Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Cinquecento il crollo dell’unità religiosa con la Riforma luterana determina il differenziarsi della produzione teatrale comica nelle diverse nazioni europee: in Spagna le compagnie professionistiche trovano un perfetto accordo di collaborazione con le confraternite religiose; in Francia, dopo i primi tentativi di sincretismo tra modelli classici e medievali, si approda a una assimilazione del modello scenico italiano; nei Paesi di lingua tedesca la Riforma orienta la commedia verso fini propagandistici della dottrina luterana; al contrario in Inghilterra, con l’Atto di Supremazia, il teatro religioso è perseguitato dalle autorità fino a scomparire a vantaggio di un teatro professionistico.
Tragicommedie, autos, pasos ed entremeses: il classicismo eterodosso dei drammaturghi iberici
Il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona (1479) e la conquista di Granada (1492) creano in Spagna le condizioni politiche per l’affermazione di una solida tradizione di teatro professionistico nazionale. Durante il Cinquecento, però, Carlo V e Filippo II, privi di un reale interesse per il palcoscenico, delegano di fatto il controllo sugli spettacoli alle autorità ecclesiastiche: per lo meno fino all’ascesa al trono di Filippo III (1598) sono quindi soprattutto i cardinali a gestire la vita teatrale del regno. Il sodalizio stabilitosi tra le compagnie professionistiche spagnole e le confraternite religiose rende possibile una pacifica e fruttuosa convivenza nella penisola iberica tra la Chiesa e i comici: la cattolicissima Spagna è per esempio una delle prime nazioni europee a consentire alle donne l’esercizio dell’arte attoriale.
Spinti dalla possibilità di aumentare i propri guadagni, i teatranti spagnoli esportano nelle colonie il loro modello produttivo: nel 1594 è aperto un corral, ossia uno spazio teatrale, a Lima e nel 1597 a Città del Messico.
Il paradigma teatrale classico di derivazione italiana conta ovviamente numerosi ammiratori sulla scena spagnola, di fatto però il “classicismo” dei drammaturghi iberici, innestandosi sul tronco delle tradizioni locali, è fatalmente votato all’“eresia”.
Pubblicando a Napoli nel 1517 il volume Propaladia, raccolta delle otto commedie di cui è autore, Bartolomé Torres Naharro pone la sua opera di drammaturgo sotto l’egida di Orazio. Sin dalle enunciazioni teoriche contenute nella prefazione, è tuttavia chiaro che Naharro tende a mitigare il carattere vincolante della precettistica classicheggiante sulla base di considerazioni pragmatiche dettate dalla valutazione dell’impatto dello spettacolo sul pubblico moderno. Distinti in commedie “a noticia” e “a fantasia”, i testi di Naharro presentano formalmente una regolare scansione in introito, argomento e commedia vera e propria, articolata in cinque atti e stesa in versi ottosillabici. Nella sostanza Naharro si svincola però dalle convenzioni comiche classiche rifacendosi ai modelli dei drammi allegorici medievali (Tinellaria) o gettando le basi per la futura commedia di cappa e spada (Serafina e Himenea).
La complessa realtà del teatro “comico” iberico del Cinquecento non può però essere ridotta a queste caute adesioni alle convenzioni regolari. Sullo sfondo dei drammi religiosi di Juan del Encina o di Gil Vicente, orientati in senso tragicomico o totalmente “comico” per il prevalere della prospettiva salvifica finale, nei primi decenni del secolo si profila una genuina tradizione autoctona di comicità laica. Emblema dell’anomalia della commedia cinquecentesca spagnola è El Infamador (1581) di Juan de la Cueva, curiosa struttura drammaturgica che mescola personaggi mitologici a uomini e donne della società sivigliana contemporanea.
Gil Vicente
Rappresentazione della Barca dell’Inferno
Trilogia delle barche
DIAVOLO: Ohi là in barca, in barca ché abbiamo buona marea. Ora venga Caronte a poppa.
COMPAGNO: Fatto, fatto.
DIAVOLO: Va bene. Muoviti in malora, tira quel paranco e sbarazza quella panca per la gente che verrà. Su, in barca, in barca. Lesti, ché ha da partire. Che bel tempo per salpare, lode a Belzebù! Be’, e tu che fai? Libera la coperta, costà, tutta.
COMPAGNO: Alla buon’ora, è presto fatto.
DIAVOLO: Giù il gobbo, che diamine! Molla quella poggia e alleggerisci quella drizza.
COMPAGNO: Oh ala, oh issa!
DIAVOLO: Ah, che veliero il nostro! Innalza i pennoni, ché è festa. Vela spiegata, àncora a picco. O magnifico don Arrigo: voi qui? e come mai?
GENTILUOMO: Questa barca dove va ora, ché è così a punto?
DIAVOLO: All’Isola perduta, e parte fra un istante.
GENTILUOMO: E lei va laggiù?
DIAVOLO: Per servirla, eccellenza.
GENTILUOMO: Se mi sembra una baracchetta.
DIAVOLO: Perché la guardate dall’esterno.
GENTILUOMO: Dove andate, dunque?
DIAVOLO: All’Inferno, eccellenza.
GENTILUOMO: Regione poco amena, in verità.
DIAVOLO: E che? spiritoso perfino qui?
GENTILUOMO: E trovate passeggeri per questa razza di residenza?
DIAVOLO: Vi vedo in disposizione di venir voi al nostro porto.
GENTILUOMO: Sembra a te.
DIAVOLO: Di dove aspettate salvezza?
GENTILUOMO: Dal fatto che lascio nell’altra vita chi pregherà sempre per me.
DIAVOLO: Chi pregherà sempre per te? Ah, ah, ah, ah, ah! E tu sei vissuto come ti faceva comodo, sperando di salvarti di qua perché di là pregano per te? Imbarcati, o imbarcatevi, ché alla fine ci avete a venire. Fate metter la portantina, ché così passò vostro padre.
GENTILUOMO: Come, come, come? gli è andata così?
DIAVOLO: Andata o venuta, spicciatevi. Contentatevi quaggiù secondo la vostra scelta di lassù. La morte l’avete passata, ora passerete il fiume.
GENTILUOMO: Non c’è altra nave qui?
DIAVOLO: No, eccellenza, ché questa avete prenotata, e prima di spirare me n’avevate dato caparra.
GENTILUOMO: E che caparra mai?
DIAVOLO: Che eravate beato e contento.
GENTILUOMO: Me ne vo a quest’altra barca. Ohi della barca, dove andate? Ohè, barcaioli, non mi sentite? Rispondete. Ohi là, ohi. Perdio, sto fresco: qui va ancor peggio. Che asini, salv’ognuno. Ma per chi mi prendono?
ANGELO: In che vi posso servire?
GENTILUOMO: Ditemi, visto che sono partito quando meno me l’aspettavo, se codesta è la barca del Paradiso.
ANGELO: È questa: e da lei che volete?
GENTILUOMO: Lasciatemici entrare: son gentiluomo di vecchia stirpe, e fareste bene a darmi passaggio.
ANGELO: Non s’imbarca tirannia in questo battello divino.
GENTILUOMO: Non capisco che inconveniente trovate a che s’imbarchi la Mia Signoria.
ANGELO: Per la vostra albagia è ben piccolo questo burchiello.
GENTILUOMO: Non c’è maggior cortesia, qui, per un signore della mia fatta? Qua la passerella e tutto; portatemi via da questa spiaggia.
ANGELO: Lo stile del vostro arrivo non conviene a questa nave. In quell’altra c’è più posto, ci starà la portantina e c’entrerà lo strascico con tutta la vostra nobiltà. Là sarete più ad agio, voi e la signoria vostra, narrando della tirannia che esercitavate con tale scrupolo. E poiché i magnanimi lombi vi fecero spregiare i piccoli, vi troverete di tanto inferiore quanto più foste pieno di arie.
DIAVOLO: In barca, in barca, signori. Oh che marea d’argento. C’è un venticello che ammazza, e rematori che sano il mestiere.
Mi verrete sotto l’unghie,
sotto l’unghie mi verrete,
e vi vedrete,
o pesci, nella rete.
GENTILUOMO: Ancora all’Inferno! Inferno per me? Ahimé, ché in mia vita non ci credetti mai: lo tenevo un’ubbia. Il mio gusto era di essere adorato. Confidai nel mio stato, senza vedere che mi perdevo. Si metta codesta passerella, e vedremo questa barca del malanno.
DIAVOLO: S’imbarchi vostra dolcezza, ché qui ci si metterà d’accordo. Prenderete un paio di remi, e si vedrà come remate; e al giungere al nostro molo, vi sbarcheremo.
GENTILUOMO: Aspettatemi qua. Voglio tornare nell’altra vita per vedere il mio amore che vuole uccidersi per me.
DIAVOLO: Vuole uccidersi per te?
GENTILUOMO: Ah, questo lo so di sicuro.
DIAVOLO: Spasimante imbecille, il più grosso che io abbia mai visto.
GENTILUOMO: Tanto era il suo affetto che mi scriveva mille volte.
DIAVOLO: Quante bugie leggevi, e tu a morirci di voluttà.
GENTILUOMO: A che pro questi scherzi, se non c’era un bene più grande?
DIAVOLO: Così abbia tu vita come colei ti amava.
GENTILUOMO: Questo per quel che so io.
DIAVOLO: Be’, mentre tu spiravi, lei si dava buon tempo con uno di tutt’altra estrazione.
GENTILUOMO: Dammi licenza, ti prego, ch’io vada a vedere la mia donna.
DIAVOLO: E lei, per non vederti, si butterà da un monte. Oggi, fra i suoi urli e urlacci, la sua intima preghiera è stata tutta un’azione di grazie a chi le ha tolto l’imbarazzo.
GENTILUOMO: Per questo, ha pianto la sua parte.
DIAVOLO: E non c’è un pianto di gioia?
GENTILUOMO: I lamenti che faceva!
DIAVOLO: Glieli consigliò la mamma. Via, signor mio, entrate. Qua il pontile; giù il piede.
GENTILUOMO: Entriamo, se non c’è rimedio.
DIAVOLO: Adesso riposate, passeggiate, sospirate, ché intanto verrà più gente.
GENTILUOMO: Ahi come bruci, barca! Maledetto chi prendi a bordo.
DIAVOLO (al servo della portantina): Tu, giovanotto, vattene, ché qui la portantina è di troppo. Arredo di chiesa non lo carichiamo qua dentro. D’avorio gliela daranno, smaltata di pene, lavorata in tale stile che uscirà di senno. - In barca, in barca, buona gente, ché vogliamo salpare. Accostatevi, accostatevi, in folla e di buona voglia. Oh che barca in gamba!
in Teatro religioso del medioevo fuori d’Italia. Raccolta di testi dal secolo VII al secolo XV, a cura di G. Contini, Milano, Bompiani, 1949
La sostanziale impossibilità di ridurre la scena comica iberica al sistema classico dei generi era però già evidente a partire dalla Comedia de Calisto y Melibea meglio nota come Celestina (prima edizione, Burgos, 1499), opera del dotto avvocato di famiglia ebraica Fernando de Rojas e vero e proprio atto di nascita del moderno teatro spagnolo. Il precetto oraziano di scandire l’azione scenica in cinque atti è largamente disatteso in questo dramma monumentale i cui 16 atti originali sono portati a 21 nell’edizione del 1502. L’estraneità del dramma alla logica comica regolare è definitivamente sancita dal mutamento del titolo nell’edizione del 1502: concludendosi “in tristezza” la Celestina è infatti ribattezzata Tragicomedia de Calisto y Melibea.
Questo capolavoro del teatro spagnolo inaugura così la produzione drammaturgica tragicomica che Vicente orienterà in senso nazional-patriottico e Juan de Timoneda in senso classicheggiante.
Una più schietta vena di comicità si coglie nei pasos, scene di intrigo bizzarro e inverosimile incentrate sul personaggio del pagliaccio ”bobo“. Nel 1567, dopo la morte del loro autore, sette pasos del commediografo Lope de Rueda sono pubblicati da Juan de Timoneda. Risvolti comici presentano anche gli entremeses, brevi composizioni drammatiche di carattere giocoso destinate a essere intercalate tra un atto e l’altro di opere di più articolata struttura.
Dall’entremés Los Ciegos y el mozo di Juan de Timoneda (1564) agli entremeses di Miguel de Cervantes (1615), queste stringate azioni comiche riscuotono un notevole successo presso il pubblico spagnolo; gli stessi gesuiti non disdegnano di ricorrere a tale genere: nel 1567 padre Francisco Ximénez, forte dei precedenti esperimenti farseschi di padre Juan Bonifacio, compone l’Entremés de las oposiciones.
La storia del teatro spagnolo cinquecentesco si riassume nella polemica che, agli albori del XVII secolo, oppone Miguel de Cervantes a Lope de Vega, il maggior drammaturgo professionista del nascente siglo de oro. Nel capitolo XLVIII della prima parte del Quijote (1605) Cervantes critica aspramente le ”irregolarità“ degli scrittori teatrali professionisti. Comprendendo di essere il vero obiettivo degli strali polemici di Cervantes, Lope risponde alle accuse mossegli pubblicando nel 1609 il celebre discorso in rima Arte nuevo de hacer comedias en este tiempo. Non rinunciando ad appellarsi agli esempi antichi, primo fra tutti l’Amphitruo di Plauto con la sua struttura dichiaratamente tragicomica, Lope rivendica l’autonomia del drammaturgo moderno da ogni convenzione classica. Al di là delle contrapposizioni teoriche, nella prassi drammaturgica le posizioni di Cervantes e Lope non sono poi così inconciliabili: testi di Cervantes come il dramma di cappa e spada la Comedia de la Confusa (composto intorno alla fine degli anni Ottanta e oggi perduto) o come la commedia irregolare El Rufián dichoso (edita nel 1615), nel cui prologo l’autore corregge la prospettiva critica delineata nel Quijote, appartengono in fondo allo stesso orizzonte comico in cui si colloca la commedia romanzesca El Marques de Mantua (1596) di Lope.
La scena francese: dai drammi religiosi alla commedia italianeggiante
Sotto il regno di Luigi XII la vitalità delle tradizioni teatrali medievali religiose e popolari ostacola in Francia l’affermarsi di una drammaturgia comica ”regolare“. Mentre nel 1502 presso il vescovato di Metz la recita di una commedia di Terenzio è interrotta per le proteste del pubblico, fino alla metà del secondo decennio del secolo il poeta Pierre Gringore porta al successo a Parigi spettacoli satirici e religiosi medievaleggianti.
I primi tentativi di rivisitazione umanistica della cultura antica approdano a risultati sincretistici che intrecciano le forme e i contenuti classici a quelli medievali.
Il clima culturale francese muta rapidamente nel 1515 con l’ascesa al trono di Francesco I.
Avendo ricevuto una formazione umanistica, il monarca, che ben conosce l’arte e la letteratura italiana, mostra subito di non gradire gli spettacoli popolareschi tanto che Gringore è costretto a lasciare Parigi e a ritirarsi alla corte del Duca di Lorena. Al principio degli anni Trenta la creazione del Collège Royale dà un nuovo impulso allo studio delle lingue antiche e nel 1533 Tartas, principale del collegio di Guyenne a Bordeaux obbliga gli studenti a scrivere dialoghi e commedie di gusto classicheggiante in latino. Proprio nel 1533 le nozze tra Caterina de’ Medici e l’erede al trono creano un canale privilegiato di comunicazione artistica tra l’Italia e la Francia che si rafforza ovviamente con la salita al trono di Enrico II (1547).
Nel 1543 il tipografo e letterato Charles Estienne traduce in francese l’opera anonima Gli ingannati, mentre nel 1545 viene pubblicato a Parigi Le second livre de la perspective di Sebastiano Serlio, contenente un’ampia trattazione di problemi scenotecnici profondamente influenzata dalla lettura di Vitruvio. Il testo, inizialmente scritto in italiano (Secondo libro dell’architettura), è tradotto in francese da Jean Martin; la prima edizione italiana dell’opera sarà pubblicata a Venezia nel 1560. Nel 1547 Martin pubblica la traduzione francese del De architectura.
Il 27 settembre 1548, a Lione nella sala vecchia della Manécanterie viene rappresentata davanti a Caterina de’ Medici e a Enrico II La Calandria con scenografia prospettica di Namoccio; durante il carnevale del 1555, sempre alla presenza dei monarchi, viene recitata a Fontainebleau La Flora di Luigi Alamanni.
Mentre a corte il modello della commedia regolare acquista prestigio, a Parigi si moltiplicano gli attacchi contro le rappresentazioni drammatiche delle confraternite religiose. Nel 1542 il Parlamento di Parigi si scaglia contro l’immoralità degli spettacoli ”sacri” dei Confrères de la Passion. Nel 1547 l’Hôtel de la Trinité, fin dal 1402 sede della confraternita, è restituito alla sua destinazione originaria; dopo una provvisoria sistemazione presso l’Hôtel de Flandre, ai Confrères è assegnato come sede definitiva l’Hôtel de Bourgogne. Col decreto del Parlamento del 1548 che sancisce il monopolio della Confraternita sugli spettacoli parigini viene contestualmente fatto divieto di allestire sacre rappresentazioni: salve poche eccezioni in provincia, il dramma religioso è bandito dalla scena francese.
Intorno alla metà del secolo i tempi sono ormai maturi perché un drammaturgo francese tenti la via della commedia “regolare”: nel 1552 Etienne Jodelle, allievo del collegio di Boncourt diretto dall’umanista Marc-Antoine Muret, fa rappresentare ai colleghi la sua commedia Eugène, primo testo comico “regolare” e originale scritto in francese. Il disprezzo che Jodelle ostenta nel prologo nei confronti del teatro medievale è però contraddetto dall’adozione del popolare verso ottosillabico e dalla scelta di un soggetto e di personaggi farseschi. Il successo ottenuto spinge Jodelle a cimentarsi immediatamente in una nuova prova comica, così sempre nel 1552 il drammaturgo compone La rencontre. Seguendo l’esempio di Jodelle parecchi scrittori si dedicano al genere comico usando come guida la commedia italiana: nel 1561 Jacques Grévin, riallacciandosi alla tradizione “regolare”, compone Les ébahis e sempre al modello italiano si ispirano Les corrivaux di Jean de la Taille, prima commedia in prosa francese.
Con Les esprits (1579) Pierre De Larivey offre una propria personale versione dell’Aridosia, mentre Les contens o Les déguisés (1584) di Turnèbe non sono che una libera interpretazione francese dell’Alessandro del Piccolomini. Più legata al mondo borghese parigino appare La trésorière (1559) di Jacques Grévin.
Sul finire del secolo la scena francese si assimila sempre più rapidamente a quella italiana: esattamente come a Firenze la fortuna della commedia “regolare” è eclissata nel secondo Cinquecento dal successo degli intermezzi, così presso la corte della reggente Caterina a cominciare dalla metà degli anni Settanta il teatro comico cede il passo ai ballets de cour di cui un esempio particolarmente spettacolare è il Balet comyque de la Reyne allestito nel 1581 da Baltazarini in occasione delle nozze del duca di Joyeuse con mademoiselle di Vaudemont. Dopo le esibizioni dei comici italiani in terra di Francia che si susseguono a partire dal 1570, anche i cultori parigini del teatro cominciano a manifestare interesse per le esperienze sceniche professionistiche: nel 1599 Valleran Leconte prende in affitto il teatro dei Confrères de la Passion e crea la prima vera compagnia professionale francese. Rivolgendosi ad Alexandre Hardy come drammaturgo, egli propende però per un sistema di produzione teatrale più simile a quello inglese che non a quello dei comici italiani “dell’arte”.
La drammaturgia comica nei Paesi di lingua tedesca: forme colte e tradizioni popolari
Sin dalla seconda metà del XV secolo i letterati tedeschi, formati nella maggior parte dei casi presso le università italiane, si dedicano alla composizione di commedie in latino.
Dopo la Comedia facta in practica lecture Universitatis Padue del 1460, vanno ad arricchire la produzione drammaturgica comica tedesca di ispirazione umanistica lo Stilpho di Jakob Wimpheling (1480), il Codrus di Johann Kerckmeister (1485) e l’Henno o Scaenica progymnasmata di Johannes Reuchlin (1497), rifacimento classicheggiante in stile terenziano della Farce de Maistre Pathelin.
All’indomani della Riforma luterana si impone sulle scene tedesche lo Schuldrama, opera teatrale utilizzata a fini propagandistici nelle polemiche dottrinarie. Con la forza corrosiva e demistificante del suo riso, la commedia diventa immediatamente il genere privilegiato per combattere la guerra religiosa sul fronte teatrale. L’avversione per il latino, lingua ufficiale della corrotta corte pontificia, induce alcuni drammaturghi a comporre le loro opere in tedesco; in tal modo vengono gettate le basi per la costituzione di un’autentica drammaturgia nazionale. Una violenta satira anticattolica anima Der Ablasskrämer (1525) e Krankheit und Testament der Messe (1528) dello svizzero Manuel Nikolaus Deutsch, come pure l’aristofanesco Pammachius (1538) del bavarese Thomas Kirchmeyer.
Prestandosi a esemplificare la dottrina luterana della giustificazione attraverso la fede, la parabola del figliol prodigo è frequentemente scelta dagli autori protestanti come soggetto dei loro ”drammi di tendenza“.
Con Fastnachtspiel vom Papst und seiner Priesterschaft (1523) Manuel Nikolaus Deutsch non esita a ricorrere, per i suoi attacchi alla Chiesa di Roma, all’arma del Fastnachtspiel, farsa carnevalesca strutturata come successione di brevi dialoghi o monologhi collegati tra loro dagli interventi del regista-autore dello spettacolo che batte con una spatola di legno o di cuoio le figure da lui presentate.
Nato come veicolo di una comicità popolare incentrata su oscene tematiche fisiologico-scatologiche, sin dal Quattrocento il Fastnachtspiel è elevato da Rosenplüt e da Folz a una superiore dignità letteraria, come strumento di satira politica. La moderna trasformazione del genere si compie però con Hans Sachs che fa della triviale “rivista” carnevalesca una rappresentazione teatrale nella quale l’articolato svolgimento dell’azione è piegato all’esaltazione della moralità borghese. Tra il 1511 e il 1516 il futuro maestro cantore di Norimberga compie un lungo viaggio nella Germania del Sud e in quell’occasione legge la traduzione tedesca del Decameron di Schlüsselfelder. Tornato in patria, all’inizio degli anni Venti Sachs si converte al luteranesimo; la più alta testimonianza teatrale di tale conversione è la Comedie von dem sterbenden reichen Menschen, Hekastus genannt, libero rifacimento della Leggenda di Ognuno a cui lo scrittore pone mano nel 1549. La parte migliore della vasta produzione drammaturgica di Sachs è rappresentata dalle circa 80 farse carnevalesche tra le quali vanno almeno menzionate Der Rossdieb zu Fünssing (1533), Der fahrend Schüller mit dem Teufelbanner (1551) e Das Narren Schneiden (1577).
Hans Sachs
L’intento di punire il ladro degenera
Il ladro di cavalli
Entrano tre contadini
GANGEL DÖTSCH: Contadini di tutto il paese
Fummo eletti, come i più anziani,
Per consigliare e pensare
Quando sia da impiccare
Quel ladro chiuso nella nostra prigione
Che da tempo ci recava danno
E m’ha rubato il mio cavallo grigio.
STEFFEL LÖLL: Non v’è da discutere molto:
Meglio sarebbe stato
Averlo subito impiccato
Che tenerlo in prigione così:
Almeno non c’era da nutrirlo.
LINDEL FRICZ: Steffel Löll, per Diana! mi togli
Le parole di bocca.
Anch’io vorrei
Che fosse già sulla forca
E non s’avesse a spendere per lui:
Tanto non vale tre soldi.
GANGEL DÖTSCH: Perciò mi par consiglio saggio
D’impiccarlo senz’altro lunedì.
STEFFEL LÖLL: Vicini, pensate a un altro fatto:
Il mio campo è sotto la forca
Se venisse impiccato
Quando si sega il grano
La gente si fermerebbe in mezzo al campo
Per assistere all’impiccagione
E il raccolto mi andrebbe in malora.
LINDEL FRICZ: Non ci pensavo, parola d’onore.
Anch’io ho un campo di grano -
Eredità di mio padre -
A sinistra sotto la forca.
Anche quello mi andrebbe in malora
Perché la gente vi passerebbe
Per andare verso la forca
Quando s’impiccasse il ladro.
GANGEL DÖTSCH: Non so darvi allor miglior consiglio
che sospender per ora la condanna
E rimandarla a lavoro ultimato,
Quando il grano sia già sull’aia.
STEFFEL LÖLL: Questa è una buona idea
Tre settimane passan presto.
LINDEL FRICZ: Sì, vicini, ma non va bene.
Se il ladro campa ancor tre settimane
Chi gli darà da mangiare?
Come sapete, i ladri hanno appetito
Questo, per Diana, ci verrà a costare
Più di dieci denari ogni otto giorni.
GANGEL DÖTSCH: Miei cari vicini, a ciò rispondo
Che gli si può far allungare
Il collo al nostro ladro e se la ciotola
Sarà un po’ meno piena, tanto meglio:
Non diverrà così grasso e pesante
Che s’abbia a faticare ad impiccarlo.
STEFFEL LÖLL: Vicini, sentite anche questa;
O se lo si lasciasse in libertà?
Così non ci sarebbe da camparlo.
Ma beninteso soltanto se prestasse
A noi qui solenne giuramento
Di tornare dopo quattro settimane
Per venir impiccato a Fünsing.
Avremmo intanto segato il grano
Comodamente intorno alla forca
E per i campi si potrebbe passeggiare.
LINDEL FRICZ: Questo è il miglior consiglio:
Così potremmo risparmiare molto
E salvare i nostri campi
E avremmo tempo per condannare
Alla forca quel ladro scellerato.
Mio caro Gangel Dötsch, che ne dici?
GANGEL DÖTSCH: Prima dobbiamo chiedere al ladro
Se è disposto a far come vogliamo.
In questo caso, noi lo lasceremo
A piede libero, fino a che ciascuno
Abbia segato il uso grano.
Steffel Löll, vai per favore
A prender il ladro nella torre
Perché si possa interrogarlo.
Ma guarda che non ti sfugga.
Steffel Löll esce.
LINDEL FRICZ: Guarda un po’, Gangel Dötsch, il nostro Steffel
Ci ha dato proprio un buon consiglio.
GANGEL DÖTSCH: Davvero, Lindel Fricz, non avrei mai
Creduta in lui tanta furbizia.
LINDEL FRICZ: Oh, Gangel Dötsch, tu lo sai pure
che Steffel, più d’ogni altro contadino
È astuto in tutta Fünsing.
Fu lui a consigliare
Di riparar col vischio
Le mura della chiesa.
Io sono più che certo che se fosse
Cittadino di Monaco, a quest’ora
Siederebbe da tempo nel consiglio.
Steffel porta il ladro con una corda.
GANGEL DÖTSCH: Ascolta, Wehl di Frissing, il consiglio
Della comunità qui, ha stabilito
Di lasciarti senz’altro in libertà
Sicché tu possa andare pei fatti tuoi
Per quattro settimane.
Appena segato il grano
Ritornerai e ti farai impiccare.
Tu puoi pensarci sopra brevemente.
STEFFEL LÖLL: Ma devi poi giurar solennemente
Di tornar secondo la sentenza.
I tre contadini se ne vanno.
IL LADRO: (Parlando tra di sé) A dir il vero, non m’avvenne mai
D’incontrare gente così folle.
È proprio giusto che si dica:
I contadini di Fünsing son pazzi volponi.
Dianzi mi avrebbero impiccato
Perché ho rubato due bestie,
E or mi lasciano andare.
Son pronto a fare qualunque promessa
Perché, come dicono i vecchi,
È meglio prestare un giuramento
Che andare a piantar le rape.
E non mi peserà alcuna promessa
Né tornerò più qui, piuttosto
Un corvo m’abbia nel suo gozzo.
Se venissi, sarei un minchione,
A non nascondermi di notte in paese
Per rubare ancora qualche capo.
Ma poiché sono folli e ingenui
Voglio, con un po’ d’astuzia
Giuocar loro anche una beffa
Sicché, oltre tutto mi dian del denaro.
I contadini rientrano.
GANGEL DÖTSCH: Wehl von Frissing, parla chiaro
Che ne dici? Come la pensi?
IL LADRO: Signori egregi della comunità,
Voglio esser ubbidiente
E prometter con solenne giuramento
Di tornare a farmi impiccare
Quando avrete finito di segare.
Ma vi prego di considerare
Che non ho un soldo in tasca.
Pagatemi dunque qualche spesa.
Se per qualche altro furto
Io fossi imprigionato
O altrove anche impiccato,
Non potrei più tornare.
Pensereste allor male di me
E mi credereste in grave colpa.
Sarebbe una vergogna per voi tutti
Che siete ben noti ovunque
Se poi per quattro settimane
chiedessi l’elemosina qui intorno.
LINDEL FRICZ: Cari vicini, sulla mia parola
S’egli chiedesse l’elemosina
Sarebbe una vergogna pel paese.
Vogliamo mantener questo buon’uomo?
Giacché in tutto siamo trenta contadini
Gli doni un soldo ognuno
E da ciascuno
Sarà mia cura ritirarlo poi.
Io intanto te li voglio anticipare:
Eccoti spicciolati trenta soldi.
Leva or due dita e giura di tornare
Tra quattro settimane
Perché ti s’impicchi
Come dal diritto
E dalla legge è stabilito.
IL LADRO: (Leva due dita) Lo giuro e lo farò.
Per dar maggior valore alla promessa
Prendete in pegno dalle mie mani
Questa mia cappa rossa
Perché nessuno dubiti
Che non voglia più tornare
A farmi impiccare.
Verrò di giorno o di notte.
GANGEL DÖTSCH: Bada, Wehl, ancora a questo avviso:
Se volessi fare il furbo
E non tornare più,
Dopo, non solo t’impiccheremmo
Ma l’intera comunità
Ti farebbe tagliar gli orecchi
Prima di mandarti alla forca.
Non te lo nascondiamo.
IL LADRO: Cari signori, non dubitate!
Credete forse che lasci la mia cappa?
Signori miei, fidatevi di me.
Verrò più presto di quel che non pensiate!
GANGEL DÖTSCH: Ora adunque siamo d’accordo.
Vai, corri pure e buona fortuna!
Ma torna al tempo stabilito!
(Il ladro scappa via).
LINDEL FRICZ: Fa più di quel che abbiamo chiesto!
La cappa vale almeno nove soldi
E siccome sono uno degli anziani
Voglio intanto tenerla.
Non si sciuperà se ogni tanto
Anzi solo nei giorni di festa
L’indosserò un pochino.
E quando il ladro torna
Voglio trattare con lui.
GANGEL DÖTSCH: Daremo alla comunità notizia
Di come è stata sistemata la faccenda
Oh, ne saranno soddisfatti!
Anche quelli stimati tra i più saggi
Non credo che sarebbero riusciti
A fare meglio di noi.
(I contadini se ne vanno).
IL LADRO: (che s’è insinuato furtivamente con una giacca azzurra addosso, dice)
Quei pazzi e sciocchi contadini
Di Fünsing dovevano pensare
A non farmi più ritornare.
Così poi che sono bravo ed onesto
Ci vengo anche troppo presto
Mi sono appunto nascosto nel paese
Ed ho rubato
A Lindel Fricz un vecchio montone
A Steffel Löll una giacca azzurra.
Come strilleranno domani sul mio conto!
Ma ciò non m’interessa affatto
Me ne andrò verso Monaco invece
A vender questi oggetti rubati
Insieme agli altri, al mercato
Settimanale, com’è d’uso per me.
I contadini hanno un bel pegno
Nella vellosa cappa rossa
Che lascio ai minchioni di Fünsing.
Sarò tanto temerario
Da non venir a prenderla
S’anche la divorassero le piattole;
Invece farò attender come grulli
Dopo la segatura, i contadini.
Mi devo pur nutrir di latrocini
E non imparerò altro mestiere
Se anche mi troverò in cattive acque
So di non affogare
Perché – dice un antico proverbio –
Quel ch’è destinato al corvo
Non cadde nelle onde del mare
A men che l’acqua non salga alla forca.
Il ladro se ne va.
LINDEL FRICZ: (entra insieme a Gangel Dötsch) Ormai la segatura è già passata
E il nostro ladro non arriva. Davvero
Se non viene dopo il raccolto
Può salutar la sua cappa
Mandasse anche il demonio a ripigliarla.
GANGEL DÖTSCH: Guarda, ecco arriva Steffel Löll
È tornato in paese a notte tarda
Dalla città di Monaco
Domandagli che nuove ci porta
LINDEL FRICZ: Di dove vieni Steffel mio?
Si sa nulla del ladro in città?
STEFFEL LÖLL: L’ho visto a notte tarda.
LINDEL FRICZ: Non gli dicesti di tornare?
Da ieri è scaduto il tempo
Per venire a farsi impiccare.
STEFFEL LÖLL: Mio Lindel Fricz, ci ho pensato.
Ma poi nulla gli ho detto
Perché aveva troppo lavoro.
GANGEL DÖTSCH: E che s’è messo a fare?
STEFFEL LÖLL: Davvero un mestiere onorato!
Egli vende come robivecchi
Ogni sorta d’oggetti casalinghi.
E offre della merce buona.
Anch’io da lui ho comprato
Questa bella giacca azzurra.
Vendeva anche un vecchio montone
E l’avrei preso volentieri
Ma non ci si accordò sul prezzo:
Voleva dodici denari.
Il montone sembrava tale e quale
Il tuo e aveva anche un sol corno.
LINDEL FRICZ: Per Diana, ho perduto il mio montone,
Sulla mia parola, da due notti.
Se considero bene i fatti
Posso dire ch’è colpa del ladro.
Perché non l’hai portato con te
E fatto imprigionare in città?
STEFFEL LÖLL: Così l’avrebbero impiccato
E noi avremmo perduto il nostro ladro.
LINDEL FRICZ: A mio parere hai fatto a mezzo
Con lui: di tua parte ti spettò la giacca
E il ladro s’è tenuto il mio montone;
Del resto si sa chi tu sia.
STEFFEL LÖLL: Tu menti, è tutta una bugia
L’ho comprata per tredici denari.
GANGEL DÖTSCH: È macchiata di birra la tua giacca!
Si vede ch’è stata in trattoria
Puliscila con una granata
Guarda, com’è piena di penne!
STEFFEL LÖLL: Ebbene, la giacca mi sta bene
Ma la voglio indossare solo
Nei giorni di festa piovosi,
Perché a casa ne ho un’altra
Anzi, voglio guardarla ancora...
Corpo di mille diavoli, è la stessa!
Il ladro dunque me l’ha rubata
Col tuo montone l’altra notte.
GANGEL DÖTSCH: Steffel mio, come lo puoi dire?
STEFFEL LÖLL: Eh, dalla stringa che non è stretta in cima!
Oh, come m’ha burlato il ladro!
E come m’ha saputo incantare
sì che non conoscessi la mia giacca!
Poiché la vendeva a buon mercato
Venni via in furia coll’acquisto
Senza troppo esaminarlo.
In ogni modo mi son vendicato
del ladro, seppur segretamente.
GANGEL DÖTSCH: E come ti sei vendicato?
STEFFEL LÖLL: Eh, quando il ladro avea molto da fare
E guardava di qua e di là
E la gente s’affollava intorno a lui
Presi quieto un paio di guanti
Pensando che la giacca era troppo cara
E non mi feci più vedere.
LINDEL FRICZ: Così un ladro ha rubato a un altro ladro.
STEFFEL LÖLL: Oh, non rubato, ma aggiunto qualcosa
Perché la giacca venisse a miglior prezzo.
LINDEL FRICZ: Per me è proprio rubato.
STEFFEL LÖLL: Sentilo! Non ricordi il forcone
Che mi togliesti di nascosto
E ritrovai in casa tua?
Perciò si dice: rubare e restituire
È per un ladro un gran patire.
Lindel Fricz è proprio il caso tuo!
LINDEL FRICZ: Che stai tirandomi ora fuori?
Ormai è scorso più di un anno
E se pensi di svergognarmi ancora
Ti saprò chiudere il muso.
STEFFEL LÖLL: Picchia dunque, vecchio minchione
E ti prenda il malanno e il mal di cuore!
GANGEL DÖTSCH: (S’intromette tra i due e dice):
Pace! Ma che vi piglia, a tutt’e due?
Perché leticarsi per una sciocchezza
E picchiarsi così violentemente?
Il barbiere si farà pagare,
Poi il bargello vi striglierà
E vi metterà in catene
Se l’uno si ostinerà a insultar l’altro.
Perché volete scaraventarvi addosso?
LINDEL FRICZ: Non mi deve dir ladro,
Se sono onesto come lui!
Il malanno a chi dice il contrario!
GANGEL DÖTSCH: Sì, in fondo siete tutti eguali
E l’uno è onesto come l’altro
Siete due veri colleghi!
STEFFEL LÖLL: Gangel mio, e tu starai con noi
Quanto a onestà. Hai già dimenticato?
GANGEL DÖTSCH: Che ingiuria mi vuoi ora lanciare?
Intendi forse parlar del ferro
Che presi al tuo carro?
Non te l’ho poi dovuto pagare?
E perché ne riparli ora
Che si tratta di agir da galantuomo?
Ti vorrei rompere il muso
Svergognato e ignorante villano.
STEFFEL LÖLL: E dunque, dài, mio Gangel Dötsch!
Picchia pure ché non mi spavento!
LINDEL FRICZ: Anch’io voglio rischiare due caprette
Per difendermi da ogni pericolo
Sicché l’anima sua salti nel prato.
(Tiran fuori il bastone e si picchiano di santa ragione, uno con l’altro).
IL LADRO: (Viene portando la sua cappa e dice):
I contadini si sono, a quanto pare.
Bastonati l’un l’altro sodo sodo.
Ho ascoltato e rimirato a lungo
Tutto, dietro una siepe, senza uscirne fuori.
È stata una vera disputa tra ladri
Ora il barbiere li fascia tutti e tre.
Lindel Fricz sotto la schiena ha uno sbrano
Che v’entra, sia pur piccola, una mano.
E Gangel Dötsch è conciato per le feste,
gli altri due l’hanno picchiato tanto
Che gli si vedon nel volto tutti i denti.
E il barbiere non riuscì per molto tempo
A frenar l’emorragia di Steffel
Tanto s’è fatto dissanguare,
E cavare due denti dal naso.
Dopo questa lotta ho ritrovato
In un angolo ormai dimenticata,
Nella lite, la cappa mia.
Mi son ripreso così il pegno
E son venuto a tempo debito.
Ho mantenuto dunque la promessa
E salvato il mio onor di galantuomo.
Ora potrei andar dai contadini
Ad implorar il lor perdono.
Infine portiamo l’acqua allo stesso mulino;
E per amor del vero voglio osare
Dir che ovunque e per ognuno
Da una stalla escon le stesse bestie
Né quei di Fünsing potranno smentirmi.
Della lor ingenuità io spero di godere.
Beviamo dunque un bicchiere
Perché tutti tornino in pace
Nel paese di Fünsing,
Come augura Hans Sachs.
Anno salutis 1533 il 27 Dicembre.
Cala la tela
in Teatro tedesco. Raccolta di drammi e commedie dalle origini ai nostri giorni, a cura di G. Pintor, L. Vincenti, Milano, Bompiani, 1946
Anche i Gesuiti, sul finire del secolo, si cimentano nella drammaturgia comica. Nonostante l’estrema diffidenza dei superiori di Roma, intorno al 1590 comincia infatti nei teatri dei collegi gesuitici tedeschi la sperimentazione sulla commedia che ha forse il proprio risultato più estremo nel Cenodoxus di Jakob Biderman (1602), originale commistione di commedia di carattere, morality play e tragicommedia.
Dalla fine del 1500 fino alla guerra dei Trent’anni (1618-1648), varie compagnie di attori professionisti teatrali inglesi fra cui quelle di Brown, Sackville, Spencer e Julliphus, passano la Manica in cerca di lavoro presso le corti tedesche, come Wolfenbüttel, Kassel e Berlino. L’arrivo sul continente di queste compagnie inglesi segna una svolta nella vita teatrale tedesca: nonostante la scarsa resa letteraria dei loro lavori, esse contribuiscono in modo decisivo all’educazione teatrale tedesca e introducono in Germania, oltre a un gusto espressivo della spettacolarità, una grande esperienza scenica. La Danimarca è il primo regno continentale ad accogliere i comici provenienti dall’Inghilterra, ma già nel 1586 Cristiano I, elettore di Sassonia e nipote del re di Danimarca, ospita gli attori inglesi a Dresda. Nel 1592 la troupe di Robert Browne si installa definitivamente in Germania presso la residenza di Wolfenbüttel del duca Enrico Giulio di Braunschweig, mecenate e scrittore dilettante. I comici inglesi introducono tra l’altro sulle scene europee la popolarissima figura del buffone; nei paesi di lingua tedesca questo personaggio è dapprima chiamato Pickelhering (aringa con la pustola), quindi Hans (o Hanns) Wurst.
Teatro religioso e scena professionale: l’evoluzione dei generi comici in Inghilterra
Sancendo ufficialmente l’allontanamento della Chiesa anglicana dall’ortodossia cattolica, l’Atto di supremazia del 1534 apre in Inghilterra un lungo periodo di controversie dottrinarie che minano profondamente la stabilità dello Stato. Fornendo continui motivi di scontro, il teatro religioso è perseguitato dalle autorità e finisce progressivamente con lo scomparire. Nel 1543 l’Atto per “la difesa della vera religione e per l’abolizione della contraria” autorizza i drammi che condannano i vizi e premiano le virtù, ma proibisce le rappresentazioni che sollevano il problema dell’interpretazione delle scritture.
Cinque anni dopo l’abolizione della festività del Corpus Domini, tradizionale occasione liturgica per l’allestimento di drammi sacri, è un primo concreto attacco al teatro religioso dilettantesco. Con l’Atto di uniformità promulgato nel 1559 Elisabetta I decreta la fine dei controversial plays di ispirazione religiosa: a poco a poco le sacre rappresentazioni scompaiono dal regno.
La crisi del teatro religioso si intreccia in Inghilterra al decollo del teatro professionistico. Il Retainer’s Act del 1572 consente agli attori di eludere i veti puritani all’esercizio dell’arte scenica: facendosi assumere come “men” o “servants” delle famiglie nobili i comici possono infatti indossare la livrea della casa del protettore mettendosi così al sicuro dalle persecuzioni poliziesche. Nel 1576 James Burbage, attore al servizio del conte di Leicester, fonda The Theatre nella zona disabitata di Shoreditch; quello stesso anno Richard Farrant apre il First Blackfriars, primo teatro privato indipendente dalla volontà del sindaco. L’ostilità dei mercanti e dei maestri artigiani della Corporation of the City non vale a frenare l’ascesa del teatro commerciale: nel 1587 Philip Henslowe inaugura The Rose, il primo teatro del Bankside, la zona di Londra a destra del Tamigi. Nel 1594, all’indomani della riapertura dei teatri dopo un periodo di pestilenza, l’attività degli attori professionisti appare florida come non mai.
Londra conta circa in quegli anni 160 mila abitanti e i teatri pubblici accolgono una media di 2.500 spettatori a sera per un totale di 15 mila spettatori paganti la settimana. In un anno si rappresentano circa 250 spettacoli e ogni novità viene replicata dalle 10 alle 15 volte. In pieno periodo elisabettiano si calcola che ogni compagnia mettesse in scena circa 40 lavori l’anno, dei quali la metà mai rappresentati prima. Nei teatri pubblici il costo di ingresso è di un penny per i posti in piedi nell’arena, di sei pence per la sedia in palco e di uno scellino per uno spazio privato; nei teatri privati le stesse tariffe vanno moltiplicate per cinque. Le compagnie, economicamente indipendenti, sono poste sotto la formale protezione dei nobili. Gli attori possono riunirsi in società cooperative, come i Lord Chamberlain’s Men, o possono lavorare come salariati di compagnie a gestione privata e impresariale come gli Admiral’s Men. Nel 1599 i Burbage inaugurano, con la prima rappresentazione del Julius Caesar di Shakespeare, il Globe Theatre sul cui stendardo si legge il significativo motto “Totus mundus agit histrionem”. Per i drammaturghi professionisti dell’età elisabettiana il testo è puramente funzionale alla rappresentazione; per questo motivo alla fine del Cinquecento chi scrive per la scena in Inghilterra nutre scarso interesse per la pubblicazione delle proprie opere. Nel regime di spietata concorrenza che governa il mercato teatrale elisabettiano, la stampa dei copioni è anzi avversata dalle compagnie, che gelose del proprio repertorio, vorrebbero impedire il moltiplicarsi dei plagi dei drammi di maggior successo.
La drammaturgia comica laica si afferma inizialmente nella forma dell’interlude, genere teatrale recitato nelle pause delle feste, o “revels”, che si differenzia dai “travestimenti” dei disguisings e dei mummings silenziosi per essere un vero e proprio dramma parlato.
Come sul continente, anche nelle isole britanniche la commedia si rivela nella prima metà del secolo un duttile strumento per la propaganda ideologica tanto di parte cattolica quanto di parte anglicana. Ane Satyre of the Thrie Estaits (1540) di David Lindsay ne è un esempio: l’autore, mantenendosi nell’ambito dell’ortodossia cattolica, fa la predica a tutta la Scozia per la corruzione dei suoi costumi. The Comedy Concerning Three Laws è invece un dramma comico-religioso in cui John Bale dimostra come prima della Riforma anglicana la legge della Natura, di Cristo e di Mosè fosse stata misconosciuta e tradita.
Il passaggio dai modi della farsa medievale a quelli della commedia “regolare” è segnato dal Ralph Roister Doister di Nicholas Udall (1553). Direttore del Collegio di Eaton, Udall, compone con il Ralph Roister Doister un’azione comica regolarmente scandita in cinque atti ispirata al Miles gloriosus di Plauto. Un avvicinamento alle convenzioni classiche si riscontra pure nel Gammer Gurton’s Needle di William Stevenson (1553), bizzarra storiella popolata di piacevoli figure paesane, divisa in atti e in scene e visibilmente influenzata dalla cultura accademica. Nel 1566 George Gaiscogne presenta alla Gray’s Inn The Supposes, dai Suppositi di Ariosto, prima commedia in prosa della lingua inglese.
La formalistica imitazione dello stile italiano è evidente nelle commedie di John Lyly. Scrivendo per il teatro Lyly limita il barocchismo che caratterizza la sua prosa narrativa ai soliloqui e alle tirate, e crea per il resto sobri dialoghi immersi in un’atmosfera di incanto romanzesco.
Le opere di Lyly influenzano i drammaturghi appartenenti alla cerchia degli University Wits (i “talenti universitari”) come George Peele e Thomas Nashe.
Le commedie rappresentate nei teatri pubblici incontrano un notevole successo presso gli spettatori elisabettiani. Friar Bacon and Friar Bungay di Robert Greene (1589) è una comical history di gusto romanzesco influenzata dal Faustus di Marlowe; è invece il Tamburlaine di Marlowe che Greene riecheggia quando compone l’Orlando furioso (probabilmente 1591), farsesco travestimento del poema di Ariosto. Anche Thomas Kyd, padre della tragedia di vendetta, sembra abbia tentato il genere comico con una Bisbetica domata oggi perduta. Il prototipo della commedia elisabettiana, con la sua caratteristica satira della società e con la sua embrionale analisi ”psicologica“ dei personaggi, viene fissato dalle opere di George Chapman, John Marston e Ben Jonson.
Prima dello scadere del secolo Shakespeare crea alcuni dei capolavori del teatro comico elisabettiano. Le commedie di gusto eufuistico, vale a dire ricche di metafore e di complicati giochi verbali: The Taming of The Shrew (1590-1591), The Comedy of Errors (1592-1593 ispirata ai Menaechmi di Plauto), The Two Gentlemen of Verona (1593-1594), Love’s Labour’s Lost (1593-1594), A Midsummer Night’s Dream (1595-1596) e le commedie romantiche The Merchant of Venice (1596-1597), Much Ado About Nothing (1598-1599), As You Like It (1599/1600) e Twelfth Night (1600-1601).
In quello straordinario laboratorio di sperimentazione drammaturgica che è in fondo il teatro elisabettiano, risultati di notevole modernità sono raggiunti da Thomas Dekker: a cavallo tra Cinque e Seicento, passando da The Shoemaker’s Holiday (1599) a The Honest Whore (in due parti, 1604/ 1605), Dekker supera infatti i tradizionali confini del genere comico e approda a una forma teatrale che anticipa il dramma borghese settecentesco.