Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I termini “islam” o “musulmano” cominciano a entrare nell’uso europeo solo nel XVI secolo. Il Medioevo preferisce invece termini etnici come Arabi, Mori, Saraceni oppure nomi di ascendenza biblica, come Ismaeliti (da Ismaele, figlio di Abramo e della schiava Agar), Agareni (da Agar), e i nomi dei popoli contro cui combatterà Israele (Amaleciti). Nelle Etymologiae Isidoro di Siviglia usa entrambe le denominazioni: “Agar aveva generato Ismaele, dal quale successivamente prese nome il popolo degli Agareni; più recentemente furono chiamati Saraceni”.
Eulogio de Córdoba
La morte di Maometto
Liber apologeticus martyrum
Sentendo che la sua fine era imminente e sapendo che non sarebbe assolutamente risorto per i suoi meriti, predisse che sarebbe tornato in vita il terzo giorno per intervento dell’angelo Gabriele, che solitamente gli appariva in forma di avvoltoio. Quando consegnò la sua anima all’inferno, ordinò che il suo cadavere fosse vegliato da una sentinella attenta, perché era preoccupato del miracolo che aveva annunciato. Quando giunse il terzo giorno e il cadavere si stava decomponendo, confermando che non sarebbe affatto risorto, allora disse che gli angeli non erano venuti perché intimoriti dalla loro presenza. Essi allora convinti dall’avviso lasciarono il cadavere invigilato, e immediatamente, al posto degli angeli, il fetore attirò dei cani che divorarono i suoi fianchi. Il fatto li ammonì a lasciare al suolo il resto del corpo, e per vendicare questo oltraggio ordinarono che ogni anno venissero macellati dei cani in modo che coloro i quali in suo nome meritassero un degno martirio qui, potessero condividere i suoi meriti là. Era giusto che un profeta di questo genere riempisse lo stomaco di cani, un profeta che affidò all’inferno non solo la sua anima ma quella di molti.
Paolo Alvaro
Interesse per la letteratura araba
Indiculus luminosus
[…] I cristiani amano leggere le poesie e le storie d’amore degli arabi; studiano i teologi e i filosofi arabi, non per confutarli ma per apprendere un arabo corretto ed elegante. Non ci sono laici che leggano oggi i commenti latini alle Scritture o studino i Vangeli, i profeti o gli apostoli! Tutti i giovani cristiani di talento purtroppo leggono e studiano con entusiasmo i testi arabi; mettono insieme immense e costose biblioteche; disprezzano la letteratura cristiana giudicandola indegna di attenzione. Hanno dimenticato la loro lingua. Per ogni persona capace di scrivere una lettera in latino a un amico, ve ne sono mille che sanno esprimersi in arabo con eleganza e scrivono poesie in questa lingua meglio degli stessi arabi.
Rosvita di Gandersheim
Martirio di San Pelagio
Passio sancti Pelagii
Nelle regioni d’Occidente splendette la gloria luminosa del mondo, città augusta, superba per la recente durezza in battaglia, una città che i coloni ispanici occuparono a lungo, la ricca Cordova dal celebre nome, famosa per le meraviglie e splendida in ogni aspetto, ma soprattutto ricolma dei sette fiumi di sapienza e illustre anche per i continui eterni trionfi.
Testo originale:
Partibus occiduis fulsit clarum decus orbis,
Urbs Augusta, nova Martis feritate superba,
Quam satis Hispani cultam tenuere coloni,
Corduba famoso locuples de nomine dicta,
inclyta deliciis, rebus quoque splendida cunctis,
maxime septenis sophiae repleta fluentis,
nec non perpetuis semper praeclara triumphis.
Le prime informazioni sull’islam si rintracciano negli scrittori bizantini dei territori conquistati dagli Arabi durante i primi decenni della loro espansione, dopo il 632.
Chi si occupa più estesamente dell’islam è il teologo cristiano Yuhanna ben Mansur ben Sarjun, conosciuto in Occidente come Giovanni Damasceno. Nella sezione del Fonte della conoscenza chiamata Libro delle eresie, al capitolo 100 (di autenticità discussa) Maometto è presentato come un falso profeta che, dopo essere venuto a conoscenza della Bibbia e aver incontrato un monaco ariano, aveva fondato una propria eresia sulla base di rivelazioni dirette di Dio, pretesa che Damasceno giudica ridicola.
In Francia l’unica opera dedicata all’argomento sembra essere stata la Disputatio Felicis cum Sarraceno che Alcuino di York, il consigliere di Carlo Magno, sostiene di aver scritto ma che non ci è arrivata. L’epoca carolingia conosce sia conflitti con l’emiro di Cordova e con i pirati saraceni che devastano le coste francesi e italiane, sia contatti diplomatici con il califfo abbaside di Baghdad, Harun al-Rashid, che invia un elefante in dono a Carlo Magno: ma questi approcci rimangono episodi isolati e nei testi degli intellettuali carolingi l’immagine dell’islam non assume un rilievo specifico.
Più documentata è ovviamente la storiografia prodotta nella Spagna già semi-islamizzata: la Cronaca del 741 descrive in dettaglio l’invasione dei Saraceni in territorio bizantino e di Maometto, indicato come leader dei Saraceni, riferisce semplicemente che era “nato dalla tribù più nobile del suo popolo, un uomo molto saggio che riusciva a prevedere gli avvenimenti futuri”, venerato come apostolo e profeta di Dio. In questa cronaca la vittoria di Carlo Martello – combattuta probabilmente a Moussais, presso l’attuale Tours, e non a Poitiers nel 732 o nel 734 – è descritta chiaramente in termini etnici, secondo i quali i Franchi, chiamati inizialmente “popolo d’Austrasia”, poi “nordici”, al momento della battaglia sono infine definiti Europei (Europenses), un termine quasi mai usato nella storiografia medievale.
Col 711 l’invasione araba raggiunge la Spagna, dove la presenza dei Saraceni avrà un peso duraturo fino alla conclusione della Reconquista nel 1492: il condottiero berbero Tariq ibn Ziyad, insieme al governatore d’Africa, Musa ibn Nusair, varca lo stretto che da lui prenderà il nome (Gibilterra, da Gebel-al-Tariq, “monte di Tariq”) e invade un regno governato da una dinastia visigotica che proprio in quegli anni attraversa una crisi politica gravissima.
In Andalusia gli intellettuali cristiani, variamente integrati nel nuovo tessuto sociopolitico della regione ma prevalentemente bilingui e biculturali, si chiamano mozarabi, dall’arabo mustarib, che significherebbe “aspiranti arabi”.
Fra le poche eccezioni alla subordinazione pacifica (che comportava il pagamento di una tassa) l’episodio più eclatante è certamente la resistenza di gruppo tentata a Cordova, dove 50 martiri volontari affrontano la morte provocando le autorità islamiche con affermazioni imputabili di blasfemia. L’ideologo di questo gruppo, che si scontra anche con una fazione di cristiani collaborazionisti, è sant’Eulogio, vescovo di Toledo, che racconta tutta la storia dell’insurrezione nel Memoriale sanctorum prima di essere giustiziato. La sua biografia (Vita Eulogii) è scritta dall’amico Paolo Alvaro: un laico di probabile origine ebraica, autore dell’opera che ci fornisce maggiori informazioni sul conflitto mozarabico, l’appassionato pamphlet antislamico intitolato Indiculus luminosus, nel quale la scrittura latina rappresenta uno strumento di identità sia collettiva che individuale: nel brano finale Alvaro lamenta infatti la rinuncia alla formazione latina da parte della gioventù cordovana, morbosamente attratta dalla moda della cultura araba, della sua lingua e delle sue canzoni (le raffinate poesie in rima che probabilmente influenzeranno l’origine della poesia cortese).
Un altro caso di resistenza al potere musulmano attestato nelle fonti letterarie è la storia del giovane Pelagio.
Ce lo racconta in un poemetto Rosvita, la canonichessa di Gandersheim, autrice dei celebri dialoghi drammatici che costituiscono l’unica produzione “teatrale” dell’alto Medioevo. Rosvita, di famiglia probabilmente nobile, nel 950 ha forse occasione di assistere presso la corte degli Ottoni a un incontro con delegati di ‘Abd al-Rahman III. Dell’ambasciata araba fa parte il vescovo cristiano, in quel caso Recemondo di Elvira, il quale le avrebbe raccontato la storia di Pelagio, giovane cristiano di grande avvenenza, fatto oggetto di attenzioni amorose dal califfo e martirizzato in seguito al suo violento rifiuto dei rapporti omosessuali. Un episodio scabroso su cui Rosvita costruisce una narrazione avvincente ed esotica in 414 esametri, la Passio Pelagii, che comincia con un celebre elogio della città di Cordova. I contatti diplomatici che hanno portato in Germania la storia di Pelagio sfociano tuttavia nel nulla a causa della diffidenza estrema dei dignitari ottoniani e della loro reazione ostile dinanzi alle citazioni coraniche esposte nella lettera di ‘Abd al-Rahman.
La contrapposizione teologica e dottrinale tarda a trovare modi di espressione in Occidente, come avviene invece nella cultura bizantina. E per alcuni secoli assume l’unica forma della biografia denigratoria del Profeta. La prima che conosciamo è quella che Eulogio trova durante un viaggio al monastero di Leyra, e che riproduce nel paragrafo 16 del suo Liber apologeticus: descrive in tono negativo il matrimonio fra Maometto e la vedova Khadija, il ruolo di Gabriele nella rivelazione del Corano e il matrimonio fra Maometto e Zaynab (ex moglie divorziata dal suo discepolo Zayd). La morte è raccontata secondo leggende esclusivamente cristiane che tentano di modellare i momenti salienti della sua esistenza su quelli di Cristo rovesciandone il segno: nell’imminenza della fine Maometto predice che sarebbe tornato in vita dopo tre giorni, ma alla scadenza del tempo il cadavere si decompone e il fetore attira dei cani che ne divorano i fianchi. Ovviamente nei testi autentici dell’islamismo non solo la morte del Profeta è narrata in altra versione, ma non è collegata mai ad annunci di resurrezione.
Accenni di questo tono si ritrovano in una lettera di Giovanni di Siviglia, corrispondente di Paolo Alvaro, mentre una biografia più documentata si legge in latino nelle opere di Anastasio Bibliotecario, attivo alla corte papale a metà del IX secolo e gran conoscitore del greco: traduce infatti le notizie su Maometto nella versione latina della Cronografia dello storico bizantino Teofane. Qui Maometto, nato in una tribù di nomadi ismaeliti, è ritratto come comandante e pseudoprofeta degli Arabi saraceni. Orfano e povero, entra al servizio della ricca vedova Khadijga, anch’essa sua parente, e commercia in cammelli fra Egitto e Palestina, frequentando ebrei e cristiani. Quando Khadijga, diventata sua moglie, si rende conto che Maometto soffre di attacchi di epilessia ne rimane terrorizzata, ma egli le fa credere che si tratta di rivelazioni dell’angelo Gabriele, e la finzione viene avvalorata dall’autorità di un monaco eretico e poi divulgata dalla donna a tutta la tribù. Gli ebrei lo scambiano allora per l’atteso Messia, e dieci di essi lo seguono abbandonando il giudaismo e trasmettendogli le proprie conoscenze bibliche. Teofane espone poi in modo drasticamente semplificato i dogmi islamici (paradiso di vino e miele e piaceri infiniti per chi uccide un infedele, obbligo di pietà per il prossimo). Questa è la base per le notizie su Maometto che circolano nell’XI secolo in raccolte storiografiche come quelle di Sigeberto di Gembloux – Chronica – e Ugo di Fleury – Chronicon sive Historia Ecclesiastica –, che vi aggiungono ognuno i propri tocchi di colore.
Nel secolo XI, in prossimità della partenza delle prime crociate, compare la prima biografia latina del Profeta dotata di una propria autonomia testuale, il primo testo europeo dedicato specificamente a Maometto: la Vita Machumeti di Embricone, cancelliere di Mainz fra il 1090 e il 1112, che pur essendo priva di valore storico conferma l’esigenza di narrazioni sul fondatore dell’islamismo ed esprime dunque il riconoscimento della sua statura di protagonista. Qui il monaco che istruisce Maometto, un mago cristiano senza nome, diventa coprotagonista della storia insieme a Maometto, da lui completamente manovrato. Questa figura, il cui appiglio storico si trova forse nelle Sure 16 e 103 del Corano (dove Maometto allude a insinuazioni dei detrattori circa un suo maestro straniero), era valorizzata soprattutto in un’opera siriaca composta forse nel IX secolo e tradotta nel XII secolo in latino: l’Apocalisse di Bahira, dal nome arabo del “monaco insegnante” che altre fonti chiamano Sergio o identificano anacronisticamente con l’eresiarca Nestorio o con il diacono Nicola fondatore della setta nicolaita al tempo degli apostoli. Con nomi diversi le costanti narrative disegnano sempre lo stesso personaggio: un religioso divorato dalla speranza frustrata di una carriera ecclesiastica, che proietta le sua ambizioni di potere sul discepolo Maometto.
Più brillante e creativa è la biografia di Gualtiero (Walter), monaco di Compiègne diventato abate di Saint Martin a Chartres, che durante gli anni della sua formazione a Marmoutier, fra 1131 e 1137, aveva ascoltato la storia di Maometto da un certo Pagano di Sens, il quale a sua volta l’aveva sentita narrare da un musulmano convertito, e l’aveva versificata in un poemetto intitolato Otia de Machomete, poi riscritto in versi francesi nel Roman de Mahomet. Gualtiero riutilizza gli spunti ormai tradizionali per comporre scenette e personaggi novellistici tratteggiando il personaggio con una sorta di divertita simpatia. Dopo la morte il Profeta ci meraviglia, come in Embrico, con un ultimo prodigio: la sua cassa funebre rimane sospesa nell’aria grazie a un gioco di attrazioni magnetiche che fanno colpo sui fedeli.
Una narrazione più strutturata e fondata sulla lettura di nuove fonti arabe presenta invece all’inizio dell’XI secolo Pietro Alfonsi, probabilmente un ebreo spagnolo convertito, autore di una celebre raccolta di novelle (la Disciplina clericalis) che influenzerà profondamente lo sviluppo della novellistica bassomedievale fino a Boccaccio e Chaucer.
Pietro dedica un capitolo del suo Dialogus adversus Iudaeos all’esposizione, ovviamente deformata, delle dottrine islamiche, basata su fonti cristiane di lingua araba come la Risalat al-Kindi, dialogo fra un musulmano e un cristiano nestoriano – appunto ‘Abd al-Masih al-Kindi – ambientato alla corte abbaside del IX secolo. Pietro conduce una confutazione delle obiezioni islamiche alla fede cristiana che rivela la maturazione di un confronto in grado di trasferirsi dal piano puramente leggendario a quello teologico. Gli elementi narrativi su Maometto, il mago, la sua carriera politica e le nuove idee sociali verranno poi ripresi da qui o da Embricone in fonti storiografiche o enciclopediche di largo accesso come i citati Gesta Dei per Francos di Guiberto di Nogent e lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, letto fino al Rinascimento, oltre che nella pubblicistica crociata e nella poesia in volgare – come la Commedia di Dante, che riserva a Maometto un trattamento atroce.
La prima traduzione del Corano in una lingua occidentale è un’idea di Pietro il Venerabile, abate di Cluny e amico di Eloisa e del filosofo Abelardo. Durante un viaggio in Spagna programmato nel 1141 per visitare il re Alfonso VII, Pietro raduna un’équipe di traduttori bilingui: Roberto di Ketton, Ermanno Dalmata e Pietro di Toledo, affiancando loro il suo segretario Pietro di Poitiers e un arabo di nome Maometto e commissiona loro la versione latina di alcune opere sull’islam, la cosiddetta Collectio Toletana, che comprende una traduzione del Corano.
Negli stessi anni Pietro si occupa dei musulmani nella Summa totius haeresis ac diabolicae sectae Sarracenorum. Insieme a questa i manoscritti riportano anche una celebre lettera del 1143 all’amico Bernardo, abate cistercense di Clairvaux e ideologo dell’ordine templare, in cui Pietro lo sollecita a usare la penna contro i Saraceni. Ma Bernardo non scriverà mai l’opera auspicata, e così a distanza di un decennio (1156) è Pietro stesso a redigere l’Adversus sectam Saracenorum (Contro la setta dei Saraceni), il monumento più tangibile di quella che viene definita la “crociata intellettuale” di Pietro il Venerabile. Per valutare l’eccezionalità della posizione di Pietro basteranno poche parole dal primo paragrafo, diretto agli islamici: “vi attacco non come fanno spesso i nostri, con le armi, ma con le parole, non con la forza, ma con il ragionamento, non con l’odio, ma con l’amore...”.