta nel 1905, direttore della «Gazzetta di Venezia» dal 1912 al 1914 e nipote di Maria Pezzè Pascolato. Figlio d’arte, dunque, iscritto al partito dal ’21, Pascolato compì una prestigiosa carriera sia nel partito, dove arrivò fino al direttorio nazionale, sia a livello governativo(389). Il segretario uscente poteva presentare un bilancio positivo della sua gestione. Celebrando il decennale della Marcia su Roma, Suppiej aveva esposto le realizzazioni del fascismo veneziano in un numero monografico delle «Tre Venezie» tutto incentrato sulla descrizione dei grandi cantieri in attività, delle bonifiche realizzate, dell’attività delle nuove industrie dotate di moderni macchinari(390). Il partito era cresciuto e aveva allargato la sua articolazione e potenziato la sua presenza nella società. Poteva contare su 8.500 iscritti, divisi in 46 Fasci di combattimento e 15 gruppi di sestiere o frazione, 1.615 donne fasciste, 1.000 studenti universitari e 8.000 giovani fascisti. Accanto a questi quadri, secondo i dati pubblicati nella rivista, agivano 38.110 tra balilla, avanguardisti, piccole e giovani italiane, oltre 20.000 dopolavoristi. In un tripudio di cifre, calcolando gli iscritti alle associazioni sindacali e quelli delle associazioni combattentistiche, si arrivava a 179.852 persone inquadrate nelle organizzazioni fasciste, pari al 31% della popolazione della provincia(391). Suppiej pagò il mancato allineamento alle posizioni di Volpi sulla questione dello sviluppo delle attività portuali. Il federale puntava a rilanciare il porto della Marittima, riequilibrando i traffici con quello di Marghera. Uno dei suoi ultimi interventi politici fu un discorso pronunciato davanti ai lavoratori del porto nel quale affermò: «il porto di Venezia potrà allargarsi, potrà espandersi; non potrà mai rinunciare ad una sola delle sue calate dalle Zattere ai Bottenighi, né ad uno dei suoi magazzini. Beato il giorno in cui i veneziani sentiranno il porto, il principale campo di azione per le loro energie, ancor più vicino al loro spirito, alla loro vita e vorrei dire, anche ai loro occhi come sentono vicini il loro campanile e la loro Basilica d’oro»(392). Poco prima di essere rimosso, Suppiej era stato eletto deputato nel secondo ‘plebiscito’ svoltosi nel marzo del ’34. Lo affiancava, unico tra i deputati uscenti, l’ingegnere Fantucci. Nello stesso periodo si ingrossava la già folta pattuglia dei senatori: tra questi Pietro Orsi e Giovanni Giuriati. Pochi mesi prima, in gennaio, anche Vittorio Cini era stato premiato con il laticlavio.
Alla fine del 1934 Volpi aveva ormai esteso il suo potere su tutte le istituzioni cittadine e controllava attraverso il nuovo segretario Pascolato anche il partito fascista veneziano. A Ca’ Farsetti, intanto, il 30 gennaio 1935 iniziava ufficialmente la seconda podesteria Alverà con la nomina di due vicepodestà e di una nuova consulta municipale, composta di 36 membri anziché i 32 delle due precedenti(393). A ricoprire il ruolo di vice, Vilfredo Casellati, ex segretario federale, uomo legato a Volpi, e Leonida Macciotta, esperto di diritto amministrativo, collaboratore della «Rivista Amministrativa»: un politico, quindi, e un tecnico.
Il ricambio tra i consultori fu pressoché totale, l’unico che si salvò fu Domenico Ceccon, rappresentante della potente Unione fascista dei commercianti. Nella nuova consulta spiccavano i nomi di esponenti della vecchia guardia del partito come Fantucci e Giorgio Suppiej e nomi di emergenti come Giovanni Marcello, Paolo Foscari e Alessandro Brass destinati a ricoprire ruoli importanti negli anni a seguire. Accanto alla pattuglia dei politici vi era poi un’ampia presenza di personale scelto tra le associazioni fasciste di categoria come Michele Ricci, del sindacato delle imprese elettriche, uomo legato a Gaggia, oppure Francesco Villabruna, presidente dell’Unione provinciale fascista degli industriali. Per tutto il 1935 e parte del ’36 Alverà proseguì nell’azione di risanamento delle finanze comunali e di riordino amministrativo. Furono infatti approvati molti regolamenti riguardanti importanti attività, tra cui il servizio dei gondolieri, di erogazione del gas, della nettezza urbana, dei vigili comunali e per lo spaccio comunale delle carni. Alla fine del ’36, in una delle periodiche relazioni contabili, per la prima volta dopo molti anni Alverà lasciò trasparire qualche segnale di ottimismo circa il risanamento definitivo dei bilanci comunali. Come prima conseguenza, in occasione del preventivo 1937 il podestà annunciò l’abolizione delle sovraimposizioni eccezionali alle imposte di consumo adottate negli anni precedenti con l’autorizzazione della commissione centrale per la finanza locale. Da un’attenta analisi condotta sulla situazione contabile del Comune, il provvedimento sembra corrispondere più a una decisione politica che a un reale miglioramento della situazione(394). Questa forzatura appariva dettata dalla necessità di preparare il terreno per le importanti iniziative che il Comune si accingeva a varare. La prima era stata l’avvio delle pratiche per l’acquisizione del Teatro la Fenice, risalente al febbraio 1935. La seconda fu annunciata nella seduta della consulta del 30 giugno 1936, quando il podestà informò i consultori che il governo aveva deciso l’istituzione di una casa da gioco a Venezia. Presentata come una decisione calata dall’alto, essa non dava spazio a discussioni critiche, che invece puntualmente si erano manifestate ogniqualvolta negli anni precedenti il tema era arrivato alla discussione del consiglio comunale. Così era infatti capitato nel ’24 con la dura presa di posizione di Davide Giordano e l’intervento della curia. Nel ’28 una parte del P.N.F. guidata dal vicesegretario Giuseppe Toffano si era dichiarata a favore della casa da gioco, ma tra i contrari si era schierato Alberto Musatti, mentre lo stesso Damerini aveva in privato espresso non poche perplessità sul progetto(395).
Nel ’36 il problema si poneva in termini diversi. Il fronte dei favorevoli era ampiamente maggioritario, le divisioni riguardavano piuttosto la sede e la destinazione dei proventi del gioco. Circa la sede due erano le ipotesi in campo: la C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi) sosteneva la sede del Lido, collegando la nascita della casa da gioco alla creazione di nuove infrastrutture turistiche e alla trasformazione della spiaggia in un’area di lusso. Il podestà sosteneva invece una collocazione in centro storico. Riguardo all’utilizzo dei proventi, Alverà pensava ad investimenti per le attività che l’amministrazione voleva realizzare, mentre la federazione del partito era di diverso parere. Su questa vicenda si aprì un duro scontro tra il podestà e il P.N.F., che portò alle dimissioni del podestà e all’apertura di una nuova, profonda crisi nel fascismo veneziano. Sulla sede del Casinò il braccio di ferro vide contrapporsi il podestà e il governo con il P.N.F. locale in mezzo(396). Inizialmente la podesteria si era orientata verso la soluzione della doppia sede, una invernale in centro e una estiva al Lido, e si era quindi attivata seguendo questa ipotesi. Il 1° agosto del ’36 era stata avviata la prima stagione di attività nelle sale dell’Hotel Excelsior al Lido e nel contempo si erano fatti i primi passi per garantire una sede per la stagione invernale. Tuttavia una serie di indizi indica in modo preciso che la soluzione preferita dal podestà era quella della sede unica da collocare nel centro storico della città. In più riprese (nelle sedute della consulta del 30 giugno e del 19 novembre ’36) Alverà aveva ribadito questa posizione, parlando di sede «principale», o di sede «definitiva». Il ragionamento era coerente con altri interventi attraverso i quali il podestà intendeva rivitalizzare il centro storico. La podesteria si mosse di conseguenza e già nel giugno del ’36 il Ridotto, la vecchia casa da gioco del Settecento, era divenuto un’appendice di palazzo Giustiniani. Ma soprattutto si era provveduto all’acquisto, per una cifra di quasi 2 milioni di lire, dell’ex Albergo Europa, annunciando che dal 1° marzo 1937, completati i lavori di ristrutturazione, l’immobile avrebbe ospitato le attività della casa da gioco. Di fronte a queste mosse, si mise in moto la controffensiva delle lobbies interessate a portare il casinò al Lido. La C.I.G.A. iniziò un’azione di pressione attraverso un suo consultore, Alfredo Campione, con la quale tentò di bloccare quest’operazione che avrebbe per sempre precluso — anche vista la spesa — ogni altra possibilità. La compagnia di Volpi arrivò a offrire all’amministrazione la cessione di una parte dell’Excelsior a un prezzo irrisorio e contemporaneamente mobilitò i dirigenti del partito, che per bocca del vicepodestà Brass nella seduta del 20 gennaio 1937 chiesero — con il chiaro intento di mettere in difficoltà la podesteria — di destinare una parte delle somme iscritte a bilancio per la casa da gioco alla realizzazione di campi per l’equitazione, per il tiro a volo e alla costruzione di una piscina. Pochi giorni dopo un ordine di Mussolini che imponeva la scelta del Lido come unica sede del casinò chiudeva la contesa. Alverà prese atto con disappunto della decisione e affidò a un memoriale le sue valutazioni. Difese la sua idea di rivitalizzare il centro storico e di distribuire i proventi derivanti dalla casa da gioco per le esigenze dell’intera città, ma soprattutto mise le mani avanti scrivendo che «un’unica sede al Lido [...] tale da non sfigurare nei confronti degli altri Casini Europei richiederebbe spese ingentissime che il Comune non è in grado di affrontare»(397). Alverà in sostanza avvertì che questo cambiamento imposto dall’alto e voluto dai suoi avversari avrebbe messo in gravi difficoltà i bilanci comunali. Ma ormai non vi era più nulla da fare: la partita era compromessa e con essa iniziava uno scontro politico che avrebbe portato alla fine della podesteria Alverà.
Nei mesi successivi i segnali di conflitto che emersero dentro e fuori l’amministrazione furono molteplici. Peggiorarono i rapporti tra il prefetto, il senatore Giuseppe Carlo Catalano(398), e la podesteria. Lo scontro coinvolse anche alcuni settori dell’amministrazione che in più occasioni non lesinarono critiche al podestà, formulando esplicite allusioni all’uso dei proventi derivanti dalla casa da gioco definita «la nuova vaccheria che fornisce alimento al bilancio comunale»(399). Poco si sa sul tasso di fascistizzazione dei pubblici impiegati nel contesto locale(400), tuttavia tenendo conto del passaggio, avvenuto nel 1931, delle associazioni dei dipendenti sotto il controllo del segretario del P.N.F., dell’introduzione del «sabato fascista» avvenuta nel 1935, dell’obbligatorietà dell’iscrizione alle associazioni fasciste introdotta nel 1937 e dell’iscrizione al P.N.F. per l’ammissione agli impieghi pubblici risalente al 1938 — obbligo che rese pesantissima l’interferenza della politica nella pubblica amministrazione — è più che lecito pensare che l’opposizione manifestata nei confronti del podestà fosse di natura politica. Alverà riuscì a tenere in pugno la situazione per tutto il 1937, incassando con l’approvazione della legge speciale un punto a suo favore. Il nuovo strumento legislativo fu al centro della discussione della consulta del 28 giugno ’37 nella quale il podestà intervenne per sottolineare la centralità del Comune nel processo di ammodernamento della città(401). Non mancarono accenti critici: ciò che appariva sempre più chiaro era la volontà dei diversi gruppi di interesse rappresentati nella consulta di controllare la gestione delle risorse derivanti dalla casa da gioco. Un esempio indicativo fu la richiesta avanzata dai consultori Paolo Foscari e Giovanni Marcello, entrambi esponenti di punta del P.N.F., di aumentare i finanziamenti destinati alle attività sportive. L’obiettivo delle contestazioni al podestà diveniva dunque sempre più esplicito: il partito premeva per controllare direttamente le nuove entrate. Questo tipo di polemiche si inseriva perfettamente nella direzione di sviluppo che Starace, dopo aver preso in mano il partito nel dicembre del ’31, succedendo a Giuriati, aveva impresso al P.N.F. privilegiando un forte intervento di tipo assistenzialistico verso le fasce più deboli della società(402). Va anche ricordato che a partire dal ’37 vi furono una nuova fase di accelerazione totalitaria che caratterizzò la politica interna del regime e una nuova radicalizzazione ideologica alla quale non fu estranea la suggestione del regime nazionalsocialista. Il partito fu il principale motore di questo processo e della fascistizzazione delle istituzioni e della società(403).
Alverà riuscì a resistere fino a quando ebbe il conforto dei dati favorevoli di bilancio. Quando invece la situazione contabile cominciò a peggiorare, la sua posizione si fece sempre più difficile. Ciò avvenne già nel corso del 1937, con un’impennata delle spese (in particolare quelle generali e quelle per l’assistenza) e una sensibile diminuzione delle entrate tributarie. Pesavano sul bilancio gli impegni gravosi presi per palazzo Giustiniani, il Teatro la Fenice e per la casa da gioco al Lido. L’esito della battaglia sulla sede del casinò aveva appesantito ancora questa situazione, imponendo nuovi investimenti. Alverà cercò di spezzare questo circolo vizioso con una serie di escamotages tecnici e con un uso spregiudicato del bilancio. In pratica si utilizzavano le eccedenze di cassa per sostenere le spese che «venivano imputate alla voce ‘partite interinali di varia natura’ in attesa di essere coperte con gli attesi introiti»(404). Il sistema si rivelò incontrollabile, travolto da continui sfondamenti. Di fronte al veloce aggravamento della situazione finanziaria, il P.N.F. passò decisamente all’attacco.
Nel febbraio del ’38 il partito procedette alla nomina di un nuovo vicepodestà nella persona di Alessandro Brass. Egli era in quel momento una delle figure emergenti all’interno del partito, godeva dell’appoggio dell’associazionismo sportivo che dirigeva dal ’28 come presidente dell’Ente sportivo fascista. Gli oppositori usarono i toni tipici della polemica scoppiata tra il ’38 e il ’40 sull’imborghesimento del fascismo(405). Dopo Brass vennero allo scoperto prima Giuseppe Tessier, da pochi mesi nominato alla presidenza dell’Ente Comunale di Assistenza, poi Foscari e Marcello. Era in sostanza la rivolta dei notabili del fascismo veneziano, la generazione cresciuta all’ombra di Volpi — da lui protetta e favorita — nella gestione del sottogoverno cittadino, che aveva progressivamente esteso la propria influenza all’interno del partito e ad ampi settori dell’amministrazione comunale. Mentre infatti Volpi completava la dotazione del suo dogato con l’ultima perla, l’acquisizione de «Il Gazzettino» — messa a punto nel corso del ’38 e perfezionata nel maggio del ’39(406) —, i notabili fascisti preparavano l’assalto della podesteria. L’accerchiamento nei confronti di Alverà fu completato in pochi mesi: con una situazione finanziaria ormai fortemente compromessa, il podestà perdette uno dopo l’altro l’appoggio dei funzionari più importanti. L’epilogo della vicenda arrivò nel luglio del ’38 quando il ragioniere generale del Comune stese per conto di Alessandro Brass una relazione riservata, datata 5 luglio, sulla situazione del bilancio(407). L’episodio rivestiva un duplice significato: il P.N.F. poteva acquisire informazioni certe sullo stato delle finanze comunali e otteneva l’appoggio del funzionario più importante della burocrazia comunale. Il 6 luglio Brass intervenne nella riunione della consulta pronunciando un discorso che riassumeva il contenuto della relazione: gli introiti derivanti dal casinò e la diminuzione delle altre entrate non erano sufficienti per sostenere le ingenti spese programmate. Non rimaneva quindi che ricorrere ad un mutuo, il che significava ammettere la pessima gestione delle finanze pubbliche. Anche altri consultori intervennero nella discussione, sbandierando informazioni contabili che, a conferma dell’allargamento della fronda interna, avevano ottenuto da altri funzionari decisi a scalzare il podestà. Ma la battaglia interna al fascismo veneziano aveva ormai superato i confini cittadini. Il 14 agosto del ’38 il «Regime Fascista», la rivista di Farinacci, pubblicò una lettera giunta alla redazione da Venezia nella quale, prendendo a pretesto il problema dei collegamenti tra la Giudecca e la città, si metteva sotto accusa l’operato del podestà. Chi scriveva era in possesso di molte informazioni sulla situazione dell’amministrazione comunale. Inoltre, mentre attaccava la gestione podestarile, esprimeva un giudizio positivo sulla conduzione del P.N.F. da parte del federale Pascolato. La lettera provocò la presa di posizione del vicepodestà che chiese al prefetto di intervenire per tutelare il prestigio della podesteria. Ormai la situazione era precipitata. Volpi seguiva disinteressato l’evolversi della situazione; nel partito era ormai prevalsa la linea favorevole a un cambiamento di rotta. Alverà tentò un’ultima difesa affidando a una relazione il riassunto del suo operato svolto in otto anni alla guida del Comune. In questo documento il podestà rimarcò due elementi su tutti: il risanamento del bilancio, poi compromesso dalle scelte compiute sulla vicenda della casa da gioco, e la continua attenzione dedicata in termini di spesa alle classi più umili e alle attività assistenziali(408). Il suo destino era tuttavia già segnato. Il P.N.F., guidato dall’ottobre ’37 da Lodovico Foscari(409), aveva già deciso di sostituirlo con Alessandro Marcello, l’uomo che negli ultimi mesi si era proposto come l’avversario numero uno del podestà. Marcello fu nominato il 5 settembre 1938 e rimase in carica fino al 9 gennaio 1941 quando rassegnò le dimissioni(410). Nobile anch’egli come tutti i predecessori, apparteneva al ramo di S. Polo della famiglia patrizia, quello dei Marcello-Grimani.
Con la sua nomina possiamo effettivamente far iniziare la crisi del regime fascista. Da dove era partita questa rivolta e quali erano state le sue reali motivazioni? I protagonisti, come abbiamo accennato, furono una generazione di notabili fascisti cresciuti dentro il partito che si erano conquistati posizioni di potere controllando e manipolando i flussi di spesa nel campo dell’assistenza e usando le organizzazioni di massa, in particolare quelle sportive e per il tempo libero, per la creazione di un vasto consenso al regime. Accanto alle motivazioni di ordine ideologico, la loro appare un’azione di difesa di interessi particolari e delle reti clientelari che si erano consolidate in quegli anni. La mancanza di specifiche ricerche su questo settore ci induce per il momento a cogliere solamente alcuni indizi. Oltre alle già segnalate continue richieste che venivano formulate in seno alla consulta circa i finanziamenti da erogare alle istituzioni assistenziali e a quelle sportive, l’andamento delle iscrizioni alla lista dei poveri, direttamente controllate dal partito, rappresenta un interessante indicatore del consolidamento di un sistema di potere locale controllato dagli uomini del partito. Gli iscritti erano poco più di 32.000 nel ’34, raggiunsero i 38.000 nel ’35 e arrivarono a toccare i 43.000 nel ’37.
Si tratta di ipotesi che andranno approfondite, ma il conflitto che si apre di nuovo in seno al fascismo veneziano è la spia di una crisi profonda che minava alla base il regime. La lunga fase della stabilizzazione non aveva in realtà prodotto una nuova classe dirigente fascista. Il caso veneziano conferma un dato che si può definire strutturale del fascismo italiano: la tendenza a cooptare le vecchie élites più che a crearne di nuove(411). Mussolini stesso aveva teorizzato il superamento delle élites nel rapporto diretto tra il duce e le masse. Conversando con il suo biografo aveva infatti affermato: «Bisogna farla finita di ragionare in termini di élites, ogni qual volta si parla di ‘potere’, amministrazione del ‘potere’, crescita del ‘potere’, perdita o sconfitta del ‘potere’. Le élites possono guidare un movimento, ma non sono in grado di mantenersi al potere [...]. La storia incomincia con le élites, ma per restare tale deve continuare, continuarsi nelle masse su cui hanno puntato per continuare la loro battaglia»(412). Il punto in cui scattò il corto circuito fu proprio questo. Per il fascismo italiano la formazione del consenso era incompatibile con la formazione di élites: tanto più forte era stata l’attenzione al primo aspetto tanto più difficile si dimostrò la soluzione del secondo problema(413). Diverso fu il caso di Volpi. Nell’arco di poco più di un decennio il doge in camicia nera aveva concentrato sulla sua persona un potere vastissimo, eliminando uno dopo l’altro tutti gli avversari. Ciò gli aveva consentito di raggiungere tutti i principali obiettivi, politici ed economici, compreso quello di far rinverdire il grande passato di Venezia. Erede di una tradizione notabilare che tra Otto e Novecento aveva espresso, con Fedele Lampertico e Luigi Luzzatti, un ceto politico capace di un’elevata e qualificata azione di intermediazione sociale e territoriale, Volpi a differenza di Mussolini pensava che la formazione di una classe dirigente fosse un problema serio. De Begnac scrive al riguardo:
Ho parlato, recentemente, di élites sociali o asociali o antisociali che si voglia, con il conte Volpi. Mi ha ancora una volta sorpreso la sua conoscenza di taluni capitoli del Cours e dei Sistemi socialisti di Pareto. Mi ha detto che, con Piero Marsich, in anni lontani, ha discusso tali temi, arrivando a una conclusione: ‘L’élite è l’uomo. Il resto sta a guardare, subisce, rielabora il dettato disceso, come legge, dalle nebbie e dalle dune del Sinai’. Anche, per Volpi, l’élite non è un modello se prima non ci si pone innanzi in guisa di comandamento [...]. Ancora sul fascismo delle élites, sulla soggezione, d’ordine pressoché religioso, che queste impongono. Ancora parlando col conte Volpi, della necessità storica delle élites, che insegnerebbero alla massa come agli egoismi per uso interno andrebbe sostituita la morale per uso esterno [...]. Il conte Volpi è uno dei tanti democratici che riconosce l’insostituibilità dell’azione moderatrice delle classi medie. Ma è uno dei pochi democratici che sa come questa moderazione sia indotta, riflessa da pigrizia mentale, da tutela del posseduto, da desiderio di placida riconquista del già posseduto finito nelle mani di minoranze rapaci [...](414).
Forse appagato da quanto aveva realizzato a livello locale, certamente desideroso di concludere la sua carriera nel fascismo con un incarico ministeriale di prestigio(415), entrato in una fase difficile dei suoi rapporti con Mussolini a causa dell’alleanza con la Germania e dell’ipotesi di un intervento in guerra, Volpi nel ’37-’38 appariva più distaccato dalle vicende veneziane. Il problema del ricambio delle classi dirigenti fu da lui sottovalutato e rimosso. Egli pensava che potesse essere risolto puntando su una serie di ‘tecnici’ capaci di garantire una buona amministrazione, che non intralciassero gli interessi delle sue molteplici attività, demandando al partito il ruolo di educatore della società civile.
La rivolta dei notabili del fascismo veneziano fu in primo luogo una sorda lotta di potere per la spartizione delle risorse, ma rappresentò anche una presa di posizione contro il modello tecnocratico volpiano che aveva profondamente intaccato gli elementi costitutivi dell’identità veneziana. Non a caso il linguaggio usato da questi uomini richiamava alla memoria quello del fascismo intransigente antemarcia e non a caso il fantasma di Marsich tornò ad aleggiare nei palazzi del fascismo veneziano fino alla sua crisi finale.
1. Sul nesso tra lo sviluppo di Marghera e gli ‘incentivi’ legati alla congiuntura bellica cf. Maurizio Reberschak, L’industrializzazione di Venezia (1866-1918), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, p. 383 (pp. 369-404).
2. Sul Damerini nazionalista cf. Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998, pp. 303-484, e Mario Isnenghi, «Il Dovere Nazionale». Lettere di Alfredo Rocco a Gino Damerini, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 449-459.
3. La campagna elettorale per le amministrative del 1914 e il ruolo che vi giocarono le forze cattoliche vengono puntualmente ricostruiti da L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, alle pp. 335-355. Circa gli accordi che nel Veneto si erano già definiti tra cattolici e liberali al tempo delle elezioni politiche del ’13 e sull’appoggio dato, sempre dalle forze cattoliche, in varie consultazioni amministrative nel ’14, compreso quello offerto a Corridoni nelle suppletive del collegio di Marostica, cf. Fausto Fonzi, Sulla partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche nell’età giolittiana (con riferimento particolare al Veneto nel 1913), in Il Veneto in età giolittiana (1903-1913). Aspetti economici, sociali, politici, culturali. Atti del convegno, a cura di Gianni A. Cisotto, Vicenza 1991, pp. 229-231 (pp. 181-231).
4. Cf. Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L’istituzione, il territorio, guida-inventario dell’Archivio Municipale, Venezia 19872, p. 15.
5. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 378-379.
6. Il testo del telegramma ibid., p. 386.
7. La sede definitiva del gruppo nazionalista fu trovata a Cannaregio, in fondamenta del Tintor nei locali precedentemente occupati dai giovani liberali, e fu inaugurata il 12 dicembre 1914.
8. Così, il più lucido teorico del nazionalismo italiano scriveva l’11 ottobre 1914: «Bisogna, dunque, deplorare questo elevamento della piazza ad organo della vita politica italiana. Ma è questo elevamento un dato di fatto, una realtà effettiva e attuale, che noi constatiamo con dolore, ma che non possiamo distruggere di un colpo. Questo è il clima politico in cui noi operiamo, e da cui non possiamo prescindere, senza eliminarci completamente dalla pratica della vita nazionale. Ora se la piazza è strumento di governo, è organo dello Stato, è pur necessario che i nazionalisti se ne servano per volgerla alla realizzazione degli interessi urgenti della nazione, invece che abbandonarla [...] in mano degli avversari dello Stato e della nazione»: Alfredo Rocco, Contro la politica dei dubbi, delle incertezze e della rinuncia vile. I nazionalisti in piazza, «Il Dovere Nazionale», 11 ottobre 1914, cit. in Mario Isnenghi, L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Milano 1994, pp. 208-209, al quale rimandiamo per l’analisi delle dinamiche che nei dieci mesi successivi allo scoppio della guerra portarono al ribaltamento dei rapporti di forza nelle piazze (in partic. pp. 211-225).
9. Cf. Daniele Resini, Cronologia, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Id., Venezia 1992, p. 387 (pp. 317-509).
10. Sulla storia del giornale cf. Tullio Besek, «Il Secolo Nuovo». Un giornale socialista veneziano tra politica nazionale e problemi locali 1900-1915, Venezia 1988, e Francesca Peccolo, «Il Secolo Nuovo» di Venezia. Storia di un settimanale socialista (1900-1915), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1995-1996.
11. Ai due sindacalisti dedicò alcuni duri attacchi lo stesso Serrati. V. gli articoli Don Ciriola, «Il Secolo Nuovo», 7 novembre 1914, e La sfida di burletta, ibid., 14 novembre 1914.
12. Lo conferma anche Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia: 1919-1922, Venezia 1977, p. 34.
13. Su di lui v. l’esaustiva voce di Enzo Santarelli, in Il movimento operaio italiano. Dizionario Biografico 1853-1943, III, Roma 1977, pp. 152-154.
14. Cf. ad esempio Ernesto Cesare Longobardi, Un problema morale. Per la libertà o contro la guerra?, e Id., I pericoli dell’Adriatico, entrambi pubblicati in «Critica Sociale», rispettivamente nel 1914 e nel 1915.
15. V. in tal senso Id., Contro il patto turpe, «Avanti», 16 marzo 1915, e Quel che ci tiene uniti, «Il Secolo Nuovo», 13 febbraio 1915.
16. L’episodio viene raccontato in Girolamo Li Causi, Il lungo cammino. Autobiografia 1906-1944, Roma 1974, p. 50. Sull’esperienza veneziana di Li Causi v. Giannantonio Paladini, Serrati e Li Causi a Venezia: un sodalizio politico ed umano, in Cent’anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, pp. 307-315.
17. Sull’attivismo oratorio di Battisti in questi mesi rimandiamo alle considerazioni di M. Isnenghi, L’Italia in piazza, pp. 213-214.
18. Una cronaca dei fatti basata su fonti giornalistiche coeve in L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 407-408. V. anche M. Isnenghi, L’Italia in piazza, pp. 215-216, che riporta il lungo resoconto dei fatti fornito dalla «Gazzetta di Venezia».
19. Cf. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 409-410.
20. G. Li Causi, Il lungo cammino, p. 47.
21. Scriveva il giovane siciliano: «Ogni sera, in piazza San Marco, gli scontri tra interventisti e neutralisti si susseguivano per ore e ore, fin dopo la mezzanotte e, per quanto allora non si sparasse, non si adoperassero armi micidiali, tuttavia numerosi erano i feriti e i contusi. Il bastone era l’arma più in uso ed io imbottivo il mio berretto di stoffa con della carta o degli stracci per attutire la botta di eventuali colpi sulla testa»: ibid., pp. 47-48.
22. Ibid., pp. 51-52.
23. Il discorso cui ci si riferisce è la famosa Arringa al popolo di Roma accalcato nelle vie e acclamante, la sera del XIII Maggio MCMXV, pubblicato in Gabriele D’Annunzio, Per la più grande Italia. Orazioni e messaggi, Milano 1915, pp. 73 ss.
24. Cf. Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano 1989, p. 28, ma tutto il paragrafo dedicato alla campagna oratoria per l’intervento è fondamentale per capire il cambiamento delle posizioni dell’opinione pubblica.
25. Cf. Abbasso la guerra! Lavoratori e donne di Venezia questa sera accorrete tutti in piazza San Marco, «Il Secolo Nuovo», 15 maggio 1915.
26. V. I tumulti di ieri sera in Piazza San Marco, «Gazzetta di Venezia», 16 maggio 1915. Ricordando quella giornata Giuriati scrisse: «A Venezia, il 15 maggio, scoppiano gravissimi conflitti in Piazza San Marco. Dovunque la vittoria rimane agli interventisti: lo spirito della Stirpe guida le folle»: Giovanni Giuriati, La vigilia (gennaio 1913-maggio 1915), Milano 1930, p. 299.
27. Per una più completa ricostruzione dei fatti v. L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, pp. 473-476.
28. L’immagine del primo bombardamento sulla città è ben impressa in una pagina delle memorie di G. Giuriati, La vigilia, pp. 308-309.
29. Su di lui v. il bel lavoro di Daniele Ceschin, La ‘voce’ di Venezia. Antonio Fradeletto e l’organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001, e la voce da noi redatta per il Dizionario Biografico degli Italiani, IL, Roma 1997, pp. 576-578.
30. V. la lettera del vescovo di Treviso Andrea Giacinto Longhin a mons. Giovanni Bressan, segretario di Pio X, che esprimeva forti riserve sull’appoggio dei cattolici veneziani a Fradeletto, pubblicata in Luigi Urettini, La diocesi del papa. Dieci anni di corrispondenza di Pio X con il vescovo di Treviso A.G. Longhin, «Venetica», 7, 1987, pp. 100-101 (pp. 30-126). Più in generale sul ruolo dei cattolici in questa tornata elettorale cf. F. Fonzi, Sulla partecipazione dei cattolici, pp. 211-231.
31. A riprova di queste sue posizioni possono essere citate una lettera di Ugo Ojetti a Luigi Albertini del 24 agosto 1914, pubblicata in Luigi Albertini, Epistolario 1911-1926, I, Dalla guerra di Libia alla grande guerra, a cura di Ottavio Barié, Milano 1968, p. 232, e una pagina di Ferdinando Martini, Diario 1914-1918, a cura di Gabriele De Rosa, Milano 1966, p. 53, dove si fa riferimento a un’altra missiva di Fradeletto, del 23 agosto 1914, nella quale egli esprimeva le sue preoccupazioni per la montante propaganda interventista svolta nel Veneto da repubblicani e nazionalisti.
32. V. F. Martini, Diario, p. 382.
33. Cf. Antonio Fradeletto, L’italianità nell’opera di Giosuè Carducci, «Conferenze e Prolusioni», 10, 16 maggio 1915.
34. Su tale sistema difensivo e sulle critiche del deputato veneziano cf. Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, III, Dalla Monarchia alla Repubblica, Venezia 1997, p. 61.
35. V. le prime considerazioni sviluppate da D. Ceschin, La ‘voce’ di Venezia, pp. 262-276.
36. Famoso rimase nelle cronache parlamentari il suo discorso Contro il Ministero Giolitti. Discorso pronunciato alla Camera dei Deputati nella tornata del 6 aprile 1911, Roma 1911.
37. Antonio Fradeletto, La storia di Venezia e l’ora presente d’Italia, Torino 1916, pp. 13-14.
38. Ibid., pp. 19-20.
39. Ibid., p. 50.
40. «Oggi il ritmo secolare ha ricondotto le settimane di passione. Venezia è destinata a patire, a languire, per la causa medesima per la quale un giorno virilmente combatté e […] sofferse. Chiuso il porto ai commerci; deserta ai visitatori; annientate le sue industrie gentili; ridotti alla miseria i suoi lavoratori; ravvolta nell’oscurità notturna come in una custodia di mistero e di dolore; minacciata di ruina nelle sue memorie, nelle sue glorie, in quei divini fantasmi dell’arte con cui essa allietò inutilmente i crudeli che ora la colpiscono. Pure il suo patimento è senza querimonie: tranquillo, decoroso, illuminato [...] si conforta d’essere una martire di questa grande ora della patria comune, perché sa e sente che tutta la sua storia ne fu precorritrice e antesignana [...]»: ibid., pp. 63-64.
41. Su questa v. il saggio di Roberto Balzani, I giovani del quarantotto: profilo di una generazione, «Contemporanea», 3, 2000, pp. 403-416.
42. V. Antonio Fradeletto, La gioventù italiana e la guerra, Milano 1917, pp. 31-32.
43. V. la lettera di Fradeletto a Giolitti del 3 novembre 1917 in D. Ceschin, La ‘voce’ di Venezia, p. 272.
44. Considerazioni pubblicate più tardi in Antonio Fradeletto, Il dovere supremo, Venezia 1918.
45. Id., Il Re, Venezia 1918.
46. Cf. Sergio Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Milano 1979, pp. 7-30, e Richard A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. 1908-1915. Studio sul prefascismo, Torino 1974. Circa le prime iniziative in ambito locale v. Maurizio Reberschak, L’economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 245-246 (pp. 227-298) dove si illustrano le attività avviate con la fondazione della Compagnia Alberghi Lido, divenuta a partire dal 1908 Compagnia Italiana Grandi Alberghi (C.I.G.A.).
47. Sugli esordi di Volpi nel settore elettrico v. Rolf Petri-Maurizio Reberschak, La Sade di Giuseppe Volpi e la ‘nuova Venezia industriale’, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 2, Il potenziamento tecnico e finanziario. 1914-1925, a cura di Luigi De Rosa, Roma-Bari 1993, pp. 317-331 (pp. 317-346).
48. V. ibid., pp. 321-322.
49. Come mise in luce Santo Peli, in questa società entrarono la Terni, l’Ilva, la Piombino, l’Ansaldo, la Milani e Silvestri, i Cantieri Riuniti, la Franco Tosi, alcuni dei principali gruppi siderurgico-cantieristici operanti in quel momento nel nostro paese. Cf. Santo Peli, Le concentrazioni finanziarie industriali nell’economia di guerra: il caso di Porto Marghera, «Studi Storici», 16, 1975, nr. 1, pp. 182-204. La società rappresentò anche una delle prime occasioni di collaborazione su un comune terreno industriale e finanziario tra Volpi e Vittorio Cini.
50. Su di lui cf. la voce di Maurizio Reberschak, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 626-634.
51. Ha evidenziato il significato di questo passaggio rispetto alla pluridecennale storia del capitalismo veneto, segnalando che il progetto per Marghera prende corpo nel 1900, due anni dopo la scomparsa di Alessandro Rossi — l’uomo che aveva dominato la scena politica e industriale veneta per tutto il quarantennio postunitario —, Silvio Lanaro, Genealogia di un modello, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Id., Torino 1984, p. 88 (pp. 5-96).
52. Cf. Giorgio Mori, Le guerre parallele. L’industria elettrica in Italia nel periodo della grande guerra (1914-1919), «Studi Storici», 14, 1973, nr. 2, pp. 292-372, ora anche in Id., Il capitalismo industriale in Italia. Processo d’industrializzazione e storia d’Italia, Roma 1977, pp. 141-215.
53. Un quadro completo delle rispettive posizioni all’interno delle aziende elencate si ricava da F. Piva, Lotte contadine, p. 92.
54. Antonio Fradeletto, Per la concordia e la giustizia. Discorso pronunciato alla Camera dei Deputati nella tornata del 25 novembre 1918, Roma 1918, p. 5.
55. Cf. Id., Prefazione ad Adriano Augusto Michieli, Il porto di Venezia e il suo avvenire, Venezia 1918.
56. «L’antica, la storica, l’immortale, che serbava inviolato il suo sacrario di monumenti, il suo museo» e «la nuova, protesa verso i margini della laguna, intenta alacremente alle attività febbrili e mercantili, senza paura di urtare contro ostacoli venerandi, anzi felice ed orgogliosa di vivificare una plaga fangosa e deserta»: v. Antonio Fradeletto, Venezia antica e moderna, Torino 1921.
57. Cf. Giuseppe Volpi, Venezia antica e moderna, Roma 1939.
58. Cf. L’opera del ministro Fradeletto a favore della nostra regione, «Gazzetta di Venezia», 6 febbraio 1919.
59. Interessanti carteggi su queste due vicende vengono pubblicati da D. Ceschin, La ‘voce’ di Venezia, pp. 276-277. Sull’affare della gestione dell’Arsenale v. anche F. Piva, Lotte contadine, pp. 83-85.
60. S. Peli, Le concentrazioni finanziarie.
61. La firma di quell’atto provocò non poche reazioni sul piano politico e amministrativo. V., ad esempio, la dura protesta del sindaco di Mestre Carlo Allegri, escluso dal tavolo delle trattative, che indirizzò a Fradeletto una pesante lettera accusandolo di non avere tutelato gli interessi del Comune che da anni ne appoggiava l’elezione. Cf. Sergio Barizza, Storia di Mestre, Padova 1994, pp. 266-267.
62. V. in tal senso Luca Pes, Il fascismo adriatico, nel presente volume.
63. Cf. Arno J. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla I guerra mondiale, Roma-Bari 1983.
64. V. Gino Damerini, D’Annunzio e Venezia, Venezia 1992, p. 130.
65. Sull’atmosfera delle prime settimane di guerra v. le pagine di Umberto Bognolo, Venezia eroica, Rocca San Casciano 1918.
66. G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, p. 131.
67. Scrive Isnenghi che il volo sulla città simbolo dell’irredentismo fu «uno dei primi gesti simbolici di un sistema di segni, di un assiduo impegno di sovradeterminazione ideologica e di attribuzione di senso alla guerra. Se c’è un ufficiale di collegamento, potremmo dire, questi è lui: naturalmente non nel senso tecnico e militare, ma in quello di una sistematica rappresentazione, comunicazione e messa in scena dei luoghi, personaggi, simboli e valori della guerra. Collegamento materiale e verbale, mentale e coreografico. Messaggi scritti e verbali affidati e incarnati in azioni: parole-azione e azioni-parola»: Mario Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia della venezianità, «Rivista di Storia Contemporanea», 19, 1990, nr. 3, p. 428 (pp. 419-431).
68. Le più famose imprese dannunziane in G. Distefano-G. Paladini, Storia di Venezia, p. 62.
69. M. Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia, p. 430.
70. Si rimanda tuttavia al contributo di Bruna Bianchi contenuto in questi volumi. Una delle poche fonti coeve da cui si possono ricavare impressioni e resoconti su come la città visse gli anni della guerra è il libro di Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Venezia 19792.
71. Una descrizione dei monumenti più colpiti in G. Distefano-G. Paladini, Storia di Venezia, pp. 59-60. V. A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza, p. 34.
72. Sul numero e sulla portata delle incursioni v. anche i dati elaborati da Giuseppe Solitro, Padova nella guerra 1915-1918, Padova 1931, p. 143.
73. Lettera del patriarca di Venezia Pietro La Fontaine a papa Benedetto XV, Venezia 11 agosto 1916, in I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di Antonio Scottà, Roma 1991, pp. 44-45.
74. Sulle conseguenze della rotta dopo Caporetto v. Mario Isnenghi-Giorgio Rochat, La Grande Guerra 1915-1918, Firenze 2000, pp. 421-438.
75. Ibid., pp. 442-452.
76. V. il quadro che emerge dalla Lettera del patriarca di Venezia Pietro La Fontaine a papa Benedetto XV, Venezia 14 novembre 1917, in I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di Antonio Scottà, Roma 1991, pp. 55-56, ma anche la descrizione di G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, p. 209, che insiste maggiormente sulla militarizzazione della città.
77. Cf. Silvio Tramontin, Il cardinale Pietro La Fontaine patriarca di Venezia ed il suo tempo, «Archivio Veneto», 129, 1987, p. 52 (pp. 45-71).
78. Spunti nuovi su questo tema vengono proposti da Gaetano Quagliarello, Masse, organizzazione, manipolazione. Partiti e sistemi politici dopo il trauma della grande guerra, in Il partito politico dalla grande guerra al fascismo: crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa, 1918-1925, a cura di Fabio Grassi Orsini-Gaetano Quagliarello, Bologna 1996, pp. 15-71, ma molti dei saggi ivi contenuti affrontano il tema della riforma della politica nel primo dopoguerra italiano ed europeo.
79. V. Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Padova 2001.
80. Cf. ibid., p. 17.
81. Cf. Alberto Acquarone, Violenza e consenso nel fascismo italiano, «Storia Contemporanea», 1979, nr. 1, pp. 145-146 e i contributi di Adrian Lyttelton, Jens Petersen, Paolo Nello pubblicati nel numero monografico della stessa rivista intitolato Il problema della violenza nel fascismo italiano (1982, nr. 6, pp. 965-1028).
82. V. in partic. le posizioni di due giornali importanti come «Il Gazzettino» e la «Gazzetta di Venezia» ben analizzate in G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 23.
83. V. ad esempio l’articolo anonimo Le radici ideali del fascismo, «Italia Nuova», 29 novembre 1920, attribuibile allo stesso Marsich come suggerisce l’analisi della struttura del giornale compiuta da Matteo Giacomello, «Italia Nuova» 1920-1945: l’organo ufficiale del fascismo veneziano, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1992-1993, p. 5.
84. Ci si riferisce essenzialmente a Raffaele A. Vicentini, Il movimento fascista veneto attraverso il diario di uno squadrista, Venezia s.a. [ma 1935]. Sulle difficoltà incontrate dall’autore nella pubblicazione di questa cronistoria v. Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, p. 425 (pp. 405-436).
85. V. Mario Isnenghi, Il mito della grande guerra, Bologna 1989.
86. Giuseppe Bottai, Parole alla buona, «L’Ardito», 15 giugno 1919 (ristampato in Id., Pagine di critica fascista, a cura di Federico Maria Pacces, Firenze 1941, p. 9).
87. Cf. tra i lavori più recenti Giovanni Sabbatucci, La generazione della guerra, «Parole Chiave», 16, 1998, pp. 124-125 (pp. 115-127), e Dianella Gagliani, Giovinezza e generazioni nel fascismo italiano: dalle origini alla RSI, ibid., pp. 129-136 (pp. 129-158).
88. Sul tema cf. Felicita De Negri, Agitazioni e movimenti studenteschi nel primo dopoguerra in Italia, «Studi Storici», 16, 1975, nr. 3, pp. 733-763.
89. Un testo cui spesso si ricorre per l’analisi di questa problematica generazionale è quello di Grildrig [Alberto Cappa], Le generazioni del fascismo, Torino 1924.
90. Giulia Albanese segnala la prevalenza di questa fascia generazionale tra i componenti dell’associazione denominata Cavalieri della morte, su cui si rimanda a Ead., Alle origini del fascismo, pp. 176-183.
91. Tra le poche ricerche disponibili segnaliamo quella di Paolo Nello, L’avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari 1978.
92. Cf. Emilio Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Roma-Bari 1989, pp. 478-479.
93. V. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 56.
94. La responsabilità dell’episodio, per lungo tempo dimenticato, fu inizialmente attribuita a esponenti socialisti. L’autore materiale non fu mai identificato. La sera dell’attentato la polizia attuò quattro arresti, tra cui un esponente socialista fermato in stato di ubriachezza, processato per direttissima e condannato a due anni di prigione. Quindici anni più tardi Raffaele Vicentini rivendicò la paternità fascista della bomba. Cf. ibid.
95. Vicentini sostiene che il Fascio veneziano nacque il 10 marzo 1919, data coincidente con la pubblicazione ne «Il Gazzettino» di un appello di cui per altro non vi è traccia (v. ibid., pp. 1-2).
96. Francesco Piva, basandosi sulla notizia apparsa nell’articolo Il telegramma del fascio di Venezia, «Il Popolo d’Italia», 21 aprile 1919, indica come data probabile quella del 23 aprile. V. F. Piva, Lotte contadine, p. 154 n. 34. Anche Ernesto Brunetta parla genericamente del mese di aprile in Dalla grande guerra alla Repubblica, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 937-938 (pp. 911-1035).
97. Ci si riferisce a G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 25, dove si cita l’articolo Associazione combattenti, «Il Gazzettino», 15 aprile 1919.
98. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 2. Lo stesso autore segnala tra i nomi di quanti aderirono per iscritto all’adunata di S. Sepolcro Alberto Angeli, Alberto Berengo Garbini, A. Bonaldi, Alessandro Caccia, Camillo Contini, l’ing. A. Gottardi, Giulia Marconi, Antonio Vianello (ibid., p. 3).
99. Qualche altra notizia si ricava dal più famoso nipote Hugo Pratt, Le pulci penetranti, Venezia 1971, ad nomen.
100. Cf. Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1815-1925), Roma-Bari 1975, p. 47.
101. Ci riferiamo alle valutazioni espresse da Id., Storia del partito fascista, p. 27.
102. Cf. Fascio di combattimento, «Il Gazzettino», 20 aprile 1919.
103. Su di lui v. Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia 1976, ad indicem.
104. Le discordanze con quanto riportano altre fonti circa la composizione dei primi organismi interni al Fascio sono piuttosto elevate. Cf. ad esempio i dati riportati da Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione fascista 1919-1922, I, Anno 1919, Firenze 1929, mentre F. Piva, Lotte contadine, p. 154, utilizzando documenti prefettizi, fa cenno alla costituzione di una commissione esecutiva composta da Eugenio Genero, Domenico Acerbi, Giuseppe Zara, Raffaello Levi, Annibale Dorigo, Flavio Poli e Celestino Marchetti.
105. Per un quadro generale delle diverse realtà operanti in questo ambito rimane ancora insuperato il lavoro di Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari 1974.
106. Sul clima di esaltazione patriottica che contraddistinse quelle settimane cf. Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, I, Bologna 1991, pp. 528 ss., e Nicola Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, Milano 1996, pp. 130-165.
107. V. G. Damerini, D’Annunzio e Venezia, p. 247.
108. Per la cronaca della giornata cf. La propaganda del fascio veneziano di combattimento, «Il Gazzettino», 26 aprile 1919.
109. Cf. G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 33.
110. A raccolta!, «Il Popolo d’Italia», 23 novembre 1918, cit. in E. Gentile, Storia del partito fascista, p. 21.
111. V. «Il Popolo d’Italia», 24 marzo 1919.
112. Fasci di combattimento, ibid., 27 marzo 1919.
113. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 25-26.
114. Su questa fase cf. G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 34.
115. Esponente di una famiglia della media borghesia, Baseggio era nato a Venezia nel maggio del 1901. Fratello del più famoso Francesco (Cesco), attore teatrale, egli interruppe ben presto, come molti altri aderenti della prima ora provenienti dall’area democratica e repubblicana, le attività nel Fascio.
116. Su di lui v. il ritratto di Silvio Trentin, Mario Marinoni: cenno necrologico, «Ateneo Veneto», 1922, nr. unico, pp. 53-57.
117. F. Piva, Lotte contadine, p. 135. Concorda nella sostanza con questa interpretazione anche Luca Pes, Il fascismo urbano a Venezia. Origine e primi sviluppi. 1895-1922, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, p. 74 (pp. 63-84).
118. V. Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma 2000, pp. 41-42.
119. Cf. ibid., p. 43.
120. È quanto si può dedurre da un panoramico confronto della bibliografia ricostruita da Frank Rosengarten, Silvio Trentin dall’interventismo alla resistenza, Milano 1980 [New York 1977], pp. 229-231.
121. La svolta può essere fatta risalire alle celebrazioni per il trentennale della morte di Trentin (v. Atti del convegno di studi su Silvio Trentin, Jesolo, 20 aprile 1975, Vicenza 1976, in appendice il testo di Norberto Bobbio, Commemorazione di Silvio Trentin, S. Donà del Piave 9 novembre 1974, pp. 109-123), dalle quali presero le mosse varie iniziative di ricerca e il progetto di pubblicazione delle Opere scelte apparse presso l’editore Marsilio.
122. Così si esprime Moreno Guerrato nella Prefazione a Silvio Trentin, Politica e amministrazione. Scritti e discorsi 1916-1926, a cura di Id., Venezia 1984, p. XIX (pp. IX-LX).
123. Cf. F. Rosengarten, Silvio Trentin, p. 55.
124. Cf. F. Piva, Lotte contadine, p. 135.
125. Qualche anno più tardi, Trentin ragionando sul programma dei Fasci e sulle origini del fascismo (L’aventure italienne. Légendes et réalités, Paris 1928), ribadì il suo appoggio ad alcuni punti del programma mussoliniano, aggiungendo: «Leggendo quel singolare documento, si finisce per chiedersi — tanto appare incredibile la realtà delle cose — se l’uomo che lo ha redatto sia proprio lo stesso che pochissimi anni dopo, e rappresentando la stessa associazione politica, doveva assumere il titolo e le funzioni di capo della reazione bianca in Italia». Cf. Silvio Trentin, Diritto e Democrazia. Scritti sul fascismo 1928-1937, introduzione di Angelo Ventura, a cura di Giannantonio Paladini, Venezia 1988, p. 6.
126. Il testo integrale della lettera, pubblicato con il titolo I fasci e le terre liberate, si trova in S. Trentin, Politica e amministrazione, pp. 3-4.
127. Il rapporto con il più importante esponente del moderatismo liberale veneto risaliva al 1911, anno nel quale Trentin pubblicò sulla luzzattiana «Rivista di Diritto Pubblico e dell’Amministrazione Italiana» il saggio L’odierna crisi dei comuni in Italia e i suoi rimedi amministrativi (1911, pt. I, pp. 230-254). Sul rapporto Trentin-Luzzatti cf. F. Rosengarten, Silvio Trentin, ad indicem.
128. V. Autonomia-Autarchia-Decentramento, in Annuario del R. Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Venezia per l’Anno Accademico 1924-1925, Venezia 1925, pp. 25-83 (ora anche in S. Trentin, Politica e amministrazione, pp. 335-374).
129. Sull’idea federalistica in Trentin v. l’intervento di Giovanni Paladini, in Atti del convegno di studi su Silvio Trentin, Jesolo, 20 aprile 1975, Vicenza 1976, pp. 27-44, e l’articolo di Maurizio Maddalena, Rivoluzione, autogestione e federalismo nel pensiero di Silvio Trentin, «Il Movimento di Liberazione in Italia», ottobre-dicembre 1973, pp. 69-105.
130. N. Bobbio, Commemorazione di Silvio Trentin, p. 114.
131. Cf. Silvio Trentin, Per un nuovo orientamento della legislazione in materia di bonifiche in rapporto alle presenti esigenze dell’economia nazionale, Venezia 1919.
132. Nel settembre 1920 l’allora deputato della Democrazia Sociale riuscì a far votare dal Parlamento la legge, da lui stesso preparata, per il sostegno finanziario della bonifica di 30.000 ettari di terreno paludoso compresi tra Sile, Piave e Livenza. V. S. Trentin, Politica e amministrazione, p. XXVII.
133. Cf. Quello che vogliamo, «Il Popolo», 6 settembre 1919.
134. Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino 1965, p. 571.
135. Cf. Pier Luigi Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’Unità al fascismo, Bologna 1988, pp. 179-207; Serge Noiret, La nascita del sistema dei partiti nell’Italia contemporanea. La proporzionale del 1919, Manduria-Bari 1994; Maria Serena Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Roma-Bari 1996, pp. 197-225.
136. La percentuale dei nuovi eletti fu effettivamente la più alta fatta registrare dal 1892 e toccò il 60%. Cf. Paolo Farneti, La classe politica italiana dal liberalismo alla democrazia, Genova 1989, p. 88 (tav. 24). Su questi dati pesò, come è stato sottolineato da M.S. Piretti, Le elezioni politiche, pp. 217-218, un numero elevato di abbandoni. Dei 427 rimasti alla fine della XXIV legislatura, 144 non si presentarono alla nuova competizione elettorale.
137. I dati sono tratti da Emilio Gentile, Fascismo e antifascismo: i partiti italiani fra due guerre, Firenze 2000, p. 14.
138. Sulle posizioni assunte dalle associazioni combattentistiche si rimanda a G. Sabbatucci, I combattenti, pp. 203-223.
139. La definizione fu coniata da Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, I, a cura di Roberto Vivarelli, Milano 1961, p. 502.
140. Citiamo le elaborazioni dei dati ufficiali proposte da Gianni Riccamboni in questo volume.
141. Secondo i dati di Riccamboni (cf. ibid., tab. 8) i liberali risultarono primi nella circoscrizione di S. Marco.
142. G. Sabbatucci, I combattenti, pp. 220-221.
143. Stoppoloni e Genero furono nel 1921 eletti nel consiglio direttivo del Fascio veneziano. V. Il Consiglio direttivo, «Italia Nuova», 27 dicembre 1921.
144. Gioppo figurava tra i sostenitori del periodico veneziano irredentista e antisocialista «Pro Venezia Giulia», promosso dall’omonimo circolo che raccoglieva studenti provenienti dalle regioni irredente. Il mensile era diretto da Antonio Nordio e tra i promotori vi figuravano Antonio Paladini, Andrea Busetto, Italo Regini. V. F. Piva, Lotte contadine, p. 46 n. 22.
145. Ferruccio Fioroli della Lena (Padova 1867-Treviso 1926), di nobile famiglia, medico, proveniente dall’esperienza radicale, fu tra i primi aderenti al Fascio di combattimento e tra quanti nel ’19 sostennero l’alleanza con la Democrazia Sociale.
146. Su di lui qualche cenno in M. Reberschak, L’economia, p. 251.
147. Le prove dei finanziamenti vengono fornite da F. Piva, Lotte contadine, pp. 143-145.
148. L’elenco fu pubblicato in Per la nostra sottoscrizione, «Italia Nuova», 29 novembre 1920.
149. Cf. F. Piva, Lotte contadine, pp. 142-143. Sulla vicenda Lanfranchi v. anche le nuove acquisizioni portate da L. Pes, Il fascismo adriatico.
150. Il fenomeno, come del resto larga parte della storia del movimento operaio, non è ancora stato adeguatamente studiato. Sugli episodi di occupazione delle fabbriche v. D. Resini, Cronologia, pp. 399-400.
151. Gli elementi essenziali della sua biografia sono tratti da Giovanni Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, a cura di Emilio Gentile, Roma-Bari 1981, pp. IX-XXXI.
152. Il Patto Nuovo. Programma, Roma, giugno 1918.
153. Cf. G. Giuriati, La parabola di Mussolini, pp. XVII-XIX.
154. V. Id., L’opera della ‘Trento e Trieste’ nell’ultimo periodo della guerra. Relazione del vice-presidente al XII congresso nazionale, Trieste 1-3 giugno 1919, Roma 1919. Giuriati trasferì la sede centrale a Venezia, ottenne copiosi aiuti economici da banche, società commerciali e da varie industrie.
155. Cf. il resoconto autobiografico Id., Con D’Annunzio e Millo in difesa dell’Adriatico, Firenze 1954, e Paolo Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Milano 1959; Michael A. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, Roma-Bari 1975; Renzo De Felice, D’Annunzio politico 1918-1938, Roma-Bari 1978.
156. Il tentativo compiuto a Venezia fu simile a quelli realizzati in altri contesti, ad opera della «borghesia ;patriottica». Cf. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 72-74.
157. Pietro Orsi ne presentò il programma su «Il Gazzettino» scrivendo che obiettivo della nuova formazione politica era «ricostruire quella concordia nazionale che ci salvò dopo Caporetto, per ristabilire l’ordine ed il prestigio dello stato: quando all’estero vedranno l’Italia marciare sicura verso i suoi alti destini potremo risolvere anche il problema dell’Adriatico senza nulla mendicare dagli alleati»: tale intervento viene riportato in Alleanza Nazionale, «Il Gazzettino», 6 luglio 1920.
158. V. a tal proposito G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 56 dove si accenna anche all’espulsione dal Fascio di Guidi Bergamo per il suo dissenso dalla decisione di aderire all’Alleanza Nazionale.
159. Davide Giordano (Courmayeur 1864-Venezia 1954), figlio di un maestro evangelico della Chiesa valdese, si laureò in medicina a Torino nel 1887. Arrivò a Venezia nel 1894 per assumere il ruolo di primario all’Ospedale Civile, dopo aver lavorato all’ospedale di Torre Pellice e all’Università di Bologna. Fu sindaco della città dal 1920 fino al ’24, anno nel quale fu nominato senatore. Socio effettivo dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti dal 1919, ne fu presidente dal 1930 al 1932.
160. Tale ripartizione dei compiti viene eplicitata nel corso di una riunione del consiglio direttivo del Fascio di combattimento tenutasi il 22 settembre 1920. Cf. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 68. Sempre la stessa fonte riferisce (p. 72) di un’assemblea dell’Alleanza Nazionale tenutasi il 20 ottobre nel corso della quale Marsich dichiarò il pieno appoggio al programma dell’Alleanza, presentò Giuriati come il candidato fascista e mise a disposizione tutti i militanti e i mezzi di cui disponeva il Fascio per la campagna elettorale.
161. Sulla genesi di questo accordo molte informazioni ci vengono dal Diario del cardinale La Fontaine analizzato in Silvio Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, Roma 1975, pp. 8-25.
162. Secondo la «Gazzetta» fu lo stesso Marinoni a perorare l’ipotesi di un accordo con i popolari presso il patriarca La Fontaine. La notizia trova in effetti conferma ibid., p. 20. Per il dibattito sulla stampa locale in merito al tentativo compiuto dalla Democrazia Sociale v. I democratici votano l’intransigenza, «Gazzetta di Venezia», 17 ottobre 1920, e Verso la liquidazione della socialdemocrazia, ibid., 20 ottobre 1920.
163. Per una rassegna degli articoli elettorali pubblicati dal giornale cattolico cf. S. Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, p. 77 n. 12.
164. Cf. Piero Marsich, Il blocco e il nostro atteggiamento, «Italia Nuova», 12-13 ottobre 1920.
165. La Democrazia Sociale ottenne 1.900 voti contro i 3.300 conquistati nel ’19.
166. V. F. Rosengarten, Silvio Trentin, pp. 66-67.
167. Sulla distribuzione delle deleghe cf. S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 62. Circa l’atteggiamento del mondo cattolico nei confronti della giunta, va ricordato che il patriarca La Fontaine aveva avanzato in sede riservata qualche perplessità per la candidatura di Giordano, di religione protestante. Dopo l’elezione del nuovo sindaco il cardinale gli inviò una lettera di congratulazioni, ma quando lesse il discorso di insediamento, dove Giordano aveva espresso considerazioni ritenute «non ortodosse su Paolo Sarpi, Giordano Bruno e Galileo Galilei», incaricò don Cisco di rispondere con un articolo su «La Venezia». Cf. S. Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, p. 26.
168. Esemplare in questo senso l’articolo di Piero Mar;sich, Vittoria nostra, «Italia Nuova», 4 novembre 1920. Sui festeggiamenti fascisti cf. le cronache riportate da R.A. Vicentini, Il movimento fascista, pp. 75-78. Nel 1930 il segretario federale Giorgio Suppiej, in occasione dell’insediamento della seconda consulta municipale, ricordò la vittoria amministrativa di Giordano, presentato come il primo sindaco fascista. V. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Verbale Consulta, 11 ottobre 1930.
169. Atti del Consiglio Comunale, Anno 1921, Venezia 1922, pp. 621-622.
170. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Consiglio Comunale 1922-1923.
171. Sulla pratica dello scioglimento dei consigli comunali e sull’uso dei commissari cf. lo studio di Luigi Ponziani, Il fascismo dei prefetti. Amministrazione pubblica e politica nell’Italia meridionale 1922-1926, Catanzaro 1995, pp. 19-67.
172. Nella sostanza la legge del 1926 prevedeva la cancellazione dei tre organi fondamentali dei Comuni (consiglio, giunta, sindaco), azzerando così il principio dell’elettività delle cariche e della rappresentanza. L’intero potere decisionale veniva concentrato nella figura del podestà, nominato con decreto reale. Al suo fianco nei Comuni maggiori doveva essere posta una consulta, formata per un terzo da cittadini scelti direttamente dal prefetto e per i restanti due terzi da membri designati da enti economici, sindacati e associazioni locali. Questi criteri subirono importanti modificazioni. Sulla legislazione fascista sugli enti locali cf. Ettore Rotelli, La trasformazione dell’ordinamento comunale e provinciale durante il regime fascista, in Id., L’alternativa delle autonomie. Istituzioni locali e tendenze politiche dell’Italia moderna, Milano 1978, pp. 177 ss. (pp. 177-232).
173. Nella relazione che accompagnò le dimissioni poteva scrivere, con una punta di compiacimento, che la minoranza durante il suo mandato era divenuta «smontata e sparuta» e che «tre soli di quei consilieri assistevano, silenti, alla votazione del bilancio pel 1923». Cf. Relazione del Commissario Davide Giordano sulla Amministrazione straordinaria del Comune di Venezia 4 aprile 1923-5 agosto 1924, Venezia 1924, p. 3.
174. Il ritorno alla normalità e la ripresa delle attività produttive furono particolarmente complessi per il rientro dei profughi che avevano abbandonato la città. Alla fine della guerra Venezia contava 50.000 abitanti sui 154.624 registrati nel 1911.
175. Sulla situazione delle finanze comunali nel primo dopoguerra e sui tentativi di riordino delle stesse, rimandiamo al lavoro di Luca Baldissara, Tecnica e politica nell’amministrazione. Saggio sulle culture amministrative e di governo municipale fra gli anni Trenta e Cinquanta, Bologna 1998, pp. 199-232.
176. Nel 1919 il deficit fu di L. 17.941.962, nel 1920 di L. 21.926.541, nel 1921 di L. 12.936.000, nel 1922 di L. 2.030.300. Cf. Davide Giordano, Il bilancio di previsione 1924 del Comune di Venezia, «Rivista Mensile della Città di Venezia», 3, 1924, nr. 2, p. 29.
177. Ibid., p. 30.
178. Un’analisi dei dati di bilancio per il periodo 1913-1928 in Mauro Mezzalira, Tra controllo e autonomia. Ordinamento e funzionamento dell’ente locale nell’esperienza dell’Amministrazione comunale di Venezia in periodo fascista (1928-1938), tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, a.a. 1993-1994, pp. 87-88.
179. Cf. G. Giuriati, La parabola di Mussolini, p. 278.
180. Su questa fase di espansione e militarizzazione dei Fasci di combattimento rimane fondamentale il ;lavoro di Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari 1974, in partic. le pp. 83-114.
181. Cf. G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 81-118.
182. Un resoconto dei fatti è fornito da R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 103. Ma v. anche G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 90-91.
183. Cf. Una seduta di incidenti e tumulti al Consiglio Comunale e dentro e fuori dell’aula consigliare. Tafferugli, ferimenti, arresti, «Il Gazzettino», 16 marzo 1921.
184. V. Per una volontà di pace sociale, «Il Popolo», 11 aprile 1921.
185. Una ricostruzione dell’episodio, basata su nuovi documenti d’archivio, e delle sue conseguenze in G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 98-101.
186. Si trattava di Giacomo Caporin, un ex combattente inquadrato in una delle quattro squadre d’azione. L’uccisione dello squadrista provocò l’unica discussione del consiglio comunale sul tema della violenza politica. V. Atti del Consiglio Comunale, Anno 1921, seduta del 26 aprile 1921, p. 245.
187. Sulla battaglia di Castello cf. A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza, p. 94, oltre alla recente ricostruzione proposta da G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 107-112.
188. Cf. Gabriele De Rosa, Il Partito popolare italiano, Roma-Bari 1976, p. 96.
189. Cf. S. Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti nel Veneto, p. 36. Il conte Bon, avvocato, eletto più volte consigliere comunale nelle liste moderate, ricopriva in quel momento l’incarico di assessore all’industria e commercio nella giunta Giordano.
190. Per la ricostruzione delle laboriose trattative v. ibid., pp. 33-37. In realtà la notizia riportata da Tramontin non è corretta poiché Bon alla fine si candidò nella lista dell’Unione Nazionale.
191. M. [Piero Marsich], Elezioni fasciste, «Italia Nuova», 15 aprile 1921.
192. Francesco (Cesco) Bonaldi (Venezia 1899-Milano 1965), sottotenente degli alpini, a 17 anni fu ferito sul fronte francese e decorato al valor militare, aderì al Fascio di combattimento nel 1919, provenendo dal movimento dei combattenti. Iniziò l’attività di pubblicista nel giornale di Marsich dal momento della sua fondazione, divenendo dal novembre 1921 il corrispondente del «Popolo d’Italia» da Venezia. Rimase fedele a Marsich fino alla sua espulsione dal partito nel giugno 1922. Nel 1930 si trasferì a Milano dove rimase fino alla morte.
193. Gli altri candidati furono Camillo De Carlo, medaglia d’oro al valor militare, Gino Coletti, Amedeo Sandri e Igino Magrini. Sulle candidature cf. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, pp. 115-116.
194. Piero Marsich, Le ragioni di un rifiuto. Lettera aperta ai fascisti, «Italia Nuova», 21 aprile 1921.
195. V. Il nostro candidato, ibid., 30 aprile 1921.
196. Per le preferenze di lista cf. Ministero dell’Economia Nazionale-Direzione Generale della Statistica, Statistica delle Elezioni Generali Politiche per la XXVI legislatura (15 maggio 1921), Roma 1924, pp. 146-149. Circa i risultati ottenuti dai candidati fascisti all’interno delle liste dei blocchi v. Jens Petersen, Elettorato e base sociale del fascismo italiano negli anni venti, «Studi Storici», 16, 1975, nr. 3, pp. 642-643 (pp. 627-669).
197. Cf. La protesta dei socialisti, «Il Gazzettino», 26 maggio 1921. La circostanza degli incidenti di Pellestrina viene confermata anche da R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 124.
198. Il testo del ricorso fu pubblicato ne «Il Popolo» del 20 maggio a firma di Angelo Fano.
199. M. [Piero Marsich], Ripresa, «Italia Nuova», 16 maggio 1921.
200. «Non ci sorprende affatto che il pecorume nero o rosso abbia avuta la maggioranza dei suffragi e lo lasciamo ai suoi gongolamenti infantili [...]. Non manchiamo però di notare che nelle zone dove più violenta è stata l’azione fascista, le forze nazionali hanno realizzato notevoli successi. Tipico è l’esempio di Chioggia. Ciò sta a smentire la considerazione idiota del foglio socialista e del suo ormai degno alleato, il Gazzettino, i quali attribuiscono alla violenza fascista la colpa delle buone votazioni dei socialisti. Dove l’azione fascista ha potuto liberamente svilupparsi, il socialismo non ha avuto reazioni vittoriose. Il socialismo ha realizzato dei vantaggi proprio solo in quei luoghi, come la città di Venezia dove, per condizioni ambientali e contingenti, l’azione fascista non ha ancora quello sviluppo cui aspira [...]. Forse non starebbe male alla borghesia veneziana il vedere, come le vede la borghesia trevigiana, le bandiere rosse sventolare in piazza S. Marco»: Constatazioni, ibid., 19 maggio 1921.
201. A proposito di violenza, ibid., 26 maggio 1921.
202. «Bisogna che la gente si convinca che i fascisti non sono della gente che si fa della violenza un’estetica che sarebbe una pessima estetica, ma sono dei convinti pionieri di un’idea, pronti a farla valere dove occorra, con qualsiasi mezzo. La violenza utile e necessaria suscita sempre l’ammirazione: la violenza inutile crea il discredito». In concreto se «si vede un distintivo rosso che è ostentatamente sfoggiato a scopo di palese provocazione [...] non occorre però neppur per questo rompere la testa al malcapitato: il fascismo deve immediatamente affrontare l’occasione per discutere e persuadere l’avversario della sua stoltezza imponendogli la cessazione della spavalderia. Solo se l’avversario passi per primo alla violenza, la violenza dovrà essere controbattuta»: ibid.
203. Sugli episodi di violenza della «settimana rossa» e sui primi tentativi di pacificazione cf. G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 142-148.
204. V. Mario Fabbro, Fascismo e lotta politica in Friuli (1920-1926), Venezia 1974, ad nomen.
205. Sul progetto di riorganizzazione delle squadre cf. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, pp. 124-133.
206. Sul significato politico di questa iniziativa avviata da Mussolini stesso e sulle sue conseguenze v. Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere 1921-1925, Torino 1966, pp. 100-201.
207. Cf. Dimissioni di Marsich dal consiglio centrale dei fasci. Le squadre inviano un monito a Giuriati e un entusiastico saluto a D’Annunzio, «Italia Nuova», 4 luglio 1921. A distanza di anni Giuriati commentò così la reazione dei fascisti veneziani di fronte all’ipotesi di una tregua: «gli squadristi ne furono in genere scandalizzati; come tutti i buoni combattitori non ammettevano che si trattasse col nemico mentre durava la guerra e consideravano perciò il patto come una prova di debolezza da parte del comando. A Venezia, poi, dove Mussolini [...] non godeva buonissima stampa, le esplosioni verbali furono veementi, naturalmente anche contro di me, che per un quarto d’ora fui definito dai più accesi come traditore, se non peggio». V. G. Giuriati, La parabola di Mussolini, p. 95.
208. Significativi gli articoli Luci e ombre della situazione elettorale, «Italia Nuova», 21 aprile 1921, e La nostra via, ibid., 5 maggio 1921, nei quali non nascose la sua ostilità per il filogiolittismo di Mussolini.
209. E Marsich continuava: «Il gruppo [parlamentare] non s’illuda di evitare l’urto puntellando i moribondi. Esso anzi si assume la grave responsabilità di indebolire le nostre forze e di scindere la nostra compagine. Il gruppo non trascinerà mai le squadre di azione del fascismo, e cioè la parte viva dell’organizzazione, sul terreno della collaborazione coi vecchi poteri dello Stato [...]. Per conto nostro, restiamo col grande superstite, con Gabriele D’Annunzio, e cioè col fascismo incorruttibile»: Il fascismo e il gruppo parlamentare, ibid., 11 luglio 1921.
210. Cf. Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo (1919-1926), Firenze 1983, pp. 188-189. Sul ruolo dei fascisti veneziani nella spedizione v. G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 134-142.
211. V. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 261-264. Anche Giuriati, che non aveva diritto di voto, intervenne schierandosi con Mussolini e denunciando «il pericolo Nitti», la possibilità di una manovra parlamentare mirante a stringere un accordo con i socialisti e i popolari. Ibid., p. 164 n. 82.
212. I dati sono ibid., pp. 154 (tab. 2) e 547 (tab. 5).
213. Cf. I fasci veneti contro il gruppo parlamentare e contro le trattative, «Gazzetta di Venezia», 2 agosto 1921, e Il convegno dei fasci, «Il Gazzettino», 2 agosto 1921.
214. Cf. E. Gentile, Storia del partito fascista, p. 290.
215. Il testo dell’ordine del giorno si trova in R. De Felice, Mussolini il fascista, I, p. 153.
216. D’Annunzio non fu solo evocato, ma fu anche cercato. Secondo quanto scrive De Felice, Grandi e Balbo (senza Marsich perché ammalato) si recarono a Gardone da D’Annunzio per invitarlo a mettersi a capo del movimento. Il poeta diede risposte evasive e i due decisero di andare a Milano per trattare con Mussolini. Ibid., p. 151 n. 3.
217. Marsich, pochi giorni dopo l’adunata di Bologna, scrisse: «Non siamo disposti a sacrificare il fascismo a Mussolini [...]. Gli avvenimenti superano talvolta le capacità interiori ed anche le massime intelligenze. Il destino assegna a taluni una funzione che ha dei limiti cronologici. Noi non siamo dei feticisti che per l’idolo rinneghiamo l’idea. Ma saremmo ben lieti se Mussolini, ritornando a noi, riprenderà la sua funzione»: M. [Piero Marsich], Tendenze del fascismo e tragedia nazionale, «Italia Nuova», 18 agosto 1921.
218. Giuriati fu l’unico dirigente a rendere esplicito il suo dissenso. Cf. Le dimissioni dell’on. Giuriati, ibid., 19 agosto 1921.
219. V. G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 156.
220. L’episodio, inizialmente ignorato da «Italia Nuova», fu ripreso da altri giornali. Cf. ad esempio Dimissioni di fascisti dal fascio, «Gazzetta di Venezia», 23 agosto 1921; I ventidue dimissionari, «Il Gazzettino», 25 agosto 1921.
221. Sulle adesioni e sull’attività del gruppo si sofferma anche A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza, p. 105.
222. Cf. G. Li Causi, Il lungo cammino, pp. 86-87.
223. Per una ricostruzione di questi episodi v. G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 175-179.
224. Sintomatico in questo senso fu l’articolo apparso pochi giorni dopo l’aggressione di Li Causi. Cf. I Cavalieri della Malavita, «Italia Nuova», 19 settembre 1921. Nei mesi successivi i rapporti tra le due organizzazioni si fecero meno tesi: molti indizi lasciano supporre che fosse subentrata una più o meno esplicita divisione dei campi di intervento. È quanto si deduce da G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 183-184.
225. Concetti simili aveva già espresso la «Gazzetta di Venezia» all’indomani delle elezioni del maggio 1921. V. Il dovere del momento, 24 maggio 1921.
226. Cf. Benito Mussolini, Verso il futuro, «Il Popolo d’Italia», 25 agosto 1921.
227. Id., Disciplina, ibid., 25 settembre 1921.
228. S. Lupo, Il fascismo, p. 106.
229. Piero Marsich, Stato e costituzione Fiumana, «Italia Nuova», 24 agosto 1921.
230. M. [Piero Marsich], Partito o movimento?, ibid., 29 agosto 1921.
231. Cf. E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 330-331.
232. V. Piero Marsich, Salvare il fascismo, «Italia Nuova», 25 ottobre 1921.
233. «In questa nuova lotta noi sentiamo che Mussolini non è più con noi. Non ci intende più. Non comprende più l’anima del fascismo [...]. Ma il fascismo non si impersona in nessuno. Accettò ed esaltò l’idolo finché fu l’espressione corale del suo spirito interiore: ma questo spirito non accetta il despota»: M. [Piero Marsich], Lotta aperta, ibid., 27 ottobre 1921.
234. Giovanni Giuriati, Il pericolo del partito fascista, ibid., 22 settembre 1921.
235. V. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, pp. 163-164.
236. Gran parte delle sue riflessioni sull’esperienza sindacale sono raccolte in Giuseppe Roberto Mandel, Sindacalismo fascista, Torino 1924. Sugli anni trascorsi a Venezia v. anche il romanzo Dopo la guerra. Romanzo diciannovista d’ambiente veneziano, Milano 1934. Qualche notizia biografica su di lui in Cécile Toumarinson, Roberto Mandel. L’uomo, l’oratore, il poeta, Milano 1960.
237. Quello di Venezia si era dichiarato contrario. Nel Veneto a favore della proposta di Mussolini si dichiararono le province di Verona e Padova. Per un quadro generale dell’andamento dei congressi provinciali si rimanda a E. Gentile, Storia del partito fascista, p. 351.
238. Sulle loro posizioni espresse durante i lavori del consiglio nazionale cf. Paolo Nello, Dino Grandi. La formazione di un leader fascista, Bologna 1987, pp. 136-148.
239. Dal resoconto delle votazioni proposto da E. Gentile, Storia del partito fascista, pp. 382-383, si deduce che i delegati delle province di Belluno e Vicenza, controllate da De Stefani, votarono a favore della trasformazione in partito, mentre i Fasci del Polesine votarono contro.
240. Su questa nuova fase dell’attività dei Cavalieri cf. G. Albanese, Alle origini del fascismo, p. 187.
241. Ibid., p. 204.
242. Il testo della lettera si trova in R. De Felice, Mussolini il fascista, I, pp. 198-199.
243. «Si tratta di miserie. Soltanto osservo che già da molti mesi io mi sono proposto di liberare il fascismo italiano dalla mia ‘infausta egemonia’. Non ho raggiunto il mio scopo soltanto perché hanno implorato, dico implorato di restare ad esercitarla questa ‘infausta egemonia’»: Benito Mussolini, Contro il miserabile tentativo di secessione, «Il Popolo d’Italia», 15 marzo 1922.
244. Emilio Gentile esprime alcune fondate perplessità a tal riguardo. Cf. Id., Storia del partito fascista, pp. 451-452.
245. Grandi intervenne nella polemica in corso con l’articolo Il Mito e la Realtà, «Il Popolo d’Italia», 2 aprile 1922. Sull’atteggiamento del gerarca emiliano v. P. Nello, Dino Grandi, p. 160.
246. Rosolino Davy Gabrielli era nato a Palermo nel 1892. Squadrista, fu segretario della federazione dalla sua costituzione avvenuta il 16 dicembre 1921 al 10 giugno 1922. Giornalista, collaborò a varie testate e periodici. Su di lui cf. Mario Missori, Gerarchie e statuti del P.N.F. Gran Consiglio, direttorio nazionale, Federazioni provinciali: quadri e biografie, Roma 1986, p. 196.
247. La relazione del consiglio nazionale di Milano all’assemblea del fascio di Venezia, «Italia Nuova», 15 aprile 1922.
248. La cronaca dell’assemblea si trova in R.A. Vicentini, Il movimento fascista, pp. 224-226.
249. Su questi passaggi v. G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 217-220.
250. Cf. La costituzione del nuovo fascio di combattimento, «Italia Nuova», 12 giugno 1922.
251. La cifra viene indicata da R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 227. I nomi di altri aderenti vengono segnalati nell’articolo Non scissioni, non fazioni ma una più vasta concordia operosa. Ricomincia fuori dai partiti la nostra battaglia nazionale. La importante assemblea del fascio veneziano, «Italia Nuova», 19 giugno 1922.
252. Lo scioglimento del fascio veneziano, «Italia Nuova», 31 luglio 1922; fu questo l’ultimo numero del giornale fondato da Marsich.
253. Cf. Un pronunciamento di dissidenti nella sede del fascio veneziano, «Gazzetta di Venezia», 15 dicembre 1922. Sulla vicenda si rimanda a F. Piva, Lotte contadine, p. 283 n. 31.
254. Lo scioglimento del fascio veneziano.
255. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, b. 46, fasc. 242 R, (Giorgio Suppiej), relazione del segretario politico provinciale del P.N.F. di Venezia, 19 luglio 1925. Documento citato in F. Piva, Lotte contadine, pp. 272-273.
256. I risultati del congresso di Bologna esposti all’Associazione liberale, «Gazzetta di Venezia», 26 ottobre 1922.
257. È vero anche che la lettura delle poche ricostruzioni disponibili non suggerisce l’idea di una mobilitazione del fascismo veneziano particolarmente imponente. V. G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 241-249. Sul significato della marcia rimandiamo alla interessante voce di Mario Isnenghi, La marcia su Roma, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di Id., Roma-Bari 1997, pp. 313-329.
258. Questo punto di vista viene bene espresso dall’articolo Imponente dimostrazione patriottica per salutare l’evento del Ministero Mussolini, «Gazzetta di Venezia», 1° novembre 1922.
259. Giuseppe Antonio Borgese, The Intellectual Origins of Fascism, «Social Research», 4 novembre 1934.
260. Sul peso dei diversi fascismi locali cf. Massimo Legnani, Sistema di potere fascista, blocco dominante, alleanze sociali. Contributo a una discussione, in Il regime fascista, a cura di Angelo Del Boca-Massimo Legnani-Mario G. Rossi, Roma-Bari 1995, pp. 442-445.
261. Per una panoramica delle problematiche relative allo studio del fascismo a livello locale v. Nicola Gallerano, Le ricerche locali sul fascismo, «Italia Contemporanea», 42, 1991, nr. 184, pp. 388-397, mentre per una lettura critica della produzione dedicata a singoli casi di studio si rimanda a Marco Palla, La presenza del fascismo. Geografia e storia quantitativa, ibid., pp. 397-405.
262. Sul sindacato fascista cf. il classico lavoro di Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti 1918-1926, Roma-Bari 1974. Un recente contributo che tiene conto della nuova produzione in questo settore è quello di Adolfo Pepe, Il sindacato fascista, in Il regime fascista, a cura di Angelo Del Boca-Massimo Legnani-Mario G. Rossi, Roma-Bari 1995 pp. 220-243.
263. Le fonti ministeriali attestavano la presenza di 3.200 disoccupati nella provincia di Venezia. V. il «Bollettino del Lavoro e della Previdenza Sociale», citato in F. Piva, Lotte contadine, p. 236 n. 50.
264. Cf. L. Pes, Il fascismo urbano, pp. 81-83.
265. La vicenda viene efficacemente analizzata da F. Piva, Lotte contadine, pp. 274-277.
266. La sequenza di questi avvenimenti è riassunta in D. Resini, Cronologia, pp. 407-413. Sulla situazione dei partiti di opposizione dopo il ’22 v. Ernesto Brunetta, Figure e momenti del Novecento politico, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 170-172 (pp. 152-225).
267. Cf. Andrea Curcione, La «Gazzetta di Venezia» e l’avvento del fascismo, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1995-1996.
268. Un elenco completo dei corrispondenti si trova in Gianni Boldrin, Aristocrazie terriere e finanziarie all’assalto della stampa (1919-1925), in Giornali del Veneto fascista, Padova 1976, p. 73 n. 6 (pp. 17-78).
269. Cf. M. De Marco, Il Gazzettino, p. 60.
270. La rivista reca come sottotitolo «Rivista mensile edita a cura della Federazione provinciale Fascista di Venezia». Un discreto spazio alle vicende del partito veniva regolarmente dato nella rubrica intitolata Vita del fascismo veneziano. Per quanto riguardava le altre pubblicazioni promosse dal fascismo ricordiamo che dal 1932 si pubblicava «Il Ventuno», il periodico dei G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti), che si qualificò come «Rivista di letteratura, cinema, teatro, musica e arti figurative». Nel 1933 fu fondata la rivista «Europa svegliati», diretta da R. Famea, con un taglio illustrato dal sottotitolo «Mensile polemico internazionale dell’espansione fascista nel mondo».
271. Cf. Giorgio Suppiej, Un anno di lavoro e di fede nella relazione del Segretario Federale all’assemblea del Fascio Veneziano, 23 marzo a. VIII, «Il Bollettino», 21 aprile 1930.
272. I dati sono tratti da E. Gentile, Storia del partito fascista, p. 547.
273. In quell’occasione Giuriati affermò: «Col plebiscito del 24 marzo il popolo italiano [...] ha conferito al regime Fascista la pienezza dei poteri e delle responsabilità. Ciascuno di noi ha la sua parte, minuscola o importante. Ma Uno tutte le assomma, e poiché su Lui pesa il compito di realizzare le speranze del popolo e di guidare la Patria alla grandezza, Egli ha bisogno di poter contare su tutte le forze e su tutti gli istituti». V. Emilio Gentile, Introduzione a G. Giuriati, La parabola di Mussolini, pp. XXXI-XXXII.
274. Cf. Renzo De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino 1974, p. 209.
275. Sulla sua segreteria si possono confrontare i giudizi espressi ibid., pp. 209-216, con quelli di E. Gentile, Introduzione, pp. XXXIII-XLI e quelli più recenti di S. Lupo, Il fascismo, pp. 309-315.
276. Cf. Alessandro Lumboroso, Giuseppe e Domenico Giuriati nel Risorgimento italiano, «Le Opere e i Giorni», marzo-maggio 1931.
277. Cf. Roland Sarti, Giuseppe Volpi, in Uomini e volti del fascismo, a cura di Ferdinando Cordova, Roma 1980, p. 534 (pp. 521-546).
278. Questa è la data indicata da M. Missori, Gerarchie e statuti, p. 289.
279. V. Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del ‘problema di Venezia’, Venezia 1979, p. 224, lavoro al quale si rimanda per una descrizione delle dimensioni e delle caratteristiche raggiunte in quel momento dagli insediamenti industriali a Marghera (in partic. pp. 225-233).
280. Cf. R. Sarti, Giuseppe Volpi, p. 535.
281. Va segnalata la presenza, nel direttorio del P.N.F. veneziano che affiancò il nuovo segretario, dei massimi esponenti del fascismo cittadino quali Giuriati, Suppiej e Magrini. V. R.A. Vicentini, Il movimento fascista, p. 234.
282. Sull’accoglienza riservatagli dai giornali veneziani cf. Nel fascismo veneziano. Stefano Sciaccalunga, «Il Gazzettino», 26 luglio 1922, e Nel fascismo ufficiale veneziano, «Gazzetta di Venezia», 25 luglio 1922.
283. Foscari successivamente fornì una descrizione dei fatti con la quale tentò di separare le sue responsabilità da quelle dei fascisti. Cf. Piero Foscari, Un discorso del senatore Fradeletto all’Ateneo Veneto troncato all’esordio da dimostrazioni fasciste, «Gazzetta di Venezia», 26 settembre 1922.
284. Il 26 dicembre 1920 Fradeletto era stato malmenato da un gruppo di fascisti in piazza S. Marco. Sull’episodio cf. D. Ceschin, La ‘voce’ di Venezia, pp. 317-318.
285. La vicenda si concluse con l’irruzione nella sala dell’Ateneo Veneto dei fascisti guidati da Sciaccalunga, il quale spiegò le ragioni dei disordini con un ordine ricevuto direttamente da Mussolini. Per una più completa ricostruzione dell’episodio rimandiamo a G. Albanese, Alle origini del fascismo, pp. 231-235.
286. Queste difficoltà furono lo specchio di una fase di crisi vissuta dal P.N.F. anche a livello nazionale come dimostra Emilio Gentile, Il ruolo del partito nel laboratorio totalitario fascista, in Id., La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Napoli 1995, pp. 161-162 (pp. 155-201).
287. Sulle caratteristiche della legge e sulla sua preparazione cf. Giovanni Sabbatucci, Il ‘suicidio’ della classe dirigente liberale. La legge Acerbo 1923-1924, «Italia Contemporanea», 40, 1989, nr. 174, pp. 57-80.
288. Nel contributo pubblicato in questo volume.
289. V. le considerazioni e i dati pubblicati in S. Tramontin, Cattolici, popolari e fascisti, p. 57.
290. Cf. anche i dati pubblicati da R. De Felice, Mussolini il fascista, I, pp. 585-586.
291. Sulla campagna elettorale v. A. Lyttelton, La conquista del potere, pp. 227-239.
292. Ci riferiamo ai calcoli elaborati da J. Petersen, Elettorato e base sociale, pp. 648-649.
293. Amedeo Sandrini (Sesto a Réghena, Udine 1866-Roma 1936), avvocato, liberale moderato fu eletto alla Camera per la prima volta nel collegio di Portogruaro nelle elezioni del 1913. Fu successivamente rieletto a Venezia sia nel ’19 sia nel ’24. Nel 1929 fu nominato senatore. Nella sua attività di parlamentare si occupò molto dei problemi del profugato e dei danni di guerra. Fu segretario della Federazione nazionale degli avvocati. Su di lui cf. Alberto Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, III, Roma 1941, p. 101.
294. Luzzatti morì nel ’27, Molmenti nel ’28, Fradeletto nel ’30, Tecchio nel ’31. Nella pattuglia dei senatori trovava posto anche l’avvocato Adriano Diena, nominato nel 1913 per la 16° categoria («i membri dei Consigli di divisione, dopo tre elezioni alla loro Presidenza»). Filippo Grimani e Nicolò Papadopoli erano morti rispettivamente nel ’21 e nel ’22.
295. Secondo le stime pubblicate da J. Petersen, Elettorato e base sociale, p. 649, l’80% dei deputati fascisti era alla prima elezione, di questi due terzi erano al di sotto dei 40 anni. Non esistono studi sulla composizione della classe politico-parlamentare fascista. Qualche cenno introduttivo ad una ricerca di prossima pubblicazione viene fornito da Didier Musiedlak, A proposito della classe politica fascista, «Le Carte e la Storia», 6, 2000, pp. 38-40. L’unico lavoro che attualmente può fornire qualche utile indicazione, anche se principalmente riferito agli eletti del ’21, è quello di Daniele Pasquinucci, Verso il regime. Partito e gruppo parlamentare fascisti 1921-1924, «Italia Contemporanea», 46, 1995, nr. 199, pp. 205-219.
296. Giorgio Suppiej (Creazzo, Vicenza 1897-?), laureato in Legge all’Università di Padova nel 1920, avvocato pubblicista, partecipò alla Grande guerra con il grado di tenente dell’artiglieria. Si iscrisse ai Fasci di combattimento nel settembre del 1920, partecipò alla Marcia su Roma. Ricoprì molte cariche centrali e periferiche in seno al P.N.F. e in altri organismi delle istituzioni fasciste. Raggiunse l’apice della sua carriera nel 1939 quando fu nominato vicesegretario del P.N.F. A Venezia fu segretario federale in due occasioni dal 18 maggio 1924 al 17 marzo 1925 e dal 20 dicembre 1928 al 20 maggio 1934. Diresse anche «Italia Nuova». Altre notizie su di lui in M. Missori, Gerarchie e statuti, p. 279.
297. V. M. De Marco, Il Gazzettino, pp. 63-65.
298. La citazione è ibid., pp. 65-66.
299. Vilfredo Casellati (Adria, Rovigo 1894-?), avvocato, partecipò alla Grande guerra con il grado di capitano. Oltre agli incarichi politici fu vicepodestà di Venezia dall’agosto del ’34 al settembre del ’37. Su di lui v. il medaglione dedicatogli da Edoardo Savino, La Nazione operante. Profili e figure di ricostruttori, Milano 1928, p. 537.
300. Garioni, medico di professione, era stato il più votato, dopo Grimani, nelle elezioni amministrative del ’14. Aveva compiuto il suo apprendistato amministrativo come assessore all’igiene pubblica nella giunta rimasta in carica fino al 1920. Dopo l’esperienza di commissario, resse la Provincia per altri 8 anni, dall’aprile ’29 all’ottobre 1937.
301. Cf. Alberto Acquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965; Renzo De Felice, Mussolini il fascista, II, L’organizzazione dello stato fascista. 1925-1929, Torino 1968.
302. Un’interpretazione originale di questo rapporto è stata avanzata da Emilio Gentile, Partito, Stato e duce nella mitologia e nell’organizzazione del fascismo, in Id., La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Napoli 1995, pp. 129-153.
303. Su questo mutamento dell’ordinamento costituzionale rispetto all’impianto liberale v. Paolo Pombeni, Demagogia e tirannide. Uno studio sulla forma-partito del fascismo, Bologna 1984. Lo stesso è ritornato su questo tema con il contributo Il partito fascista, in Il regime fascista, a cura di Angelo Del Boca-Massimo Legnani-Mario G. Rossi, Roma-Bari 1995, pp. 203-219.
304. Su questa lunghezza d’onda, analizzando vari contesti locali, S. Lupo, Il fascismo, pp. 162-166.
305. Sui limiti del ceto politico fascista rispetto alle élites amministrative liberali si sofferma anche Paolo Varvaro, Per una storia del potere fascista a Napoli, «Italia Contemporanea», 38, 1987, nr. 169, pp. 44-46 (pp. 37-62). Dello stesso autore v. Una città fascista. Potere e società a Napoli, Palermo 1990, ricco di spunti per gli argomenti qui affrontati.
306. Pietro Orsi (Acqui, Alessandria 1863-Venezia 1943) si era laureato in Lettere all’Università di Torino nel 1884 ed aveva successivamente compiuto studi di perfezionamento a Parigi e a Londra. Giunse a Venezia nel 1888 per insegnare al liceo «Foscarini» dove rimase fino al 1912 quando rinunciò all’insegnamento per l’attività parlamentare, conclusa la quale ottenne l’incarico di Storia politica e diplomatica a Ca’ Foscari. Fu presidente della Biennale dal ’28 al ’30 e segretario dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti dal ’34 al ’43. Nel 1934 fu nominato senatore. La sua attività di storico meriterebbe un’attenta rivalutazione. Ci limitiamo a segnalare alcuni dei suoi lavori più significativi che conobbero una larga diffusione: Come fu fatta l’Italia. Conferenze popolari sulla storia del nostro Risorgimento, Torino-Roma 1891; Breve storia d’Italia, Milano 1897; L’Italia moderna (1750-1913), Milano 1914. Su di lui cf. la scheda biografica in Giuseppe Gullino, L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, p. 423.
307. L’età avanzata di Orsi non è in linea con il profilo medio dei podestà italiani recentemente abbozzato da L. Baldissara, Tecnica e politica nell’amministrazione, pp. 48-68.
308. Per i contenuti della legge si rimanda alla n. 172.
309. È questo il giudizio, largamente condivisibile, espresso da E. Rotelli, Le trasformazioni dell’ordinamento, pp. 74-76. La consulta aveva funzioni meramente consultive e un potere di controllo che si poteva esercitare solo come parere contrario da registrare nei verbali delle deliberazioni, sulle quali il prefetto poteva svolgere una funzione potestativa. Sul ruolo della consulta, sui criteri di selezione della rappresentanza e sulle sue funzioni cf. le valutazioni espresse da M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, pp. 32-38.
310. Cf. L. Baldissara, Tecnica e politica nell’amministrazione, pp. 30-33.
311. Cf. Piero Aimo, Stato e poteri locali in Italia 1848-1995, Roma 1997, p. 109.
312. Questo ruolo era stato ribadito dalla famosa circolare emanata da Mussolini il 7 gennaio 1927 che viene considerata «l’atto di sottomissione del partito allo Stato». Cf. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, p. 173.
313. L’elenco completo si trova in S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 63.
314. Avanziamo questa ipotesi costatando che Revedin fu presidente dell’Opera Bevilacqua La Masa nel periodo 1926-1928, durante il quale si realizzò, sulla base di una convenzione tra il Comune e l’istituzione culturale, il trasferimento delle mostre di Ca’ Pesaro al Lido, scelta questa fortemente voluta dalla C.I.G.A. per arricchire la vita sociale e culturale dell’isola. Cf. Enzo Di Martino, Bevilacqua La Masa 1908-1993. Una fondazione per i giovani artisti, Venezia 1994, p. 55.
315. Completavano questo secondo gruppo di consultori i rappresentanti del sindacato impiegati e operai industrie del vetro (Giacomo Ballarin), del sindacato operai meccanici e metallurgici (Alvise Travan), del sindacato lavoratori agricoli (Giorgio Micich), del sindacato addetti al commercio alberghiero (Mario Helmann), del Sindacato lavoratori del porto (Scipione Del Giudice), e della federazione autonoma addetti ai trasporti marittimi ed aerei (Alessandro Galeazzi e Francesco Comotto).
316. Cf. M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, pp. 45-47.
317. Sull’analisi del funzionamento della consulta v. ibid., pp. 48-58.
318. Il testo della lettera è pubblicato ibid., pp. 93-94.
319. Sul suo ruolo nelle vicende politiche e culturali veneziane v. Monica Donaglio, Il difensore di Venezia. Pompeo Molmenti tra memoria e ripensamento della venezianità, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1994-1995.
320. La battuta viene riportata da Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 453 (pp. 381-482).
321. Cf. G. Giuriati, La parabola di Mussolini, p. 211.
322. Sull’annessione v. S. Barizza, Storia di Mestre, pp. 24-25.
323. Per un resoconto ufficiale cf. Vita del fascismo veneziano, «Le Tre Venezie», novembre 1928, pp. 109-113.
324. G. Giuriati, La parabola di Mussolini, p. 211.
325. Il testo della lettera viene pubblicato ibid., p. 213.
326. Ibid., p. 214.
327. Una panoramica su questi temi in M. Reberschak, L’economia, pp. 262-268.
328. Esemplare in questo senso l’articolo Remis velisque, «Le Tre Venezie», marzo 1927, pp. 12-16.
329. Citiamo da M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 85.
330. Cf. Guida Commerciale, Industriale, Amministrativa, Artistica della città e provincia di Venezia, I, 1921-1922, Venezia 1922, pp. 149-154.
331. Su questa interessante figura si rimanda al saggio di Nadia Maria Filippini, Storia delle donne: culture, mestieri, profili, pubblicato in questi volumi.
332. Cf. Guida Commerciale, Industriale, Ammministrativa, Artistica della città e provincia di Venezia, III, 1927, Venezia 1927, pp. 149-159.
333. Nel 1927 Spandri risultava anche vicecommissario della Camera di commercio e industria presieduta da Ugo Trevisanato. Dentro il partito arrivò a ricoprire la carica di vicesegretario federale durante la segreteria Suppiej.
334. Cf. Guida Commerciale di Venezia e provincia, VI, Venezia 1929.
335. Sulla storia delle maggiori istituzioni culturali veneziane rimane fondamentale il contributo di M. Isnenghi, La cultura, pp. 430-482.
336. Sulle vicende dell’Istituto negli anni del fascismo cf. G. Gullino, L’Istituto Veneto, pp. 155-172.
337. Enrico Catellani (Padova 1856-1945) insegnò per oltre 45 anni all’Università di Padova. Fu ucciso da agenti fascisti assieme alla moglie pochi mesi prima della fine della seconda guerra mondiale. Su di lui v. la scheda biografica ibid., p. 382.
338. Vincenzo Crescini (Padova 1857-1932), dal 1883 insegnò a Padova Storia comparata delle lingue e letterature neolatine. Nel marzo 1925 aderì al famoso convegno di Bologna per la cultura fascista e al successivo manifesto degli intellettuali scritto da Giovanni Gentile. Su di lui cf. la scheda biografica ibid., p. 387 e l’interessante saggio di Angelo Ventura, Vincenzo Crescini dal liberalismo al nazional-fascismo, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova 1993, pp. 1889-1916.
339. Giovanni Tamassia (Revere, Mantova 1860-Padova 1931), studioso di Storia del diritto, insegnò nelle Università di Parma, Pisa e a partire dal 1896 in quella di Padova. Fu nominato senatore nel 1919.
340. È significativo che fu proprio il famoso chirurgo a tenere la commemorazione di Bordiga. Cf. Giovanni Bordiga. Commemorazione letta dal m.e. Davide Giordano nella Adunanza solenne del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti il 17 giugno 1934, Venezia 1934.
341. Questo particolare lo si deduce da una lettera di Pompeo Molmenti conservata in Venezia, Museo Correr, Archivio Privato Selvatico, Corrispondenza, fasc. 51, lettera di Pompeo Molmenti a Giovanni Bordiga, 25 marzo 1925. Nella lettera si fa cenno all’avvenuta iscrizione di Bordiga ad una sezione del P.N.F. in provincia.
342. Giovanni Bordiga (Novara 1854-Venezia 1933), laureatosi in Ingegneria a Torino, arrivò a Venezia nel ’78 per insegnare all’istituto tecnico «Paolo Sarpi». Sposò Bianca Selvatico, sorella di Riccardo, e si stabilì definitivamente nella città lagunare. Professore ordinario di Geometria all’Università di Padova, insegnò anche alla Scuola Superiore di Commercio di Venezia. Fu assessore alla pubblica istruzione nella giunta Selvatico. Su di lui cf. la scheda biografica in G. Gullino, L’Istituto Veneto, p. 377.
343. È chiaro che la nostra rimane per il momento una ipotesi interpretativa, non suffragata da verifiche empiriche. Sulla persistenza di fenomeni di trasformismo e clientelismo in epoca fascista, rimandiamo alle interessanti osservazioni di Mariuccia Salvati, Cittadini e governanti. La leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Roma-Bari 1997, pp. 97-100.
344. Quest’ultima caratteristica sembra collimare con quanto emerso in una delle poche ricerche condotte sul ceto politico del P.N.F. Ci riferiamo a Maria Serena Piretti, La classe politica dell’Emilia Romagna durante il ventennio fascista, in Il PNF in Emilia Romagna. Personale politico, quadri sindacali, cooperazione, a cura di Maurizio Degl’Innocenti-Paolo Pombeni-Alessandro Roveri, Milano 1988, pp. 261-298.
345. Cf. Paola Dal Lago, Verso il regime totalitario: il plebiscito fascista del 1929, Padova 1999, pp. 150-162. L’autrice segnala un andamento molto simile anche per gli altri capoluoghi veneti e del Friuli che complessivamente configurano una resistenza dell’antifascismo più elevata rispetto ad altre regioni e alla stessa Lombardia (p. 155). Sull’atteggiamento del mondo cattolico cf. Silvio Tramontin, Le elezioni plebiscitarie del 1929 e i vescovi veneti, «Storia Contemporanea», 1978, nr. 2, pp. 291-300.
346. Sui criteri usati nella selezione dei candidati e sulla composizione della Camera cf. R. De Felice, Mussolini il fascista, II, pp. 473-477, e P. Dal Lago, Verso il regime totalitario, pp. 11-54. Per la lista dei 400 v. ibid., pp. 179-190, mentre per l’elenco dei deputati eletti v. Il Parlamento italiano 1861-1988, XII, 1, 1929-1938. Il regime fascista. Dalla conciliazione alle leggi razziali, Roma 1990, pp. 603-604.
347. Ci si riferisce al documento pubblicato da M. De Marco, Il Gazzettino, p. 67.
348. Ibid., p. 68.
349. Giuseppe Toffano (Agna, Padova 1890-Appiano Gentile, Padova 1970), laureato in Giurisprudenza, è uno dei pochi quadri intermedi del P.N.F. veneziano che conobbe una discreta carriera. Tra i consultori della podesteria Orsi, di professione impiegato al magistrato delle Acque, Toffano fu nell’ottobre del ’27 nominato presidente dell’Istituto fascista di cultura. Inventato giornalista dal partito nel tentativo di controllare «Il Gazzettino», dopo questa esperienza fu inviato a dirigere per un breve periodo «L’Arena» di Verona. Nel ’30 su sua espressa richiesta iniziò la carriera di prefetto prestando servizio in varie sedi tra cui Siena, Pistoia, Forlì, Brescia e Bergamo.
350. Sull’intervento del duce e sugli sviluppi successivi v. M. De Marco, Il Gazzettino, pp. 73-75.
351. Questa pubblicazione subì nel corso degli anni varie modificazioni sia nella veste grafica sia nella titolazione. Nel 1932 fu, ad esempio, ampiamente rimaneggiata e l’originale impianto fu sostituito con un altro più simile a quello di una rivista.
352. Giorgio Suppiej, Preludio, «Il Bollettino», 15 settembre 1929.
353. Ibid.
354. La carriera di questo giornalista di regime continuò fino oltre la caduta di Mussolini come documenta Maurizio Reberschak, Stampa periodica e opinione pubblica a Venezia durante i quarantacinque giorni (25 luglio-8 settembre 1943), «Archivio Veneto», ser. V, 94, 1971, p. 132 (pp. 95-134).
355. Anche questo tentativo viene ricostruito in M. De Marco, Il Gazzettino, pp. 75-77.
356. Giovanni Giuriati, Secondo tempo. Lettera aperta a Giorgio Suppiej, «Le Tre Venezie», aprile 1929, pp. 13-16.
357. Cf. «Il Bollettino», 25 ottobre 1929.
358. V. Vittorio Umberto Fantucci, I progetti delle nuove opere pubbliche del Comune di Venezia, ibid., pp. 16-19.
359. Ibid., p. 16.
360. Ibid., pp. 16-17.
361. Cf. Pietro Orsi, Brevissima sommaria relazione dell’opera svolta come podestà di Venezia dal 12 settembre 1926 al 14 giugno 1929, Venezia 1929.
362. Ibid., p. 13.
363. Ibid., p. 16.
364. Le uniche notizie sulla sua biografia sono ricavabili da Pietro Paoletti, Il N.H. conte Ettore Zorzi commissario straordinario di Venezia, «Rivista di Venezia», 6, gennaio-febbraio 1929, pp. 1-4.
365. Per un bilancio della sua attiv ità cf. Amministrazione del N.H. Ettore Zorzi dal 14 giugno 1929 al 15 luglio 1930, Venezia 1930.
366. Il nome della sua società compare tra i sottoscrittori del capitale della Società Cantieri Navali e Acciaierie di Venezia. V. C. Chinello, Porto Marghera, p. 220 n. 18.
367. Cf. Guida Commerciale di Venezia e provincia 1929, IV, Venezia 1929.
368. V. Federazione Provinciale Fascista di Venezia. Annuario Fascista della provincia di Venezia, Venezia 1928.
369. Nel 1917-1918 villa Alverà a Mogliano Veneto aveva ospitato la sede del Comando della III armata e la residenza del duca d’Aosta. La notizia è in M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 31 n. 48.
370. Una conferma in tal senso viene dal giudizio postumo dato da Maria Damerini: «A Ca’ Farsetti, entrò un uomo capace, attento, ottimo amministratore dei beni propri, preparato dunque; signore di razza e innamorato della sua città [...]. Alverà apparteneva alla borghesia migliore, alla rara eletta borghesia di un paese quale l’Italia, che ne conobbe poca, ma quella poca esemplare [...]». Cf. Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, p. 61.
371. Richiamiamo qui le riflessioni di Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese, Bari 1979, pp. 8-9.
372. Il brano è tratto dal manifesto di saluto alla cittadinanza reso pubblico il 15 luglio 1930, il giorno dell’insediamento alla guida della podesteria, pubblicato in M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 109.
373. L’elenco completo in S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 63-64.
374. V. Mario Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del Regno d’Italia, Roma 1978, p. 511.
375. Per questo il nuovo podestà affermò: «La mia [sarà] necessariamente, almeno per ora, una amministrazione di raccoglimento, e voglio qui affermarlo specialmente per i troppi postulanti, forzatamente insoddisfatti, che quasi sempre dimenticano le condizioni del Comune e le sue precise finalità». La citazione è tratta da M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 212 n. 1.
376. Per i dati sulla situazione debitoria v. ibid., p. 136.
377. Riferimenti alle conseguenze della grande crisi sull’economia veneziana si trovano in E. Brunetta, Figure e momenti, pp. 174-176. Sulla crisi occupazionale cf. M. Reberschak, L’economia, pp. 266-267, e Fabio Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza lavoro: Venezia e Marghera, in La classe operaia durante il fascismo, a cura di Giulio Sapelli, Milano 1981, pp. 593-594 (pp. 579-636).
378. Sui contenuti di questo provvedimento si rimanda a L. Baldissara, Tecnica e politica nell’amministrazione, pp. 214-227.
379. Cf. M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 189.
380. Ibid., p. 192.
381. Su questo aspetto cf. Francesco Piva, Il reclutamento della forza-lavoro: paesaggi sociali e politica imprenditoriale, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Id.-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, pp. 327-376 (pp. 325-463).
382. I passaggi per il raggiungimento di questo obiettivo vengono riassunti da Mario Alverà, L’Amministrazione del Comune di Venezia dal 15 luglio 1930 al 15 luglio 1934, Venezia 1934.
383. Uno straordinario affresco di quegli anni è quello di M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone, passim.
384. Sull’attività e il profilo di quest’altra figura chiave del Novecento veneziano rimandiamo al saggio di Maurizio Reberschak, Gli uomini capitali: il «gruppo veneziano» (Volpi, Cini e gli altri), nel presente volume.
385. Sullo sviluppo di queste iniziative cf. M. Isnenghi, La cultura, pp. 454-463.
386. Su questo aspetto della politica culturale del regime e con particolare riferimento alle arti visive, v. i recenti contributi di Simonetta Falasca-Zamponi, Fas;cist Spectacle. The Aesthetics of Power in Mussolin’s Italy, Berkeley-Los Angeles-London 1997, pp. 119-147, e Ruth Ben-Ghiat, La cultura fascista, Bologna 2000, pp. 121-155.
387. Questo tema non è stato ancora adeguatamente studiato su scala locale, ma sullo sviluppo delle industrie culturali nel periodo fascista cf. David Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana (1880-2000), Bologna 2000, pp. 81-124.
388. Alessandro Pascolato (Venezia 1841-1905), avvocato, più volte consigliere comunale e provinciale, fu eletto alla Camera nel 1884 come deputato moderato di Belluno. Riconfermato in questo collegio per altri due mandati, si trasferì a partire dalle elezioni del ’95 in quello di Spilimbergo dove fu ininterrottamente eletto fino alla morte. Nel 1900 fu nominato ministro del Tesoro nel governo Saracco. A Venezia fu presidente dell’Ateneo Veneto. Su di lui cf. Enrico Castelnuovo, Commemorazione di Alessandro Pascolato letta il 13 novembre 1905 nell’Aula Magna della R. Scuola Superiore di Commercio, Venezia 1905.
389. V. la scheda biografica in M. Missori, Gerarchie e statuti, p. 253, e il profilo tracciato da Edoardo Savino, La Nazione Operante. Albo d’oro del fascismo, profili e figure, Novara 19373, p. 238.
390. V. Giorgio Suppiej, Dieci anni di fascismo nella provincia di Venezia, «Le Tre Venezie», ottobre 1932. Questo numero speciale della rivista conferma anche per il caso veneziano che le immagini propagandistiche sopracitate furono le più credibili tra quelle usate dal fascismo. Cf. Silvio Lanaro, Un secolo nazionalista senza linguaggio nazionale. Il caso del fascismo in Italia, in Novecento, un secolo innominabile, Venezia 1998, pp. 107-146.
391. G. Suppiej, Dieci anni di fascismo, p. 627.
392. Id., Il porto, ragione di vita e avvenire di Venezia, «Italia Nuova», maggio 1934, p. 19.
393. L’elenco si trova in S. Barizza, Il Comune di Venezia, p. 64.
394. Si esprime in questo senso, con argomenti convincenti, M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, pp. 223-226.
395. Così sostiene la moglie in M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone, pp. 268-269.
396. Cf. Sergio Barizza, Il Casinò municipale di Venezia. Una storia degli anni ’30, Venezia 1988.
397. Cf. M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 230.
398. Giuseppe Carlo Catalano resse la prefettura di Venezia dall’agosto del ’36 all’agosto del ’39. Egli era il tipico prefetto proveniente dalle fila del partito come dimostra il curriculum riportato in M. Missori, Gerarchie e statuti, p. 186.
399. Cf. M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 233.
400. Il modello degli studi di questo settore è rappresentato dal lavoro di Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati [...], Roma-Bari 1992, specie alle pp. 170-228 per i temi che qui ci interessano. V. anche Guido Melis, La burocrazia, in Il regime fascista, a cura di Angelo Del Boca-Massimo Legnani-Mario G. Rossi, Roma-Bari 1995, pp. 244-276.
401. Il podestà sottolineò l’importanza della legge con queste parole: «Pensate Camerati, quante difficoltà vi sono nell’attuazione di un normale piano regolatore in una normale città. Un piano di risanamento di Venezia, comprende la demolizione definitiva di certi centri infetti, con la creazione al loro posto di piccole oasi di verde, gli indispensabili spostamenti di interi nuclei della popolazione meno abbiente per il lavoro di restauro e ricostruzione dei fabbricati, la risoluzione di vari problemi sulla nostra intricata viabilità, e tutto ciò senza toccare, anzi migliorando la fisionomia e la struttura particolarissima di Venezia non è cosa facile». Citiamo da M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, p. 234.
402. Cf. S. Lupo, Il fascismo, pp. 376 ss.
403. V. E. Gentile, Fascismo e antifascismo, pp. 223-231.
404. Il meccanismo viene illustrato ibid., pp. 242-243.
405. Sull’emergere dentro il fascismo di questa polemica v. Paolo Pombeni, Il Partito nazionale fascista sul declinare del regime. 1938-1943, in Sulla crisi del regime fascista 1938-1943: la società italiana del ‘consenso’ alla Resistenza, a cura di Angelo Ventura, Venezia 1996, pp. 10-11 (pp. 3-19).
406. Sull’ultima fase delle trattative cf. M. De Marco, Il Gazzettino, pp. 99-115.
407. Il documento viene citato in M. Mezzalira, Tra controllo e autonomia, pp. 255-256.
408. Cf. ibid., pp. 257-258. Il testo dattiloscritto reca la data del 1° settembre 1938.
409. Lodovico Foscari era nato a Venezia nel 1903. Laureato in Scienze agrarie, possidente, si era iscritto al P.N.F. prima della Marcia su Roma. Resse la segreteria fino al marzo 1940. Nel ’39 era stato nominato alla camera dei Fasci e delle corporazioni.
410. Al momento della sua nomina Marcello aveva 40 anni, fu dunque il più giovane podestà del periodo fascista. Era infatti nato a Mogliano Veneto nel 1898. Sposò Bianca Roi, nipote di Antonio Fogazzaro. Morì a Venezia nel 1963.
411. Cf. a tal riguardo il giudizio di Nicola Tranfaglia, Fascismi e modernizzazione in Europa, Torino 2001, p. 49.
412. V. Yvon De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di Francesco Perfetti, Bologna 1990, p. 638.
413. Su questo aspetto cf. M. Salvati, Cittadini e governanti, p. 93.
414. Cf. Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, pp. 520-521.
415. Nel suo diario Ciano scrisse che Volpi alla fine del ’37 puntava decisamente al Ministero delle Colonie. Cf. Galeazzo Ciano, 1937-1938 Diario, Bologna 1948.