Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante la prima metà del Cinquecento gli Spagnoli, partendo dalle basi stabilite nelle isole caraibiche, procedono alla conquista del continente americano. La superiorità nella tecnologia bellica e l’impatto devastante che le epidemie importate dagli Europei hanno su popolazioni fino ad allora isolate provocano il rapido collasso di imperi vasti e popolati, come quello azteco in America centrale e inca in America meridionale. Il risultato è un crollo demografico senza precedenti degli indigeni e la disgregazione della loro civiltà, dovuta anche a intense forme di sfruttamento.
L’America spagnola: dalle isole e alla terraferma
L’America spagnola nasce quasi per caso, con l’arrivo di Colombo a San Salvador il 12 ottobre 1492. Nei dieci anni successivi, durante i quali il genovese compie altri tre viaggi, si delineano i caratteri di fondo dell’incontro fra i due mondi, rimasti per millenni estranei l’uno all’altro: le malattie, la violenza, lo sfruttamento intenso da parte dei colonizzatori spagnoli provocano una rapida diminuzione della popolazione caraibica – in certi casi la totale sparizione di intere comunità. A Hispaniola, al momento dell’arrivo degli Spagnoli, gli indigeni erano forse 300 mila. Mezzo secolo dopo ne erano rimasti solo 500. Nel frattempo l’economia delle isole, e in parte anche il loro paesaggio, le loro flora e fauna, vengono ristrutturate in funzione delle esigenze dei coloni e della domanda di prodotti tropicali da parte dell’Europa. In questo periodo altri esploratori, molti dei quali italiani, contribuiscono a definire sempre meglio i contorni, e soprattutto la natura, delle terre scoperte da Colombo. A uno di questi, il fiorentino Amerigo Vespucci, viene tradizionalmente attribuito il merito di aver per primo pienamente compreso la novità dell’America.
L’epicentro dell’espansione spagnola è inizialmente l’isola di Santo Domingo, e la ricerca di manodopera, oltre che di oro e argento, è una delle motivazioni dell’espansione: Senza uomini che la lavorino, la terra è priva di valore. Nel 1508 comincia l’occupazione delle altre grandi isola caraibiche: Portorico, Cuba e Giamaica, che diventano, a loro volta, punto di partenza per nuovi viaggi di esplorazione verso la terraferma continentale.
Nel 1509 viene costituita una piccola colonia, Santa Maria de Antigua, nella zona dell’attuale Panama, allora chiamata Castilla de Oro. Nel 1513 Vasco Nuñez de Balboa, partito da questo insediamento, arriva sulle coste dell’Oceano Pacifico dopo aver attraversato l’istmo di Panama. Nel 1519 viene fondata Panama, destinata a diventare uno dei centri più importanti dell’America spagnola. Lo stesso anno un portoghese al servizio della Spagna, Ferdinando Magellano, trova il passaggio tra l’oceano Atlantico e il Pacifico, attraverso lo stretto che prenderà il suo nome. Partito da Siviglia nel 1519, Magellano non riuscirà a portare a termine personalmente la circumnavigazione del globo, ma alcune delle navi della sua piccola squadra faranno ritorno in Spagna nel 1521.
Sempre in questi anni, la penetrazione europea nel Nuovo Mondo compie un salto di qualità decisivo. L’hidalgo Hernán Cortés, dopo alcuni viaggi esplorativi lungo le coste messicane abitate da popolazioni maya, il 18 febbraio 1518 salpa da Cuba, senza l’autorizzazione del governatore Velásquez, con undici navi e poco più di quattrocento uomini, approdando sulla costa messicana dove fonda la città di Vera Cruz.
La spartizione del mondo e il Brasile portoghese
La scoperta di nuove terre e nuove rotte nel decisivo ultimo decennio del Quattrocento pone spinose questioni di ordine giuridico e teologico circa le legittimità delle conquiste europee e i rapporti da tenere con le popolazioni indigene, in gran parte pagane. Pone però anche problemi nelle relazioni fra le nazioni cristiane, in particolare per quanto riguarda la delimitazione delle sfere d’interesse delle due potenze iberiche protagoniste di questa stagione di scoperte e conquiste, la Spagna e il Portogallo.
Una prima soluzione è offerta delle bolle emanate da papa Alessandro VI nel 1493 – soprattutto la bolla Inter coetera – che fissano la linea di confine a poco più di 300 miglia a ovest dell’Arcipelago delle Azzorre. Tutto ciò che si trova a occidente di questa linea – la raya – spetta agli Spagnoli, le terre a est e sud delle Canarie rientrano invece nell’ambito d’azione della corona portoghese, in base al trattato di Alcáçovas del 1479. Più tardi il re di Francia, Francesco I si sarebbe chiesto ironicamente dov’era la clausola del testamento di Adamo che divideva il mondo fra Spagnoli e Portoghesi.
In ogni caso, nel 1494, il trattato bilaterale di Tordesillas modificò questa spartizione fissando la linea a 46° 3’ di latitudine, ovvero 370 leghe ad ovest delle isole di Capoverde. Una variazione apparentemente innocua, ma in realtà destinata a condizionare non poco la storia dell’America meridionale. Grazie a questo spostamento infatti, quando nel 1500 il portoghese Pedro Alvarez Cabral, eseguendo una vuelta particolarmente ampia per raggiungere il Capo di Buona Speranza, si imbatté nelle terre che sarebbero state ribattezzate Brasile, poté rivendicarne il possesso in nome del suo sovrano. Inizia così la storia dell’altra America latina, quella di lingua portoghese, che oggi corrisponde a circa metà del continente.
In Brasile di oro non sembra essercene molto, ma la regione si rivela particolarmente adatta alla coltivazione della canna da zucchero, che i Portoghesi avevano già impiantato con successo alle Azzorre e a Madeira. Il sistema della piantagione fu quindi trasferito oltre Atlantico, insieme agli schiavi africani che ne costituivano il fattore di produzione fondamentale.
Cortés e la conquista del Messico
Nella terraferma brasiliana Cabral e i suoi successori si imbattono in popolazioni il cui livello di organizzazione sociale e tecnologico non è dissimile da quello delle popolazioni caraibiche incontrate da Colombo. Si tratta di tribù relativamente piccole dedite alla caccia, alla pesca, alla raccolta e a un’agricoltura primitiva. Molto diverse sono invece le culture che gli Spagnoli incontrano nella terraferma centroamericana.
Nell’area dell’attuale penisola dello Yucatan, del Belize e del Guatemala nei millenni precedenti era fiorita la civiltà maya, che aveva prodotto imponenti monumenti, soprattutto religiosi e che, sebbene in declino, rappresentava comunque ancora un’area culturale importante. Più a sud, nell’altopiano centrale del Messico, dove nei secoli precedenti si erano già sviluppate civiltà evolute come quella dei Toltechi, gli Aztechi, una popolazione guerriera originaria probabilmente degli attuali Stati Uniti, avevano costituito un vasto impero con capitale Tenochtitlan. L’Impero degli Aztechi, o dei Mexica, come essi stessi preferiscono chiamarsi, è una compagine politica di ampie dimensioni, che conta probabilmente più di 15 milioni di abitanti, con una struttura sociale e un’economia complesse, dotata di un apparato militare temibile. Insomma un’entità non dissimile, per dimensioni e livello di sviluppo, dai regni e dagli imperi del Vecchio Mondo.
Alla notizia dell’arrivo di Cortés e dei suoi uomini, Montezuma, l’imperatore azteco, è incerto sul da farsi, anche perché inizialmente il conquistador spagnolo viene identificato con Quetzalcoatl, l’antica divinità scomparsa ad Occidente, di cui i miti annunciavano il ritorno. Cortés da parte sua non ha alcuna esitazione e persegue il suo obiettivo con abilità e determinazione, alleandosi anche con quelle città – come Tlaxcala – che si oppongono da tempo all’aggressivo espansionismo azteco. Nel maggio del 1521 Cortés stringe d’assedio Tenochtitlan, che viene conquistata in agosto, dopo che un’epidemia di vaiolo ha decimato la popolazione. La struttura fortemente accentrata dell’Impero azteco si rivela a questo punto un vantaggio per gli Spagnoli che ereditano l’autorità esercitata in precedenza dai sovrani aztechi.
Pizarro e la conquista del Perù
Circa un decennio dopo la storia si ripete, qualche migliaio di chilometri più a sud. Così come Cuba è stata la base di partenza per la conquista del Messico, la piccola colonia della Castilla de Oro, Panama, lo è per l’espansione verso l’America meridionale. Nel corso degli anni Venti del Cinquecento si hanno i primi contatti con le popolazioni andine assoggettate all’immenso impero degli Inca, che si estendeva dall’odierno Ecuador al Cile settentrionale. Nel 1532 l’hidalgo Francisco Pizarro da Panama raggiunge con una piccola spedizione – circa 180 uomini – i territori inca. Anche in questo caso la conquista è rapidissima.
L’impero degli Inca è in realtà una formazione abbastanza recente e non ancora pienamente consolidata. Inoltre sta attraversando una grave crisi dinastica. Nel 1527 è morto, forse di vaiolo, l’inca Huayana Cápac, che avrebbe in questo caso preceduto l’arrivo degli stessi Spagnoli, e i due figli Athaualpa e Huáscar si contendono il trono. Athaualpa esce vincitore dalla scontro ma, al momento dell’arrivo di Pizarro, non ha ancora il pieno controllo della situazione. Nel novembre 1532, a Cajamarca, l’Inca viene catturato proditoriamente dagli Spagnoli e in una struttura fortemente verticistica ciò significa il crollo della struttura imperiale. Nel 1533 gli uomini di Pizarro entrano a Cuzco, capitale dell’impero.
Nel frattempo, le imprese di altri conquistadores ampliano i domini spagnoli e le conoscenze europee sulle Americhe: Pedro de Alvarado nello Yucatán, Francisco de Orellana nel bacino del Rio delle Amazzoni, Almagro e Valdivia in Cile, Álvar Núñez Cabeza de Vaca e Hernando de Soto tra la Florida e il bacino del Mississipi.
In pochi decenni un territorio sterminato, dalla California al Cile, è entrato a far parte dei domini di Carlo V. Non ha certo torto Cortés quando, rivolgendosi all’imperatore, gli ricorda di essere l’uomo “che vi ha dato più province di quante città vi hanno lasciato i vostri antenati”, anche se, come si è visto, il merito di questo straordinario ampliamento non è solo suo. La conquista, relativamente rapida, da parte di bande di qualche centinaio di uomini, di grandi imperi con milioni di abitanti e in grado di mettere in campo eserciti di decine di migliaia di guerrieri, richiede evidentemente una spiegazione, tanto più che quella degli imperi precolombiani non fu solo una sconfitta militare e un assoggettamento politico, ma una complessiva disgregazione sociale e culturale.
La “distruzione delle Indie”
L’aspetto demografico, che consente un apprezzamento quantitativo, è forse quello che più efficacemente esprime la portata della dramma. Per quanto riguarda il numero di abitanti dell’America precolombiana, sono state proposte diverse stime. Una valutazione prudenziale la colloca intorno ai 30-40 milioni di abitanti, in gran parte concentrati nelle aree delle civiltà urbane azteca, maya e inca. Un secolo dopo la conquista il continente americano ospita forse 15 milioni di abitanti, e questo nonostante l’immigrazione di coloni europei –più o meno volontari – e di schiavi africani. Si può stimare quindi una diminuzione della popolazione indigena pari a circa l’80 percento.
Per secoli la responsabilità di questo tracollo senza precedenti è stata attribuita alla violenza indiscriminata e ai massacri perpetrati dai conquistadores e al successivo sfruttamento degli indios, nelle miniere e nelle piantagioni. Si tratta di una leyenda negra, anche alimentata strumentalmente dalle potenze protestanti ostili alla Spagna, ma che trae origine dalle denunce di autori spagnoli di inappuntabile ortodossia, come il frate domenicano, poi vescovo del Chiapas, Bartolomé de Las Casas (1474-1566). Più recentemente la causa è stata indicata nell’impatto di malattie originarie del Vecchio Mondo di fronte a cui, con grande stupore degli stessi Spagnoli, gli indigeni sono estremamente vulnerabili.
Non c’è dubbio che la causa immediata di una diminuzione così drastica sia il susseguirsi di disastrose epidemie di vaiolo, morbillo, difterite, varicella e varie forme influenzali. Questa conclusione rischia però di essere incompleta e, quel che è peggio, assolutoria. Se è vero che il crollo demografico dei decenni centrali del Cinquecento è in gran parte imputabile alle epidemie, è anche vero che successivamente non ci fu quel “rimbalzo tecnico” della popolazione che in genere si verifica dopo una crisi di mortalità epidemica, grazie a matrimoni più precoci e a un’accresciuta natalità. Nelle Americhe la popolazione indigena, anziché recuperare i livelli precedenti, va incontro a un declino secolare e la tendenza comincerà a invertirsi solo dopo la metà del secolo successivo. La responsabilità è delle forme di dominio sociale, culturale ed economico imposte dai nuovi padroni. La conquista spirituale che comporta la distruzione dei modi di vita, delle credenze e dei sistemi culturali degli indigeni, si traduce in una diffusa anomia e talvolta in una vera e propria disperazione che annulla ogni volontà di vivere.
Più dirette sono le conseguenze dello sfruttamento economico. Le comunità si disgregano, le famiglie vengono smembrate per le esigenze del lavoro coatto imposto dagli Spagnoli. Nelle Ande, ad esempio, alle comunità indigene viene imposto di fornire una certa quantità di manodopera impiegata nelle miniere (mita). Centinaia di migliaia di uomini devono quindi affrontare lunghe marce di trasferimento per raggiungere il Cerro de Potosì da dove ben pochi ritornano, logorati da un lavoro massacrante e da condizioni di vita malsane, a oltre 4000 metri di altitudine. E quelli che tornano, come scrivono vari osservatori, “non vogliono più accostarsi alle loro donne perché non vogliono generare nuovi schiavi”.
La fragilità dell’America e il prezzo dell’isolamento
Nonostante la loro complessità sociale e sofisticazione culturale e tecnica, le civiltà e le culture americane presentavano evidentemente quelli che, nel confronto con gli Europei, si rivelarono gravi elementi di fragilità.
Una fragilità tecnologica innanzitutto. Né gli Aztechi, né gli Incas utilizzavano il ferro e l’acciaio per le loro armi offensive e difensive, e neppure il bronzo, conosciuto nel Vecchio Mondo da almeno tremila anni. E ovviamente non conoscevano le armi da fuoco, introdotte anche in Europa da non più di un secolo e mezzo. Ignoto era anche il cavallo, che, soprattutto dopo l’introduzione della staffa, costituisce il “sistema d’arma” fondamentale degli Europei.
L’assenza del cavallo è però solo un aspetto di una più generale carenza di grandi animali domestici in America, dove non solo sono assenti anche gli altri equini, come gli asini, ma anche i bovini, gli ovini e i suini. Gli unici animali addomesticati di grossa taglia, utilizzabili per il trasporto e come fonte di fibre tessili, erano l’alpaca e il lama sulle Ande. Per le civiltà americane quest’assenza è un handicap tecnologico ed economico molto grave, se si considera il ruolo che i grandi animali avevano nel Vecchio Mondo, non solo come fonti di materie prime e alimenti, ma anche come fonti di energia per il lavoro agricolo o le attività artigianali. L’assenza di questi animali ha anche inibito fondamentali sviluppi tecnici. Perché mai inventare la ruota se poi non vi sono animali adatti al traino dei carri?
Ma accanto a questa relativa debolezza tecnica, c’è la vulnerabilità biologica che si traduce nell’altissima mortalità di cui si è detto. La causa sta nella mancanza di difese immunitarie di fronte a malattie alle quali le popolazioni americane, a differenza di quelle europee, non erano mai state esposte in precedenza. Patologie relativamente innocue per gli Europei, come il morbillo o l’influenza, risultano letali per gli indigeni.
Sia che si tratti di aspetti culturali e tecnologici, sia che si tratti di aspetti biologici, la spiegazione ultima della fragilità americana al momento dell’incontro-scontro con l’Europa va quindi cercata nel plurimillenario isolamento dell’America dal resto del mondo. L’ecosistema e le civiltà americane non hanno potuto beneficiare della circolazione di informazioni, conoscenze, piante, animali e anche agenti patogeni, che invece interessava, con ritmi più o meno rapidi, l’Eurasia e in parte anche l’Africa. Nel corso dei millenni, fin dalla loro nascita, le grandi civiltà del Vecchio Mondo si erano scambiate, spesso senza saperlo, tecniche, canoni estetici, miti, alimenti e malattie (dalle quali si erano quindi almeno in parte immunizzati) arricchendosi a vicenda. Da questo flusso le civiltà americane erano rimaste emarginate. Il loro sviluppo era stato esclusivamente endogeno, persino gli scambi tra l’area mesoamericana e quella andina erano stati probabilmente molto modesti. E il prezzo che esse pagano al momento dell’arrivo degli Europei è altissimo.