La condizione femminile
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La discriminazione di genere è funzionale alla cultura patriarcale, in cui l’obiettivo del gruppo familiare è la perpetuazione del nome e del patrimonio e in cui le donne contribuiscono alla realizzazione di questi scopi attraverso il matrimonio, la procreazione e la parte di eredità loro assegnata. Nascite e parti sono così regolamentati dall’autorità maschile, ma anche i comportamenti quotidiani. Con l’avvento della repubblica, però, alle donne vengono riconosciuti diversi diritti, tra i quali per esempio l’istruzione o la possibilità di divorziare, favoriti anche dalle lunghe guerre che allontanano e decimano la popolazione maschile. L’orizzonte sociale femminile si amplia in epoca imperiale, giungendo a libertà per certi versi moderne (che trovano ovviamente feroci detrattori), mentre si contrae con l’imporsi dell’etica cristiana, che ristabilisce il primato patriarcale.
Nel corso dei lunghi secoli della storia di Roma, dall’VIII secolo a.C. al VI d. C. la condizione femminile cambia profondamente. Nei primi secoli di vita della città, in perfetta coerenza con le esigenze di gruppi familiari fortemente patriarcali, le donne vengono sottoposte al potere di un uomo (prima il padre, poi il marito) che esercita su di loro poteri personali così forti da comprendere il diritto di vita e di morte. Se non hanno padre o marito, sono sottoposte per tutta la vita a un tutore (il parente più stretto in linea maschile: si crede, infatti, che a causa della "leggerezza dell’animo" (“propter levitatem animi”, dice il giurista Gaio nel II secolo d.C.) esse non raggiungano mai la capacità di intendere e di volere, che i maschi, invece, raggiungono (legalmente) al compimento della maggiore età (14 anni).
Di conseguenza, le discriminazioni di cui sono vittime sono molte, a partire dal momento stesso della nascita. Una legge di Romolo, per cominciare, stabilisce che chi espone (vale a dire abbandona alla sua sorte) un figlio maschio venga punito con la confisca di metà del patrimonio. Chi espone una femmina invece viene punito solo se si tratta della primogenita: tutte le altre possono essere impunemente abbandonate. E posto che le donne romane si sposano giovanissime (l’età legale è 12 anni), e che ai tempi non esistevano efficaci contraccettivi, il numero di figlie cadette che possono essere esposte è molto alto e la loro sorte, se scampano alla morte, è comunque tragicamente segnata: chi raccoglie una neonata, infatti, lo fa, di regola, pensando di fare un investimento economico: appena raggiunta l’età, la ragazza può essere venduta come schiava, o più spesso avviata alla prostituzione. Le altre, quelle che sono state allevate (a meno che non diventino sacerdotesse, unica alternativa al matrimonio) attendono in casa l’uomo che sposeranno, ovviamente scelto dal padre. Come mogli, la loro funzione non è quella di compagne, bensì quella di riproduttrici.
A dimostrarlo, prima ancora che dalle norme giuridiche, stanno alcune antichissime cerimonie nuziali, quale il culto del dio Tutunus Mutunus, nel corso del quale la sposa simula il congiungimento con il dio, cavalcandone il fascinus, vale a dire l’organo riproduttore. Non meno significativa, in questo senso, è la cerimonia dei Lupercalia, che ancora in epoca repubblicana si celebra ogni 17 febbraio, durante la quale uomini nudi armati di cinghie di pelle caprina (i Luperci) fustigano le donne per combatterne la sterilità. Superfluo dire che alle donne nubili si chiede la castità, e a quelle coniugate la più rigorosa fedeltà sessuale. Se vengono meno a questi doveri vengono punite dal padre o dal marito, che possono anche metterle a morte, e un’antica legge, attribuita a Romolo, stabilisce che possano essere punite con la morte tutte le donne che bevono vino. Quale fosse la ragione del divieto appare con assoluta chiarezza da quel che dice in proposito Valerio Massimo: “la donna che beve chiude la porta alla virtù e la apre a ogni vizio”. Infine, quelle che sottraggono le chiavi della cantina nella quale è conservato il vino possono essere ripudiate (anche se non lo bevono), così come vengono ripudiate la donne che abortiscono senza il consenso del marito (il quale, se lo crede opportuno, può imporre loro di interrompere la gravidanza). Ma con il tempo, a partire dalla cacciata dei re etruschi e con l’inizio della repubblica (510 a.C.), le cose cominciano a cambiare.
A cavallo tra il I secolo avanti e il I dopo Cristo, oltre a godere di una notevole libertà di movimento, le donne ottengono il riconoscimento di una serie di diritti, che originariamente e per lungo tempo sono stati loro negati. L’antico matrimonio, a seguito del quale entrano a far parte della famiglia del marito, è stato quasi totalmente sostituito da un nuovo tipo di matrimonio, a seguito del quale esse continuano a far parte della famiglia di origine. Ma quel che più rileva è il fatto che il nuovo matrimonio è ispirato a principi di libertà del tutto inediti: la sua esistenza non dipende più dalla celebrazione di una cerimonia nuziale, a seguito della quale i coniugi rimangono tali sino a che il matrimonio non viene interrotto dalla morte o dal divorzio (o, per meglio dire, all’eventuale ripudio, visto che per molti secoli il diritto di interrompere il matrimonio era stato concesso solo agli uomini). Il nuovo matrimonio si basa sul consenso permanente dei coniugi, e cessa qualora in qualunque momento questo consenso venga meno in uno dei due ed essi pongano fine alla coabitazione.
A questo si aggiunga che le donne romane, indipendentemente dalla loro condizione sociale, ricevono un’educazione di base. Alle scuole elementari (pubbliche) sono ammesse anche le bambine, e le ragazze delle classi alte, non diversamente dai fratelli, ricevono dai pedagoghi – spesso di origine greca – una buona educazione superiore, che prevede a volte anche l’insegnamento della retorica e del diritto. Uno dei fattori che consentono alle donne romane di emanciparsi, dunque, è l’istruzione; e accanto a questa, non meno importante, il diritto di partecipare alla successione paterna insieme e alla pari dei fratelli maschi, concesso loro quantomeno a partire dall’epoca delle XII Tavole, ma forse sin dalle origini della città. Per quanto singolare possa sembrare, infine, a favorire il loro processo di emancipazione è anche la politica estera di Roma, e il succedersi quasi ininterrotto di circa due secoli di guerre, tra cui, tutt’altro che trascurabile, la seconda guerra punica. La decimazione della popolazione maschile, inevitabile conseguenza dell’espansione, determina un cambiamento fondamentale nel rapporto tra sessi. Molte donne, persi in guerra i padri e i mariti, si trovano a essere libere e indipendenti, e anche quelle che hanno ancora un marito o un ascendente maschio in vita sono di fatto, non di rado, le sole persone che possono occuparsi del patrimonio familiare: e molti uomini, impegnati nelle campagne e nelle preoccupazioni belliche, sono costretti ad affidare alle donne la gestione e la salvaguardia degli affari e del patrimonio familiare. L’imperialismo romano, insomma, produce i suoi effetti anche sulla condizione femminile, così come la trasformazione dell’economia, a seguito della quale la ricchezza viene a essere sempre più spesso rappresentata dal denaro, e non più dalla terra. E il denaro, che può essere trasferito senza bisogno di autorizzazione del tutore (al cui potere per molti secoli le donne sono sottoposte a vita) con semplice consegna (traditio), sfugge praticamente a ogni controllo. Molto rimarchevole è anche, soprattutto se rapportato ai secoli precedenti, il riconoscimento a uomini e donne di diritti formalmente identici in materia di divorzio. Che, poi, la prassi sociale valuti in modo diverso la scelta di porre fine all’unione quando è fatta dalla donna è un altro discorso, che (pur essendo tutt’altro che privo di conseguenze) non toglie valore all’indiscutibile progresso rappresentato dall’affermarsi della nuova configurazione del matrimonio e della concessione alle donne di nuove libertà, alcune delle quali non sono solo formali. A partire dagli ultimi secoli della repubblica, infatti, subiscono sensibili modifiche anche le norme che regolano la sottoposizione delle donne a tutela perpetua che scompare definitivamente all’epoca di Costantino. Infine, mentre nei primi secoli l’unica parentela riconosciuta dal diritto era quella in linea maschile (adgnatio), e pertanto tra madre e figlio non esisteva un rapporto riconosciuto e tutelato dal diritto, a partire dalla fine della repubblica una serie di provvedimenti dà inizio a una revisione di questi principi. All’epoca di Adriano si stabilisce che la madre, qualora abbia tre figli, possa ereditare da costoro, sia pur dopo i figli dei figli, il padre degli stessi e alcuni agnati. Nel 178 si stabilisce che i figli possano succedere alla madre, e infine, anche se con difficoltà, viene riconosciuta a tutte le donne la capacità di succedere ai figli.
I secoli fra principato e impero (preparati dagli ultimi secoli della repubblica) consentono dunque alle donne romane di ampliare i loro orizzonti al di là della vita familiare, partecipando ampiamente alla vita sociale. Un fenomeno importante, del quale, a seconda dell’ottica di chi di volta in volta lo ha osservato, sono state date interpretazioni diverse e contrastanti: secondo alcuni affermazione e vittoria delle donne, che conquistano libertà per alcuni versi paragonabili a quelle moderne; secondo altri deplorevole rilassatezza di costumi, immoralità senza freni, disinteresse per le sorti dello stato. Tra questi ultimi, gli stessi romani, o quantomeno molti di loro. Catone, ad esempio, era preoccupatissimo, racconta Livio. Quando le donne (nel 195 a.C.) scesero in piazza per ottenere l’abrogazione di una legge che limitava l’uso dei gioielli e di altri simboli del lusso, avvertì i suoi concittadini: “non bisogna conceder loro di essere pari agli uomini” – disse – “quando saranno pari, ci comanderanno” (Livio, 34, 7, 5). Né era il solo a temerlo. Più avanti nel tempo, circa un secolo e mezzo dopo, Marziale scrive: “Io non voglio sposare una donna ricca. Mi chiedete / perché? Voglio sposare, non essere sposato” (VIII,12). Le donne sono diventate arroganti, dicono i loro concittadini, sono arroganti, saccenti, corrotte, non vogliono più fare figli perché temono di sciupare il ventre, se rimangono incinte abortiscono senza neppure pensarci. Esagerazioni, ovviamente, espressione di una grande incertezza, per non dire paura, di fronte al vacillare di un potere che era stato così forte e sicuro. Piaccia o meno agli uomini, comunque, le donne si sono emancipate. Non solo a Roma, e non solo tra le classi alte. Gli scavi di Pompei hanno restituito testimonianze indiscutibili del fatto che il fenomeno, perlomeno in territorio italico è generale, e non tocca solo le classi alte. Ma questo non vuol dire che tutte le donne ne beneficino. Accanto alle donne libere esistono le schiave, quelle che si trovano nella condizione peggiore, la più dura e la più inumana. Giuridicamente considerate "oggetto" e non "soggetto" di diritto (non diversamente dagli schiavi maschi, del resto), le schiave sono destinate ai lavori più pesanti: pulizie, macinatura del grano, coltivazione dei campi. E hanno un dovere ulteriore: quello di essere a disposizione dei membri maschi della familia qualora questi, come spesso accade, preferiscano intrattenere i loro rapporti sessuali extramatrimoniali con le schiave di casa, piuttosto che con le prostitute. Non possono sposarsi e, se sono di fatto unite a uno schiavo, i loro figli, se ne hanno, appartengono al padrone, che tra l’altro può interrompere l’unione quando vuole, vendendo uno dei due a un altro padrone. Sintomatico e per noi incredibile a questo proposito è il quesito che i giuristi romani si pongono a più riprese: il figlio della schiava è o non è da considerare un "frutto"? Per capire il senso della domanda, è necessario pensare che giuridicamente non sono "frutti" solamente i frutti dell’albero, ma tutti i prodotti autonomi di una cosa, come il legname dei boschi, il latte, la lana o i nati dalle pecore, e via dicendo. E i "frutti", nel diritto romano, appartengono al proprietario della cosa-madre, a meno che questa non sia stata data in usufrutto: nel qual caso, invece, spettano al titolare di questo (usufruttuario). Il quesito, dunque, non è solo accademico. Anche la schiava, come una cosa, può essere data in usufrutto: e i suoi figli, in questo caso, in quanto "frutti", secondo i princìpi del diritto civile, spetterebbero all’usufruttuario. Ma sono "frutti" troppo preziosi perché il padrone della schiava possa accettare di perderli: ecco, quindi, la vera ragione del dibattito. Nell’interesse dei proprietari, è meglio stabilire che la schiava non è una cosa fruttifera: e così viene fatto. Perché la durezza della loro condizione cambi, dovranno attendere la mitigazione della condizione schiavile: quelli della condizione femminile non le riguarderanno mai, né nel bene né nel momento in cui, man mano che la crisi dell’impero si manifesterà con sempre maggior evidenza, le donne perderanno i vantaggi ottenuti nei secoli d’oro della loro storia. Con il mutare delle condizioni politiche, economiche e sociali, infatti, con la burocratizzazione del potere e con la militarizzazione dello stato vengono meno, inevitabilmente, le condizioni che hanno consentito e favorito l’emancipazione. Il settore nel quale vengono attuati gli interventi più significativi è la politica familiare, sulla quale agisce, fra le altre circostanze, la concezione cristiana del matrimonio. Per influsso del cristianesimo accanto ai matrimoni combinati, che continuano a sussistere, aumentano le unioni non più predeterminate e imposte dai genitori (e in particolare dai padri), ma decise dalle parti contraenti. E questa nuova considerazione della volontà conferisce certamente al matrimonio un nuovo e più alto significato etico. Ma il cristianesimo agisce anche in una direzione diversa, in un certo senso svalutando il ruolo del consenso dei coniugi. Per il diritto classico infatti l’intenzione di essere sposati deve essere continua, vale a dire deve sorreggere l’unione per tutto il corso della vita matrimoniale. Per i cristiani, invece, la volontà di contrarre matrimonio, manifestata al momento della celebrazione, è irrevocabile. I cristiani, in altri termini, prendono in considerazione la sola volontà iniziale, fissandola per così dire nel tempo, e attribuendo solo a essa valore determinante: e gli imperatori cristiani cercano in molti modi di modificare il regime del matrimonio per renderlo più rispondente alla concezione che di esso ha la nuova religione di stato. Gli interventi imperiali, da Costantino a Giustiniano, attuano inoltre una politica volta a impedire o quantomeno a limitare i divorzi, stabilendo, per la prima volta, una casistica di circostanze che li giustificano. Lo scioglimento del matrimonio, ora, può aver luogo solo in circostanze e per cause prestabilite, tra le quali la colpa delle parti, ovviamente diverse a seconda che siano maschili o femminili. Sono "colpa" del marito solo comportamenti gravissimi, come ad esempio l’aver tentato di prostituire la moglie; la moglie, invece, viene considerata colpevole non solo se commette adulterio (che non è "colpa" se commesso dal marito, considerato colpevole solo se ha una concubina), ma anche se va ai banchetti o ai bagni con estranei, o frequenta spettacoli senza il consenso del marito. Per quanto riguarda la vita delle donne al di fuori della famiglia, si stabilisce che "per garantire la pudicizia" è loro vietato il mestiere di avvocato, e si vieta loro di ricoprire gli "uffici civili e pubblici." Escluse, dunque, dai territori "maschili", le donne, che da quelli "femminili" hanno tentato di uscire, sono in questi di nuovo sospinte. Nei primi decenni del VI secolo d.C. il Corpus Iuris Civilis, la grande codificazione giustinianea, testimonia che la vecchia etica e regola patriarcale era stata inesorabilmente ristabilita. A conferma del fatto che, ieri come oggi, la storia non procede in modo lineare verso il progresso.