La conformazione tridimensionale
Il nuovo statuto della scultura
Il termine conformazione tridimensionale può essere assunto quale definizione contemporanea e ampliamento semantico di ciò che a lungo si è chiamato scultura: un ambito originariamente ristretto, che dall’oggetto/scultura si è poi allargato all’installazione, all’ambiente, estendendosi dallo spazio codificato della galleria o del museo a quello della città, eludendo restrizioni linguistiche e di materiale, passando dall’elemento tradizionalmente riconoscibile (corpo umano, oggetto ingrandito) a quello astratto e geometrico, all’insieme informale, all’accumulo di oggetti, al progetto, al racconto. E in tutto ciò utilizzando i materiali più vari: sia legno, bronzo, marmo, metallo, come nella tradizione; sia nuovi materiali di origine industriale, com’è tipico della modernità. Ma anche luce e materiali deperibili, nonché pittura, mosaico, dispositivi elettronici e virtuali. La branca dell’arte che ha cambiato in maniera sicuramente più evidente il proprio statuto nel secolo appena passato è quella che a lungo è stata circoscritta come scultura: sia per effetto dell’attitudine interdisciplinare e dell’ambiguità semantica espressa dalle avanguardie storiche, che per prime hanno abbattuto gli steccati tra le varie forme di espressione artistica; sia per lo slittamento di senso e il cambiamento dei contenuti tradizionalmente attribuiti a questo tipo di arte (ricerca della bellezza, esaltazione della storia, encomio, ritratto); sia per l’estrema variabilità dei mezzi a essa connessa (basti per tutti l’esempio, all’inizio del secolo scorso, degli insiemi scultorei di Umberto Boccioni che comprendevano oggetti di diverso tipo, compresi capelli e altri reperti corporei). Viviamo in un’epoca – passata alla storia come cultura dell’età postindustriale o postmoderna – di assoluto pluralismo e di un’altrettanto assoluta varietà dei significati attribuibili all’arte dello spazio tridimensionale. Una categoria multicomprensiva, che sfugge alle nozioni consolidate e alle normative, in continua evoluzione, che si modifica costantemente in ordine ai contenuti, alle forme e ai materiali impiegati. Essa subisce, come ogni altro linguaggio, quella che è la condizione irrinunciabile dell’arte contemporanea: la trasversalità, la contaminazione dei generi, la compresenza degli stili, dei mass media e dei linguaggi, spesso diversi nelle opere di uno stesso artista (e anche questo è un dato oramai consolidato dalla tradizione, basti pensare a Pablo Picasso). È dal riconoscimento dell’importanza di Marcel Duchamp nell’arte contemporanea che l’opera d’arte è ricondotta al progetto mentale dell’artista, il quale perciò è in grado di esprimersi nelle forme e con i mezzi più disparati (che in realtà non esistesse l’arte, ma solo gli artisti, scriveva già nel 1950 Ernst H. Gombrich in The story of art; trad. it. 1966). Anche come scultore: ma spesso anche lo scultore contemporaneo più sensibile alla tradizione e al mito del classicismo (per es., in Italia, Mimmo Paladino) può esprimersi con i mezzi della pittura, citare il passato remoto o le avanguardie storiche, saccheggiare la storia dell’arte, comporre opere come racconti e installazioni significanti. Può anche comportarsi come un ‘sismografo’ sensibile ai flussi continui di immagini e di informazioni che condizionano l’età postindustriale.
Appare quindi difficile stabilire quanto un’installazione di un artista contemporaneo, quale espressione di un progetto di spazio tridimensionale e materializzazione di un’idea, differisca o si avvicini alla nozione di ‘scultura’, o quanto, al contrario in altri ambiti, facenti parte di statuti disciplinari diversi, si possa accedere a campi fino a ora di pertinenza esclusiva dell’arte (si veda, per es., l’assimilazione delle opere dell’architetto statunitense Frank O. Gehry a procedimenti e libertà di forme tipiche dell’arte).
Due delle categorie dirimenti, relative all’installazione o alla realizzazione del progetto, potrebbero essere i concetti di ‘stabilità’ e di ‘durata’, quest’ultima intimamente connessa alla ricerca sui materiali; non sembra infatti possibile considerare affine alla scultura un’installazione effimera realizzata con materiali deperibili e la cui durata sia pensata come limitata nel tempo. Ma opere strutturalmente ambigue, dai controrilievi dei costruttivisti russi negli anni Venti ai combine paintings di Robert Rauschenberg (1925-2008), strutture tridimensionali dipinte su legno in materiale evidentemente effimero e deperibile (1954-1962), e tutto ciò che è venuto dopo su quella scia, ripropongono i termini del problema. Non sembra esistere attualmente una particolarità disciplinare che, estendendosi tridimensionalmente nello spazio, si ritagli un’autonomia evidente dalle altre espressioni artistiche: pittura e scultura propriamente detta, assieme spesso a interventi architettonici, si contendono infatti il campo. Così, durata, riproducibilità in un altro contesto e uso di materiali deputati si rivelano anch’essi categorie ambigue e inapplicabili. Definiremmo a fatica ‘scultura’ l’opera gigantesca di Anish Kapoor (n. 1954) per la Tate Modern di Londra (Marsyas, 2002-03), ma è inconfutabile che ciò sia solo un problema di scala e che altre opere dello stesso artista indiano possano essere senz’altro ascritte a questo archetipo, quando si tratti di sassi dipinti o di dischi dorati: oggetti, alla media o piccola scala, realizzati in materiali concreti e definibili. Il discorso diventa complesso quando Kapoor, esplorando come suo solito la tematica spaziale tra vuoto e pieno, interno ed esterno, presenta, assieme ai dischi che abbiamo stabilito essere vere e proprie sculture, una forma concava realizzata per mezzo della forza centrifuga da un liquido colorato ospitato in una fontana rotante (Turning water into mirror, 2000, esposta nel 2003 al Museo archeologico nazionale di Napoli in occasione di una mostra sull’artista). Il disco, la sua forma, il suo colore, la sua misura sono del tutto identici a quelli realizzati con materiali stabili e concreti, ma l’essenza dell’opera stessa è cambiata: si è letteralmente liquefatta. Può essere definita come conformazione tridimensionale solo a patto che si verifichino particolari condizioni: per es., che nessuno stacchi la luce. Ci chiediamo se avremmo potuto comprendere in tale definizione le opere di Kapoor nel caso in cui lo stesso effetto (disco concavo, esplorazione del rapporto interno esterno, concavo-convesso) fosse stato ottenuto con strumenti totalmente virtuali, impalpabili, che avessero completamente perso la fisicità. Altri problemi di definizione e di interpretazione dei fenomeni si pongono quando l’artista decide di passare alla scala urbana, come è accaduto, ancora nel caso di Kapoor, nel progetto per l’uscita della stazione della metropolitana Monte Sant’Angelo di Napoli (2005), o per la scultura (Cloud gate, soprannominata Bean, 2004-2006), installata al Millennium Park di Chicago.
Scultura? Architettura? Non è un dilemma messo in luce esclusivamente dalla cultura postmoderna, ma è quello, indecifrabile, che pongono opere di autori famosi del secondo dopoguerra, da Isamu Noguchi (1904-1988) a Luis Barragán (1902-1988), quest’ultimo in particolare dopo l’incontro con Mathias Goeritz (1915-1990), nella realizzazione, non solo delle celebri Torres de Satélite (1957-58, Città di Messico), ma anche in quella del Museo El Eco (1953, sempre a Città di Messico), dove la scultura e l’architettura sembrano scambiarsi continuamente di ruolo.
In realtà, sul nuovo statuto di ciò che continuiamo a chiamare scultura e, in generale, sull’estetica del postmoderno, negli ultimi decenni del 20° sec. si è esercitata la critica più avveduta, in un passaggio di consegne che trascorre dal criticismo modernista di Clement Greenberg, negli anni Sessanta, alle più recenti riflessioni nei testi fondamentali di Rosalind Krauss e Hal Foster sulla storia dell’arte e del filosofo Arthur C. Danto (After the end of art, 1997; trad. it. 2008) sull’estetica contemporanea.
Già nei suoi primi saggi sulla scultura (Passages in modern sculpture, 1977, trad. it. 1998; Sculpture in expanded field, «October», 1979, 8, pp. 30-44), Krauss rileva come il criticismo che aveva accompagnato l’arte statunitense del secondo dopoguerra avesse contribuito all’estensione e alla manipolazione di categorie consolidate, quali pittura e scultura, e come lo storicismo ne avesse mitigato la novità rivoluzionaria rendendola più accettabile, così come era accaduto per la comparsa della scultura minimalista degli anni Sessanta, cui venivano attribuiti legami con le avanguardie storiche che ne mediavano l’eccentricità. Krauss, infine, ripercorrendo il significato della definizione di scultura attraverso i secoli, evidenziandone alcune delle specificità – come quella di identificare la scultura con il monumento di valore simbolico legato al sito e alla committenza – e la sua trasformazione all’inizio del 20° sec. (Auguste Rodin, Constantin Brâncuşi) ne registra l’attuale autoreferenzialità, focalizzando il suo interesse soprattutto sulla separazione della scultura moderna dal luogo e la propria raggiunta, totale, autonomia; ciò che ne aveva determinato in definitiva attorno alla metà del secolo, sempre secondo Krauss, la perdita di senso. Non più posta quasi esclusivamente ‘su un asse verticale’, modellata o scolpita, la ‘scultura’ diviene così definibile per ciò che non è: non paesaggio, non architettura, ma una sorta di assenza ontologica. Non è il caso di ripercorrere tutto il processo attraverso il quale Krauss arriva a ridefinire la nozione di scultura come insieme complesso, utilizzando nella sua dimostrazione di ‘espansione di campo’ strumenti matematici (come il ‘gruppo di Klein’) e logica strutturalista. In tutti i casi ne stabilisce nuove categorie, in relazione al luogo e allo spazio architettonico, come site constructions o marked sites (analizzando in questa ottica, non più formalista, il lavoro di artisti quali, per es., Richard Morris, Robert Smithson, Michael Heizer, Richard Serra), ponendo di conseguenza la scultura al centro di un incrocio tra paesaggio e architettura, natura e cultura, e stabilendone la liceità dell’utilizzo dei vari mass media. Si chiariscono in questo modo il percorso e il significato della scultura minimalista, sia di ciò che è stato chiamato, appunto, extended field, sia delle installazioni site-specific, includendo nella sua complessità l’uso del video e della fotografia o di qualunque altro mezzo l’artista giudichi indispensabile; quella che ancora Krauss definisce come condizione postmediale (A voyage on the North sea. Art in the age of the post-medium condition, 2000; trad. it. 2005).
A un trentennio dalla formidabile interpretazione degli anni Settanta, l’ambiguità su una possibile definizione della scultura di fatto rimane: è indubbio che un artista multimediale come lo statunitense Matthew Barney (n. 1967), i cui colossali progetti (The cremaster cycle, 1994-2002) catalizzano l’interesse e il sostegno di prestigiose istituzioni culturali, a cominciare dal Guggenheim Museum di New York, semini di oggetti tridimensionali, definibili in qualche modo come sculture, i percorsi espositivi che ne illustrano le complicatissime fasi. È lo stesso artista a definirle come tali, aggiungendo che alle sculture è assegnato il compito di fissare le relazioni tra i personaggi e le architetture. Il suo immaginario è popolato di oggetti di plastica vischiosa, vagamente ospedalieri e minacciosi, come ricordi e sinistri souvenir di ciò che avviene con più complessità nei suoi film, leggibili in sottotesti diversi. Puntelli oggettuali di un mondo volatile dove allegorie e metafore s’incrociano in universi onirici e paralleli che alludono alla creazione. E che Barney definisce in tutte le sue implicazioni come ‘scultura in sé’. Deflagrazione e moltiplicazione di senso in un’opera complessiva di cui fanno parte film, fotografie, sculture e disegni concepiti (e venduti) come storyboard; moltiplicazioni di materie in opere apparentemente semplici e ‘portatili’, come The cabinet of Gary Gilmor and Nicole Baker (1999-2000), i cui materiali si costituiscono essi stessi a ironico manifesto dell’attitudine proteiforme del postmoderno (nylon, policarbonato, cera d’api, cera microcristallina, gelatina di petrolio, poliestere, vinile, tappeti, cromo, acrilici, plastica, sale, epossido, argento ecc.).
È questa compresenza onnicomprensiva a rendere complicati i termini del problema, non più le installazioni geometrico costruttiviste che erano oggetto della riflessione di Krauss in quegli anni. Quella che si potrebbe definire scultura assume in questo caso il ruolo secondario dei termini di un racconto leggibile ai più vari livelli, polisemico e multimediale. Ma inventare, spiega Jacques Derrida (Psyché. Inventions de l’autre, 2 voll., 1987, 2003; trad. it. 2008) nel senso dell’esperienza del ‘trovare per la prima volta’, nella nostra epoca vuol dire piuttosto riconoscere, adattare l’esperienza a un concetto ‘ritenuto legittimo’ a suo riguardo. In questo caso la scultura, così come siamo abituati a considerarla.
Gli stessi artisti che utilizzano apparentemente media e forme tradizionali come il bronzo e la figurazione, oppure come M. Paladino (n. 1948), gesso, resine dipinte o terracotta scura come nella cultura classica, spesso danno senso e nuova identità alle loro opere non leggendole separatamente una per una, ma accumulandole in una narrazione che cambia di segno e di significato per ogni esposizione successiva. In questo caso il progetto di allestimento dello spazio funge da palinsesto, come è successo a Roma, dove, nel perimetro fortemente identitario del Museo dell’Ara Pacis, Paladino ha installato (Opera, 2008) centinaia di forme di scarpa con applicati piccoli uccelli di bronzo, mentre frammenti di sculture classiche venivano isolati o accatastati, addensandosi improvvisamente su una diga di supporti metallici, chiamata treno, o al contrario presentandosi definiti in uno spazio rarefatto, come il mazzocco circolare che fronteggiava il monumento antico. Il nero, il grigio scuro delle sculture e degli elementi eterogenei dipinti color bronzo, come i fucili, i cappelli o le tegole accumulati nella rastrelliera del treno, o le sagome accasciate come i calchi dei fuggitivi di Ercolano, teatralizzavano la presenza della memoria e della storia.
L’artista contemporaneo può ormai agire in completa libertà. È quanto afferma, tra gli altri, Danto: arrivata dopo quella che egli definisce ‘morte dell’arte’ (After the end of art, 1997; trad. it. 2008), la cultura del contemporaneo è un amalgama di compresenze e pluralismi linguistici nell’ambito del quale l’artista può e deve essere libero di decidere mezzi e fini del proprio operare. Moderno e contemporaneo non sono infatti meri dati cronologici: se il criticismo ispirato alle posizioni di Greenberg (e che Danto definisce come troppo «localista e legato ai materiali, connesso com’era ai concetti di forma, colore e superficie», After the end of art, p. 14) aveva analizzato la creazione artistica del Modernismo americano – tutto ciò che avviene prima della Pop art – come un processo di autoriflessione nei suoi dati squisitamente formali, Danto ribadisce il concetto hegeliano di morte dell’arte come morte della ‘narrazione dell’arte’, e contemporaneo il momento in cui l’artista si libera dal peso della storia per consegnarlo ai filosofi, «libero di fare arte in qualsiasi maniera e con qualsiasi proposito, o anche di non averne affatto» (p. 15).
Molteplici le aporie relative a tale posizione estetica, a cominciare dal rifiuto del concetto di avanguardia, ma troppo specifiche ed estese per essere qui analizzate. Accettiamo però, come fenomeno sotto gli occhi di tutti, l’assoluta libertà nella conformazione, nella forma, nei materiali e nel significato attribuito all’arte e ai suoi mezzi nella cultura del postmoderno. Un fenomeno accentuato dalla globalizzazione, che elude la centralità del mercato statunitense e coinvolge ampiamente il Terzo mondo, dagli anni Novanta interessato a dar prova di sé, sia nella flagranza dei fenomeni artistici provenienti dall’Africa postcoloniale e dall’Asia (cui è stato dato ampio spazio nelle Biennali di Venezia, 1999 e 2001, curate da Harald Szeemann, oppure a Kassel nella versione di Documenta 11, 2002, curata da Okwui Enwezor), sia nel moltiplicarsi di esposizioni internazionali delocalizzate, a Cuba come a San Paolo, a Istanbul, a Taipei, a Bamako. Operazioni artistiche sempre meno ‘estetiche’ e sempre più interessate all’aderenza a un reale ricco e complesso, denso di implicazioni sociali e antropologiche fino a ora trascurate o sconosciute. «Osserviamo – scrive Simonetta Lux che ne fa un’anamnesi donandoci una sua bella definizione di ipermoderno – una sorta di riuso originale oppure aproblematico di tecniche e tecnologie, antiche o attualissime, così come di processi o di sconfinamenti tematici, di ‘genere’ o di costruzione del sé, che rappresentano il ricco lascito delle Neoavanguardie e più in generale della ricerca artistica del Secondo Dopoguerra» (2006, p. 12). È in questo campo che si situa il progetto globale del cileno Alfredo Jaar (n. 1956), artista, architetto e filmmaker che ha dedicato un ciclo di opere al genocidio in Ruanda (The Rwanda project, 1994-2000) e all’indifferenza dell’Occidente, e che è interessato al rapporto tra arte e potere, per es. nel lavoro realizzato per la Casa del Fascio di Terragni a Como (2005). ‘Sculture’ permanenti, opere d’arte totale con apporti di musica e poesia, installazioni multimediali.
Scultura? Architettura?
La scultura, ciò che noi abbiamo assunto nella definizione di conformazione tridimensionale, diventa una delle possibili e varie forme dell’espressione artistica, mentre il campo progettuale e costruttivo a essa più pertinente sembra sia stato ultimamente invaso dalle incursioni degli architetti, in sinergia o più spesso ‘contro’ gli artisti. Si pensi all’Holocaust-Mahnmal, il memoriale per le vittime dell’Olocausto (Berlino, 2005) dell’architetto statunitense Peter Eisenman (n. 1932), emerso dal confronto, almeno agli inizi, con lo scultore, suo connazionale, R. Serra (n. 1939). È lo stesso Eisenman ad affermare come l’uso del computer abbia poi ‘raffreddato’ ogni tensione estetica o simbolica del monumento, e come la selva di steli, in realtà un labirinto di grande impatto emozionale, sia soltanto il risultato diagrammatico della tecnologia avanzata, reiterando una divaricazione tra un concetto, ancora romantico, di arte, e i mezzi e il linguaggio dell’architettura contemporanea.
All’architettura, così come alla scultura, sono stati a lungo connessi i concetti di durata e stabilità; non a caso la differenza ontologica tra la necessità dell’architettura e la libertà della ricerca artistica è ben presente nel pensiero dei filosofi del Surrealismo. È ciò contro cui si scagliava Georges Bataille (L’expérience intérieure, 1943; trad. it. 1978): l’architettura (e la scultura) che si pone come metafora di un sistema volto a rendere ‘eterno’ il campo del possibile, a ‘cristallizzare’ l’armonia ‘annullando il tempo’. Tra le altre cose, secondo il filosofo francese, il ‘sogno’ dell’architettura era sfuggire all’entropia. E sul rovesciamento di questo assunto si concentravano, alla fine degli anni Sessanta, sia la ricerca sul campo dell’artista statunitense R. Smithson (1938-1973) sia quella, molto diversa e di rinnovata attualità, del suo connazionale Gordon Matta-Clark (1943-1978), che manipolava la percezione dell’architettura attraverso il taglio (cutting) programmato di edifici fatiscenti, destabilizzandone, alla lettera, la fisicità, oltre che la funzione sociale.
Del resto, la divaricazione tra le istanze gratuite e libertarie della ricerca artistica e quelle dell’architettura – fino a oggi legate alla ‘pesantezza’ del sistema dei valori politico-sociali, oltre che della sua stessa natura – è resa sempre più ambigua dal cambiamento di prospettiva e dal progressivo trasformarsi dell’architettura in comunicazione. Nella Biennale di Venezia curata da Aaron Betsky nel 2008 (Out there. Architecture beyond building) è stato richiesto agli architetti più famosi e celebrati in campo internazionale di superare la necessità del progetto, per rappresentarsi totalmente in un’installazione significante, oltre che di definirsi in una sorta di cifra stilistica: F.O. Gehry (n. 1929) in una delle sue celebri curve; Massimiliano Fuksas (n. 1944) nello spazio solidificato dell’intercolumnio dell’arsenale, ambiguo e gonfiabile, dove galleggiano figure come in un racconto cinematografico; l’irachena Zaha Hadid (n. 1950) nelle ellissi solidificate dei suoi flussi. Una lussuosa e raffinata operazione di marketing. Ma una recente installazione di Fuksas a Napoli (Napolincroce, 2008), una crocifissione multipla di legno di castagno, altissima e solenne, realizzata al Museo d’arte contemporanea Donnaregina (MADRE), nello spazio gotico dell’abside della chiesa di Donnaregina vecchia, in sinergia con Paladino, ci sembra raggiungere nel rapporto con lo spazio circostante, nella raffinatezza del materiale naturale, nell’astrazione dolorosa del tema e nel livello di intuizione poetica, livelli artistici elevati. Si accetti dunque che la scultura, o conformazione tridimensionale, sia nel caso in cui esprima la tensione della ricerca geometrico spaziale, sia che riconduca al sé e ai propri racconti o riconsideri la storia e il mito, sia che si estenda al di là dei propri ambiti, rappresenti solo uno dei tanti generi percorsi dagli artisti o che, al contrario, vi convergano discipline ontologicamente diverse.
Corpo, corpo ibridato, storia e memoria
Paradossalmente, mentre gli architetti si avvicinano sempre di più alle espressioni dell’arte tendendo al segno riconoscibile o al racconto, la conformazione tridimensionale, da una fase di minimalismo come monumentalità spaziale geometrico-costruttiva particolarmente cara agli eredi del modernismo (Serra, Sol Lewitt) degli anni Settanta, o di ricerca nel rapporto concavo/convesso, interno/esterno (Kapoor), o comunicativo sulla scia della cultura pop (Jeff Koons), sembra riconsiderare, recuperandoli ovviamente alla contemporaneità, archetipi che nei secoli si sono consolidati nel nome della scultura: figura, corpo umano, monumento, natura e cultura, anche artificiosa (Olafur Eliasson, James Turrel). A volte, specie in ambito italiano, il mito e la storia (Paladino, Jannis Kounellis).
La novità in questo campo appare la riconsiderazione del corpo, spesso assunto nel suo valore simbolico o come espressione del ciclo vitale. Corpo umano come figura, nelle sue variabili infinite: intera, gigantesca o lillipuziana o a lacerti, brandelli, contaminazioni, innesti, frammenti, metamorfosi. Tenuta insieme dal suo involucro o esplorata al suo interno, totalmente umana o ibridata con aspetti del mondo animale. Assieme alla figura compare così la natura, riprodotta, guidata oppure invece manipolata e artefatta nello studio e nell’osservazione del ciclo della vita e della morte (Damien Hirst).
Parte di tutto ciò ritorna nello spettacolare canto del cigno dell’artista francese naturalizzata statunitense Louise Bourgeois (n. 1911), sul filo della memoria e della meditazione sul ruolo e sul senso dell’identità femminile, dove la scultura è soltanto una delle innumerevoli forme di espressione, come i materiali, utilizzati dall’artista. Le ‘celle’ metalliche esposte negli ultimi anni (come nella mostra tenuta al Centre Georges Pompidou, 2008) raccolgono gli elementi di un’autobiografia nella quale si incrociano la cannibalizzazione del corpo – per lei consueta – e alcuni degli elementi feticcio, come la stoffa, i vestiti o i souvenir dell’infanzia, questa volta rappresentati dal prototipo ricorrente di una villa francese (The institute, 2002), che alludono direttamente alla professione dei genitori, proprietari a Parigi di una manifattura di tappezzerie d’arte. In questo ossessivo recinto simbolico vanno considerate le sagome colorate, individuate esclusivamente dal sesso, di tessuto riempito (Seven in bed, 2001), o le microinstallazioni di materiali diversi, tessuto, marmo, acciaio e alluminio (The reticent child, 2003), nelle quali compaiono, come di consueto, la donna gravida, la donna mutilata, il feto, il letto. Simboli primari, letti, armadi, sedie, specchi, che alla diversa scala invadevano le diverse Red rooms degli anni Novanta, dove lo spettatore era sollecitato a un esercizio di voyeurismo e di violazione crudele di un’intimità claustrofobica. Temi ossessivi e ricorrenti: altri elementi autobiografici relativi alla maternità e al rapporto madre-figlio/a erano inclusi nelle sculture contenute nelle tre torri gigantesche di acciaio (I do, I undo, I redo, 2000) installate nel vuoto colossale della Turbine Hall della Tate Modern londinese, allora appena inaugurata, metaforico e incombente segno manierista di scale tortuose che si avvitano apparentemente senza scopo verso l’alto. Maman (1999), appunto è il gigantesco ragno che invade vari musei del mondo.
Manipolazione della memoria e mutilazione del corpo appaiono così legate a una riflessione sul genere e lo specifico femminile, da Bourgeois alla statunitense Kiki Smith (n. 1954), nel filone di una rimeditazione di temi cari ai surrealisti, agli psicoanalisti e ai filosofi, come Julia Kristeva e Bataille. Si tratta comunque di ricerche ‘estetiche’, di un autobiografico teatro della crudeltà totalmente riconducibile al campo dell’arte, che coniuga a volte peculiari ‘vocazioni’ muliebri, come il merletto e il ricamo, alla rappresentazione dello scheletro e di parti del corpo mutilate (per es., in Italia, la ricerca di Paola Zampa).
Per altri, invece, il gigantismo del corpo o la mutazione genetica sono affiancati da un linguaggio iperrealista, coadiuvati da materiali sempre più simili alla pelle e alle caratteristiche della figura umana per raffigurazioni che forzano il limite della sopportabilità di ciò che è rappresentabile. L’australiano Ron Mueck (n. 1958), con le sue donne incinte e i suoi feti sovradimensionati – già presente alla Biennale di Venezia del 2001 con un’immagine fuori scala di infanzia violata – e soprattutto i primi lavori dei fratelli inglesi Jake (n. 1966) e Dinos (n. 1962) Chapman, i cui allegri e colorati giardini dell’Eden si rivelano, a una seconda occhiata, come un sorridente museo degli orrori, un intrico di ibridazioni di teste e di organi sessuali, sono fra gli esponenti più rappresentativi di una scioccante scuola inglese (Young British artists) che trova nei corpi animali e nei teschi di D. Hirst (n. 1965) il suo più fortunato cantore – oltre che il più premiato dal mercato – e nella collezione Saatchi il proprio campo di applicazione. Del resto anche i Chapman sono passati da quei particolarissimi giardini d’infanzia a inferni bruegeliani: teche brulicanti di microscopiche figurine colorate torturate e uccise nelle maniere più varie nel segno della guerra (tra cui Fucking hell, 2008). L’uso del calco, già usato in passato da George Segal e da John De Andrea (un procedimento complesso di ri-nascita attraverso siliconi e vaseline dal proprio bozzolo in negativo) accentua tale referenzialità disturbante – famoso un autoritratto di Mueck ottenuto con questo procedimento – o, al contrario, decantato di ogni caratteristica riconoscibile.
A una poetica della sgradevolezza si affida anche Maurizio Cattelan (n. 1960). Che si tratti di un robot con il calco della sua faccia ghignante in triciclo che corre tra i visitatori della Biennale di Venezia (2005), di un girotondo di bambini-fantoccio impiccati in un parco di Milano (2004), o ancora di un cavallo appeso al soffitto (La ballata di Trotsky, 1996), di un asino seduto (2009), di papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite (La nona ora, 1999), o di nove sudari di marmo bianco distesi sul pavimento (All, 2008), il mezzo è sicuramente scultoreo, il fine sicuramente comunicativo e pubblicitario, con una predilezione per il macabro e il ‘politicamente scorretto’. Ambigua anche la scelta di Cattelan di voler riproporre a Londra, alla mostra-mercato Frieze art fair del 2006, il rifacimento soft di una delle opere più drammatiche e discusse di Gino De Dominicis (1947-1998), presentata alla Biennale di Venezia del 1972 (Seconda soluzione di immortalità. Il mondo è immobile), con la presenza di una persona down riccioluta, seduta in un angolo e a volte dilagante nella sala, là dove l’impatto dell’opera di De Dominicis si manifestava nel confronto tra un vecchio e un giovane (l’attore Simone Carella) sospesi a vari metri d’altezza e la figura tragica di un ragazzo down, mentre l’artista e i visitatori si muovevano apparentemente indifferenti nello spazio del padiglione veneziano.
Così, risulta programmaticamente provocatorio anche il translucido cattivo gusto dello statunitense J. Koons (n. 1955), il cui enorme cane fiorito (Puppy, 1992) rivaleggia alternativamente con le dimensioni del Rockefeller Center di New York o con quelle del Guggenheim Museum di Bilbao, mentre le immagini stucchevoli di sé stesso e Ilona Staller (1989-1991), o di Michael Jackson con la sua scimmietta (1988), o i ‘palloncini’ a forma di fiore e di cane a scala urbana e le gigantesche uova dischiuse di metallo azzurro (Egg cracked, 1994-2006), occupano spesso gli spazi delle gallerie e di tutti i musei del mondo.
Nella ricerca dell’inglese Antony Gormley (n. 1950), il proprio calco diventa il prototipo della figura umana: variamente composto, permutato, accumulato, decostruito in aghi metallici, come grafite attratta da un campo magnetico in una famosa opera (2000) della serie Quantum cloud (1999-2007), conservata nel Denver Art Museum, metafora della scissione/ricostruzione dell’integrità dell’individuo, forse non a caso collocata nel museo costruito da Daniel Libeskind, uno degli esponenti più famosi del decostruttivismo architettonico. Anche nelle opere di Gormley, come per Paladino, il corpo, in questo caso il calco del proprio corpo, è un pre-testo, come in Blind light (2007), una complessa solo exhibition alla Hayward Gallery di Londra. Se all’esterno, infatti, i corpi vegliavano nei punti strategici dell’edificio in un’immagine volutamente cinematografica, quasi angeli di un film di Wim Wenders in procinto di tuffarsi sullo sfondo dello skyline di Londra, all’interno il museo era occupato da una spessa nebbia artificiale, da installazioni di steli di pietra, da geometrie di acciaio, da organismi trasparenti di fili metallici. Un pretesto, il corpo, al quale Gormley torna volentieri: in Firmament (Londra, White Cube, 2008), i corpi delimitano spazialmente intersecandosi in orizzontali e in verticali, ancorati sul pavimento, sulle pareti e sul soffitto il vuoto della galleria al piano terra, mentre nel piano sottostante è installata una gigantesca figura trasparente, geometrica e irregolare, composta da migliaia di elementi di acciaio incatenati tra di loro, che si dissolvono e si addensano con un andamento organico per tutto lo spazio della galleria, forzando i limiti dell’architettura.
Spazio, forma, memoria dello spazioe metadesign
Il tema della ricerca spaziale e topologica è il preciso ambito di Serra, attivo sin dagli inizi minimalisti degli anni Sessanta, dapprima con materiali ‘morbidi’, come la gomma e la gomma vulcanizzata accostata a tubi al neon, poi con materiali industriali quali ferro e piombo; infine celebre dagli anni Novanta con le sue macrostrutture esposte in tutto il mondo, alcune delle quali collocate stabilmente negli spazi pubblici, come il colossale insieme di otto strutture a serpentina, labirintiche, spiraliformi e percorribili (The matter of time, 2005), che accoglie lo spettatore nel vasto spazio dell’elemento orizzontale del Guggenheim Museum di Bilbao. Epigono della poetica del sublime, Serra ama misurarsi con la grandissima scala, nel paesaggio o all’interno di contesti architettonici, come accade nel labirintico Guggenheim, dove le percezioni del fruitore sono continuamente disattese nell’impossibilità di determinare senso e struttura del percorso, se non nella visione dall’alto, o come nella Promenade, cinque colossali elementi di ferro verticali, alti 17 m e larghi 4, installati nello spazio semitrasparente del Grand Palais a Parigi (Monumenta, 2008). Appassionato di matematica e soprattutto di topologia, Serra lavora sulla percezione, sull’ambiguità, sul contrasto e l’analogia, e negli ultimi decenni ha dato un nuovo significato alla definizione di site-specific (il progetto dell’opera in relazione al luogo che la accoglie), ponendo la sua attenzione non solo alle caratteristiche formali e spaziali del luogo, ma anche al suo contesto culturale. Per ciò che riguarda le installazioni nel paesaggio, si può anzi affermare che la ricerca di Serra sia il termine ultimo di un processo di estensione dell’opera d’arte dal museo e dalla galleria nello spazio, iniziato negli anni Sessanta con gli artisti minimalisti e, con accezioni e processualità totalmente diversi (si trattava di opere temporanee ed entropiche volontariamente deperibili e in continua mutazione), con ciò che all’epoca venne chiamata Land art.
Se ciò che conta nelle sue installazioni, afferma Serra (Interviews 1970-1980, 1980), è la relazione con lo spazio dato e con il paesaggio, sottolinea anche che non esistono spazi neutrali e ogni contesto ha una sua cornice e un suo tono particolare – dato anche dal complesso sistema di relazioni socio/storico/culturali – e che è possibile assumerli in gradi diversi nella ricerca. Uno dei metodi è quello di analizzarne e assimilarne le specifiche caratteristiche ambientali: confini, spessori, tessiture, edifici, strade, l’intera fisiognomica del sito (Richard Serra, 2007). Si trova così a realizzare ogni volta un progetto diverso, pur nella casistica ricorrente delle sue forme date: per lo più cerchi, spirali, serpentine, labirinti di metallo brunito, ma anche figure verticali isolate, come per le diciotto strutture simboliche di pietra di Reykjavik (1990) collocate in un paesaggio primitivo, selvaggio e affascinante, quasi rivisitazione contemporanea del sublime di Stonehenge. Artista di grandissimo successo – nel 2007 ha ricevuto un’ulteriore consacrazione al Museum of Modern Art con l’installazione di Intersection II (1992-93) e di Torqued ellipse IV (1999) nello Sculpture Garden – il suo lavoro si è misurato di volta in volta con la frammentarietà e il rumore della città (tra le altre, Berlino, Londra, Minneapolis), si è mimetizzato nella metafisica del paesaggio ‘fatto ad arte’ (1991, Storm King Art Center, Mountainville) o ‘naturale’ (2002, Nuova Zelanda); le sue opere sono state collocate negli spazi deputati delle mostre, a lato o all’interno dei più vari edifici, musei o campus universitari, esprimendo comunque con forza, nel variare delle diverse situazioni, la precisa alterità esperienziale dello spazio scultoreo rispetto a quello della vita reale.
Esiste una specificità dell’apporto italiano alla ricerca spaziale di segno e materia, che nega e accetta nello stesso tempo di inserirsi nel solco di una tradizione consolidata e, in alcune occasioni, è influenzata dalle ultime propaggini dell’Arte povera. Tra i maestri, J. Kounellis (n. 1936) è presente nel museo sotterraneo della metropolitana di Napoli (piazza Dante) con una parete metallica che imprigiona tra le rotaie la memoria dei passi dei viaggiatori, trasformando la cronaca in mito (2002).
Con un interesse concentrato sul segno astratto e il dialogo con la materia, opera Nunzio Di Stefano (n. 1954), scultore della ‘scuola di San Lorenzo’ (Roma) e allievo di Toti Scialoja, che ha seguito sin dai primi anni Ottanta un suo vocabolario essenziale, riconoscibile nella lievità e nella rarefazione elegante delle strutture, sottolineate dall’uso sapiente di materiali poveri, quali gesso e ceramica, piombo e legno, spesso dipinto o combusto, approdando negli ultimi anni ai metalli levigati e alle grandi dimensioni di intere pareti (Ruggine, 2005), e dove i riferimenti, se presenti, passano dalla lievità delle sculture astratte di Fausto Melotti degli anni Trenta, alla cultura segnica giapponese. Rappresentanti delle più giovani generazioni, artiste come Maria Dompè (n. 1959) e Lucilla Catania (n. 1955) oscillano dagli interventi con materiali deputati, marmo, pietra e terracotta (Catania) nel chiuso delle gallerie, a quelli a scala urbana con materie effimere e di contenuto politico-sociale (Dompè).
Esiste uno scarto preciso tra il reale e la ‘forma’ del reale, o tra il reale e la sua ‘memoria’, anche per artisti il cui lavoro allude a forme riconoscibili. Su questo esile, ma invalicabile divario si situa il lavoro dell’inglese Rachel Witheread (n. 1963), della quale sono definibili come ‘sculture’ le scale, le finestre, i tessuti architettonici, calchi al negativo dell’habitat quotidiano, ‘tracce di vita’, impronte solide dello spazio vuoto normalmente impercepibile, intorno, dentro o sotto gli oggetti, ricavate con materiali ‘anomali’, come silicone, gomma, gesso dentale, spesso monocrome, a volte dipinte. L’artista è diventata famosa per Water tower (1998), l’installazione collocata sul tetto di un edificio newyorkese tra West Broadway e Grand Street e visibile da ogni apertura vetrata del Museum of Modern Art: il calco in resina iperlucida e parzialmente trasparente dello spazio interno di una delle torri d’acqua in legno brunito che caratterizzano lo skyline di New York. Uno slittamento percettivo e sottilmente spiazzante di migliaia di immagini viste al cinema e ormai consegnate al paradiso delle icone di Manhattan. Immagini potenti, a volte effimere come House (1993), monumentale calco in negativo di una casa vittoriana posta tra Grove Road e Roman Road a Londra e poi abbattuta, a sua volta distrutto in quanto ‘disturbante’ dopo pochi mesi invece che dopo un anno come previsto, opera con la quale la scultrice ha vinto il Turner prize (1993). Sottilmente malinconica ed elegiaca, con i suoi graffiti di vita vissuta – negativo delle modanature delle porte, dello spazio dei caminetti, delle intelaiature delle finestre – tracciati su un materiale di per sé stesso deperibile, House alludeva al ciclo della vita e della morte in maniera più persuasiva delle immagini cui ci hanno abituato altri artisti britannici. L’interesse di Whiteread per l’immagine, lo scheletro, la traccia dell’architettura è testimoniata dalle foto della stessa artista: strutture di cemento armato di case non finite in Italia, negativi di elementi di edifici scavati nelle rocce della Cappadocia, graffiti di porte in Turchia. A questo, che costituisce la sintesi del suo vissuto e il suo universo percettivo, si può senz’altro aggiungere l’interesse per la materiale decostruzione degli edifici del New England di Matta-Clark negli anni Settanta, e il riferimento alle installazioni orizzontali di Carl Andre. Le prime opere di Whiteread, infatti, sono una paziente ricostruzione in negativo degli elementi primari di una casa: orizzontali come pavimenti (Wax floor, 1992; Amber floor, 1993; Floor ceiling, 1993) declinati in materiali plastici e colori diversi, o verticali come le prime Rooms (dagli anni Novanta), fino ad arrivare alla vera e propria House. Così l’Holocaust memorial (2000), realizzato tra polemiche al centro della Judenplatz a Vienna, è un calco dello spazio interno di una biblioteca rovesciato verso l’esterno con i palchetti che esibiscono i volumi non di dorso ma di taglio, alimentando l’ambiguità percettiva dell’opera. Stairs (2001) sconvolge e addiziona le nozioni percettive legate allo spazio di una scala, creando una deflagrante immagine manierista. Benché processo quasi interamente controllabile, il passaggio dal materiale del calco a quello della fusione include la possibilità di uno scarto tra progetto e realizzazione. Allo stesso modo la variabile della dimensione, della qualità tattile del materiale e del numero degli oggetti, elude quello che può facilmente essere assunto come formula determinata, e la percezione può variare dalla piccola scala dei Bed (1991-92) a quella colossale di Embankment (2005), commissionata dalla Tate Modern per la Turbine Hall, dove Whiteread ha collocato 1400 calchi in poliestere dello spazio interno di scatole di grandezza diversa, in un labirintico accumulo bianco, leggibile dall’alto come un insieme di gigantesche stalagmiti o ziqqurat di ghiaccio e percorribile dal basso come un estraniante paesaggio.
Ma, com’è stato codificato dai critici e dai filosofi che si occupano di estetica, si vive in un’epoca di pluralità e di deflagrazione linguistica e gli stessi termini di riferimento di Serra sul tema del gigantismo e delle installazioni scultoree nello spazio dato, la grandissima scala, la percezione spaziale e la relazione formale della scultura con il luogo possono cambiare bruscamente di segno e rifuggire sia la nozione di sublime, sia la ricerca formale così propria del Modernismo della metà del secolo passato.
Con il belga Carsten Höller (n. 1961) irrompono nell’arte l’interazione, l’alterazione delle abituali nozioni percettive, l’aspetto ludico. Studioso di psicopatologia, Höller privilegia il gioco e la comunicazione: installa sottosopra ‘giocosi’ funghi giganteschi (Upside-down mushroom room, 2000), come metallici toboga o giostre di specchi nello spazio delle gallerie (Valerio II, 1998; Mirror carousel, 2005). Autore nel 2006 della installazione Test site ancora nella Turbine Hall della Tate Modern, tra opera, macchina e azione non interpone barriere. Il fruitore dell’opera la sperimenta alterando i propri stati di percezione, attraverso la velocità, lo stupore e la vertigine come in un gigantesco luna park. Anche se i critici ricordano il riferimento a un esperimento formale di linguaggio alto come la Colonne sans fin (1938) di C. Brâncuşi (1876-1957), i cinque grandi toboga in alluminio che costituiscono l’opera di Höller, nelle intenzioni dell’autore intendono creare una ‘sospensione della certezza’, un euforico e allucinatorio spiazzamento delle attese. Installazione macchinista e ‘industriale’ per uno spazio industriale, ma anch’essa sul limite tra l’arte e il suo sovrapporsi al reale, tra la macchina vera e funzionante del nostro vissuto e quella ‘celibe’ dell’arte delle avanguardie storiche.
Siamo usciti dal dominio della forma: non c’è la bellezza intrigante e ambigua delle macrostrutture di Serra, né il tema fantasmatico della nostalgia dei calchi di Whiteread. A un’altra scala, ancora più ambiguamente, ci si inoltra nel campo dello pseudodesign: è qui che opera il nederlandese Joep van Lieshout (n. 1963), che ha teorizzato e tentato di mettere in pratica persino un’utopia urbana con proprie leggi e propria moneta. Nel suo atelier, scultori, artigiani, artisti e designer progettano cellule abitabili, oggetti, camion. Antidesigner, perché lontanissimo dall’industria che rifiuta, come dalla politezza e dall’eleganza del design tradizionale: la realtà interpretata dall’artista si sovrappone totalmente al vissuto quotidiano, come la carta del cartografo cinese del racconto di Jorge Luis Borges Historia universal de la infamia (1935). Lo introietta, lo fa proprio, mima la ricostruzione di una nuova società. Una realtà che si fa sinistra, quando l’artista assurdamente arriva dall’utopia alla distopia, studia e riflette su schiavitù, prigioni, nuovi campi di sterminio.
Natura
Analoghe questioni di fondo sono poste dalla ricerca degli artisti che lavorano su materiali impalpabili, come la luce, o si dedicano alla restituzione di fenomeni naturali. Sebbene sia più arduo accettare che strutture e forme siano totalmente virtuali, le nuove tecnologie e soprattutto l’abitudine contemporanea all’immagine/video le fa assumere nella categoria delle ‘sculture’. Come l’Arte povera della fine degli anni Settanta del 20° sec. aveva prodotto cortocircuiti linguistici coniugando materiali naturali come il legno con quelli artificiali, vetro e neon (Mario Merz), così, più recentemente, accade che l’artista unisca arcaiche strutture di legno, tronchi scavati ecc., con proiezioni degli elementi primari, acqua e fuoco (Fabrizio Plessi), memore forse dei totem, ziqqurat e muri formati da arcaici televisori nelle opere, oramai cinquantennali, di Nam Jum Paik, uno dei protagonisti del gruppo neodadaista Fluxus.
Sebbene virtuale, la luce dell’artista statunitense James Turrel (n. 1943) indubbiamente disegna spazi, forme, architetture, indagando il rapporto tra luce artificiale, luce naturale e percezione visiva. A formare lo spazio architettonico non è più la massa, il volume o la forma, ma la luce. Le sue strutture, come le Perceptual cells (realizzate negli anni Novanta) o Gasworks (1993), immettono l’osservatore nello spazio creato dalla luce, artificiale, progettata, o naturale: Turrel oggettivizza con la luce quello che gli architetti definiscono lo spazio in-between, che limita o espande la penetrazione della visione, con risultati di innegabile bellezza. Anche se le sue opere sono fruibili nello spazio delle gallerie o dei musei, senza dubbio il suo progetto più affascinante è quello, colossale e inafferrabile, se non nella materia filmica, dell’osservatorio di luce nel Roden Crater in Arizona, il cratere di un vulcano spento. A questo progetto Turrel lavora dalla metà degli anni Settanta, ed espone, nelle mostre, le diverse fasi di sviluppo.
Nella complessità del mondo contemporaneo, dopo essersi liberato dal peso del reale e da quello della storia, l’artista paradossalmente ri-diventa demiurgo, reinterpreta il mondo, interagisce con i fenomeni naturali; servendosi della tecnologia, li riproduce in vitro, come accade nel film The Truman Show (1998, di Peter Weir), dove il mondo e i suoi fenomeni si duplicavano per la televisione nel corso della vita dell’ignaro protagonista, provocandogli anche, davanti agli spettatori di tutto il mondo, un drammatico incontro con la ‘tempesta perfetta’.
Il danese O. Eliasson (nato nel 1967 da genitori islandesi) installa acqua, lava o luce nello spazio deputato delle gallerie e dei musei (The weather project, 2003), crea soli artificiali, nebbia e variazioni climatiche, trasformando lo spettatore nel protagonista di una eccezionale esperienza; colora di verde l’acqua delle megalopoli (Green river, 1998-2001, a Tokyo, Stoccolma, Los Angeles), pianta vegetazione esotica nello zoo di Zurigo (Madagascar hall series, 2005), inventa cascate artificiali sotto il ponte di Brooklyn (The New York City waterfalls, 2008). Teso a mettere in evidenza drammaticamente il rapporto natura/cultura, spiazzando le attese consolidate, e segnato da una profonda etica ecologista, quello di Eliasson è un colossale lavoro di gruppo che vede la collaborazione di artisti, architetti, scienziati e matematici.
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