Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le musiche di tradizione orale sono state per secoli appannaggio prevalente in Europa dei gruppi sociali “popolari” che hanno sviluppato linguaggi e repertori paralleli rispetto a quelli degli ambienti colti. Il XX secolo, grazie soprattutto alla possibilità di registrare i suoni, ha visto l’emergere e il divulgarsi di questo immenso patrimonio, che nel corso del secolo e nei diversi Paesi ha vissuto alterni momenti di crisi e di rinnovate spinte creative.
La musica popolare come patrimonio da salvare e studiare
La distinzione e la conseguente dialettica tra le musiche colte di tradizione scritta e quelle popolari di tradizione orale sono fattori che hanno decisamente caratterizzato la tipicità della storia musicale europea. Le tracce degli alterni processi di allontanamento e avvicinamento tra le due tradizioni, verificatisi precedentemente al XX secolo, sono ricostruibili, in maniera spesso difficoltosa, grazie a fonti archeologiche, iconografiche, letterarie e grazie all’opera di trascrizione e rielaborazione di canti tradizionali, operata da musicisti e amatori di matrice colta in quasi tutti i Paesi a partire dal XVIII e XIX secolo.Nel Novecento l’invenzione del fonografo ad opera di Edison, insieme al sorgere di istanze politiche e sociali che indicano i ceti popolari urbani e rurali come possibili protagonisti della storia, offrono da un lato l’opportunità tecnologica e dall’altro la motivazione ideologica per portare alla luce l’immenso patrimonio delle musiche di tradizione orale, nate e coltivate in seno alle comunità di contadini, pastori, pescatori, artigiani, operai e minatori.
Fin dall’inizio del secolo cominciano a essere attivi alcuni centri di documentazione e archiviazione sonora (San Pietroburgo, Vienna, Berlino) in cui trovano spazio registrazioni di musiche extraeuropee effettuate da studiosi del continente e di musiche europee folkloriche.Prima della seconda guerra mondiale, la più completa ricerca con documentazione fonografica sulle musiche contadine europee si deve a Béla Bartók (1881-1945), a proposito della tradizione ungherese, bulgara e rumena.Nel 1947 per opera di Maud Karpeles nasce a Londra l’International Folk Music Council (oggi International Council for Traditional Music), società scientifica impegnata nello studio del folklore musicale. Nel 1981, dopo il trasferimento in USA dell’ICTM, John Blacking fonda l’European Seminar in Ethnomusicology, con lo scopo di tenere vivo il dibattito sulla ricerca etnomusicale in Europa.Il dopoguerra ha visto la sistematica nascita di studi e campagne di registrazione, grazie anche all’impulso dell’ “antropologia dell’urgenza”, ovvero della convinzione che le forti trasformazioni economiche e sociali che stavano investendo il mondo rurale avrebbero portato a un rapido decadimento dei repertori musicali a esso collegati.Forse proprio grazie a questa assidua attività di studio e conservazione, che ha consentito una conoscenza ampia e documentata, alla fine del secolo si può affermare che, nonostante l’effettivo deperimento di molti repertori e, in modo molto evidente, la perdita delle funzioni e dei contesti originali di uso, la musica della tradizione orale è ancora vitale, soprattutto nelle aree in cui è maggiormente sentita la necessità di riaffermare identità locali. Un tratto nuovo è la diffusione, tra i musicisti depositari di tale tradizione, di forme sempre più forti e consapevoli di professionismo e di autopromozione anche al di fuori delle comunità originarie.
Caratteristiche delle musiche tradizionali popolari europee
La varietà di stili e forme risente fortemente delle differenti storie che hanno interessato i Paesi del continente. La suddivisione areale proposta da grandi opere quali la Garland Encyclopedia of World Music (Isole britanniche, Europa del Nord, Europa dell’Est, Europa centrale, Europa dell’Ovest, Balcani), oltre a non tener conto di alcune configurazioni oggi conclamate come quella dell’Europa meridionale o mediterranea, necessitano sovente di aggiustamenti e distinguo per dare spazio ad articolazioni interne a uno stesso Paese (è il caso di Catalogna, Scozia, Galles, Corsica, Sardegna ecc.), alle numerose minoranze e alle identità linguistico-culturali transnazionali (si pensi ai Baschi, ai Bretoni o Celti, ai differenti gruppi ebraici, alle popolazioni nomadi, Rom, Sinti, Manus ecc., sparse in tutta Europa, ai Saami dell’Artico).
L’etnografia novecentesca ha raggruppato le principali occasioni della ritualità festiva e quotidiana, in cui è presente l’uso della musica, in due cicli maggiori: della vita (nascita, infanzia, matrimonio, morte) e dell’anno. Nella quasi totalità dei paesi europei è possibile trovare ninnananne e musiche infantili (spesso con caratteri strutturali simili nonostante le differenze culturali, come messo in luce da Costantin Brailoiou), molte musiche dedicate al matrimonio (serenate o pianti per la sposa, musiche per il corteo nuziale e il banchetto con canti a volte in forma di contrasto) e, in molte zone, lamentazioni funebri. Per quanto riguarda il ciclo dell’anno, i repertori maggiormente attestati sono quelli per i riti agricoli primaverili, identificabili nelle feste per il nuovo anno, per il Carnevale e per il maggio. Le ricorrenze religiose (Natale, settimana santa e feste per i santi) prevedono anch’esse specifici repertori musicali. Le musiche religiose cristiane (cattoliche, greco-ortodosse e protestanti), ebraiche e, in alcune zone dei Balcani, islamiche hanno influenzato con le loro forme canoniche gli stili popolari, producendo repertori collocabili all’incrocio tra la tradizione colta e orale: è il caso delle liturgie della settimana santa coltivate da confraternite in Italia e Spagna, delle popolarizzazioni dell’innodia protestante, dell’uso della cantillazione per la recitazione dei testi sacri (come nel canu’r pwnc del Galles). Resti di forme rituali precristiane sono forse rintracciabili in esperienze particolari quali quella in Italia della meloterapia del tarantismo, documentata filmicamente per la prima volta da Diego Carpitella ed Ernesto De Martino negli anni Cinquanta. Molto consistente il repertorio narrativo. Roberto Leydi e Sandra Mantovani, nel Dizionario della musica popolare europea, parlano di un’area transnazionale della ballata riferendosi a un corpus di canti-racconto con tematiche comuni a diversi paesi dell’Europa occidentale. Tradizioni importanti di canto epico si trovano nei Balcani e nell’Europa del Nord-Est (byliny russi).
I canti sono prevalentemente organizzati in forma strofica. Melodie in stile improvvisato non propriamente strofico sono comunque attestate (doina rumena o cante jondo andaluso). La distinzione operata da Bartók per la musica ungherese tra canti in parlando-rubato (ritmo libero) e giusto sillabico (ritmo misurato) è applicabile in buona parte del continente. Nei canti in ritmo giusto e nelle danze, i metri semplici (2, 3, 4) sono molto diffusi nell’Europa settentrionale, centrale e occidentale. Metri più complessi in 5 e 7 o suddivisioni asimmetriche dell’ 8 (3+3+2) o del 9 (come in Grecia 5+4) sono rilevabili soprattutto nell’area dei Balcani, mentre forme ritmiche ambigue (metri in 12/8 con accentuazioni non canoniche) si trovano nelle danze dell’Italia meridionale e in Spagna.
Molto vario è l’uso delle scale, dei modi, delle combinazioni armoniche, delle polifonie. Il pentatonismo rilevabile in molti repertori (dalle Isole Britanniche all’Europa centrale) è affiancato dal prevalente eptatonismo. Per quanto riguarda i modi si va dal modo maggiore (tipico per esempio dell’Austria) e minore, all’uso di modi di derivazione medievale (lidio, misolidio, dorico e talvolta frigio nelle Isole Britanniche come nei Paesi del Mediterraneo), fino all’influenza medio-orientale rilevabile nell’uso del termine makam, soprattutto nei Paesi interessati dalla dominazione araba (Spagna) od ottomana (Grecia e altri Paesi balcanici). La polifonia è praticata in forme interessantissime. Modelli con struttura armonica (come nell’Europa centrale e nell’arco alpino), o di melodia più bordone (Mediterraneo, Balcani), sono affiancati da complessi stili di carattere contrappuntistico per la presenza di parti (da 2 a 5) sviluppate melodicamente (a macchia dal Mediterraneo, all’Europa orientale e balcanica, fino alla Georgia).
Ricchissimo è il repertorio delle danze eseguite oggi prevalentemente in forma strumentale. Agli innumerevoli tipi locali con coreografie fisse o aperte e modelli coreutici in circolo, in fila, in coppia, doppia-coppia o trio, si sono via via affiancati tipi sovranazionali. È il caso della polka, della mazurka e del valzer.
Il patrimonio di strumenti musicali è molto vasto. Ricordiamo gli innumerevoli modelli di policalami a riserva d’aria, dalle launeddas sarde (a respirazione circolare), ai vari tipi con sacco di pelle a insufflazione (zampogna italiana e gajta asturiana) o a mantice (bagpipe britannica). La fisarmonica, inventata in Germania nel XIX secolo, nelle sue diverse varianti ha talvolta sostituito questi strumenti. Tutti i tipi di fiati sono presenti: oboi, trombe e clarinetti usati sia in forme antiche (come il piffero dell’Appennino) sia in forme moderne. Tra i flauti ricordiamo il wistle britannico, il kaval balcanico, il fujara slovacco, lungo 2 metri che produce una vasta gamma di armonici, o i flauti doppi e di pan (famosi i rumeni).
Soprattutto nei cordofoni è possibile leggere la travagliata storia di contaminazioni che ha percorso il continente. Modelli di derivazione perso-arabica o evolutisi da strumenti dell’antichità classica o medievale si sono impiantati e trasformati in ambito popolare, generando moltissime varianti. Molto diffuse prevalentemente in Europa settentrionale, centrale e orientale le cetre a pizzico (hummel svedese) o a percussione (cymbalon ungherese). Le arpe più note sono in area celtica, ma erano o sono presenti anche in altre zone (Italia meridionale, Georgia). Anche la ghironda, particolarmente amata in area occitana, è diffusa nei paesi centrali e settentrionali. Moltissimi gli strumenti ad arco (lire, salteri e liuti), molti dei quali sono stati via via soppiantati dal violino, presente in quasi tutto il continente. Liuti a pizzico tipici sono la bandurria spagnola, il cavaquinho portoghese, la balalaika russa e la bandura ucraina. Per questi ultimi due strumenti, nell’URSS comunista dell’organizzazione collettiva del tempo libero è nata la consuetudine di suonare in formazioni ampie. Frequente è l’uso della chitarra e, a Est, di liuti di derivazione asiatica (tambur, saz, ud).
Tra i numerosissimi ensemble, oltre alle semipopolari bande di ottoni molto diffuse nelle zone occidentali, vanno ricordati i gruppi di strumenti ad arco (come i lautari rumeni, e le orchestrine tzigane ungheresi). Agli archi si aggiungono in diverse zone fisarmoniche, liuti, cetre e tamburi. Negli insiemi, la parte di sostegno grave è affidata al violoncello, al contrabbasso oppure al bowl fiddle.
Meno rilevante, rispetto ad altri continenti, è il ruolo dei membranofoni, se si eccettuano i tamburi a cornice presenti già in epoca classica. Tra gli idiofoni un discorso a parte meritano le campane e i campanacci; parte integrante della sonosfera continentale, sono stati oggetto di studio da parte dello statunitense Steven Feld.