La conquista della Terraferma
Il 19 novembre 1405 le truppe veneziane entravano in Padova dopo un assedio durato più di un anno. Per l'impresa era stato radunato un esercito numeroso, costituito soprattutto da mercenari; al suo comando, nelle fasi finali dell'assedio, Galeazzo Gonzaga conte di Grumello, un condottiere di fama. Prima del colpo di grazia al potere dei Carraresi, signori di Padova, già Verona si era arresa alle forze veneziane il 22 giugno del 1405, mentre Vicenza si era concessa a Venezia, ed era stata occupata, alla metà del maggio 1404. In meno di diciotto mesi il territorio controllato dalla Repubblica si era esteso dalle rive occidentali della laguna alle sponde del Mincio.
Questi eventi apparvero tanto improvvisi quanto inevitabili. Senza dubbio, sullo scorcio del secolo XIV, l'atteggiamento di Venezia nei confronti dell'entroterra era mutato: c'erano una nuova determinazione, un nuovo impegno, una nuova disponibilità a spendere denaro, e il riconoscimento della necessità di nuove strutture e nuove istituzioni. Ma l'interesse per la Terraferma italiana, per le sue risorse e strutture economiche, per le sue vicende politiche, così come la consapevolezza dell'esigenza di un entroterra assoggettato e dipendente, non erano certo una novità. Venezia non emerse all'improvviso dall'isolamento, né trasferì d'un sol colpo le proprie risorse dall'Oriente all'Occidente; nondimeno, la nuova portata dell'impegno alla costituzione di uno Stato di Terra avrebbe lasciato un segno profondo sulla storia veneziana (1).
L'analisi delle origini dello Stato di Terraferma deve partire dalla metà del secolo XIII. Il rapido incremento demografico nelle lagune rese sempre più necessario un entroterra sicuro dal quale attingere generi alimentari e materie prime. Nel contempo, la concorrenza sempre più accesa di Genova nei mercati levantini e la maggiore sofisticazione del commercio europeo imponevano ai mercanti veneziani, se volevano conservare i loro profitti, la ricerca di nuovi mercati lungo le rotte di terra, che andavano protette e controllate. All'epoca, però, l'evoluzione politica dell'Italia settentrionale tendeva alla formazione di blocchi di potere più coerenti, che avrebbero certamente contrastato qualsiasi allargamento dell'influenza politica e economica di Venezia. I primi avversari della Serenissima furono dunque Ezzelino da Romano e la famiglia d'Este, a Ferrara, che controllavano rispettivamente le indispensabili vie di comunicazione del Brennero e del Po (2).
A partire da allora la politica di Terraferma della Repubblica divenne sempre più occhiuta e interventista. Spedizioni militari spasmodiche per aprire una via di comunicazione o per imporre un privilegio, alleanze diplomatiche per bloccare la crescita eccessiva dei signori padani, incentivazioni ai patrizi veneziani disposti ad assumere il rettorato di una città, o a divenire consiglieri dei suoi governanti: questi i tratti salienti della politica di Venezia tra il tardo Duecento e il Trecento. A titolo individuale qualche veneziano cominciava anche ad acquistare terreni e a investire in attività economiche nell'entroterra, ma non ancora su vasta scala. L'allargarsi dell'influenza e dell'impegno di Venezia risulta evidentissimo, ma sempre con la massima attenzione ai costi, e nella convinzione che il primo interesse di un'economia commerciale risiedesse nel mantenimento della pace. L'obiettivo prioritario, in questa fase, era la tutela degli interessi commerciali ed economici, e non si riteneva che per questo fosse necessaria la dominazione politica e militare di uno Stato in Terraferma.
Eppure la guerra mossa, in alleanza con Firenze, contro Mastino della Scala tra il 1336 e il 1339 non soltanto ebbe portata e dimensioni ben diverse dalle precedenti imprese, ma comportò anche l'occupazione del Trevigiano (3), l'area che si estende verso nord dalla laguna fino alle prealpi, riconosciuta come entroterra naturale, "contado", di Venezia. I suoi fiumi, che sfociavano nella laguna, offrivano comode vie di comunicazione per il trasporto di merci voluminose, e per quel territorio passava una delle vie più dirette per la Germania. E soprattutto, forse, in quel momento il possesso del Trevigiano consentiva a Venezia di impedire il predominio di un'unica autorità politica su tutte le terre che circondavano la laguna, e riduceva l'efficacia di quell'alleanza di poteri ostili a ovest e a est di Venezia che cominciava a costituire una grave preoccupazione per i governanti della Repubblica. A parte un'interruzione nel 1381-1388, quando il Trevigiano passò dapprima all'Austria, poi ai Carraresi di Padova, quel territorio avrebbe fatto parte dello Stato veneziano fino al 1797 (4). Si era dunque creato uno Stato di Terraferma, ma fu urlò sviluppo di importanza limitata: non era che l'acquisizione di un "contado", di un entroterra dipendente, il requisito naturale di ogni città tardomedievale; non comportava obiettivi espansionistici, non richiedeva l'elaborazione di nuove strutture per la difesa e l'amministrazione, e offriva nuove opportunità a un numero relativamente esiguo di patrizi veneziani. Per dirla con Giovanni Bonifacio, sul finire del Cinquecento, "se Vinegia ad una gran casa volessimo paragonare, sì come le lacune si direbbono le sue pischiere, così il Trevigiano un suo giardino" (5).
Va detto comunque che le occasioni per un'ulteriore espansione dello Stato di Terra, se pure balenarono agli occhi di qualche veneziano, venivano comunque limitate dalla preoccupazione per quanto avveniva a Oriente: fino agli anni Settanta del Trecento le rivolte a Creta e a Trieste, e l'occupazione ungherese della Dalmazia, bastarono per occupare la mente, e svuotare le tasche, dei Veneziani. E senza dubbio le potenziali ambizioni in Terraferma furono frenate dagli effetti della Peste Nera sui livelli demografici e sull'attività economica.
Negli anni Settanta, però, la rivalità commerciale e l'accerchiamento politico andavano assumendo tutt'altra portata. L'alleanza costruita da Genova contro l'antica rivale con Francesco il Vecchio da Carrara e con gli Ungheresi per la guerra di Chioggia (1378-1381) comportò per Venezia un momento di estremo pericolo: con una flotta genovese in laguna, Chioggia in mano al nemico e gli eserciti padovani e ungheresi che controllavano la Terraferma, la Serenissima fu fortunata a sopravvivere. Alla resa dei conti, la sua potenza navale bastò a scongiurare la minaccia in laguna, ma ormai era chiaro che il problema del controllo dell'entroterra dipendeva da una salda presenza militare. Nell'occasione, Treviso e il Trevigiano furono ceduti all'Austria per spezzare il fronte dell'accerchiamento, ma questa guerra impartì, in particolare alla nuova generazione di politici veneziani che si affacciava allora sulla scena internazionale, delle lezioni che non sarebbero state dimenticate (6). Ma il costo finanziario di queste vicende fu enorme: il debito creato dalla guerra continuò a pesare per tutto il ventennio successivo, rendendo difficile al governo veneziano qualsiasi radicale mutamento di indirizzo nei confronti della Terraferma. La potenza e le ambizioni di Gian Galeazzo Visconti erano dirette soprattutto verso sud, in Toscana, e la presenza a Padova del regime carrarese contribuiva a isolare Venezia da quella nuova minaccia; e anzi, nel 1388 la Repubblica riuscì persino a utilizzare un'alleanza con Visconti per costringere Francesco da Carrara a rinunciare al Trevigiano, che aveva acquistato dagli Austriaci. Per il momento comunque, e per tutti gli anni Novanta, la signoria padovana costituiva un utile cuscinetto contro la minaccia viscontea (7).
La svolta venne nei primi anni del secolo successivo. Nel pieno di un'importante ripresa commerciale, con i Turchi temporaneamente impegnati a oriente dalla minaccia di Tamerlano, Venezia possedeva ora le risorse e la sicurezza per intraprendere passi decisivi in Terraferma. Nel 1400 era divenuto doge Michiel Steno, esponente di spicco della "generazione di Chioggia". Nei primi mesi del 1402 il senato si preparava ad inviare aiuti militari a Padova per far fronte a una nuova offensiva di Gian Galeazzo Visconti, ma la morte improvvisa di quest'ultimo a Bologna mutò temporaneamente la situazione politica. Scomparsa la minaccia viscontea - pareva anzi che la potenza stessa dei Visconti si stesse disintegrando - Francesco Novello da Carrara colse l'occasione per espandere il suo Stato, ritornando all'atteggiamento aggressivo del padre. In un primo momento rivolse la sua attenzione su Verona e Vicenza, assorbite nello Stato visconteo da Gian Galeazzo: 1'8 aprile 1404 Francesco entrava in Verona accompagnato da Guglielmo della Scala, e il 22 maggio, morto Guglielmo, lui stesso ne fu dichiarato signore (8).
Venezia non si lasciò ingannare dal temporaneo impegno del signore padovano nei territori sul lato occidentale del suo Stato: anche Feltre, Belluno e Bassano, già occupate dai Visconti, correvano pericolo. La minaccia di una signoria padovana di nuovo rampante e aggressiva era fin troppo evidente. Se nel 1402 il senato era stato restio ad impegnarsi troppo nella costruzione di una forza militare in Terraferma, gli eventi della primavera del 1404 produssero un cambiamento radicale. Già nel giugno 1403 il maggior consiglio aveva approvato un provvedimento che proibiva ai cittadini veneziani di accettare cariche, terre o favori da governanti stranieri, e di occupare rettorati al di fuori dello Stato veneziano: una decisa inversione della tradizionale politica di infiltrazione dei Veneziani nelle strutture amministrative ed economiche degli stati vicini, che indica chiaramente la nuova determinazione con cui Venezia intendeva espandere la propria autorità diretta (9).
Dopo che Francesco Novello ebbe occupato Verona, Vicenza, anch'essa minacciata, si offrì a Venezia, che si affrettò ad accettare la dedizione. La mobilitazione veneziana era ormai in pieno corso: Jacopo dal Verme offriva l'aiuto delle sue truppe viscontee, Francesco Gonzaga signore di Mantova fu invitato ad entrare al servizio di Venezia, e il comando generale fu offerto a Malatesta de' Malatesta, mentre affluivano truppe dalla Dalmazia e da Creta. Sul finire dell'estate si diceva che l'esercito radunato per l'attacco su Padova e Verona contasse già diciannove mila uomini (10).
Nei due anni precedenti, a Venezia l'atmosfera era radicalmente cambiata: la prudenza, la cautela, l'esitazione a spendere denaro avevano ceduto il passo all'entusiasmo, all'impegno, e alla determinazione a distruggere i Carraresi una volta per tutte. Con l'esempio della creazione dello Stato visconteo davanti agli occhi, e con Firenze anch'essa dedita ad estendere rapidamente il suo controllo sulla Toscana, era ormai alquanto improbabile che i Veneziani volessero recedere dalla logica del grande Stato territoriale in Italia, e da tutto ciò che essa comportava (11).
Un fattore chiave nelle vicende dei diciotto mesi successivi all'ingresso in Verona di Francesco Novello fu il relativo isolamento del signore padovano, un risultato che viene a volte attribuito a merito della diplomazia veneziana (ma quest'interpretazione sembra basata su una costruzione troppo finalizzata). Roberto di Baviera, l'imperatore tedesco che aveva mostrato grande favore a Francesco Novello, considerandolo un potenziale alleato contro i Visconti, era tornato in Germania nel 1402, ed era occupato dagli affari tedeschi. I duchi d'Austria erano impegnati nelle loro rivalità interne. Firenze, altra potenziale alleata dei Carraresi, pensava a consolidare il controllo sulla Toscana dopo la fine della minaccia viscontea, e soprattutto a soggiogare Pisa. Sigismondo re d'Ungheria era preso dalla lotta con Ladislao di Napoli per il possesso della Dalmazia, un confronto che Venezia incoraggiava, dando segreto appoggio a Ladislao. In questo caso, comunque, era in gioco il controllo dell'Adriatico, oltre che l'interruzione dei legami tra Francesco Novello e i suoi tradizionali alleati ungheresi (12).
Fu comunque la situazione interna dello Stato visconteo a incidere in modo più diretto sulle ambizioni, e sul fallimento, di Francesco Novello. La sua reazione iniziale al processo di frammentazione e disordine che seguì la morte di Gian Galeazzo Visconti fu di proporre alla duchessa di Milano un'alleanza in cambio della cessione di Vicenza, Feltre, Belluno e Bassano. Era l'estate del 1403, e Venezia favorì l'idea ritenendo che avrebbe allentato la tensione nella regione. Ben presto però la duchessa ritirò l'offerta su pressione di Jacopo dal Verme, uno dei suoi primi capitani, nobile veronese e nemico giurato dei Carraresi (13). Jacopo sarebbe stato tra i protagonisti più influenti della vicenda, e un'indagine sul ruolo da lui svolto servirà come ulteriore monito alla cautela nel tentativo di identificare le tendenze di lungo periodo della politica veneziana. Abbandonata l'idea dell'alleanza visconteo-carrarese, Francesco Novello passò all'offensiva. Cercò di conquistare Brescia, ma fu respinto, e alla fine del 1403 concentrò i suoi sforzi militari su Vicenza e Verona, impresa nella quale fu affiancato dal suocero Niccolò d'Este marchese di Ferrara, e vigorosamente contrastato dai comandanti viscontei Ugolotto Biancardo e Facino Cane (14).
Se l'intesa tra Ferrara e Padova fu allarmante per Venezia, la ripresa delle ostilità tra Carraresi e Visconti non vi suscitò certo grande rammarico. Il senato tenne gli occhi bene aperti per tutto l'inverno, ma senza prendere iniziative di rilievo. Nel marzo 1404 Facino Cane abbandonò la difesa di Vicenza e Verona, distratto da eventi più vicini ai suoi interessi a Piacenza, e forse corrotto da Francesco Novello. A questo punto Caterina Visconti, spaventata dalla posizione di vantaggio in cui si trovava il signore padovano, inviò a Venezia un'ambasciata ufficiale per offrire alla Repubblica Verona e Vicenza in cambio di un aiuto militare contro i Carraresi: Jacopo dal Verme era tra i membri più importanti dell'ambasciata. Francesco Novello tentò di controbattere inviando a Venezia una sua ambasciata per chiedere una conferma dell'amicizia del senato (15), ma era evidente che l'allarme per la possibile crescita della potenza padovana e le allettanti proposte di Caterina Visconti, presentate da Jacopo dal Verme che offriva anche i propri servigi per renderle realizzabili, avevano stimolato gli appetiti territoriali della Repubblica. Pochi giorni dopo il ritorno dell'ambasciata da Venezia Francesco Novello e Guglielmo della Scala penetrarono in Verona e restaurarono una signoria scaligera sostenuta dai Padovani. Il 20 aprile 1404 una forza congiunta padovana e ferrarese cingeva d'assedio Vicenza. A questo punto Venezia accelerò a fondo la mobilitazione; una richiesta d'aiuto dei Vicentini aggiunse peso e urgenza alle promesse di Caterina Visconti, e il 25 aprile un primo distaccamento di venticinque balestrieri veneziani, col gonfalone di San Marco, entrava a Vicenza; qualche giorno dopo arrivarono altri trecento balestrieri comandati da un commissario patrizio, Giacomo Soriano, e a seguito di una formale richiesta veneziana Francesco Novello ritirò a malincuore le proprie forze (16). Nel frattempo, però, a Verona moriva Guglielmo della Scala, i cui figli minori avevano chiesto la protezione di Venezia, e il 25 maggio Francesco Novello assunse la signoria diretta della città, spodestando i tradizionali signori Scaligeri.
Tra Venezia e i Carraresi fu guerra aperta. Francesco Gonzaga signore di Mantova, ansioso di guadagnare territori lungo le frontiere occidentali del vecchio Stato veronese, offrì i suoi servigi alla Repubblica, e anche Jacopo dal Verme mise a disposizione le sue compagnie viscontee. La mobilitazione militare di Venezia fu rapida: Malatesta de' Malatesta, Paolo Savelli, Ottobuono Terzo, Taddeo dal Verme, Francesco dall'Aquila e Obizzo da Polenta si affrettarono a schierarsi nei ranghi dei suoi capitani, e l'esercito arrivò a contare quasi ventimila uomini le indicazioni di alcuni cronisti sul numero dei soldati ingaggiati da Venezia nel 1404 superano anzi in misura considerevole questa cifra (17). Secondo Galeazzo e Bartolomeo Gatari, Venezia "trovossi avere al suo soldo dentro ad saraglio trentadoa millia page, che da può che Roma passe sua franchixia, non ebbe l'Italia si bello campo nei suoi terretorii" (18). I cronisti padovani registravano poi che per la guerra Venezia spendeva 120.000 ducati al mese, e che un esercito tanto grande non era stato radunato fin dai tempi del Barbarossa. Ogni certezza su queste cifre, e sulle realtà cui si riferiscono, è difficile, perché le forze veneziane erano divise in almeno quattro corpi: due armate convergevano su Padova, una terza bloccava e controllava la guarnigione padovana a Verona, e una quarta, sostenuta da una forte flotta fluviale di almeno otto galere da guerra, contrastava la minaccia ferrarese nel Polesine (19).
Per tutta la guerra entrambe le parti diedero prova di feroce determinazione. Venezia si era ormai votata alla distruzione dei Carraresi, e alle sue conseguenze territoriali, a qualsiasi costo, il che senza dubbio contribuisce a spiegare l'identica determinazione di Francesco Novello da Carrara e dei suoi figli a difendersi. Per tutto l'autunno e parte dell'inverno i Padovani restituirono colpo su colpo; le conquiste veneziane venivano subito rintuzzate, sul lato orientale dello Stato padovano fu eretto un massiccio sistema difensivo, e contingenti padovani e ferraresi riuscirono a cacciare le guarnigioni veneziane da Badia Polesine e Rovigo.
Le ostilità proseguirono intense fino in pieno inverno. Al comando generale veneziano Paolo Savelli sostituì Malatesta de' Malatesta, che non avrebbe dato prova sufficiente del suo valore. Con la primavera del 1405, comunque, era inevitabile che il piatto della bilancia pendesse a favore di Venezia. In marzo Niccolò d'Este, incalzato dalla minaccia delle flotte veneziane e delle truppe che risalivano il Po verso Ferrara, scese a patti con la Repubblica e rinunciò al Polesine di Rovigo (20). Francesco Novello mise al sicuro i suoi familiari più giovani mandandoli a Firenze; e cominciò a smobilitare la cavalleria per mancanza di fondi, ripiegando su una posizione chiaramente difensiva nelle sue città. Nel frattempo le truppe veneziane operavano una sistematica riduzione dei castelli isolati nel Padovano. I1 22 giugno i cittadini di Verona costrinsero Giacomo di Francesco da Carrara, comandante della guarnigione padovana, a riparare nel castello accettando la resa della città alle forze veneziane che l'assediavano. Il giorno dopo Gabriele Emo occupava Verona in nome della Repubblica, e il 12 luglio furono firmati a Venezia i "capitoli" formali della resa.
In piena estate, quindi, i Veneziani poterono concentrare tutti gli sforzi sull'assedio di Padova. La città era sovraffollata di gente fuggita dalle campagne col bestiame, e le condizioni di vita erano nettamente peggiorate, anche perché i Veneziani erano riusciti a interrompere il rifornimento d'acqua (21). I tentativi di Francesco Novello di ottenere condizioni favorevoli per sé e per la sua famiglia furono respinti con fermezza, e le successive proposte, ben più onerose, di Carlo Zeno, l'eroe veneziano della guerra di Chioggia che era allora provveditore presso l'esercito, furono rifiutate dal Carrarese perché correva voce che Firenze fosse in procinto di inviargli rinforzi (22). In ottobre, nonostante la morte per peste di Paolo Savelli, l'attacco si intensificò: quattro colonne diverse assaltarono le mura, e il 17 novembre una di esse riuscì a superarle, irrompendo in città. A questo punto Francesco Novello offrì la resa, ma fu la resa dei cittadini di Padova che i Veneziani accettarono, non quella del suo signore, che fu messo ai ferri (23).
Il destino di Francesco Novello da Carrara e dei suoi figli, strangolati per ordine del consiglio dei dieci dopo ripetute promesse di grazia e persino di salvacondotto, ha contribuito a quel senso di sistematica pianificazione e di ineluttabilità che spesso gli storici più antichi hanno attribuito a tutte queste vicende. In realtà a Venezia vi fu un acceso dibattito sulla sorte dei Carraresi, e in una certa misura fu la stessa ostinazione di quelli, e il fatto di non aver accettato per tempo le condizioni di resa, a condizionare l'atteggiamento nei loro confronti. Senza dubbio Jacopo dal Verme espose nel modo più eloquente ed efficace la necessità di distruggerli una volta per tutte, ma alla fine le azioni di Venezia furono dettate dalla realtà politica. L'autorità dei Carraresi derivava dalla lealtà di una parte numerosa della popolazione padovana, e da una rete di amicizie e alleanze ad ogni livello con le potenze esterne. Tutto questo andava demolito se si voleva imporre in modo permanente l'autorità veneziana sulla Padanìa, e nel 1405 l'obiettivo era ormai questo (24).
Padova, Verona e Vicenza erano i capoluoghi di un vasto territorio passato sotto il controllo di Venezia; le frontiere si erano spostate fino alla linea del Mincio a occidente, e a sud fin quasi al Po, con l'occupazione del Polesine di Rovigo. Bassano, Feltre e Belluno facevano parte dei territori offerti a Venezia da Caterina Visconti, ed erano state occupate dalle truppe della Repubblica nell'estate del 1404. Lo Stato veneziano si estendeva ormai fino alla riva orientale del lago di Garda, un tempo limite dell'autorità dei signori Scaligeri di Verona.
Come vedremo, la difesa dello Stato di Terraferma sarebbe stata soprattutto questione di nuovi e sempre più consistenti impegni militari, ma anche la diplomazia fece la sua parte. Gli accordi con i da Polenta di Ravenna, gli Estensi di Ferrara e i Gonzaga di Mantova furono indispensabili per la sicurezza della frontiera meridionale del nuovo Stato. A occidente occorreva tener d'occhio i signori semi-indipendenti affermatisi nello Stato visconteo - Pandolfo Malatesta, Cabrino Fondulo e Ottobuono - e anche con loro bisognava trattare (25). A nord i vescovi-principi di Trento e gli Asburgo osservavano con sospetto e allarme gli eventi in Terraferma: una delle zone più calde dei primi anni del secolo XV fu proprio il Trentino meridionale, attraversato da una delle più importanti vie commerciali verso la Germania e controllato in parte da signori feudali assorbiti nella nobiltà veronese nel corso del secolo XIV, come i Bevilacqua, e in parte da famiglie terriere indipendenti come i Castelbarco e i conti di Arco e Lodrone. A una serie di patti con quelle famiglie seguì una graduale estensione dell'autorità veneziana; le terre di Azzofrancesco Castelbarco furono assorbite nel 1411, alla sua morte senza eredi, e nel 1412 il matrimonio di Vittorio di Gabriele Emo con la ricca vedova Agnese d'Arco portò nell'orbita veneziana un'altra consistente porzione di territorio. Nel 1416 Aldrighetto Castelbarco fu costretto a riconoscere la sovranità di Venezia sulla sua signoria di Rovereto (26).
I vent'anni successivi al 1405 videro però un netto spostamento dell'attenzione veneziana verso oriente, sulla confusa situazione politica del Friuli, e sulle rotte e i porti dell'alto Adriatico. La minaccia degli Ungheresi, e dell'influenza acquisita in Friuli dai Carraresi, dai Visconti e persino dai Fiorentini negli ultimi anni del secolo XIV, era stata tra i motivi principali dell'accerchiamento che Venezia aveva tanto temuto. E il Friuli era una preziosa fonte di generi alimentari e legname. La scomparsa della potenza padovana aveva lasciato in quella zona un vuoto che Venezia non poteva non tentare di colmare, ma in realtà la situazione era assai più complessa.
Di fatto in Friuli il vuoto di potere risaliva a circa vent'anni prima del 1405. Le pressioni esterne si erano notevolmente allentate dopo la morte nel 1382 di re Luigi il Grande d'Ungheria, il cui successore Sigismondo era troppo occupato dagli affari interni e dai Turchi, mentre sull'altro fronte l'arciduca Leopoldo era stato sconfitto a Sempach (1386) e le dispute dinastiche dividevano gli Asburgo d'Austria. La maggiore autorità interna era quella del patriarca d'Aquileia, cui spettava nominalmente la sovranità sul Friuli, ma la situazione era complicata dall'accesa rivalità tra le due città più grandi, Udine e Cividale, e dal predominio nella prima della famiglia Savorgnan (27). In quella fase Venezia era interessata alla pacificazione della regione onde evitare interventi esterni, in particolare dei Carraresi o dei Visconti. Nel 1401 la nomina a patriarca di Antonio Paciera da Portogruaro, un debole controllato da Tristano Savorgnan, non fece che aggravare la confusione (28), ma fin tanto che Sigismondo era impegnato nel confronto con Ladislao di Napoli per il possesso della Dalmazia e il controllo dell'Adriatico, Venezia poteva permettersi di aspettare. Sosteneva segretamente Ladislao, che nel 1409 rinunciò al confronto con gli Ungheresi cedendo Zara e i suoi diritti sulla Dalmazia alla Repubblica. La cessione, e l'intervento veneziano in forze in Dalmazia, fecero finalmente precipitare l'ostilità latente tra Venezia e la corona ungherese (29).
Sigismondo del Lussemburgo, re d'Ungheria in virtù delle nozze con la figlia di Luigi il Grande, fu eletto re dei Romani e imperatore nominale dopo la morte di Roberto di Baviera nel 1410. La perdita di Zara, l'interesse a rinnovare l'influenza ungherese in Friuli, l'ambizione - in quanto imperatore - di intervenire sulla scena italiana e nei caotici affari della Chiesa, un'antica diffidenza per Venezia, ora acuita dal rifiuto veneziano di pagare il tributo di 7.000 ducati all'anno alla corona d'Ungheria stabilito dalla pace di Torino del 1381: tutto questo contribuiva alla determinazione di Sigismondo. In quanto imperatore, poteva rinfacciare a Venezia l'usurpazione dei feudi imperiali di Padova, Vicenza e Verona - incoraggiato in questo da Marsilio da Carrara e Antonio e Brunoro della Scala, rifugiati presso la sua corte (30).
L'improvviso e violento attacco ungherese, nell'autunno del 1411, colse Venezia di sorpresa. Pippo Spano, il condottiere fiorentino che comandava le forze di Sigismondo, varcò il Tagliamento con dodicimila cavalli, dopo la fulminea occupazione di Udine e del Friuli orientale. La maggior parte delle ancor limitate forze militari della Repubblica era sulla frontiera occidentale, e sebbene ci si fosse sforzati di preparare una linea difensiva lungo la Livenza, nulla poteva impedire agli Ungheresi di scorrere la fascia pedemontana, occupando Sacile, Belluno e Feltre. Da qui si apprestavano, nel gennaio 1412, a calare sul Trevigiano e il Padovano. Venezia riuscì a conservare buona parte dello Stato di Terraferma perché la popolazione delle maggiori città si mostrò ben poco interessata a un ritorno dei vecchi signori Carraresi o Scaligeri - e men che meno all'occupazione ungherese. Pippo Spano non era in condizione di allestire una serie di assedi per sottomettere le città, né poteva colpire direttamente Venezia a causa delle difese sulla Livenza. Nell'estate 1412 la massiccia mobilitazione veneziana aveva ormai radunato sulla Livenza un esercito di oltre diecimila uomini comandato da Carlo e Pandolfo Malatesta. Il fatto di aver impiegato quasi un anno per organizzare una reazione efficace alla minaccia ungherese sarebbe stato di lezione per il futuro; ora, comunque, Venezia era pronta a rispondere (31).
Nell'agosto del 1412, dopo un fallito tentativo ungherese di sfondare la linea difensiva della Livenza, Pandolfo Malatesta lanciò un contrattacco. Bastò per allentare temporaneamente la pressione, ma non per rioccupare una porzione significativa di territorio, e con la tregua quinquennale concordata nell'aprile del 1413 Venezia dovette rinunciare a Feltre e Belluno, e a buona parte della sua influenza in Friuli, pur guadagnando qualcosa in Istria. Si era giunti alla tregua soprattutto perché l'attenzione di Sigismondo era richiamata altrove, dalla soluzione dello Scisma, dal problema di Hus, dalla nuova minaccia turca, e Venezia ebbe dunque la possibilità di riflettere sulla propria politica in Friuli.
Nel corso del confronto con Venezia Sigismondo era riuscito a far nominare al patriarcato di Aquileia un potente e aggressivo prelato tedesco, Ludovico di Teck.
Determinato com'era a rivendicare la sovranità del patriarca sul Friuli, Ludovico si era inimicato le comunità di Udine e Cividale. Nel frattempo Tristano Savorgnan, riparato a Venezia, meditava sulla perduta potenza, e si preparava a riconquistarla. A Venezia non mancavano dunque i potenziali alleati in Friuli, e i cinque anni di tregua servirono a coltivarne l'amicizia, e a consolidare la forza militare della Repubblica. Sigismondo aveva fra l'altro affidato la giurisdizione su Feltre e Belluno ai conti di Gorizia, i cui funzionari andavano rendendosi sempre più impopolari (32). Allo scadere della tregua, nell'aprile 1418, Venezia era pronta ad agire, mentre Sigismondo era ancora invischiato negli affari del Concilio di Costanza e dei territori tedeschi.
Quando, nel 1419, Filippo Arcelli marciò sul Friuli con un esercito veneziano relativamente esiguo, non incontrò quindi troppa resistenza. Cividale fu la prima città a scendere a patti, mentre Udine ebbe un'iniziale esitazione per la presenza di Tristano Savorgnan nelle fila veneziane.. Gli Ungheresi non riuscirono però a concentrare le forze per dare una risposta efficace, e con l'autunno 1420 Arcelli aveva ormai occupato Sacile, Feltre, Belluno, il Cadore, Udine, Aquileia e Monfalcone. Nel frattempo si procedeva a consistenti acquisizioni in Istria e in Dalmazia; in due anni di campagne Venezia era riuscita a scalzare il patriarca di Aquileia dalla signoria del Friuli, e a far naufragare le speranze del re ungherese di sottoporre al suo controllo l'alto Adriatico (33). La frontiera orientale dello Stato, nelle alpi Giulie, era ormai lontana da Venezia quanto quella occidentale, sul Mincio (34). Non sorprende quindi che il doge Tommaso Mocenigo, succeduto a Michiel Steno nel 1414, ritenesse che Venezia doveva contentarsi delle acquisizioni, concentrandosi ora sullo sfruttamento delle nuove opportunità economiche.
Nella seconda decade del secolo però, mentre Venezia rivolgeva la sua attenzione al Friuli e all'Adriatico, Filippo Maria Visconti, succeduto al fratello assassinato nel 1412, restituiva unità e forza allo Stato di Milano. A entrambi gli Stati era convenuto mantenere buoni rapporti mentre Venezia affrontava Sigismondo a oriente, e Visconti riprendeva in pugno il Ducato di Milano. Nel 1416 fu siglato un accordo difensivo in cui non si fa cenno alcuno al persistere di pretese viscontee su Verona e Vicenza. Nel 1421, però, nelle fasi finali della presa di potere di Filippo Maria Visconti, a Pandolfo Malatesta fu strappato il controllo di Brescia. E Pandolfo era molto legato a Venezia: era stato suo capitano generale alla fine della prima guerra con l'Ungheria e negli anni immediatamente successivi. Quando partì per unirsi all'esercito veneziano nel 1412, Jacopo Soriano fu inviato a governare Brescia in sua vece. La caduta di Pandolfo Malatesta e il riassorbimento di Brescia nel rinato Stato visconteo stavano ad indicare, già nei primi anni Venti, che nel futuro del Dominio veneto di Terra nulla poteva essere dato per scontato: nel 1422 recenti successi in Friuli venivano messi in discussione, oltre che da Sigismondo, anche da Ludovico di Teck, e l'occupazione di Genova da parte del Visconti fu un altro segnale inquietante.
In questa fase toccò la massima intensità lo scontro interno al ceto politico veneziano tra le vecchie famiglie conservatrici, le cui fortune erano legate al commercio col Levante e che si erano opposte alle pesanti spese militari dei primi due decenni del secolo, e la generazione più giovane, cresciuta all'ombra della guerra di Chioggia. Tommaso Mocenigo, che pure come doge aveva visto raddoppiare le dimensioni dello Stato di Terraferma, era un conservatore; ammetteva che per Venezia l'impegno nella pianura padana era ormai inevitabile, ma cercava rapporti pacifici con i vicini, e con Milano in particolare, e l'occasione di sfruttare i benefici commerciali derivanti da un controllo più stretto sulle vie di comunicazione di terra. Avvertiva il senato che l'estensione delle frontiere occidentali oltre il Mincio era un invito al disastro, e avrebbe ridotto Venezia a una sempre maggiore dipendenza da soldati mercenari e poco affidabili. Si dice che sul letto di morte cercasse ancora di scongiurare l'elezione a suo successore del cinquantenne Francesco Foscari, acceso sostenitore della guerra nel 1404 e recente promotore di un'alleanza con Mantova che autorizzava Venezia a inviare truppe sul territorio mantovano in caso di guerra con Milano. Foscari propugnava un'alleanza con Firenze contro la crescente potenza viscontea, mentre Mocenigo e i suoi seguaci diffidavano delle ambizioni commerciali dei Fiorentini, che si erano già infiltrati in Friuli e, proprio in quel momento, varavano flotte di galere destinate al Mediterraneo orientale (35).
Foscari fu eletto doge alla morte di Mocenigo, nel 1423, ma per due anni i timori del vecchio doge apparvero infondati. Venezia rimase a guardare, apparentemente indifferente, mentre l'esercito di Filippo Maria Visconti spazzava via i Fiorentini a Zagonara, nel 1424, e occupava alcune zone della Romagna. Nel marzo 1425, però, l'arrivo in incognito a Venezia di Francesco Bussone, conte di Carmagnola, impresse una nuova piega agli eventi. Carmagnola, capitano generale di Filippo Maria, aveva dato un contributo determinante alla rinascita della potenza viscontea; ma era incorso nella gelosia e nella diffidenza del suo signore, e ora riparava a Venezia ansioso di vendicarsi dei Visconti e di recuperare le sue vaste proprietà nel Milanese. Ancora una volta le ambizioni e le inimicizie personali di un potente condottiere sarebbero state tra le molle principali degli eventi politici, ma non fu soltanto l'influenza di Carmagnola a spingere Venezia alla guerra con Milano: una nuova sconfitta dei Fiorentini, ad Anghiari nell'ottobre 1425, concretizzò la possibilità che Firenze scendesse a patti, lasciando Milano padrona dell'Italia centrale. La diplomazia veneziana tentò di organizzare una lega generale che comprendesse Milano, per frenarne l'aggressività, ma la cosa non andò in porto. Alla fine, il 3 dicembre 1425, fu accettata la proposta fiorentina di un'alleanza antimilanese, che prevedeva la ripartizione del Ducato visconteo tra Firenze, Venezia e la Savoia. Nel gennaio del 1426 ottocento lance veneziane erano già in marcia attraverso il Ducato di Mantova, come prevedeva l'accordo stipulato con i Gonzaga nel 1421. In marzo Carmagnola, nuovo capitano generale veneziano, era già alle porte di Brescia, mentre una potente flotta fluviale comandata da Francesco Bembo, uno degli eroi dell'assedio di Padova nel 1405, risaliva il Po (36).
Se gli eventi di quel periodo non manifestarono un atteggiamento particolarmente aggressivo da parte del governo di Foscari, né quell'insaziabile imperialismo di cui Venezia sarebbe poi stata accusata, è vero però che nei trent'anni che seguirono lo stato di guerra praticamente ininterrotto con Milano affermò tutta una serie di nuovi valori all'interno del ceto politico veneziano. Si combatteva per la difesa, oltre che per l'espansione, dello Stato di Terraferma, ma era pur sempre per quello Stato che si combatteva. I costi, i sacrifici, le esperienze dei singoli patrizi impegnati direttamente sul campo, tutto questo dava alla vita politica veneziana una dimensione nuova, che non poteva non travolgere - in una qualche misura - le posizioni e i pregiudizi tradizionali. Si era innescato un processo, si era assunto un impegno, e non si poteva più tornare indietro. Aveva ragione il doge Mocenigo, quando diceva che varcando il Mincio Venezia si sarebbe addentrata in una dimensione affatto nuova della politica italiana; ma quel mondo calcolatore, invidioso, avido, non sarebbe forse arrivato comunque a Venezia, anche se la Repubblica avesse cercato di mantenersi neutrale al riparo delle sue nuove frontiere?
Le prime campagne di Carmagnola furono particolarmente fortunate. I cittadini di Brescia gli aprirono le porte, e sebbene Francesco Sforza riuscisse a tenere la cittadella per più di sei mesi, l'esercito veneziano poté occupare vaste zone del territorio (37). Dopo la resa di Sforza, in novembre, il 30 dicembre 1 426 fu stipulata a Venezia una tregua che riconosceva lo status quo territoriale. All'inizio del 1427 Carmagnola lanciò una massiccia offensiva per prevenire l'inevitabile contrattacco milanese; la campagna, piuttosto inconcludente, culminò con la schiacciante sconfitta dei Visconti a Maclodio (11 ottobre 1427). Con la pace di Ferrara, all'inizio del 1428, Bergamo veniva ceduta a Venezia e la frontiera veniva portata sulla linea dell'Adda, a meno di trenta chilometri da Milano (38).
Era impensabile che Filippo Maria Visconti potesse accettare la perdita definitiva di una parte tanto vasta del suo Stato, e infatti l'ostilità e la rivalità tra Milano e Venezia sarebbero divenute un elemento permanente nei rapporti tra gli Stati italiani. Ne conseguiva la necessità di mantenere eserciti numerosi in uno stato di allerta costante. Nel 1431, preparandosi a riprendere la guerra, Filippo Maria Visconti cominciò a parlare di un fidanzamento tra Bianca, sua figlia illegittima ed erede presunta, e Francesco Sforza, il primo dei suoi capitani; nel contempo cercava aiuto dagli Ungheresi per un attacco convergente su Venezia. Fu un anno sfortunato per la Repubblica: la flotta fluviale, comandata da Niccolò Trevisan, fu praticamente distrutta mentre cercava di coprire un attraversamento dell'Adda, e i rapporti tra Carmagnola e i "provveditori" che accompagnavano il suo esercito erano sempre più tesi (39). I motivi di disaccordo riguardavano tanto l'amministrazione dell'esercito e la condotta delle campagne quanto i sospetti circa la fedeltà del condottiere, ma è indubbio che Visconti facesse di tutto per riguadagnarsene i servigi, e la decisione della Repubblica di metterlo a morte, nell'aprile 1432, fu dovuta proprio ai timori per le conseguenze di un suo possibile tradimento (40). La seconda pace di Ferrara, l'anno successivo, confermò lo status quo senza nuove acquisizioni per Venezia.
Nelle campagne degli anni che seguirono Venezia rimase per lo più sulla difensiva. Nel 1434 il teatro si spostò dalla Lombardia alla Romagna, e l'esercito alleato veneto-fiorentino subì una grave sconfitta a Castel Bolognese. Francesco Sforza, che aveva abbandonato il servizio milanese per perseguire ambizioni territoriali personali nelle Marche, e per sfuggire alla rivalità di Niccolò Piccinino e alla sospettosa sorveglianza di Filippo Maria Visconti, assunse il comando; per qualche anno sarebbe stato capitano generale della Lega antiviscontea.
A questo punto Venezia riuscì a conseguire un importante risultato, riducendo il tormentoso rischio di una guerra su due fronti attraverso un accordo con l'imperatore Sigismondo. Incoronato da papa Eugenio nel 1433, Sigismondo si era per questo riavvicinato al papato, prendendo le distanze dal Concilio di Basilea; l'imperatore stipulò una tregua quinquennale con Venezia, conferendo nel 1437 al doge Foscari il vicariato imperiale su buona parte della porzione occidentale dello Stato di Terra-ferma in cambio di un tributo annuale di 1.000 ducati. Senza dubbio si astenne dal comprendere il Friuli nella concessione a causa delle contrastanti rivendicazioni della Chiesa sulla sovranità della regione (41). Il patriarca di Aquileia, Ludovico di Teck, contestava ancora la legittimità dell'occupazione veneziana al Concilio di Basilea, ma la sua morte nel 1439 eliminò un'altra potenziale minaccia al nuovo potere territoriale della Repubblica. Il successore di Ludovico di Teck fu Ludovico Trevisan (Scarampo), un prelato ambizioso e militaresco; in quanto veneziano, guardava con maggiore benevolenza all'occupazione del Friuli - che era fra l'altro solo uno dei tanti oggetti del suo interesse - e nel 1445 firmò con la Repubblica un accordo che formalizzava la complessa questione della sovranità: il patriarca manteneva il potere assoluto su Aquileia, San Vito e San Daniele, e la giurisdizione spirituale sull'intero patriarcato; la sovranità veneziana sul resto del Friuli veniva ratificata in cambio di un versamento annuale di 5.000 ducati (42).
Mentre per i territori a est del Mincio venivano sbrogliate tali questioni legali e giurisdizionali, a occidente Venezia combatteva all'ultimo sangue per respingere l'attacco milanese. Nel 1437 Giovan Francesco Gonzaga, che aveva preso il posto di Carmagnola al comando generale dei Veneziani, fallì un attacco oltre l'Adda, e l'energica reazione di Niccolò Piccinino mise in crisi le difese veneziane. Gonzaga, umiliato e sospettato da Venezia, rinunciò all'incarico e fu sostituito da Gattamelata (43).
Alla metà del 1438, mentre Piccinino occupava tutto il Bresciano e iniziava il lungo assedio di Brescia, Gonzaga era già passato al servizio di Milano. L'assedio di Brescia, la spettacolare marcia di Gattamelata intorno al lago di Garda per salvare una buona parte dell'esercito veneziano dalla trappola in cui era incappato, il famoso progetto per la creazione di una flotta veneziana nel Garda, il brillante attacco milanese su Verona nel 1439, e l'altrettanto strepitosa riconquista della città ad opera di Gattamelata e di Francesco Sforza: sono queste le ben note pietre miliari nella nuova e promettente storia militare di Venezia (44). Tesi allo spasimo, Venezia e i suoi capitani fecero miracoli di tenacia e di eroismo, offrendo ricco alimento alla retorica; ma si trattava di far fronte a pericoli fin troppo reali. Brescia fu finalmente liberata dopo due anni di assedio, e l'arrivo di Francesco Sforza nel 1439 riportò l'iniziativa in mano veneziana: fu nel suo campo a Cavriana che venne firmata la pace, nel 1441. Una pace il cui maggiore risultato fu la riconciliazione di Sforza con Filippo Maria Visconti e l'atto finale del suo matrimonio con Bianca; il duca gli conferì in feudo Cremona. Il possesso veneziano di tutto il territorio a est dell'Adda veniva ratificato, ma ormai Sforza si era chiaramente affermato sia come potenziale rivale, sia come ago della bilancia.
Le vicende degli anni compresi tra il 1437 e il 1441 misero in evidenza come la difesa del Dominio di Terra dipendesse ormai interamente dalle forze armate della Repubblica, dal suo esercito professionale permanente e dai suoi capitani. La diserzione di Giovan Francesco Gonzaga aveva aperto una grave falla in un sistema difensivo fondato da un lato sugli accordi con gli Stati satelliti intorno alle frontiere, dall'altro sull'ingaggio ai posti di comando dei loro principi-condottieri. Nel 1438, dopo la diserzione del Gonzaga, a Niccolò d'Este era stata offerta la restituzione del Polesine in cambio dei suoi servigi militari, ma alla fine il suo apporto fu minimo. Un altro Stato satellite sulla frontiera meridionale era quello dei da Polenta a Ravenna. Obizzo da Polenta aveva reso preziosi servizi a Venezia durante la guerra di Padova, e nel 1406 aveva riconosciuto formalmente la protezione della Repubblica, offrendole il suo Stato in caso di estinzione della famiglia. Alla fine del 1440 Ostasio da Polenta - che non aveva figli - chiese aiuto militare ai Veneziani per sedare il malcontento in città, e nel giro di pochi mesi si lasciò convincere a una prematura abdicazione, confermando la validità dell'accordo del 1406 (45).
La presa di possesso di Ravenna nel 1441 costituì per molti motivi una netta svolta rispetto al modello precedente dell'espansione veneziana. Vi sussisteva un elemento di consensualità, ma si trattò anche di esercitare una pressione considerevole su un regime amico. L'aspetto più importante è comunque che con questa iniziativa l'autorità veneziana si estendeva a sud del Po, penetrando nello Stato pontificio: Venezia era entrata in Romagna, uno degli ultimi grandi vuoti nel sistema di potere italiano. E così facendo aveva - in un certo senso - scavalcato Ferrara, ora ancor più esposta alle sue pressioni, e aveva interposto un nuovo e tenace ostacolo ai suoi buoni rapporti con il papa. Ravenna divenne sede di un'importante guarnigione, e il centro degli intrighi diplomatici e politici dei Veneziani in Romagna. Bastò quest'unico passo per dare improvviso impulso all'ormai diffuso sospetto circa le intenzioni imperialistiche della Repubblica.
Tenuto conto della vicenda ravennate, non deve sorprendere che la successiva tornata del conflitto di potere, nel 1443, venisse combattuta soprattutto in Romagna e nelle Marche: Firenze e Venezia si mossero per proteggere Francesco Sforza da un attacco congiunto milanese e pontificio. Filippo Maria Visconti si era certo pentito di aver accettato Sforza come genero, e dopo averne indebolito le posizioni nelle Marche nel 1445-1446 mosse contro il suo feudo cremonese. Venezia si trovò ancora una volta in guerra per la difesa dei diritti di Sforza, dovendo affrontare una nuova offensiva milanese in Lombardia. Il suo nuovo capitano generale, il veterano sforzesco Micheletto Attendolo, ottenne una vittoria schiacciante sui Milanesi a Casalmaggiore nel 1446: le truppe veneziane varcarono l'Adda e portarono le loro scorrerie fin sotto le mura di Milano, ma senza compiere nuove conquiste degne di rilievo (46).
Filippo Maria Visconti morì l'anno dopo, il 13 agosto. Si diceva che oltre a suscitare grandi aspettative nel genero Francesco Sforza, l'ultimo duca Visconti di Milano avesse anche stilato un testamento in cui lasciava il suo Stato ad Alfonso d'Aragona, ora re di Napoli. E naturalmente sul Ducato di Milano avanzavano pretese anche gli Orléans. Nessuna di queste soluzioni convinceva Venezia: se Francesco Sforza era ancora al servizio permanente della Repubblica, la prospettiva di un soldato tanto formidabile nel ruolo di duca di Milano prometteva male per il futuro di uno Stato di Terraferma che in parte era stato strappato proprio a Milano; e una presenza napoletana, o francese, era un'eventualità ancor più inquietante. Il dilemma fu comunque temporaneamente risolto dall'imprevista costituzione della Repubblica Ambrosiana a Milano, che ritornò a un governo comunale.
Due ne furono gli effetti immediati: alcune città lombarde, in particolare Lodi e Piacenza, colsero l'occasione per rivendicare la propria indipendenza, chiedendo la protezione di Venezia; nel contempo Francesco, scegliendo di prender tempo piuttosto che imporre le sue pretese con la forza, decise di lasciare il servizio veneziano per assumere il comando dell'esercito della nuova Repubblica. A questo punto tanto la Repubblica Ambrosiana che il suo generale dovevano vincere una guerra in Lombardia e riprendere territorio a Venezia. L'offensiva di Francesco Sforza nel 1448 vi riuscì quasi, cacciando i Veneziani da Piacenza e distruggendo l'esercito di Micheletto Attendolo a Caravaggio, nel settembre 1448 (47).
Dopo la grande vittoria, però, Francesco Sforza non desiderava certo che la Repubblica Ambrosiana guadagnasse sicurezza e stabilità eccessive dal suo successo, e si lasciò convincere dai diplomatici veneziani - in particolare da Pasquale Malipiero, personaggio chiave in una generazione di uomini politici veneziani impegnata negli affari del nuovo Dominio, e futuro doge - a stipulare con la Serenissima il trattato di Rivoltella, che prevedeva la ripartizione dell'eredità viscontea tra Sforza e Venezia, e un attacco congiunto contro la Repubblica Ambrosiana. È significativo che Firenze non partecipasse al trattato. Il governo fiorentino, guidato da Cosimo de' Medici, guardava con preoccupazione sempre maggiore all'impegno veneziano in Italia, ma in quel momento era combattuto tra il desiderio di contribuire all'affermazione di un regime repubblicano a Milano e la conferma del suo tradizionale appoggio a Francesco Sforza, col quale soprattutto Cosimo intratteneva stretti rapporti finanziari. C'era nell'aria un grande ribaltamento nel sistema delle alleanze, e dapprima il papa, poi Firenze, andavano prendendo le distanze dall'antico legame con Venezia (48).
La nuova alleanza tra Venezia e Francesco Sforza non durò a lungo; Sforza non tardò a risentirsi di fronte all'occupazione veneziana di una parte di quella che considerava la sua eredità, mentre Venezia non mancava di rendersi conto del pericolo rappresentato da Sforza, anche dopo il ridimensionamento della sua eredità. Occupata Crema, la Serenissima tentò un riavvicinamento con la Repubblica Ambrosiana, proponendo una tripartizione che avrebbe mantenuto a Milano una repubblica indipendente, una soluzione poco soddisfacente tanto per Sforza, sempre più sicuro di sé e ora ritornato a una temporanea lealtà alla Repubblica Ambrosiana, quanto per un settore sempre più numeroso dell'élite politica milanese, contrario alla frantumazione del Ducato. Un colpo di stato a Milano portò alla rinuncia all'esperimento repubblicano e alla proclamazione di Francesco Sforza a duca, il 26 marzo 1450.
Di fronte al fatto compiuto, Firenze e il papa si schierarono dalla parte del nuovo regime ducale, e Venezia fu costretta a cercare il sostegno di Napoli. Negli ultimi due anni delle guerre, riprese nel 1452 con una nuova offensiva veneziana oltre l'Adda, la possibilità - per Venezia come per Milano - di un radicale riassetto della mappa della Lombardia divenne sempre meno realistica. Francesco Sforza e Cosimo de' Medici chiesero aiuto agli Angioini contro la potenza militare veneziana, mentre la minaccia aragonese nella Toscana meridionale precipitava il governo fiorentino in un panico dai costi finanziari elevatissimi. La diserzione e il successivo reingaggio di Bartolomeo Colleoni, astro nascente tra i condottieri veneziani, furono l'ennesima conferma dell'influenza che i grandi soldati potevano esercitare sugli affari politici, ma i fattori reali del desiderio generale di pace nel 1453-1454 - a parte l'esaurimento finanziario - furono l'esigenza di Francesco Sforza di rafforzare la propria posizione interna, anche perché la convalida imperiale del suo titolo ducale tardava ad arrivare, e la caduta di Costantinopoli in mano turca, che allarmò Venezia e toccò la coscienza degli altri belligeranti. La pace di Lodi (aprile 1454) fu soprattutto, nonostante le iniziative pontificie, un concordato diretto tra Venezia e Milano: Francesco Sforza riconosceva le frontiere attuali della Terraferma veneziana, compresa la recente acquisizione di Crema; Venezia riconosceva la legittimità del suo titolo ducale. Sulla Lega italica, che da quella pace trasse le più vaste implicazioni, ponendo le basi per un nuovo assetto dei rapporti interstatali in Italia, ritorneremo nel capitolo successivo (49).
Dopo il 1428 lo stato di guerra continuo aveva portato a Venezia ben pochi vantaggi territoriali, ma era comunque servito a cementare la fiducia dell'élite veneziana nella propria capacità di difendere un grande Stato territoriale, e aveva visto svilupparsi le strutture finanziarie e amministrative che tale difesa rendevano possibile. E soprattutto, forse, aveva generato in Venezia una fazione direttamente interessata alla conservazione dello Stato di Terraferma, e alle più vaste implicazioni che ne derivavano sul piano della politica italiana. Molti degli uomini politici veneziani più influenti dopo il 1450 avevano costruito la propria carriera nella politica di Terraferma. Personaggi come Francesco Barbaro, l'umanista che difese Brescia nel 1438-1439, acceso sostenitore di un'alleanza con Firenze, o Jacopo Antonio Marcello, che architettò la presa di possesso di Ravenna, fu fatto cavaliere sul campo di Casalmaggiore, e fu per anni con l'esercito nelle fasi finali della guerra, o Pasquale Malipiero, diplomatico a Rivoltella e provveditore al fianco di Marcello in tante missioni, o Andrea Morosini, confidente di Bartolomeo Colleoni, o Andrea Donato, amico e consigliere di Francesco Sforza, non furono che gli esponenti di spicco di un'intera generazione di patrizi veneziani che costituì l'autentico collante del nuovo Stato territoriale (50).
Così come è fuorviante l'idea di un'insorgenza improvvisa dell'interesse veneziano per la Terraferma nel primo Quattrocento, lo è anche quella della distinzione tra uno Stato da Mar difeso dalle forze navali e uno Stato da Terra la cui difesa dipendeva dagli eserciti. Nel Trecento la difesa dell'impero oltremare aveva richiesto l'impiego di un gran numero di soldati, in maggioranza inquadrati con una qualche forma di ingaggio permanente. In parte venivano arruolati sul posto, in parte erano mercenari italiani, organizzati in compagnie per la guarnigione di fortezze e città. In molte occasioni - per soggiogare l'Istria nel tardo Duecento, per riprendere Zara nel 1312, per reprimere le rivolte di Creta nel 1363 e di Trieste nel 1368-1369 - era stato necessario radunare cospicui contingenti militari comandati da capitani italiani. È vero peraltro che i primi interventi veneziani in Terraferma ebbero carattere anfibio. I fiumi che confluivano nella laguna e nell'Adriatico offrivano il mezzo più semplice per spostare truppe e approvvigionamenti, e costituivano essi stessi le rotte commerciali che andavano protette. Le flotte fluviali, costruite nell'Arsenale di Venezia, e comandate e armate da Veneziani, ebbero un ruolo decisivo nelle guerre intermittenti del Trecento, e continuarono ad averlo nel secolo successivo. Machiavelli dice dei Veneziani che "come ei si volsero alla terra, si trassono di dosso quelle armi che in mare gli avevano fatti gloriosi, e seguitando il costume degli altri Italiani, sotto l'altrui governo amministravano gli eserciti loro", ma per molti versi si tratta di un'osservazione male informata e distorta. L'impressione di una difesa del Dominio affidata a mercenari che i patrizi veneziani consideravano con disprezzo e sospetto va del tutto cancellata (51).
Nel Trecento le imprese veneziane in Terraferma non avevano però richiesto un impegno militare sistematico. Vi furono occasioni di mobilitazione massiccia, in cui occorrevano grandi eserciti affidati a condottieri prestigiosi: la guerra di Ferrara del 1308, quella scaligera del 1336-1339, 11 conflitto del 1372 con i Carraresi, e naturalmente la guerra di Chioggia. Ma senza un grande Stato territoriale da difendere negli intervalli tra questi episodi, e con una metropoli per sua natura relativamente invulnerabile, a poco sarebbe servito mantenere una grossa presenza militare in Italia. Per controllare il Trevigiano, dopo il 1338, bastava qualche sparuta guarnigione. In questa fase la tendenza tardotrecentesca all'organizzazione di forze militari permanenti, evidente in Italia nel Ducato di Milano e persino a Firenze - con l'ingaggio a lunga scadenza di Giovanni Acuto -, ancora non aveva influito sul pensiero militare veneziano (52). Ancora nel marzo 1402, mentre Gian Galeazzo Visconti allestiva quella che doveva essere la sua ultima grande campagna, Venezia si limitò a prendere in considerazione un modesto ingaggio di trecento lance per la difesa di Mestre (53). Queste truppe venivano arruolate con contratti a breve termine, quattro mesi di servizio seguiti da due "di rispetto", cioè a discrezione dello Stato ingaggiatore; come in altre realtà italiane dell'epoca, la possibilità di tenere truppe in servizio durante i mesi invernali veniva di rado presa in considerazione.
Se l'ingaggio intermittente, a breve termine, dei mercenari contraddistinse la politica militare veneziana in Italia prima del 1404, tutto questo sarebbe rapidamente cambiato durante e dopo la guerra coi Carraresi. Nell'estate 1402 fu stipulata un'alleanza difensiva quinquennale con Firenze, in cui Venezia si impegnava a sostenere i tre quinti del costo degli eserciti riuniti. Fu ingaggiato Paolo Orsini, e la forza della cavalleria in armi fu raddoppiata; ma con la morte di Gian Galeazzo Visconti il pericolo pareva scongiurato, e gli squadroni furono nuovamente smobilitati. L'esperienza del 1404-1405 sarebbe stata alquanto diversa: l'esercito rapidamente radunato nei mesi estivi del 1404 rimase in essere - e anzi, in larga misura, rimase operativo - per tutto il corso dell'inverno. Paolo Savelli sostituì Malatesta de' Malatesta al comando generale, ma a parte questo il gruppo di condottieri di rango superiore ingaggiati per la campagna non fu modificato. E nella guerra fu impegnato un gran numero di Veneziani, non soltanto in veste di supervisori e amministratori, ma anche come balestrieri e marinai sulle flotte fluviali (54).
Caduta Padova, nel novembre 1405, l'esigenza di una forza permanente per guarnire e difendere uno Stato tanto più vasto divenne incontrovertibile. Le compagnie di fanteria erano la soluzione più ovvia per la difesa delle città murate, dotate tutte di una cittadella per alloggiarle, ma le vaste estensioni di campagna appena conquistate andavano difese con la presenza permanente di squadroni di cavalleria (55). Un contingente di trecento lance, salite a cinquecento nel 1406, fu mantenuto in servizio permanente dopo la fine della guerra, e nella primavera del 1406 Taddeo dal Verme, uno dei condottieri della guerra di Padova, ne ottenne il comando con una condotta di cento lance. Il dal Verme, acquartierato a Verona, rimase al comando della forza permanente fino al 1411. Se per il momento i contratti di ingaggio per le truppe rimanevano semestrali, cominciava ad affermarsi come norma la riconferma due volte l'anno della loro validità, e i capitani che esitavano ad accettarla venivano guardati con sospetto (56).
Furono i primi passi. L'esercito che ne nacque contava solo due-tremila uomini, e per mantenerlo non occorrevano servizi o accorgimenti amministrativi diversi da quelli richiesti dall'assetto difensivo ereditato dai regimi carraresi e scaligeri. Era evidente che Venezia continuava a dipendere, in caso di emergenza, dall'arruolamento affrettato delle truppe necessarie, e per poter disporre di rinforzi teneva buoni rapporti con gli Estensi, i Gonzaga e i Malatesta. L'invasione ungherese del 1411 fu appunto un'emergenza, e sebbene la Repubblica avesse provveduto a erigere una linea di fortificazioni lungo la Livenza, l'esercito permanente era del tutto inadeguato a guarnirla. In quattro mesi, nell'inverno 1411-1412, furono arruolate in tutta Italia altre millecinquecento lance, e nell'estate Pandolfo Malatesta arrivò da Brescia con la sua compagnia di mille lance. In agosto dodicimila uomini erano schierati sulla Livenza, ma c'era voluto un anno, e se Pippo Spano avesse spinto a fondo il suo attacco durante quel periodo Venezia si sarebbe trovata in difficoltà anche maggiori (57). La maggior parte dei comandanti sui quali contava ora la Repubblica erano entrati al suo servizio di recente; e fu inevitabile che dal Verme, comandante prescelto del suo piccolo esercito permanente, venisse messo in ombra prima da Carlo, poi da Pandolfo Malatesta, che pretese e ottenne il titolo di capitano generale (58).
La tregua con gli Ungheresi offrì a Venezia la possibilità di riconsiderare alcuni di questi problemi, ma in realtà non vi furono interventi radicali per il miglioramento delle strutture difensive. Pandolfo Malatesta ottenne una "condotta in aspetto" come capitano generale, rinnovabile ogni sei mesi, che a Venezia costava 4.000 ducati al mese. Era un contratto tradizionale, ma conteneva anche elementi del nuovo approccio realista agli affari militari. Il rinnovo del contratto divenne un fatto di abitudine, e la spesa annua di 50.000 ducati costituì una cospicua voce permanente nel bilancio. Pandolfo Malatesta aveva già dato prova del suo valore al servizio di Venezia, e in quanto signore della vicina Brescia occupava un'ottima posizione strategica per poter rispondere rapidamente all'appello; quattrocento delle sue lance furono anzi acquartierate permanentemente a Verona, al comando di Martino da Faenza, per consentire a Venezia di trasferire le sue altre forze sulla frontiera orientale. Di fatto, dunque, l'esercito permanente fu portato a circa mille lance effettive. Comparve anche un capitano della fanteria permanente, Quarantotto di Ripamortorio - un altro veterano della guerra di Padova - che coordinava il reclutamento e l'organizzazione dei fanti. Sono sintomi di un graduale adeguamento delle strutture difensive veneziane, ma l'approccio era ancora frammentario e tradizionale. L'opinione politica veneziana non era ancora pronta ad accettare spese militari su vasta scala in tempo di pace, né ai preparativi a lungo termine in vista dell'inevitabile ripresa della guerra con gli Ungheresi. Le condotte semestrali rimasero la norma, e in senato il dibattito semestrale sul contratto di Malatesta rivelava l'immancabile presenza di una radicata opposizione anche a una spesa militare su quella scala. Quando Pandolfo Malatesta si trasferì nelle Marche, nel 1416, per strappare suo fratello Carlo dalle grinfie di Braccio da Montone, non fu preso in considerazione alcun assetto difensivo alternativo; nulla si fece per aumentare le dimensioni della cavalleria permanente oltre le cinquecento lance fino all'autunno del 1417, quando mancavano solo sei mesi allo scadere della tregua (59).
Detto questo, si rimane sorpresi dai successi veneziani nella seconda guerra ungherese, attribuibili però più alle altre preoccupazioni di Sigismondo e alle divisioni interne nel Friuli che non a un'attenta preparazione militare della Repubblica. Esisteva ora, è vero, un meccanismo per raccogliere nelle città di Terraferma il denaro per le spese militari, la "dadia delle lanze" introdotta nel 1417, ma l'esercito che passò all'offensiva nel 1419 al comando di Filippo Arcelli, un ex capitano di Pandolfo Malatesta, non era né particolarmente numeroso, né organizzato con particolare cura (60). Nulla sta a indicare che in quella campagna venissero impiegate più di mille lance, anche se a queste vanno aggiunti gli ausiliari friulani volontari. I capitani erano quasi tutti al servizio di Venezia da parecchi anni, ed erano stati autorizzati a rafforzare le loro compagnie per ingrossare le fila dell'esercito: sarebbe diventato il procedimento normale della mobilitazione veneziana, anche perché limitava la necessità di ingaggiare capitani non sperimentati. Già prima che la guerra finisse le compagnie furono nuovamente ridotte per risparmiare denaro, e alla morte di Arcelli, a Capodistria, non vi furono nomine ufficiali, nemmeno a governatore generale - il titolo di Arcelli - per sostituirlo. Negli anni immediatamente successivi al 1421 Taddeo d'Este fu l'ufficiale superiore di una forza permanente che all'inizio non superava le quattrocento lance (61): il fatto che le dimensioni dello Stato di Terraferma fossero raddoppiate non pareva avere alcun effetto immediato sull'assetto difensivo. Nella primavera del 1422, comunque, il senato aveva avuto il tempo di meditare sulle implicazioni delle nuove circostanze, e pur in assenza di una minaccia specifica autorizzò i capitani ad aumentare del venticinque per cento le dimensioni delle loro compagnie, prescrivendo anche l'ingaggio di altre trecento lance. A partire da questo momento la forza permanente nel Dominio di Terra non scese mai sotto le ottocento lance, e sul letto di morte il doge Mocenigo faceva riferimento all'esercito di mille lance e tremila fanti ormai necessario per difendere la Terraferma. Che proprio a questo momento risalgano la costituzione dei cinque savi della Terraferma all'interno del collegio, e l'adozione sistematica dei contratti con sei mesi di "ferma" e sei "di rispetto" per i capitani - cioè il mantenimento in servizio per tutto l'inverno senza una riconferma formale del contratto - sta a confermare la progressiva istituzionalizzazione della struttura difensiva permanente (62).
L'amministrazione militare che andò affermandosi nei primi anni del Quattrocento era un misto tra metodi e istituti signorili e controlli centralizzati veneziani. Il fatto che l'esercito permanente non fosse semplicemente un insieme di guarnigioni sparse in castelli e città fortificate, bensì una forza eminentemente mobile costituita in larga misura da compagnie di cavalleria, pronte a trasferirsi in qualsiasi punto critico, poneva in particolare rilievo la funzione del controllo centrale. Se inizialmente gli incaricati di ispezionare, pagare, approvvigionare e acquartierare le truppe erano soprattutto funzionari locali di Verona, Vicenza e Padova, già nelle fasi finali della guerra di Padova si era stabilito il precedente di un patrizio veneziano, Antonio Belegno, nominato collaterale con autorità generale sull'intero esercito. La carica di collaterale, ben nota all'organizzazione militare dei Visconti e delle città signorili di Lombardia (63), comportava particolari responsabilità nell'ingaggio, l'ispezione, la paga e la disciplina dei soldati. In genere si trattava di uomini con esperienza notarile, in grado quindi di affrontare gli aspetti contrattuali dell'incarico, ma ancor più importante era un'esperienza militare sufficiente a intrattenere rapporti di comprensione con i capitani e pure a giudicarne l'effettiva efficacia professionale. I collaterali provenivano per lo più dai ranghi della piccola nobiltà urbana; la loro funzione era a mezza via tra quella del commissario politico che sta con l'esercito per controllare e consigliare i comandanti, e per riferire sul loro comportamento, e quella dei funzionari di rango inferiore addetti a particolari settori dell'organizzazione come l'approvvigionamento o l'acquartieramento.
Venezia adottò questo istituto con entusiasmo, individuando la possibilità di una regolamentazione attenta e dettagliata, senza eccessi centralistici. La stessa mentalità pubblica che riusciva a organizzare e sincronizzare le "mude" delle galere, anche se queste viaggiavano poi per mesi senza controlli dal centro, fu applicata al problema dell'amministrazione militare. Fin dal primo Quattrocento nelle città principali furono individuati e incoraggiati i possibili collaterali: Domenico Buonaconte a Verona e Antonio Facino a Padova si occuparono della supervisione delle truppe nei rispettivi territori per buona parte dei primi vent'anni del secolo. I contratti da loro stipulati erano formalmente coordinati dalle istruzioni del senato, le loro attività venivano controllate dai capitani delle città, che erano naturalmente patrizi veneziani, ma loro stessi erano gente del luogo, inserita nella società locale.
Un altro personaggio che si affermò in quest'epoca tra i collaterali fu Belpetro Manelmi da Vicenza, che avrebbe esercitato un'enorme influenza sull'organizzazione delle forze armate veneziane fino alla metà del secolo. Manelmi sostituì Buonaconte a Verona nel 1416, ma aveva già fatto esperienza di amministrazione militare a Vicenza, ed era conosciuto a Venezia attraverso le sue relazioni al senato. Nel 1425 si era ormai guadagnato una reputazione di efficienza e lealtà ampiamente riconosciuta nelle minute del pregadi. In quanto collaterale di una città a ridosso del fronte come Verona, da dove partì nel 1426 l'avanzata contro il Ducato di Milano, era nella posizione ideale per passare dall'amministrazione militare locale alla responsabilità per l'intero esercito di Carmagnola; nel 1429 risulta attestato in questa posizione, e nel 1431 viene definito "collaterale-generale", un incarico che conserverà fino alla morte nel 1455.
L'ufficio di Manelmi, coadiuvato da cinque vicecollaterali, supervisionava la stipula e il rinnovo di tutti i contratti, provvedeva alle indispensabili ispezioni, fondamento dell'efficienza dell'esercito, teneva i libri e aggiornava i ruoli, assegnava le paghe e in caso di necessità imponeva i congedi e le smobilitazioni. La fiducia che in lui riponevano i governanti veneziani è pienamente attestata, così come gli ottimi rapporti che seppe intrattenere con tutta una serie di capitani generali. Tra i suoi collaboratori Chierighino Chiericati, un altro nobile vicentino che negli anni Sessanta sarebbe divenuto ispettore generale dell'esercito pontificio (64), Andrea Aureliano, poi cancelliere di Bartolomeo Colleoni, e il suo stesso fratello, Evangelista Manelmi, che fu con Francesco Barbaro all'assedio di Brescia nel 1438-1439, ed era ancora tra i collaterali veneziani negli anni Settanta.
L'importanza dell'ufficio di Manelmi, e anzi il motivo stesso della sua costituzione, sta nella rapida espansione dell'esercito veneziano e nella sua costante operatività negli anni successivi al 1425. Per tutto il 1424 era montata la tensione per i successi dell'esercito di Filippo Maria Visconti in Romagna, e Venezia autorizzò nuovi arruolamenti, iniziando la ricerca di un capitano generale. L'arrivo di Carmagnola all'inizio del 1425 avrebbe risolto il problema, e la Lega con Firenze contro Milano provocò la mobilitazione dell'esercito: Venezia si era impegnata a mantenere, in tempo di guerra, ottomila cavalli e tremila fanti, il che significava un raddoppio immediato degli effettivi. Si ingaggiarono nuove compagnie in Italia meridionale, che furono trasportate dalle galere lungo l'Adriatico, e si affidarono importanti condotte a Luigi da Sanseverino, Piero Giampaolo Orsini e Lorenzo Attendolo da Cotignola; Gianfrancesco Gonzaga fu nominato vice capitano generale. Alla metà del 1427 si diceva che Carmagnola disponesse di un esercito veneto-fiorentino di trentaseimila uomini, e dunque i suoi successi in questa fase, la presa di Brescia e Bergamo e la vittoria di Maclodio, non hanno nulla di sorprendente.
Venezia aveva sempre dato prova, anche in qualche occasione nel Trecento, della capacità di arruolare grossi contingenti di soldati rapidamente: non le erano mai mancati né il denaro, né la disposizione all'azione decisiva. L'elemento davvero diverso del nuovo scenario era la determinazione di mantenere reparti consistenti in servizio permanente anche in tempo di tregua o di pace: era cambiato il modo di prepararsi alla guerra, oltre al modo di farla. Già sul finire degli anni Venti il contratto per i condottieri di rango superiore prevedeva un anno di "ferma" e sei mesi "di rispetto", e quando nel 1428 la pace di Ferrara fece balenare la speranza di un periodo relativamente prolungato di non belligeranza, Venezia distribuì ben seimila cavalli nei diversi acquartieramenti.
Il sistema di assegnazione degli alloggi alle compagnie permanenti, che sarebbe rimasto in vigore per tutto il secolo, si affermò proprio nel periodo intorno al 1430 (65). Ai fini dell'acquartieramento permanente la Terraferma fu divisa in tre zone. In questa fase gli acquartieramenti permanenti imposti alle aree di frontiera del Bergamasco, del Cremonese, del Friuli e della Romagna erano relativamente esigui: quelle erano le zone sulle quali ricadeva l'onere maggiore per il mantenimento degli eserciti in tempo di guerra, e sia sul piano economico che su quello politico si riteneva opportuno non oberarle di truppe in tempo di pace. Le zone principali di acquartieramento erano nel cuore dello Stato, nel Bresciano, nel Veronese, nel Vicentino e nel Trevigiano, nelle cui campagne trovavano alloggio buona parte delle compagnie in servizio permanente. Di regola le zone più vicine a Venezia, il Padovano orientale, e la campagna immediatamente circostante Mestre e la laguna, non venivano assegnate alle compagnie permanenti, ma erano tenute per così dire di riserva per l'acquartieramento temporaneo delle compagnie ingaggiate di recente. Questa distribuzione aveva motivi tanto strategici che pratici. La dispersione dei quartieri sull'area più vasta possibile era necessaria per garantire la pronta disponibilità degli approvvigionamenti, e soprattutto del foraggio, riducendo al minimo i problemi di trasporto; molto si fece, soprattutto per quanto riguarda Venezia stessa, per evitare che le esigenze dei militari entrassero in conflitto con i bisogni dei centri urbani più popolosi. Era però importante mantenere una certa misura di concentramento, per consentire al capitano generale e agli ispettori di tener d'occhio le truppe senza dover troppo viaggiare, e per riuscire, in caso di emergenza, a radunare rapidamente grossi contingenti da schierare sulla frontiera minacciata. Il quartier generale del capitano fu insediato a Brescia fino al periodo del capitanato generale di Bartolomeo Colleoni, dopo il 1454, che scelse invece di far base a Malpaga, più vicina alla frontiera occidentale.
Nel sistema veneziano, i quartieri assegnati alle truppe dovevano essere pagati dalle compagnie stesse. Alcuni condottieri privilegiati, e tra questi il capitano generale, venivano alloggiati gratuitamente, ma la maggioranza era tenuta a pagare un affitto attingendo ai fondi loro assegnati. I collaterali si occupavano da vicino dell'acquartieramento delle truppe, e in genere decidevano l'assegnazione degli alloggi d'intesa con i rappresentanti delle comunità. Si affermò rapidamente la pratica di esigere una tassa locale dai capifamiglia che evitavano la responsabilità dell'alloggiamento per integrare la compensazione destinata a quelli che se ne assumevano l'onere. Questi sviluppi però, e il problema di un'identificazione troppo stretta delle compagnie con una particolare area rurale, che in un certo senso le "addomesticava", apparterranno più al futuro che non agli anni di tensione e di guerra continua compresi tra il 1430 e il 1450.
La pace, stipulata nel 1428, durò solo tre anni. Nella primavera del 1431 un incremento del venticinque per cento degli effettivi delle compagnie fu il preludio alla ripresa delle ostilità, e l'esercito di Carmagnola - che doveva affrontare a ovest l'attacco milanese e a est quello ungherese - fu rapidamente portato a circa sedicimila uomini, un numero che si sarebbe però rivelato insufficiente per far fronte in modo davvero efficace alla duplice minaccia. La naturale prudenza di Carmagnola sarebbe stata tra le cause della sua rovina, ma era evidente che ormai non si poteva condurre una campagna efficace in Lombardia con un esercito inferiore ai ventimila uomini. Alla fine del 1432 Gianfrancesco Gonzaga comandava trentamila uomini, tra i quali undicimila della milizia (66). All'epoca, comunque, il valore militare delle milizie arruolate su scala locale era ancora discutibile: servivano soprattutto come guastatori, data la tendenza sempre più diffusa ad affidare alle fortificazioni campali la difesa degli accampamenti, e ben poco sta ad indicare quell'addestramento sistematico della milizia che sarebbe stato la norma nel tardo Quattrocento. Ben più importanti erano gli ottomila fanti dell'esercito di Gonzaga, che costituivano i quattro decimi dell'intera forza combattente. I grandi eserciti, dai movimenti relativamente lenti, di queste guerre in Lombardia, e l'importanza assunta dalle fortificazioni campali e dagli assedi, favorivano l'impiego di una fanteria sempre più numerosa. Venezia si preoccupava di chiamare al suo servizio connestabili di fanteria professionisti, a lunga ferma, e di affiancare con compagnie di fanteria permanenti la parallela evoluzione della cavalleria. Diotisalvi Lupi da Bergamo, un seguace di Carmagnola, tenne il comando generale della fanteria veneziana col titolo di "governatore della fanteria", con una compagnia personale di cinquecento uomini, dai primi anni Trenta fino al 1448, quando fu catturato dal nemico nella battaglia di Caravaggio (67).
Le ostilità in Lombardia furono praticamente ininterrotte dal 1436 al 1454, e ne abbiamo già descritti i lineamenti principali. L'assetto permanente dell'organizzazione militare veneziana in questo periodo risulta evidente: nella diffusione dei contratti biennali, nella continua comparsa degli stessi nomi tra i comandanti, i cosiddetti "Marcheschi", nell'attività intensa e continua dei collaterali di Manelmi, nel flusso di istruzioni e editti in merito all'esercito che emanava dal senato. Abbiamo già accennato alla presenza di un gruppo relativamente esiguo di provveditori, provenienti dagli strati superiori del ceto politico veneziano. La comprensione e l'amicizia per i soldati di uomini come Francesco Barbaro e Jacopo Antonio Marcello furono importanti componenti della relativa coesione dell'organizzazione militare veneziana. Per tutto il periodo, le cifre sulle dimensioni dell'esercito superano sempre le ventimila unità, anche nei ruoli dell'esercito, disperso nei quartieri, compilati da Cristoforo da Soldo intorno al 1450.
Era ovviamente un esercito la cui arma predominante era ancora la cavalleria pesante; da questa erano costituite le compagnie comandate dal capitano generale e dai suoi colleghi di rango superiore. Gli eserciti di Francia e di Borgogna, organizzati nella forma permanente definitiva proprio in questi anni centrali del secolo XV, presentavano la medesima caratteristica. Le compagnie più grandi comprendevano però anche squadroni di balestrieri a cavallo e contingenti di fanteria; alcune disponevano anche di artiglieria propria. Venezia non era dunque un'eccezione in Italia; nell'organizzazione e nella composizione dell'esercito milanese c'era ben poco di diverso: se l'aria della battaglia di Caravaggio fu resa irrespirabile dal fumo degli schioppi, non v'è dubbio che il fuoco provenisse in eguale misura da entrambe le parti (68). In un settore comunque Venezia era sicuramente avvantaggiata, e sviluppò una potenza affatto unica: quello della guerra anfibia sui fiumi.
Le pianure della Lombardia, intersecate da larghi fiumi dal corso lento, erano l'ideale per l'impiego bellico delle flotte fluviali, che potevano contribuire all'approvvigionamento degli eserciti, attribuivano una nuova flessibilità all'attacco e rinforzavano le barriere difensive naturali create dai fiumi; e le loro bombarde portarono una nuova dimensione alla guerra d'assedio. Gli accessi ai fiumi principali, in particolare il Po e l'Adige, e i fiumi friulani, erano in mano veneziana. La competenza, l'attrezzatura e la manodopera necessarie per la costituzione delle flotte provenivano in buona parte da Venezia (69). E in queste guerre Venezia fece larghissimo uso di flotte di navigli a remi di ogni genere, dalle barche a cinque remi armate con una bombardina alle galere da guerra da alto mare. Erano comandate tutte da Veneziani, e gli equipaggi erano quel misto di Veneziani e Dalmati che armavano le grandi flotte di galere. La loro presenza non attribuiva dunque soltanto una dimensione inusuale alla guerra, ma rafforzava anche quel senso di collaborazione, di positiva fusione tra tradizioni militari mercenarie e "nazionali" che caratterizzò l'impresa veneziana in Terraferma.
Se pure il patriottismo e lo spirito di sacrificio furono componenti essenziali nella condotta della guerra terrestre e nella difesa del Dominio nella prima metà del secolo XV, l'aspetto mercenario, il soldo, ebbe comunque importanza ancora maggiore. Ogni governo quattrocentesco sapeva bene che le truppe pagate bene e regolarmente erano quasi sempre quelle più efficienti e fedeli; Venezia, il più ricco tra gli stati italiani, pareva godere di un vantaggio particolare in questo settore, ma un'analisi delle sue finanze di guerra - nella misura in cui questa è possibile - dimostra che i problemi erano assai simili a quelli degli altri (70).
Prima del 1417 non esisteva alcun sistema preciso per far fronte alle nuove voci di spesa rappresentate dall'espansione dell'esercito permanente e dai costi della difesa della Terraferma: si prendeva il denaro dal primo fondo disponibile, e spesso si ricorreva ai prestiti delle banche. Il principio comunque che i costi della difesa del nuovo impero dovessero ricadere in larga misura sulle città e le popolazioni stesse della Terraferma veniva già chiaramente enunciato. Nel 1417 si passò dalla teoria alla pratica istituendo la "collecta lancearum et peditum", che sarebbe poi divenuta la "dadia delle lanze", una tassa fondata sull'estimo e imposta in tutto il Dominio padano. Le dimensioni sempre maggiori assunte dall'esercito dopo il 1425 resero insostenibile una sua dipendenza esclusiva dalle risorse della Terraferma. Le spese militari per il periodo 1428-1438 sfiorarono i 7 milioni di ducati, mentre il reddito complessivo delle tesorerie dei possessi di Terra era in media di circa mezzo milione all'anno: la sproporzione era evidente. Nonostante la graduale evoluzione, accanto ai provvedimenti per gli alloggi di cui si è già detto, di un sistema in base al quale la paga di certe compagnie dipendeva da una determinata tesoreria di Terraferma, il trasferimento delle compagnie lontano dai quartieri in tempo di guerra e la generale situazione deficitaria delle finanze del Dominio rendevano inevitabile il ricorso costante ai fondi centrali. Nel 1448 Si calcolava che l'esercito costasse 75.000 ducati al mese, una cifra cinque volte superiore al denaro disponibile per le paghe dell'esercito nelle tesorerie di Terraferma (71). Ne conseguiva che buona parte dell'esercito dipendeva dal contante inviato direttamente da Venezia, strappato a fondi pubblici o estorto a riluttanti banchieri già impegnati ad alimentare altri settori della spesa veneziana. I problemi non erano dunque diversi da quelli di altri stati italiani, e anche gli archivi veneziani sono pieni di lamentele sull'inadeguatezza delle paghe. Vi furono indubbiamente momenti in cui l'efficienza dell'esercito ne risultò menomata, e l'idea di una Venezia aggressivamente imperialistica, libera da ogni vincolo finanziario nella sua corsa militaristica all'egemonia in Italia - un tema che sarebbe divenuto prevalente dopo il 1454 - va riesaminata alla luce delle circostanze finanziarie reali (72).
Se la difesa e l'organizzazione militare del nuovo Stato di Terraferma furono considerazioni prioritarie, specie negli anni immediatamente successivi al 1405, non è però possibile separarle dal contesto complessivo dell'amministrazione di quello Stato. Come abbiamo già detto, pur essendo avvenute più rapidamente delle analoghe esperienze milanesi e fiorentine, la creazione e l'espansione di quello Stato rientravano in un fenomeno più generale nell'Italia tardomedievale. E non era una situazione nuova nemmeno per la stessa Venezia: l'espansione, l'amministrazione e la difesa dello Stato da Mar le avevano dato una gamma di esperienze che andavano dalla conquista armata e successiva amministrazione delle città istriane alla feudalizzazione di Creta. È certo vero che i problemi organizzativi di uno Stato di Terra in Italia erano per molti aspetti assai diversi rispetto a quelli incontrati nel Mediterraneo orientale: le distanze erano molto più brevi, le comunicazioni con Venezia più facili, le diverse parti dell'impero non erano isolate una dall'altra, e le lingue, i costumi e persino la religione dei nuovi sudditi erano assai meno diversificati. Nondimeno, lo stile del governo veneziano sulla Terraferma italiana recava l'impronta dell'esperienza acquisita nell'impero marittimo. La tendenza a evitare, nella misura del possibile, ogni interferenza negli affari locali, l'apparente assenza di un'aspirazione alla coerenza e alla centralizzazione, il deciso distacco da ogni forma di integrazione sociale: tutte queste caratteristiche del Dominio veneziano in Italia erano in parte derivate dall'esperienza dello Stato da Mar (73).
Qualcuno metterà certo in discussione la correttezza di termini come "distacco" e "incoerenza" in riferimento all'amministrazione del Dominio veneziano. Col suo fondamentale Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Angelo Ventura inaugurava una diversa interpretazione della politica veneziana di Terraferma, ipotizzando fin dagli esordi una certa determinazione ad imporre le istituzioni e le idee di Venezia per creare uno Stato più armonioso, controllato e interdipendente di quanto fosse stato possibile fare nei Balcani. Il dibattito suscitato da queste proposte sarà tra i temi principali della trattazione che segue, ma per il momento basteranno, a mo' di introduzione agli argomenti più specifici, alcune osservazioni generali.
Non si sottolineeranno mai abbastanza le differenze di vicende e istituzioni che distinguevano le città e province che avrebbero costituito lo Stato di Terraferma, ma occorre sempre tenere in primo piano il contrasto tra Venezia stessa, la sua mentalità e le sue istituzioni, da un lato, e tutti i suoi nuovi sudditi italiani dall'altro. Venezia era una città post-romana, dedita per tutta la sua storia al perseguimento di interessi mercantili marinari, soprattutto nel Mediterraneo orientale, e retta da istituzioni politiche e giudiziarie che favorivano i valori del commercio e si basavano sulla partecipazione relativamente diffusa alla vita pubblica di ampi settori della popolazione. Viceversa, le nuove città suddite, da Brescia a Udine, da Rovereto a Ravenna, avevano origini romane - e anzi, preromane - di cui andavano orgogliose, cui erano seguiti forti condizionamenti feudali e terrieri. Erano per lo più città dell'entroterra, le cui élites erano costituite in larga misura da proprietari terrieri, e la cui recente evoluzione politica era stata contraddistinta dall'affermazione di un potere autocratico all'interno delle maglie del Sacro Romano Impero. Sarebbe sbagliato attribuire rilievo eccessivo all'isolamento di Venezia da questo mondo nei secoli XIII e XIV, ma è impossibile comprendere i problemi cui essa si trovava ora di fronte senza tener conto di quelle enormi differenze di mentalità, consuetudini e istituzioni.
È anche possibile ipotizzare che ai Veneziani non sarebbe dispiaciuto affermare la propria autorità trasmettendo e imponendo in modo diretto le istituzioni e i valori di Venezia ai territori di cui si erano impossessati; ma è evidente che alla Repubblica mancavano tanto le risorse quanto la convinzione necessarie. Una rinuncia agli interessi veneziani in Mediterraneo per concentrarsi sul nuovo impero era fuori discussione. Nell'insieme i suoi patrizi-mercanti non erano adatti a fare i viceré, anche se alcuni di loro non tardarono ad imparare quell'arte; i suoi raccogliticci eserciti mercenari erano ancora a disagio sotto il gonfalone di San Marco, e non avevano esperienza in fatto di repressione sistematica. Era dunque inevitabile che il modo della presa di possesso fosse improntato all'accomodamento, al compromesso, all'opportunismo. Nei primi anni fu essenziale esercitare col dovuto tatto, e con un taglio nettamente non trionfalistico, quell'autorità cui non si era abituati. E molti dei Veneziani che guidarono le prime fasi della nuova impresa erano abbastanza bene informati circa la situazione nelle città e nelle campagne appena occupate, e spesso erano persone già abbastanza ben conosciute in quelle zone, da far sì che questa risultasse la linea di condotta più ovvia e accettabile.
Ne consegue che la storia della fase iniziale dello Stato veneziano di Terraferma andrebbe presentata come una serie di acquisizioni successive, di relazioni separate tra Venezia e le singole città soggette in cui i termini e le condizioni, le richieste e le risposte variavano secondo i precedenti e le situazioni locali. È però un'impostazione che tenderebbe a soffermarsi sui dettagli della vita e delle istituzioni locali, mentre questa trattazione si propone di rendere possibile un esame dell'impatto del nuovo contesto politico su Venezia stessa. Avrà dunque invece un'impostazione soprattutto tematica, con attenzione particolare per l'affiorare, nel tempo e nello spazio, di un certo grado di coerenza e uniformità nelle politiche di Venezia in Terraferma. Che si affermasse un minimo di coerenza era inevitabile: nacquero istituzioni competenti per l'intero Dominio, i funzionari si spostavano di città in città, e le singole personalità delle città soggette divennero meno importanti, quantomeno nelle discussioni a Venezia, rispetto agli interessi generali dello Stato. Fu un processo lento, e fu condizionato dalla distanza relativa da Venezia: le aree più vicine, il Trevigiano e il Padovano, venivano controllate più strettamente, e sorvegliate più gelosamente, delle province lontane del Bresciano e del Friuli. È però un contrasto che trova esatta corrispondenza nella diversa misura di controllo esercitata da Firenze nel contado e nel distretto, e altrettanta ne troverebbe senza dubbio nel diverso atteggiamento tenuto dai duchi Visconti nei confronti - per fare un esempio - di Pavia e di Parma (74).
Per evidenziare le politiche e gli atteggiamenti diversi imposti dalle variazioni di tempo e di spazio, farò partire questa analisi da Treviso nel Trecento.
Treviso fu occupata con la forza durante la guerra con gli Scaligeri del 1339. Soltanto cinque anni dopo furono fissati i "capitoli" che definivano le condizioni della sottomissione della città a Venezia e il nuovo assetto del suo governo; furono presentati dal doge Andrea Dandolo nel 1344, a quanto pare senza troppe discussioni preliminari a Treviso (75). Doveva rimanere un'eccezione: nel secolo XV gli atti formali di resa e la definizione formale dei "capitoli" divennero parte integrante dell'atto di trasferimento della sovranità.
Per molti versi Treviso dipendeva da Venezia più di qualsiasi altra delle città occupate successivamente. I suoi consigli comunali, il consiglio maggiore e il consiglio dei quaranta, furono scavalcati, e poi aboliti nel 1407; i suoi anziani furono sostituiti da sei provveditori estratti ogni sei mesi da una lista di trentasei nomi scelti dal rettore veneziano. Il rettore stesso univa gli incarichi di capitano e podestà, e rispondeva al senato di Venezia, dove gli affari di Treviso erano regolare oggetto di discussione. Nel secolo XIV il rettore di Treviso, l'unico incarico di prestigio in Terraferma direttamente accessibile ai patrizi veneziani, era in genere un uomo politico di primo piano. Marino Falier fu per due volte rettore di Treviso, oltre che due volte podestà di Padova. Uomini di questo stampo si imponevano alla città da poco soggiogata in un modo che sarebbe divenuto inconsueto nel secolo successivo; il rettore assumeva il ruolo di giudice arbitrario, dispensando giustizia sulla base dei precedenti veneziani e esautorando in misura notevole i tribunali comunali.
Particolarmente incisiva fu la riduzione dell'autorità di Treviso e della sua nobiltà urbana sul circostante Trevigiano. I villaggi e le zone rurali a ridosso della città furono ripartiti in otto quartieri, i cui abitanti, soggetti al controllo diretto del rettore e dei suoi funzionari, compartecipavano di molti dei diritti, doveri e oneri dei cittadini: venivano governati come parte integrante della città, senza alcun intervento dell'élite locale. Più in là, a Castelfranco, Asolo, Noale, Conegliano, Serravalle, Valmareno e altre città marginali, furono creati feudi e podesterie autonomi, con feudatari che rendevano omaggio direttamente a Venezia o podestà scelti nei ranghi del patriziato veneziano. In queste zone tutti i tradizionali legami con Treviso furono recisi: le vie dell'autorità riportavano direttamente a Venezia.
Abbiamo già detto che molte caratteristiche del dominio veneziano a Treviso furono eccezionali, e anzi nel Quattrocento, una volta acquisita maggiore esperienza dell'autorità in Terraferma, Venezia diede segno di voler recedere da alcuni dei precedenti creati nel secolo XIV. Nel 1435 il senato ricostituì i consigli comunali; pur senza funzioni specifiche se non quelle puramente consultive, la convocazione piuttosto frequente di queste assemblee consentì all'élite urbana di conservare la propria identità e una parte del suo ruolo tradizionale (76). Nel 1439 gli otto quartieri del contado furono risuddivisi in vicariati i cui vicari, con limitati diritti di giurisdizione, venivano scelti tra i cittadini più influenti di Treviso. Gli effetti a breve e a lungo termine di entrambi questi tentativi di allineare il governo di Treviso alle pratiche adottate altrove in Terraferma furono però smorzati dai conflitti interni tra ceti nobiliari e professionali, ciascuno proteso a ottenere il diritto alla rappresentanza. In quest'area le profonde rivalità all'interno dell'élite locale parvero frustrare il tentativo veneziano di attribuire maggiore coerenza al Dominio proprio attraverso una riduzione dell'autorità della Dominante, e Treviso rimase dunque un caso eccezionale.
A questo stato di cose si sono date molte spiegazioni: la prossimità di Treviso a Venezia, l'antica penetrazione economica, la particolare importanza per l'economia veneziana delle vie di comunicazione, terrestri e fluviali, del Trevigiano, e inoltre - ovviamente la precocità dell'occupazione. E alla particolarità del trattamento riservato a Treviso contribuirono anche taluni elementi della realtà locale: era una città più piccola di Padova, o Verona, o Brescia; non aveva mai esercitato sull'entroterra la stessa autorità che quelle città erano riuscite a imporre nel tardo medioevo; la sua classe dirigente era faziosa e divisa. Le esigenze della difesa, nel Trecento, di quella regione appena occupata, e ancora esposta, furono peraltro sicuramente un incentivo alla creazione di feudi e podesterie intorno ai confini del Trevigiano; un incentivo che ovviamente si esaurì nel secolo XV, quando la regione cessò di costituire la frontiera del dominio veneziano (77).
Per questo ritengo fuorviante usare l'esempio di Treviso per dimostrare una propensione veneziana al controllo stretto e centralizzato sul nascente Stato di Terraferma. È più convincente, invece, in quanto esempio di come Venezia adattasse i suoi rapporti con i territori soggetti alle condizioni e alle esigenze locali.
Il problema dei fondamenti dell'autorità di Venezia sul nuovo Stato regionale che andava creando in Italia è stato affrontato da tutti gli studiosi che si sono occupati della Terraferma. Quella veneziana era essenzialmente una sovranità de facto, basata sulla conquista, sull'occupazione. Esisteva comunque - come sempre, in quella situazione e in quel periodo - un certo interesse ad attribuire un fondamento de iure al dominio veneziano. Per i potenziali ribelli e cospiratori, e per gli aggressivi stati confinanti, era assai più facile trovare sostenitori e alleati se potevano rinfacciare a Venezia un'assenza di diritto legale sui suoi nuovi domini. Va detto che la preoccupazione della Repubblica a questo proposito pare essere stata assai meno sentita di quanto vorrebbero alcuni recenti studi, ed è sbagliato sostenere che la questione della giustificazione del dominio influisse in modo determinante sul profilo relativamente basso assunto dal dominio stesso (78). Venezia poteva permettersi di sentirsi assai più sicura della sua presa sui nuovi domini di quanto non fosse il signore due o trecentesco medio. Ai Veneziani particolarmente legalistici rimanevano comunque aperte due vie per risolvere il problema del titolo de iure: il vicariato imperiale e l'acclamazione popolare.
L'intera area in questione, dall'Adda alle alpi friulane, faceva parte per tradizione del Sacro Romano Impero. Gli Scaligeri, i Carraresi e i Visconti avevano tutti cercato una conferma alla propria autorità nella concessione del vicariato imperiale; Sigismondo, in quanto re dei Romani, aveva conferito nel 1412 il vicariato di Verona e Vicenza a Brunoro della Scala, che continuò a sostenere fino alla sua morte nel 1437 (79). Il lungo conflitto tra Venezia e Sigismondo, e l'aiuto da questi dato alle famiglie signorili esiliate, rendevano assai improbabile che la Repubblica pensasse a chiedere il riconoscimento e la ratifica imperiale della propria autorità in Terraferma fino a quando la tensione non si allentò, negli anni Trenta. E allora, nel maggio 1437, Marco Dandolo fu inviato a negoziare con l'imperatore, e con Brunoro della Scala che stava alla corte imperiale, il necessario riconoscimento. Il 20 luglio 1437 il doge Foscari fu formalmente investito del vicariato imperiale su ampie zone dello Stato, in cambio dell'impegno ad inviare ogni anno all'imperatore una "pala" del valore di 1.000 ducati come atto di omaggio. Verona e Vicenza non furono comprese in questa concessione perché Brunoro era ancora vivo, e l'investitura a pieno titolo non fu formalizzata fino al trattato con Carlo V del 1523. Ben poco sta comunque a indicare che questa fosse una questione scottante fino alla guerra di Cambrai, quando fu l'imperatore Massimiliano a riesumare deliberatamente il problema dell'autorità imperiale su Verona (80).
Ben più importante, nella prospettiva veneziana, fu la costante insistenza sul fatto che il dominio di Venezia si basava e si manteneva sulla richiesta popolare delle nuove città suddite. Vicenza e Verona erano state salvate dall'oppressione di un tiranno straniero, e persino Padova era stata strappata alla tirannia del suo signore. La tendenza a raffigurare gli atti formali di sottomissione, le "dedizioni", come suppliche spontaneamente presentate e graziosamente accolte, e la successiva attenzione al rispetto dei diritti locali, evitando scontri frontali tra le élites e il senato veneziano, stanno ad indicare la preoccupazione di giustificare il dominio veneziano: la gioiosa sottomissione dei sudditi di Terraferma divenne anzi un elemento del mito di Venezia nel XV secolo.
Gli studi di Antonio Menniti Ippolito sulle dedizioni hanno contribuito a illuminare alcuni degli aspetti più oscuri nel rapporto tra Venezia e le città della Terraferma (81). Vanno considerate certo come atti di sottomissione a una potenza conquistatrice, ma non per questo furono formalità, né meri privilegi concessi dal vincitore. Erano tutte sottomissioni condizionate. Le trattative venivano di regola condotte in due fasi: un atto iniziale di sottomissione presentato a un rappresentante veneziano sul posto, con una serie di richieste per la conservazione di statuti e diritti locali, cui seguivano rapidamente la promulgazione delle condizioni finali da parte del senato, e la loro consegna nelle mani dei rappresentanti della città in questione in una cerimonia a Venezia. L'atto pubblico della sottomissione di Verona ebbe luogo in piazza San Marco il 12 luglio 1405, quello di Padova fu inserito nella Bolla d'Oro del 30 gennaio 1406 (82). Le condizioni imposte a Padova appaiono più dure, ma in entrambi i casi risultano evidenti le fasi negoziali preliminari tra rappresentanti delle città e del senato. In ultima istanza era il senato a decidere quali concessioni era disposto a fare, e quali statuti andassero modificati per garantire la piena espressione della sovranità veneziana. Ciò che più conta è che i capitoli così redatti divenivano il fondamento dei futuri rapporti tra la città soggetta e la Dominante. Passarono parecchi anni - nel caso di Verona, fino al 1451 - prima di arrivare a una formale rielaborazione degli statuti comunali, e ovunque il lavoro fu svolto in larga misura da giuristi ed esponenti delle élites locali, per poi essere sottoposto all'approvazione di Venezia.
Come vedremo, nella pratica i rapporti tra la periferia e il centro dello Stato furono di rado improntati a una prepotente affermazione della sovranità di Venezia, ma quella sovranità veniva comunque proclamata a chiare lettere nelle dedizioni e nei capitoli. Lettere chiare, ma assai poco definite: per tutto il Quattrocento vi fu scarso interesse a delineare il rapporto, o a darne giustificazione giuridica. Nel 1423 i documenti pubblici veneziani rinunciarono all'uso della parola "comune", sostituendola con "dominio" o "signoria", ma questo è un segnale dell'espansione geografica dell'autorità, oltre che del suo rafforzamento (83). Per tutto il corso del secolo a dominare le discussioni in senato furono gli aspetti pratici dei rapporti con le città soggette, le esigenze della difesa, la tutela dell'ordine pubblico, e in molta parte anche i desideri e gli interessi delle popolazioni locali.
Nella maggioranza delle città di Terraferma il dominio veneziano lasciò intatte le istituzioni che governavano in precedenza i centri urbani e il loro entroterra immediato. In alcuni casi vi fu una propensione a ridurre le dimensioni dei consigli comunali, ma era una tendenza già avviata nel secolo precedente. Sul caso di Treviso, dove i consigli furono formalmente aboliti nel 1407 e poi resuscitati come organismi puramente consultivi e occasionali, ci siamo già soffermati (84). Anche a Padova, nel 1408, si era tentato inizialmente di abolire gli anziani e il gran consiglio, ma ben presto le istituzioni legislative locali furono ripristinate. Il gran consiglio era già stato messo in disparte dai Carraresi, e nel 1420 una riforma delle istituzioni comunali elaborata da giuristi e esponenti politici padovani lo sostituì con un consiglio di quarantotto, mentre in luogo degli anziani veniva costituito un gruppo di "deputati ad utilia". Questi organismi disponevano di una certa autonomia in materia di amministrazione e giustizia civile locale, e nel 1435, dopo il fallimento di una ribellione, le dimensioni del consiglio furono portate a cento membri. È probabile che così facendo si volesse allargare la base della classe dirigente padovana, impedendo la formazione di una ristretta oligarchia antiveneziana (85).
La presenza già in periodo signorile di un processo di contrazione delle élites urbane in Terraferma è l'argomento principale di John Law e di altri oppositori della tesi di Angelo Ventura, secondo il quale questa tendenza fu avviata e incoraggiata da Venezia. Per un certo verso è indubbio che la Repubblica si appoggiasse ai gruppi dominanti nelle città, e dunque favorisse tacitamente l'affermazione delle oligarchie, ma era un processo che soltanto un radicale mutamento di indirizzo, verso una rappresentatività estesa nei consigli locali o verso il controllo assoluto di Venezia, avrebbe potuto impedire. L'esempio di Treviso e, in misura minore, quello di Padova, stanno ad indicare che non esisteva una politica coerente, mentre il caso emblematico di Verona, di cui tanto si è discusso, non fornisce alcuna testimonianza evidente dell'iniziativa veneziana.
Al momento dell'occupazione veneziana di Verona, nel 1405, il consiglio dei cinquecento, l'assemblea legislativa tradizionale del comune, fu formalmente abolito, sostituito a quanto risulta da un consiglio dei cinquanta. È però dimostrabile che si trattò della formalizzazione di vicende precedenti: il consiglio dei cinquecento era caduto in disuso con gli Scaligeri, e a fianco del consiglio dei dodici, che aveva già sostituito gli anziani, si era andato affermando in via informale un più ristretto consiglio dei cinquanta. Il provvedimento formale del 1405 fu un'iniziativa veronese, accettata da Venezia, e il suo effetto fu la creazione di un consiglio forte che avrebbe sì favorito un'oligarchia, ma avrebbe anche opposto resistenza all'eventuale invadenza eccessiva dell'intervento veneziano (86).
La presenza di un'iniziativa locale che contribuì a conservare un forte elemento di autonomia è una evidente costante anche nelle altre città. A Vicenza il consiglio dei cinquecento sopravvisse mantenendo intatti i suoi poteri legislativi, ma nel 1423 il comune vicentino ottenne l'assenso di Venezia alla creazione di un nuovo consiglio dei cento, un'assemblea consultiva più agile interposta tra i "deputati ad utilia" con il consiglio dei quaranta da essi selezionato e l'ormai ingestibile gran consiglio (87). A Brescia il consiglio generale si era già contratto da cinquecento membri nel 1315 a settantadue nel 1421, e per tutto il periodo veneziano continuò a funzionare come primo centro dell'attività legislativa (88). A Udine Venezia mantenne in vita il parlamento della Patria del Friuli, con la sua massiccia rappresentanza di feudatari friulani (89).
A fianco di questi consigli, in sostituzione degli antichi signori e dei loro ufficiali, comparvero i funzionari veneziani. In ognuna delle città principali furono inviati due patrizi di provata esperienza: il primo in grado era il podestà, cui spettavano l'amministrazione della giustizia, il governo delle istituzioni comunali sulla base degli statuti e la tutela dell'ordine pubblico; al suo fianco il capitano, responsabile della guarnigione e della difesa della città, nonché di buona parte della sua organizzazione fiscale. Entrambi i rettori dovevano presenziare a tutte le assemblee dei consigli comunali, agendo da mediatori all'interno delle comunità locali, e tra queste e Venezia. Il podestà, che rimaneva in carica per un anno esteso a sedici mesi più avanti nel secolo -, era accompagnato da giudici e cancellieri provenienti da altre città del Dominio. Altri patrizi veneziani occupavano le posizioni chiave di "camerlengo", responsabile delle finanze cittadine, e le castellanie delle principali fortezze. Nelle città di medie dimensioni c'era un solo rettore veneziano, che riuniva le funzioni di podestà e capitano (90).
Sul finire del Quattrocento i patrizi veneziani che occupavano incarichi amministrativi in Terraferma erano centotrenta (91); in precedenza erano stati molto meno numerosi. Oltre ai sei o sette patrizi distaccati in città importanti come Padova e Verona, c'erano podestà e castellani in molti centri minori e nei castelli rurali di maggiore rilievo; ma tenendo conto dell'estensione del territorio da controllare e amministrare, non si trattò certo di un'invasione massiccia di funzionari veneziani. Il podestà e il capitano di Verona, ad esempio, dovevano sentirsi alquanto esposti e isolati, e l'intero sistema si affidava in larga misura a un misto di collaborazione e buona volontà.
L'altro meccanismo, affermatosi in modo quasi informale ma inizialmente ben visto da Venezia, consisteva nelle ambasciate di cittadini eminenti inviate a Venezia dalle città soggette per discutere questioni particolari o presentare suppliche per privilegi o concessioni. Le ambasciate dovevano essere autorizzate dai rettori sul posto, e offrivano ai consigli veneziani l'occasione di approfondire la loro conoscenza degli affari di Terraferma e di prendere contatto diretto con alcuni dei loro sudditi più influenti. Col procedere del secolo, però, divennero sempre più fastidiose e invadenti, e si diffuse la sensazione che troppe banalità venissero portate a Venezia invece di essere risolte sul posto. Si cercò quindi di limitare le dimensioni e la frequenza delle ambasciate, e l'accoglienza che ricevevano a Venezia assunse un piglio più perentorio (92).
L'autorità cui esse si appellavano era soprattutto il senato, la sede in cui venivano discusse le questioni attinenti il Dominio di Terra. Nel 1421 fu creato nel collegio un nuovo gruppo di savi, i savi della Terraferma, che dovevano assumere le necessarie informazioni sugli affari di quella regione, per prepararne e proporne la discussione (93). Nel 1440 l'espansione dell'attività del senato fu riconosciuta con la suddivisione delle minute "Misti" nelle due sezioni Terra e Mar. Era il senato a ratificare le nomine più importanti in Terraferma, e sul suo ordine del giorno comparivano continuamente questioni attinenti al fisco, alla difesa e ai diritti ecclesiastici. Senza dubbio gli interventi negli affari di interesse puramente locale aumentarono nel corso del secolo, ma non furono interventi coerenti, né particolarmente intensi: erano spesso risposte a suppliche locali, molte volte contro azioni compiute da funzionari o proprietari terrieri veneziani.
Con gli anni Quaranta il quadro dei rapporti politici tra centro e periferia fu ulteriormente complicato dalla progressiva affermazione del consiglio dei dieci come autorità concorrente del senato in molte nuove sfere dell'amministrazione. La trasformazione della natura stessa dello Stato avviata con l'espansione nell'entroterra aveva portato ben pochi cambiamenti nelle istituzioni del governo veneziano: negli anni Venti furono costituiti i savi della Terraferma, e in precedenza la supervisione dell'amministrazione della giustizia nei nuovi territori soggetti era stata affidata agli auditori nuovi. Ma l'organismo più adatto a far fronte alle nuove esigenze era il consiglio dei dieci, il più flessibile e potenzialmente innovativo tra i consigli veneziani. In materia di sicurezza dello Stato e di tutela dell'ordine interno i dieci potevano agire con rapidità: l'arresto e l'esecuzione di Carmagnola rientravano in queste categorie, così come l'intervento sempre più frequente dei dieci nelle sfere attinenti il rispetto degli statuti locali della Terraferma. Con l'aggravarsi della situazione durante le guerre di Lombardia, ogni dubbio sulla tutela delle garanzie offerte da Venezia alle autonomie locali, ogni lagnanza per un intervento indebitamente centralistico, rischiavano di macchiare la reputazione di giustizia e equità di cui la Serenissima andava tanto orgogliosa. Gli avogadori di coinun, tradizionali depositari della tutela dei diritti dei comuni cittadini e della difesa della costituzione, non sempre furono in grado di muoversi in modo efficace nella nuova situazione. Nel 1444 fu attribuita al consiglio dei dieci competenza esclusiva per la definizione delle circostanze eccezionali in cui i "capitoli" originali potevano essere sospesi: una questione che avrebbe avuto il suo peso nelle polemiche sull'espansione dell'autorità del consiglio dei dieci nella seconda metà del secolo. E anzi, il problema generale stesso dell'espansione di quell'autorità, momento centrale della storia veneziana nel tardo Quattrocento e nel Cinquecento, fu indissolubilmente collegato con quello della Terraferma (94).
La nascita dello Stato moderno riguarda tanto la creazione di strutture sociali omogenee quanto l'accentramento delle istituzioni e del potere. La graduale fusione delle élites locali in un'élite nazionale, la crescita del senso dell'appartenenza e della reciprocità degli interessi negli ordini inferiori della società: questi sono i sintomi dell'adolescenza di una nazione. Alcuni studiosi hanno rivolto a Venezia l'irragionevole accusa di aver fatto ben poco per avviare o favorire questo processo nel primo secolo del dominio sullo Stato di Terraferma; di fatto, però, la determinazione a difendere le peculiarità della vita e della società di Venezia nel più vasto ambito ora soggetto al suo controllo non può certo sorprendere, e anzi, fu meno efficace di quanto spesso non si creda.
Ai cittadini dei centri urbani assoggettati nel primo Quattrocento fu offerta la cittadinanza veneziana "de intus" (95), che in teoria dava libero accesso ai mercati di Venezia, e il diritto di acquistare, vendere e lavorare nella metropoli alle medesime condizioni dei Veneziani. Sempre in teoria, dava accesso anche agli incarichi pubblici minori a Venezia. Ma non attribuiva la posizione privilegiata del patriziato o dei "cittadini originari" quanto al commercio marittimo, gli incarichi di cancelleria o l'accesso ai consigli e alle cariche politiche. I privilegi economici concessi da questi provvedimenti non erano di fatto molto diversi da quelli di cui già godevano i mercanti dell'entroterra, e non pare che in realtà l'accesso agli incarichi pubblici venisse molto praticato: i pregiudizi contro una presenza realmente incisiva di cittadini di Terraferma nella vita pubblica veneziana rimanevano forti.
La discriminazione risultava particolarmente evidente nello strato superiore. All'integrazione dell'élite politica veneziana con quelle di Padova, Vicenza, Verona ecc. si poteva giungere soltanto attraverso un allargamento del maggior consiglio, l'iscrizione al quale era privilegio esclusivo del patriziato veneziano: tutti gli altri privilegi derivavano da questo. Nel Quattrocento la creazione di un gran consiglio chiuso per l'intero Stato sarebbe stato un concetto impraticabile, e impensabile: inutile dire che non fu nemmeno preso in considerazione. Le élites dominanti delle città rimasero distinte, ciascuna ingabbiata nei propri particolari privilegi, nel proprio modo particolare di controllare la rappresentanza politica locale; nessun ruolo di rilievo fu loro offerto nel governo generale dello Stato. Le élites rimasero intatte: pochi furono esiliati nel primo tempo dell'occupazione veneziana e successivamente, e alle istituzioni locali fu consentito di evolversi in modo naturale. La tendenza verso consigli legislativi più piccoli - non del tutto uniforme, come abbiamo già osservato - portava al rafforzamento di quei gruppi e a una conferma della loro separatezza, non soltanto dalla nobiltà della capitale, ma anche da altre realtà sociali della rispettiva città. Il dominio veneziano tendeva implicitamente a scoraggiare le aggregazioni di autorità e influenza alternative alla gerarchia e al centro di controllo burocratico sanzionati dall'ufficialità. Nel Quattrocento si tendeva a sopprimere le corporazioni e le reti di potere locali (96).
Nulla di tutto ciò fu eccezionale, né sorprendente, né, in realtà, intenzionale. Si davano parecchie eccezioni al modello generale. James Grubb ha rilevato in quale misura lo stile di vita del patriziato vicentino cercasse una maggiore uniformità con quello dei nobili veneziani rispetto ai Padovani o ai Veronesi (97). A Ravenna, città particolarmente esposta in termini strategici dove questo tipo di legami acquisiva importanza ancora maggiore, si arroccava un'élite accesamente filoveneziana (98). L'impiego di funzionari giudiziari e amministrativi provenienti da altre città di Terraferma nel governo di ognuna di esse contribuì alla nascita di qualcosa di simile a un ceto amministrativo: i collaterali militari vicentini Belpetro Manelmi e Chierighino Chiericati erano personaggi noti ovunque, e come loro alcuni dei giudici e notai al seguito dei podestà. Legami personali, amicizie - individuabili nella corrispondenza che ci è stata conservata -, rapporti clientelari intercorrevano tra tutte le élites cittadine, compresa quella di Venezia. Uno sparuto numero di nobili di Terraferma furono ammessi nel maggior consiglio veneziano come membri onorari. C'era un po' il senso di essere cresciuti insieme, specie ai massimi livelli della società, che non fu rinnegato né significativamente intaccato nemmeno con gli eventi del 1509; spesso la comune esperienza di studio all'Università di Padova ne costituiva un elemento importante (99).
Quanto agli strati inferiori, c'era una diffusa mobilità della popolazione, soprattutto verso Venezia, ma anche nel senso inverso. L'incremento demografico insolitamente intenso di Venezia nel Quattrocento è in buona parte dovuto all'immigrazione dalla Terraferma: in città molte attività artigianali e di servizio venivano svolte da Bergamaschi, Veronesi e Trevisani. Gli immigrati mantenevano in genere dei legami con le comunità di origine, ritornandovi per l'estate e accogliendo di buon grado i conterranei appena arrivati a Venezia. Ne troviamo anche nelle "Scuole" veneziane, spalla a spalla con i patrizi e i "cittadini", e con altri "forestieri" nel senso più evidente del termine. A Venezia la società era straordinariamente mista, tanto da far pensare che le barriere interposte all'incrocio e alla fusione si riscontrassero più nelle singole città di Terraferma che nella Dominante.
Una delle antiche prerogative delle città soggette di Terraferma che di regola i capitoli con Venezia si preoccupavano di tutelare era il controllo sul rispettivo entroterra, controllo che le élites urbane consideravano base imprescindibile della propria posizione e autonomia. Gli approvvigionamenti, i privilegi fiscali, la sicurezza, l'onore, tutto dipendeva dalla capacità di una città di dominare la campagna su cui si stendeva lo sguardo dalle sue mura. Valeva soprattutto per l'élite terriera, ma era anche un'istanza emotiva dell'intera popolazione urbana, composta in larga parte da gente originaria della campagna. Questo controllo consentiva di tenere bassi i prezzi dei generi alimentari, di proteggere le industrie urbane dalla concorrenza locale, di gestire i mercati locali; e in quel controllo trovavano impiego e reddito i notai e i piccoli funzionari.
Siamo ormai abituati a vedere nella politica veneziana relativamente a questo aspetto della conquista della Terraferma - la presa di possesso delle campagne - un elemento di eccezionalità rispetto a quanto avveniva a Firenze o a Milano. La conservazione dello status quo, il riconoscimento dei tradizionali poteri esercitati dalle città lombarde su un vasto entroterra, l'apparente disinteresse per il controllo diretto delle campagne: queste sarebbero le caratteristiche peculiari del dominio veneziano. Un indirizzo che non può sorprendere, dato che le risorse di personale non consentivano una presa di possesso più capillare; un ritegno reso tanto più indispensabile dalla preoccupazione di non provocare opposizioni o risentimenti nelle élites locali. Nel primo Quattrocento i patrizi veneziani avevano ben poca esperienza personale dei problemi del potere nelle campagne: la soluzione più ovvia consisteva nel lasciarlo nelle mani di chi li conosceva bene.
C'è molto di vero in questa immagine piuttosto distaccata dell'atteggiamento veneziano; e il contrasto rispetto all'impostazione iniziale dei Fiorentini, che separarono le maggiori città toscane dai loro contadi, creando giurisdizioni locali direttamente dipendenti da Firenze, o rispetto alla folla di funzionari ducali che controllavano lo Stato visconteo, balza subito all'occhio. Nondimeno, quel distacco, e quel contrasto, non risultano tanto netti quanto si sarebbe indotti a ritenere da una visione d'insieme. Non si trattò semplicemente di attendere che fosse il tempo stesso a consolidare la presenza di Venezia, con l'acquisto di estese proprietà da parte di Veneziani, e con la pressione dei patrizi poveri che chiedevano incarichi pubblici; lo stesso quadro iniziale era più complesso di quanto non risulti da questa facile generalizzazione (100).
Il sistema signorile, a Padova, a Verona, a Brescia, aveva creato nelle campagne una grande varietà di giurisdizioni. Le stesse famiglie signorili avevano creato vaste tenute demaniali sulle quali esercitavano un controllo diretto. I funzionari che amministravano le campagne erano sia emissari dei signori che dei comuni, con i quali il potere signorile aveva stretto una sorta di patto di coesistenza. Alle famiglie più potenti erano state offerte giurisdizioni private nella forma di feudi col "mero et mixto imperio ", e con obblighi di omaggio e servizio ridotti al minimo. La situazione creata da Venezia nel Trevigiano, di cui si è già parlato, era per molti versi un assetto ereditato; senza dubbio con il dominio veneziano l'autorità comunale nelle campagne fu ridimensionata, ma si trattò più di uno spostamento di equilibri che di un ribaltamento della situazione.
I casi più estremi di situazioni preesistenti in cui il predominio urbano sulle campagne era incompleto si davano in Friuli. Qui erano poche le città che avessero imposto un certo controllo al proprio entroterra; le campagne erano dominate dai feudatari - i quali rendevano omaggio direttamente all'imperatore o al patriarca di Aquileia, e non ai signori o alle comunità locali. Venezia prese atto di questo status quo patteggiando con i feudatari, come i Savorgnan, e ponendo a capo della sua struttura amministrativa non un podestà di Udine, bensì un luogotenente della Patria del Friuli (101).
Anche altrove in Terraferma l'approccio fu per forza di cose flessibile. Nelle zone più vicine a Venezia è sicuramente rilevabile un sistema di controllo più stretto, come già abbiamo visto nel caso di Treviso: se anche sotto il dominio veneziano la città di Verona continuò a inviare ad amministrare il territorio ventidue vicari eletti a livello locale, e Brescia ventuno, i vicari eletti da Padova per il suo entroterra erano solo sei (102). Ne deduciamo che la città e la sua élite conservarono il controllo di una parte relativamente esigua del Padovano, mentre i podestà veneziani le sostituivano in molti centri minori, e altri Veneziani acquistavano ampie porzioni delle antiche proprietà carraresi.
Allontanandosi da Venezia la sopravvivenza, e anzi l'estensione, del potere locale sulle campagne diveniva più evidente. Nel Bresciano e nel Veronese le podesterie erano relativamente poche, e i feudi - quelli di più antica fondazione come quelli recentemente concessi ai condottieri più fedeli - erano in genere situati nelle zone di frontiera (103). La giurisdizione dei podestà di Verona e di Brescia e dei tribunali comunali si estendeva su un'ampia parte della campagna, e sulle podesterie minori. L'assegnazione e la riscossione delle tasse spettavano alle autorità dei capoluoghi. A Vicenza Venezia difese risolutamente i diritti dei cittadini sul contado, e più volte respinse le petizioni delle comunità locali che chiedevano di essere affrancate dalle spesso inique imposizioni dell'élite vicentina (104). In queste zone, comunque, erano acquartierati grossi contingenti dell'esercito, e se erano relativamente pochi i funzionari veneziani residenti nelle campagne, sempre più numerosi erano invece gli approvvigionatori e i commissari di ogni tipo che si intromettevano negli affari locali, imponendo nuovi oneri alla popolazione rurale.
Come abbiamo già visto, l'amministrazione della giustizia e la tutela della legge e dell'ordine in Terraferma erano compito dei podestà veneziani. Ma quale giustizia, e quale legge? In buona parte dell'Italia settentrionale vigeva il diritto comune, e i giuristi di diritto romano godevano di grande prestigio. Il diritto veneto, invece, era basato sulla giustizia naturale e sull'equità; aveva precedenti propri, ma dipendeva in larga misura dall'arbitrio. È un contrasto, questo, sul quale ha gettato molta luce il lavoro magistrale di Gaetano Cozzi e dei suoi allievi, che domina incontrastato in questo settore dei rapporti tra Venezia e la Terraferma (105).
Nel primo Quattrocento era alquanto raro che un podestà veneziano avesse esperienza di diritto romano; e anzi, uno dei principi dell'organizzazione giudiziaria veneziana stava nel fatto che i giudici erano esponenti del ceto politico che svolgevano a rotazione le funzioni giudiziarie. Il podestà era dunque un arbitro, ma il codice cui faceva riferimento derivava dal diritto romano e dallo statuto locale. Lo assistevano giuristi provenienti da altre città del Dominio, e gli era indispensabile la collaborazione di giuristi e giudici locali. I podestà, comunque, non tardarono ad acquisire la necessaria esperienza occupando la carica in una successione di città di Terraferma, e nella seconda metà del secolo era assai più frequente che fossero laureati in giurisprudenza all'Università di Padova.
Le evidenti anomalie del sistema potevano dunque essere superate attraverso un giudizioso confronto di codici e precedenti rapportati alla situazione locale. Il diritto veneto divenne una delle fonti per i tribunali del Dominio veneziano, ma in nessun senso è ammissibile sostenere che la sua vigenza venisse estesa all'intero Stato.
Il modo più ovvio per imporre un minimo di coerenza a un sistema giudiziario in rapida espansione consisteva nell'accentramento della giurisdizione d'appello. Se tutti gli appelli dovevano far capo a Venezia, ne sarebbe derivato un impulso irresistibile alla diffusione dei codici e delle procedure veneziane in tutta la Terraferma. Una tendenza in questa direzione è riscontrabile, ma non vi fu alcuno sforzo sistematico per imporre uniformità alla giustizia per questa via. Il primo organismo costituito ex novo per la Terraferma fu l'ufficio degli auditori nuovi, nel 1410. Dovevano istruire i processi d'appello per quella regione, ma anche accogliere le lagnanze contro la condotta e le procedure dei funzionari veneziani. Bastava questa duplice funzione per ridurre l'efficacia del loro ruolo di giudici d'appello, e anche il vincolo che li obbligava a conformare il giudizio agli statuti locali - cioè a fare riferimento alle stesse fonti in base alle quali era stato emesso il giudizio di primo grado -, per quanto del tutto logico, rendeva estremamente improbabile che questa magistratura potesse contribuire in modo significativo ad imporre centralizzazione e uniformità. La carica non era tra quelle di prestigio: erano mal pagati e oberati di lavoro, e la loro influenza entrò ben presto in declino (106).
In molti casi, peraltro, il diritto di appello ai giudizi dei tribunali locali si fermava al livello del podestà e dei suoi giudici. Nulla fu fatto, insomma, per far convergere su Venezia la totalità degli appelli, e quelli che riuscivano ad arrivarvi finivano in genere alla quarantia, un'altra magistratura costretta ad espandersi per far fronte ai casi sempre più numerosi che venivano dalla Terraferma. Nel 1441 fu creata una seconda quarantia, con una ripartizione delle diverse funzioni tra quarantia civil e quarantia criminal. Ma le procedure erano lente e impacciate, e sorprendentemente inefficienti. I lunghi rinvii moltiplicavano i costi per gli appellanti, e molti procedimenti si interrompevano per la morte o la scomparsa dei testimoni. Anche altri consigli avevano diritto di accogliere taluni appelli; nella fase iniziale persino il doge e i suoi consiglieri esercitavano la giurisdizione d'appello su certi casi. L'insistente pretesa che persino a Venezia gli appelli venissero giudicati in base ai codici e agli statuti utilizzati in primo grado creò ogni sorta di problemi ai giuristi veneziani, travolti dall'affannoso tentativo di padroneggiare le infinite sfumature del diritto di Terraferma (107).
Com'era inevitabile, ne derivò una tendenza a scoraggiare, in senso positivo e negativo, gli appelli a Venezia: i consigli, esasperati, rimproveravano agli auditori nuovi i troppi appelli irrilevanti cui essi davano corso; mentre i potenziali appellanti perdevano ogni fiducia in un sistema tanto inefficace.
Marvin Becker ha sostenuto che una delle priorià dell'espansione dello Stato fiorentino tra il tardo Trecento e il primo Quattrocento fu il reperimento di denaro, e in effetti Firenze arrivò rapidamente, con il catasto del 1427, a una redistribuzione uniforme degli oneri fiscali in tutto il suo dominio (108). Sarebbe ovviamente ingenuo sostenere che il profitto non fosse uno degli obiettivi che mossero Venezia all'espansione nell'entroterra, ma si rimane comunque colpiti dall'iniziale esitazione di fronte ad ogni interferenza nelle politiche e nei meccanismi fiscali delle città assoggettate. Si tratta di una tendenza in linea con quanto abbiamo detto più sopra, ma ciononostante nel corso del secolo XV, e soprattutto in seguito all'aumento dei costi della difesa, l'impegno di Venezia nel coordinamento dell'amministrazione e della gestione del potere in tutta la Terraferma diviene più evidente e insistito nel campo fiscale che in altri ambiti.
Il principio cui si informava inizialmente la politica fiscale veneziana in Terraferma consisteva nel far pagare alle singole città e al loro entroterra i costi della difesa e dell'amministrazione, convogliando poi verso Venezia le eventuali eccedenze (109). I salari dei funzionari veneziani, il costo delle ambasciate a Venezia, la manutenzione delle fortificazioni e il costo delle guarnigioni ricadevano sulle spalle della comunità locale. Per far fronte a queste spese le tesorerie locali attingevano a un'ampia serie di fonti consuetudinarie, e in particolare ai "dazi", diritti doganali e pedaggi interni che fornivano il settanta per cento circa del loro reddito, alle rendite delle proprietà e dei servizi comunali e agli introiti delle sanzioni giudiziarie. I capitoli e i privilegi concordati originariamente con ciascuna città imponevano la supervisione veneziana alle finanze locali, ma lasciavano la distribuzione degli oneri fiscali e la riscossione delle imposte alla discrezione dei funzionari locali. Venezia si impegnava a non imporre nuove tasse, e le comunità accettavano l'obbligo di versare i fondi in eccedenza alle tesorerie della capitale. Nella fase iniziale quest'ultimo impegno diede risultati assai diversificati da una città all'altra: il ricco Padovano, difeso in modo relativamente esiguo poiché era nel cuore dello Stato, offriva una rendita assai superiore a quella di Verona o del Friuli. In questa fase, comunque, il guadagno fu cospicuo, come sottolineava il doge Mocenigo nelle sue orazioni del 1422-1423. Tanto più che per Venezia i benefici finanziari non venivano soltanto dall'accumulazione dei profitti delle tesorerie locali. Il monopolio della distribuzione del sale, già imposto di fatto a buona parte della Terraferma prima dell'occupazione formale, divenne più efficace e redditizio. L'attività degli auditori nuovi e delle altre corti d'appello cominciò a convogliare verso Venezia una parte dei profitti della giustizia. La vendita delle proprietà carraresi e scaligere, e di altri feudi, fu un'altra cornucopia per le tesorerie veneziane. E infine, il monopolio della moneta imposto dalla Zecca veneziana come passo indispensabile nella formazione di uno Stato più vasto produsse anche ulteriori guadagni. Il monopolio non portò di fatto a una moneta uniforme, poiché la Zecca veneziana prese a battere monete diverse per ciascuna delle città di Terraferma, distinguendole con le immagini di santi o stemmi del luogo, ma questa concessione alle suscettibilità locali non influì certo sulle rendite finanziarie che derivavano dal monopolio (110).
L'introduzione nel 1417 della tassazione diretta con la "dadia delle lanze", specificamente destinata all'esercito, fu comunque il segno di un clima diverso. Nel 1412 era stato chiesto a Padova di sostenere il costo di cento lance destinate al Friuli, e dunque non alla difesa della città o del suo territorio, e con la nuova imposta generale fu chiaro a tutti che alle comunità del Dominio sarebbe stato richiesto di contribuire non soltanto alla propria difesa, ma a quella dell'intero Stato. Nei primi anni della sua applicazione la "dadia delle lanze" fruttò somme equivalenti al cinquanta per cento della rendita normale delle città di Terraferma, e in tempo di guerra, quando l'esercito era concentrato in zone specifiche dello Stato, il denaro andava trasferito da una provincia all'altra, al seguito delle truppe. Tutto questo richiedeva la creazione di un meccanismo di controllo centrale, anche se ormai erano scomparse le eccedenze destinate a Venezia (111).
Con gli anni Quaranta questo movimento di fondi e il loro avvio verso obiettivi essenzialmente "centralistici" veniva in parte organizzato dai provveditori sopra le camere. In larga misura, però, tutto rimaneva a livello informale: i collaterali e gli ufficiali pagatori bussavano alle porte delle tesorerie locali, pretendendo il pagamento per truppe di regola acquartierate in una determinata zona ma temporaneamente trasferite altrove. L'elemento davvero costante, dato che i consigli e i funzionari locali continuavano a partecipare alla distribuzione degli oneri fiscali, era che di regola le zone rurali venivano tassate in misura più pesante che le città, e l'arrivo dei Veneziani non servì certo a sedare l'endemico malcontento generato da questa discriminazione nelle campagne. È vero che le comunità locali si rivolgevano a Venezia per ottenere immunità fiscali, e che c'era una certa propensione a concederle, ma questi provvedimenti venivano considerati come gravi prevaricazioni degli statuti, e incontravano la vigorosa opposizione delle amministrazioni urbane, sostenute in genere dai rettori veneziani.
Osservando questo aspetto relativamente poco studiato, e poco documentato, della politica di Terraferma si è costretti a concludere che, almeno nella prima metà del secolo, l'indubitabile preoccupazione veneziana di concentrare le risorse finanziarie e creare meccanismi che consentissero un impiego più efficace del reddito del nuovo Stato non produsse riforme degne di rilievo.
I fattori chiave dei rapporti tra l'economia essenzialmente commerciale di Venezia e quella del Dominio padano erano i mercati e le vie di comunicazione. Mercati per la distribuzione delle merci di lusso, e di una ridotta gamma di prodotti industriali specializzati della metropoli; vie di comunicazione verso la Lombardia e oltre le Alpi per l'esportazione, e verso Venezia per i generi alimentari e le materie prime: fin dal secolo XIII questi erano stati i nuclei dell'interesse veneziano per la Terra-ferma. Esisteva dunque negli obiettivi e negli interessi economici una continuità tale da rendere improbabile un effettivo cambiamento di indirizzo. Non si trattava, come per l'espansione di Firenze in Toscana, di soggiogare dei potenziali rivali o concorrenti economici; né, come per la determinazione milanese a impadronirsi di Genova, l'obiettivo era l'eliminazione delle barriere che ostruivano il flusso dei commerci. Venezia voleva migliorare e consolidare una situazione già esistente; quel determinato approccio ai rapporti economici non fu dunque dettato soltanto dalla natura conservatrice e anti-interventista dell'atteggiamento veneziano verso i nuovi sudditi, ma anche dalle condizioni economiche stesse (112).
Nella prima metà del Quattrocento i funzionari veneziani inviati in Terraferma con funzioni specificamente economiche erano pochi. La supervisione delle attività economiche locali, delle industrie, delle corporazioni e dei mercati rimaneva alle istituzioni e ai meccanismi tradizionali. La raccolta delle forniture per il mercato veneziano, e il loro convogliamento su Venezia, erano funzionali al mercato stesso, incoraggiati dalla conferma di un iter doganale preferenziale. La sostituzione delle famiglie signorili con i rettori veneziani impedì la possibile interruzione del libero flusso degli scambi veneziani, senza alterare in modo significativo il normale tenore di quegli scambi.
Nel 1414 fu costituita una nuova dogana a Venezia, a Rialto, per far fronte al volume crescente degli scambi con la Terraferma. Non è dimostrabile che questo provvedimento, così come l'espansione economica che ne fu il motivo, fosse un risultato diretto della creazione del nuovo Stato. Nel secolo XV l'incremento demografico fu marcato, a Venezia come in molte città del Dominio, provocando una rapida espansione degli scambi (113). Soprattutto il Friuli fu una zona in grande crescita economica a partire dagli anni Venti (114), e se pure è possibile che ciò fosse dovuto all'imposizione del controllo veneziano a una regione turbolenta, va però ricordato che altrove in Terraferma il risultato immediato dell'occupazione veneziana fu invece una guerra prolungata.
Particolarmente marcata fu l'espansione del settore industriale a Venezia, in parte come reazione diretta alle guerre che intensificarono in Arsenale la costruzione di galere e dell'intera gamma di imbarcazioni minori per le flotte fluviali, e la produzione di cannoni e altri armamenti. La domanda delle materie prime essenziali, legname e ferro, crebbe vorticosamente, tanto che si pensò anche a un monopolio di queste merci, e a limitare ogni dirottamento delle forniture verso altre città della Terraferma (115). Come per altre iniziative isolate di Venezia per la regolazione del commercio, parrebbe però che queste intenzioni avessero relativamente poca efficacia, data l'assenza di controlli e sanzioni sul campo. Anche lo sviluppo della produzione di panni lana a Venezia, che senza dubbio rende assai più sfumato il famoso punto di svolta individuato da Domenico Sella nel primo Cinquecento, provocò qualche tentativo di scoraggiare l'acquisto di stoffe straniere, o persino locali, in Terraferma, attribuendo una posizione avvantaggiata ai prodotti veneziani (116). Questi erano i meccanismi tradizionali di ogni economia dominante, ma nel caso veneziano si presentarono tardi e in modo parziale, ed ebbero a quanto pare ben pochi effetti.
La scarsa convinzione dei tentativi di intervenire sui legami commerciali tra le città soggette, e la generica tendenza a incoraggiare l'afflusso di merci verso Venezia, confermano anzi l'assenza di interesse per la strutturazione dello Stato evidente nei rapporti della Repubblica con la Terraferma nel secolo XV. Qui l'aspirazione a un'economia regionale, favorendo l'interdipendenza, fu ancor meno marcata che in Toscana.
Che dire infine degli interessi economici dei singoli veneziani? È attestata un'attiva discriminazione in favore delle aziende veneziane e della loro espansione in Terraferma, tale da far pensare a uno sfruttamento frammentato delle nuove opportunità? Le indicazioni esplicite sono molto poche, specie nelle sfere del commercio e dell'industria. La crescita della proprietà terriera veneziana è stata oggetto di molti studi, e si ritiene in genere che nel Quattrocento fosse piuttosto limitata, soprattutto nelle zone a più di cinquanta chilometri dalla laguna. Nel Trevigiano e nel Padovano le proprietà veneziane erano estese anche prima del 1405: nel 1429 centocinquantasette Veneziani dichiaravano di possedere terre nel Padovano, ma il dato non basta certo per indicare una presa di possesso sistematica (117). È possibile che questi proprietari fossero più motivati a inviare le loro eccedenze sul mercato veneziano, ma queste scelte erano di fatto dettate dal mercato, non da sentimenti patriottici. Solo in rare occasioni, come la vendita di grossi lotti di terre signorili, o l'assegnazione di feudi in posizione strategica - la vendita delle proprietà confiscate del condottiere Alvise dal Verme nel 1440, ad esempio - i Veneziani vennero attivamente incoraggiati ad acquistare in Terraferma (118). Vi concorreva anche, in modo indiretto, la diffusa pratica di riferire la valutazione della terra a fini fiscali al luogo di residenza urbano del proprietario invece che alla comunità rurale in cui le terre erano site. Data la distribuzione ineguale degli oneri fiscali, a tutto svantaggio delle campagne, i proprietari urbani di terre rurali ne traevano indubbio beneficio; ma di questo beneficio godevano i proprietari terrieri padovani e di altre città, oltre che i Veneziani. Ed era anche una grave causa di risentimento nelle campagne, e di un certo imbarazzo nei consigli veneziani, così orgogliosi del proprio senso della giustizia.
Assai più importante, nella prospettiva di un controllo sistematico della Terraferma, era il rapporto con la Chiesa, che non soltanto disponeva di un grande patrimonio terriero, in genere meglio organizzato e più redditizio delle tenute dei laici, ma occupava anche posizioni di potere e influenza delle quali non si poteva non tener conto. Venezia non fu l'unica a percepire l'assoluta imprescindibilità di un controllo il più esteso possibile sulle nomine delle gerarchie ecclesiastiche nel nuovo Stato. I vescovi erano una fonte di autorità permanente, più importanti degli stessi rettori - il cui incarico era temporaneo - per la tutela a lungo termine dell'ordine e della disciplina sociale nelle città soggette. Già nel Trecento Venezia aveva perfezionato un meccanismo che le attribuiva forte voce in capitolo nelle nomine, attraverso il sistema delle "probae": il senato esaminava e votava un elenco di candidati adatti a occupare un vescovado vacante, e il prescelto veniva presentato come candidato ufficiale all'approvazione del papa. Il sistema aveva potuto radicarsi, in parte perché nel Trecento i vescovadi in questione erano nello Stato da Mar, e dunque interessavano di fatto soltanto i Veneziani, in parte per la debolezza del papato in quel secolo, e in particolare dopo il 1378. Ma la sua applicazione a grandi vescovadi come Padova, Verona e Brescia assumeva tutt'altro significato, e non tardò a produrre attriti col rinascente papato del Quattrocento. Nell'arco di pochi mesi dall'occupazione veneziana di Verona il vescovo in carica, Giacomo Rossi, fu costretto a dimettersi per i suoi legami con i Visconti, e Angelo Barbarigo fu scelto dal senato per sostituirlo. L'anno dopo il papa autorizzò la traslazione di Albano Michiel da Corfù alla sede vacante di Padova, e nel 1409 un altro patrizio veneziano, Pietro Emiliani, divenne vescovo di Vicenza (119). Il sistema venne applicato, con notevole successo, per tutto il corso del secolo: su centoundici vescovi nominati nelle dodici diocesi della Terraferma tra il 1405 e il 1550, ottantasei erano patrizi veneziani (120). Solo otto di quei vescovi erano sudditi veneziani di Terraferma, e la determinazione di Venezia ad assumere il controllo del massimo numero possibile di vescovadi avrebbe suscitato forti risentimenti nelle famiglie patrizie dell'entroterra, che in passato avevano occupato alte cariche ecclesiastiche.
Anche i più importanti benefici di Terraferma, e soprattutto i monasteri e i conventi più ricchi e potenti, furono oggetto di un attivo interesse veneziano, non soltanto a conferma dell'influenza sociale ed economica esercitata da quelle istituzioni nelle rispettive sfere locali, ma anche come passaggio importante nelle carriere di un nuovo gruppo di ecclesiastici nel patriziato veneziano, destinati ad occupare poi le sedi episcopali più strategiche.
L'importanza del controllo sulle massime nomine ecclesiastiche nel processo di consolidamento dello Stato era ben nota da tempo in Francia e in Inghilterra, e anche Firenze e Milano, impegnate come altri in Italia nella creazione di uno Stato regionale, ne erano pienamente consapevoli. A Venezia, però, si trattò di qualcosa di più dell'efficiente applicazione di un indirizzo largamente condiviso: c'era un interesse genuino per il benessere spirituale dei sudditi, e l'assunzione di una responsabilità nella tutela dell'ortodossia e della disciplina religiosa nella Chiesa veneziana, intesa ora in senso più ampio. Il senato si interessava ormai anche di garantire la qualità del clero, e di tutelare il patrimonio della Chiesa nel Dominio; era contrario agli appelli a Roma, e non avrebbe tardato a interferire nell'autonoma attività di quegli stessi vescovi veneziani che tanto aveva fatto per collocare nelle sedi di Terraferma (121).
Nonostante la maggiore omogeneità della politica veneziana nella sfera religiosa rispetto ad altri settori, nella vita della Chiesa di Terraferma rimanevano però ampi spazi per l'iniziativa locale. I consigli locali conservavano diritti di supervisione sui monasteri e le istituzioni di carità, i tribunali locali tenevano costantemente d'occhio i parametri delle giurisdizioni ecclesiastiche, e l'osservanza religiosa pubblica rimaneva tra le più importanti responsabilità delle autorità politiche locali. Nelle singole città sopravviveva, in buona misura, il senso della Chiesa locale. Anche se il vescovo era un veneziano, e anche se gli indirizzi di azione e di condotta venivano fissati dai decreti del senato, e sempre più spesso del consiglio dei dieci, la maggioranza del clero continuava ad essere costituita da Padovani, o Vicentini, o Bresciani, e le situazioni che essi si trovavano ad affrontare erano essenzialmente determinate dalle circostanze locali (122).
Da quanto abbiamo detto sinora, risulta evidente che per comprendere la natura del rapporto tra Venezia e il suo nuovo Stato di Terraferma nel Quattrocento occorre soffermarsi tanto sulle personalità e i legami personali quanto sui tanti studi dettagliati e approfonditi delle istituzioni, dei decreti e degli statuti attualmente in corso. I singoli rettori o vescovi veneziani dipendevano tanto dall'esperienza e dai rapporti personali con i magistrati e i funzionari locali che li circondavano, quanto dalle piccole "famiglie" al loro seguito e dalle istruzioni frammentarie e spesso contraddittorie che li assillavano dal centro. Il fatto che sia possibile identificare in ciascuna generazione di patrizi veneziani un ristretto gruppo di uomini che cercavano con particolare insistenza le cariche in Terraferma, sia politiche che militari, e che questo gruppo abbia nessi evidenti con altri patrizi che occuparono per molti anni i vescovadi e altre alte cariche ecclesiastiche nella stessa regione, attribuisce valore ulteriore a questa prospettiva. I contatti e le amicizie locali di uomini come Andrea Giuliano, Francesco Barbaro, Ludovico Foscarini e Jacopo Antonio Marcello andavano dai condottieri e capitani generali, agli esponenti di spicco delle élites locali, ai notai e agli avvocati che li accompagnavano, o che a loro si rivolgevano nei tribunali (123). Attraverso questi contatti assorbivano una conoscenza approfondita dei problemi dello Stato di Terraferma, della sua natura frazionata, delle fazioni, della sua vulnerabilità, degli orgogli e pregiudizi locali, e della cultura tutta della Terraferma, più classicista, più umanistica, più europea di quella veneziana. È stato detto che l'accesso alla Terraferma, e soprattutto alla proprietà terriera in quella regione, rappresentò per il patriziato veneziano una sorta di maturazione all'aristocrazia, un debutto nella società cavalleresca, cortese, in parte feudale, delle classi nobiliari europee. Nel lungo periodo questa generalizzazione non è priva di validità, ma nel contesto quattrocentesco, quando la proprietà terriera veneziana nell'entroterra era ancora un fenomeno limitato, l'atteggiamento dell'élite veneziana fu influenzato soprattutto dal contatto con la rodata esperienza nell'amministrazione pubblica e nelle relazioni interstatali della gente di Terraferma. Uomini come Barbaro e Foscarini assorbirono l'umanesimo non soltanto dall'insegnamento dei classicisti e dalla conversazione con gli eruditi, ma anche dal quotidiano impegno nell'ordinamento della società, nell'imposizione della disciplina, della giustizia e della sicurezza.
La recente storiografia veneziana ha dedicato grande attenzione alla crescente domanda di cariche pubbliche coincidente con l'acuirsi delle divisioni tra nobili ricchi e poveri; il nobile impoverito era ormai una figura familiare. Si è voluto far risalire le origini del problema, esplicitamente denunciato da cronisti come Girolamo Priuli intorno al 1500, ai macroscopici traumi economici del tardo Trecento, o persino - più plausibilmente - alle differenziazioni di censo che si sviluppano in modo immediato e inevitabile all'interno di qualsiasi casta chiusa. L'accesso alle cariche in Terraferma può essere considerato come una valvola di sfogo, un modo per fornire un impiego redditizio, per quanto monotono e disagiato, ai giovani nobili. Ma così facendo si marginalizza l'importanza della Terraferma, e si sopravvaluta, forse, l'incidenza dell'impoverimento dei nobili nel secolo XV. E invece l'elemento di maggior rilievo fu proprio che la Terraferma offriva un nuovo e fondamentale cursus honorum agli strati superiori del patriziato. Sempre più spesso, nella seconda metà del Quattrocento, i futuri dogi e procuratori di San Marco si erano conquistati esperienza e reputazione nell'amministrazione del Dominio di Terra, e non per mare o nei consolati del Levante. E gli ambasciatori necessari per intrattenere nuovi e permanenti legami con gli altri stati italiani e con il mondo oltramontano provenivano dalla scuola dell'amministrazione in Terraferma, e dalle aule dell'Università di Padova.
Con la conquista dei possessi padani Venezia si vide obbligata a svolgere un ruolo a tutto tondo negli affari italiani, oltre a conservare i suoi interessi nel Mediterraneo orientale. Il periodo compreso tra il 1426 e il 1454 l'aveva trascinata nel vortice delle guerre e delle alleanze aggressive della penisola; la pace di Lodi poteva offrire alla Serenissima la possibilità di tirarsi indietro, prendendo le distanze dal mondo più pacifico, per quanto inquieto, del secondo Quattrocento. Ma il possesso della Terraferma, con un fronte a meno di una giornata di cavallo dalle mura di Milano, e una testa di ponte nello Stato pontificio a sud del Po, lo rese impossibile, sebbene questa rimanesse l'aspirazione degli uomini politici più conservatori. La pace di Lodi fu un'occasione per rimeditare, per consolidare, non certo per ritornare sui propri passi.
Traduzione di Enrico Basaglia
1. Le principali fonti per lo studio della presenza di Venezia in Terraferma prima del 1404 sono Giorgio Cracco et al., Comuni e signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Torino 1987 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VII/1), spec. pp. 161-357; Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (sett. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci (Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986), a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988; John E. Law, Rapporti di Venezia con le province di Terraferma, in AA.VV., Componenti storiche, artistiche e culturali a Venezia nei secoli XIII e XIV, Venezia 1981, pp. 78-85; Michael Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento. Proposte per una ricerca sul primo dominio veneziano a Treviso, in AA.VV., Tomaso da Modena e il suo tempo, Treviso 1980, pp. 41-78; Samuele Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, I-X, Venezia 1853-1861: II-III.
2. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 35-139; Ernesto Se-Stan, La politica veneziana nel Duecento, "Archivio Storico Italiano", 135, 1977, pp. 295-331; Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 71-79; Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953, pp. 57-83; Giovanni Soranzo, La guerra fra Venezia e la Santa Sede per il dominio di Ferrara, città di Castello 1905.
3. S. Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, III, pp. 115 ss.; Luigi Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero, "Studi Storici Veronesi", II, 1961, pp. 3-65; Jacopo Piacentino, Cronaca della guerra veneto scaligera, a cura di Luigi Simeoni, "Miscellanea di Storia Veneta", 5, 1931.
4. M. Knapton, Venezia e Treviso, passim.
5. Giuseppe Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI. L'assetto amministrativo e il sistema fiscale, Venezia 1990, pp. 8-9.
6. Sull'impatto della guerra di Chioggia si veda G. Cracco et al., Comuni e signorie, pp. 146-148; Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), pp. 4-5 (pp. 3-271); Reinhold C. Mueller, Gli effetti della guerra di Chioggia sulla vita economica e sociale,
"Ateneo Veneto ", 19, 1981, pp. 27-41.
7. Roberto Cessi, Venezia e la prima caduta dei Carraresi, "Nuovo Archivio Veneto", ser. I, 17, 1909, pp. 311-337; G. Collino, La preparazione della guerra veneto-viscontea contro i Carraresi, "Archivio Storico Lombardo", 34, 1907, pp. 209-289; Roberto Cessi, La politica veneziana di Terraferma dalla caduta dei Carraresi al lodo di Genova, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 5, 1909, pp. 127-144, 193-209; Id., Venezia neutrale nella seconda lega antiviscontea. (1392-1397), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 28, 1914, pp. 233-307.
8. Si v. qui, il luogo corrispondente alla n. 15.
9. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 16.
10. Per ulteriori dettagli sulla mobilitazione militare
si veda infra.
11. Per una discussione generale dell'impatto su Venezia della creazione dello Stato di Terraferma si vedano G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 205-230; John E. Law, The Venetian Mainland State in the Fifteenth Century, "Transactions of the Royal Historical Society", ser. VI, 2, 1992, pp. 154-174; Giuseppe Gullino, La politica veneziana di espansione in Terraferma, in Il primo dominio veneziano a Verona (1405-1509) (Atti del convegno, 16-17 settembre 1988), Venezia 1991, pp. 7-16; Angelo Ventura, Il dominio di Venezia nel Quattrocento, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, a cura di Sergio Bertelli et al., I, Firenze 1979, pp. 167-192.
12. Italo Raulich, La caduta dei Carraresi, signori di Padova, Padova 1890; Nino Valeri, L'eredità di Giangaleazzo Visconti, Torino 1978.
13. Galeazzo E Bartolomeo Gatari, Cronaca carrarese,
a cura di Antonio Medin-Giuseppe Tolomei, in R.I.S.2, XVII, 1, 1931-1948, pp. 502-503.
14. Ibid., pp. 503-507.
15. Ibid., p. 513; N. Valeri, L'eredità, pp. 132-137; James S. Grubb, Firstborn of Venice. Vicenza in the Early Renaissance State, Baltimore 1988, p. 5.
16. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 3-8; Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia 1991, p. 26.
17. Altri dettagli riguardo a questa mobilitazione in G. e B. Gatari, Cronaca, p. 531; Michael E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, pp. 33-35.
18. G. e B. Gatari, Cronaca, p. 541.
19. Cronachetta veneziana dal 1402 al 1415, a cura di Vincenzo Joppi, "Archivio Veneto", 17, 1879, p. 307 (pp. 301-325).
20. G. e B. Gatari, Cronaca, p. 551. Venezia occupava il Polesine di Rovigo dal 1395 come garanzia per un prestito, e nel corso di questa guerra ne fu temporaneamente espulsa; si vedano al proposito Roberto Cessi, Venezia, Padova e il Polesine di Rovigo, città di Castello 1904, pp. 51 ss., e Trevor Dean, Land and Power in Late Medieval Ferrara, Cambridge 1988, p. 25.
21. G. e B. Gatari, Cronaca, p. 560.
22. Ibid., p. 564.
23. Ibid., pp. 552-577; Cronachetta veneziana, p. 314; Andreae Danduli Chronica, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, pp. 403-404.
24. G. e B. Gatari, Cronaca, pp. 579-580; I. Raulich, La caduta dei Carraresi, pp. 99-106.
25. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 18.
26. John E. LAw, A New Frontier: Venice and the Trentino in the Early Fifteenth Century, "Atti dell'Accademia Roveretana degli Agiati", ser. VI, 28, 1988, pp. 159-181; Michael Knapton, Per la storia del dominio veneziano nel Trentino durante il '400: l'annessione e l'inquadramento politico-istituzionale, in Dentro lo "Scado italico": Venezia e la Terraferma tra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 187-190 (pp. 183-209).
27. Fabio Cusin, Il confine orientale d'Italia nella politica europea del XIV e XV secolo, I, Milano 1937, pp. 139-140; Gaetano Cogo, Il patriarcato di Aquileia e le aspirazioni de' Carraresi al possesso del Friuli, "Nuovo Archivio Veneto", 16, 1898, pp. 223-320.
28. F. Cusin, Il confine orientale, I, p. 219.
29. Ibid., pp. 237-238.
30. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 18-21; F. Cusin, Il confine orientale, I, p. 255.
31. Considerazioni sulla prima guerra contro gli Ungheresi in F. Cusin, Il confine orientale, I, pp. 271-294; M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 21-23; Cronachetta veneziana, pp. 319-321; Gaetano Cogo, Brunoro della Scala e l'invasione degli Ungari, "Nuovo Archivio Veneto", 5, 1893, pp. 295-332.
32. F. Cusin, Il confine orientale, I, pp. 293-307.
33. Le vicende del secondo conflitto con gli Ungheresi sono ricostruite in F. Cusin, Il confine orientale, I, pp. 307-314; M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 25 ss.; Gaetano Cogo, La sottomissione del Friuli al dominio della repubblica veneziana, "Atti dell'Accademia di Udine", ser. II, 3, 1896, pp. 7-30.
34. Anche Gorizia fu presa nel corso di questa guerra, per essere successivamente restituita ai conti, ora vassalli di Venezia: Attilio Tamaro, La Vénétie julienne et la Dalmatie, I, Rome 1918, pp. 311-314.
35. Sulle famose orazioni del doge Tommaso Mocenigo si vedano Marin Sanuto, Vite dei Duchi di Venezia, in R.I.S., XXII, 1733, coll. 946-958; I bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Enrico Besta, I, Venezia 1912, p. 95; S. Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, IV, pp. 93-95; G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 3-4, 24.
36. Su questi eventi si vedano G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 23-26; M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 47-48; Italo Raulich, La prima guerra fra i Veneziani e Filippo Maria Visconti, "Rivista Storica Italiana", 5, 1888, pp. 441-468, 661-696; Antonio Battistella, Il Conte Carmagnola, Genova 1888, pp. 93-148.
37. Carlo Pasero, Il dominio veneto fino all'incendio della Loggia (1426-1575), in AA.VV., Storia di Brescia, II, La dominazione veneta (1426-1575), Brescia 1964, pp. 3-15 (pp. 1-396).
38. Roberto Cessi, Venezia alla pace di Ferrara del 1428, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 31, 1916, pp. 32I-371.
39. Aldo Baldrighi, La battaglia navale sul Po nel 1431, "Archivio Storico Lombardo", ser. X, 3, 1977, pp. 331-336.
40. A. Battistella, Il Conte Carmagnola, pp. 339-363; M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 52-54; D. M. Bueno De Mesquita, Bussone, Francesco detto il Carmagnola, in Dizionario Biografico degli Italiani, XV, Roma 1972, pp. 582-587.
41. F. Cusin, Il confine orientale, I, pp. 386-388.
42. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 40.
43. G. Tarducci, L'alleanza Visconti-Gonzaga del 1483 contro la Repubblica veneta, "Archivio Storico Lombardo", ser. III, 11, 1899, pp. 265-329.
44. Giovanni Soranzo, L'ultima campagna del Gattamelata al servizio della Repubblica veneta (1438 40), "Archivio Veneto", ser. V, 60-61, 1957, pp. 79-114; Giuseppe Eroli, Erasmo Gattamelata da Narni, suoi monumenti e sua famiglia, Roma 1877, pp. 94-100; Cristoforo da Soldo, Cronaca, a cura di Giuseppe Brizzolara, in R.I.S.2, XXI, 3, 1938-1942, pp. 7-36.
45. Wilma Barbiani, La dominazione veneta in Ravenna, Ravenna 1927, pp. 37 ss.
46. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 57-58; M. Sanuto, Vite dei Duchi, coll. 1122-1123; Cronaca di anonimo veronese dal 1446 al 1488, a cura di Giovanni Soranzo, Venezia 1919, p. 5.
47. Francesco Cognasso, La Repubblica di S. Ambrogio, in AA.VV., Storia di Milano, VI, Il ducato visconteo e la Repubblica ambrosiana (1392-1450), Milano 1955, pp. 404-405 (pp. 387-448); M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, p. 58.
48. Luigi Rossi, Firenze e Venezia dopo la battaglia di Caravaggio, "Archivio Storico Italiano", 34, 1904, pp. 158-179; Cronaca di anonimo veronese, p. 8.
49. Le confuse vicende di quegli ultimi anni di guerra sono egregiamente descritte in Bortolo Belotti, Vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo 1923, pp. 191-246, e in Franco Catalano, La nuova signoria: Francesco Sforza, in AA.VV., Storia di Milano, VII, L'età sforzesca dal 1450 al 1500, Milano 1956, pp. 30-61 (pp. 1-224).
50. Margaret L. King, Venetian Humanism in an Âge of Patrician Domination, Princeton 1986 (trad. it. Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, I-II, Roma 1989), in particolare pp. 219-236, con profili di questi patrizi ed esauriente bibliografia nella parte seconda. Attualmente Margaret L. King sta preparando uno studio su Jacopo Antonio Marcello, di prossima pubblicazione.
51. Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, I, XXXIX. Sugli esordi dell'organizzazione militare veneziana, particolarmente significativo Aldo Settia, Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell'Italia delle città, Bologna 1993, pp. 200-239.
52. Considerazioni generali riguardo alla guerra in Italia tra ultimo Trecento e primo Quattrocento in Michael E. Mallett, Signori e mercenari: la guerra nell'Italia del Rinascimento, Bologna 1983, pp. 59-81; Corrado Vivanti, La storia politica e sociale. Dall'avvento delle signorie all'Italia spagnola, in AA.VV., Storia d'Italia, II/1, Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 323-329 (pp. 277-427); Piero Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, pp. 251-319; Luciano Pezzolo, Esercito e Stato nella prima età moderna: alcune considerazioni preliminari per una ricerca sulla Repubblica di Venezia, "Studi Veneziani", n. ser., 14, 1987, pp. 315-322 (pp. 303-322); Maria Ludovica Lenzi, Storia delle compagnie di ventura e delle signorie militari in Italia nei secoli XIV e XV, in Ead., La pace strega: guerra e società in Italia dal XIII al XVI secolo, Montepulciano 1988, pp. 77-126.
53. M. E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, p. 33, studio sul quale si fonda molto di quanto si dirà in questa sezione. Si vedano anche Michael Knapton, Guerra e finanza (1381-1508), in Gaetano Cozzi - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), pp. 275-286 (pp. 273-353); L. Pezzolo, Esercito e Stato, pp. 3 15-22; Nadia Covini, Condottieri ed eserciti permanenti negli stati italiani del XV secolo in alcuni studi recenti, "Nuova Rivista Storica", 69, 1985, pp. 329-352.
54. Dettagli sui contratti militari veneziani in questo periodo si trovano in I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. I regesti, a cura di Riccardo Predelli, I-V, Venezia 1879-1901: III. Cf. pure M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 34-37.
55. Per il recente dibattito sul fenomeno della cittadella come luogo di segregazione fortificata per le truppe si veda John E. Law, The Cittadella of Verona, in War, Culture and Society in Renaissance Venice: Essays in Honour of John Hale, a cura di David S. Chambers-Cecil H. Clough-Michael E. Mallett, London 1993, pp. 9-28.
56. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 37-38.
57. Molte condotte, comprese quelle di Carlo e Pandolfo Malatesta, sono trascritte nei Libri commemoriali, III.
58. Oltre a M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 39-43, Si veda Id., Venice and Its Condottieri, 1404 54, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 121-145.
59. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 43-46.
60. Ulteriori elementi a proposito dell'introduzione della "dadia delle lanze" e bibliografia su questa prima forma di tassazione diretta della Terraferma, infra.
61. La figura di Taddeo d'Este è al centro di un articolo recente di Franco Rossi, Taddeo e Bertoldo d'Este, condottieri al servizio della Repubblica di Venezia, "Terra d'Este", 1, 1991, pp. 35-63.
62. Per le orazioni di Mocenigo si veda supra; sui savi della Terraferma, infra. Quanto alla maggior durata delle condotte, M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, p. 47.
63. Un esame approfondito del ruolo dei collaterali nell'organizzazione militare veneziana in M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 134 ss. Per la situazione milanese, si veda Caterina Santoro, Gli uffici del dominio sforzesco, Milano 1947, pp. XXVII-XXIX.
64. Su Chiericati v. la voce di Michael E. Mallett, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIV, Roma 1980, pp. 673-674, e Giangiorgio Zorzi, Un vicentino alla corte di Paolo Il: Chierighino Chiericati e il suo " Trattatello della milizia", "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 30, 1915, pp. 369-434.
65. Sulla particolare importanza dei primi anni Trenta per l'organizzazione militare veneziana, ancora M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 148 ss. Per quanto riguarda l'organizzazione degli acquartieramenti, ibid., pp. 169 ss.
66. S. Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, IV, p. 164.
67. Sulla fanteria veneziana nella prima metà del secolo XV, M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 100 ss.; su Diotisalvi Lupi, Mario Lupi, Memorie per servire alla vita di Dietisalvi Lupi, "Miscellanea di Storia Italiana", 6, 1865, pp. 487-539
68. Angelo Angelucci, Gli schioppettieri milanesi nel secolo XV, "Politecnico", 24, 1865, p. 9.
69. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 127 ss.
70. Il contributo recente più utile sulle finanze dello Stato veneziano è nei capitoli dedicati a tale materia da M. Knapton, Guerra e finanza, pp. 301-353, in particolare le pp. 301-333 sulle spese militari. I problemi del soldo e della finanza di guerra in M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 159 ss.
71. S. Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, IV, p. 219; Bilanci generali, pp. 118-119.
72. Si ritornerà sulle politiche fiscali veneziane in Terraferma più avanti.
73. Il rapporto di Venezia con la Terraferma recentemente acquisita nel secolo XV, la natura dell'amministrazione nello Stato di Terra, e le implicazioni di questi sviluppi nella genesi dello stato moderno, sono questioni che negli ultimi vent'anni hanno suscitato un'enorme mole di dibattiti e ricerche. La letteratura particolare verrà citata nelle pagine che seguono; indichiamo per ora le analisi generali più importanti: G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 205-230; Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964 (ristampa 1992); Id., Il dominio di Venezia nel Quattrocento, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, a cura di Sergio Bertelli et al., I, Firenze 1979, pp. 167-192; Dentro lo "Stado italico". Il sistema fiscale veneto: problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di Giorgio Borelli-Paola Lanaro-Francesco Vecchiato, Verona 1982; Alfredo Viggiano, Governanti e governati: legittimità del potere ed esercizio dell'autorità sovrana nello Stato veneto della prima età moderna, Treviso 1993; Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel Dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1985, pp. 495-539; J.E. Law, The Venetian Mainland State, pp. 153-174.
74. Il debito degli storici della Terraferma nei confronti dell'opera pionieristica di Gaetano Cozzi e Angelo Ventura non verrà mai abbastanza sottolineato, ma non va dimenticato nemmeno quanto dobbiamo al lavoro di Giorgio Chittolini, dedicato soprattutto a questa categoria di problemi nello Stato milanese, ma anche nella Toscana. Si vedano in particolare La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado nei secoli XIV e XV, Torino 1979, e Signorie rurali e feudi alla fine del medioevo, in AA.VV., Comuni e Signorie: istituzioni, società e lotte per l'egemonia, Torino 1981 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, IV), pp. 591-676; Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche nell'Italia centrosettentrionale del Quattrocento, in Storia d'Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all'età contemporanea, a cura di Id.- Giovanni Miccoli, Torino 1985, pp. 149-193
75. Su Treviso si veda in particolare M. Knapton, Venezia e Treviso, passim, e G. Del Torre, Il Trevigiano.
76. G. Del Torre, Il Trevigiano, pp. 13-14.
77. Oltre alle due autorità sopra menzionate, A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 131 ss.
78. Ne sono ottimi esempi J.E. Law, Venetian Mainland State, p. 163, e alcuni dei commenti di Antonio Menniti Ippolito, che citeremo più avanti.
79. John E. Law, Verona and the Venetian State in the Fifteenth Century, "Bullettin of the Institute of Historical Research", 52, 1979, pp. 9-11 (pp. 9-22).
80. Ibid. e G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 36-37.
81. Antonio Menniti Ippolito, "Provedibitur sicut melius videbitur". Milano e Venezia nel Bresciano nel primo '400, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 26-50; Id., La dedizione di Brescia a Milano (1421) e a Venezia (1427): città suddite e distretto nello stato regionale, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I - II, Roma 1981-1985: II, pp. 17-58; Id., Le dedizioni e lo stato regionale: osservazioni sul caso veneto, "Archivio Veneto", ser. V, 166, 1986, pp. 5-30; Id., La fedeltà vicentina e Venezia. La dedizione del 1404, in AA.VV., Storia di Vicenza, III/1, L'età della Repubblica veneta (1404-1797), Vicenza 1989, pp. 29-43.
82. J.E. Law, Verona and the Venetian State, p. 14, e Id., Verona e il dominio veneziano: gli inizi, in Il primo dominio veneziano a Verona (1405-1509) (Atti del convegno, 16-17 settembre 1988), Venezia 1991, pp. 17-33; Benjamin Kohl, Government and Society in Renaissance Padua, "Journal of Medieval and Renaissance Studies", 2, 1972, p. 215.
83. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 212-213.
84. Cf. supra.
85. B. Kohl, Government and Society, pp. 215-217.
86. John E. Law, Venice and the " Closing" of the Veronese Constitution in 1405, "Studi Veneziani", n. ser., I, 1977, pp. 69-103. La prima enunciazione della tesi di Ventura è in Nobiltà e popolo, soprattutto alle pp. 35-52. Si veda anche Paola Lanaro Sartori, Un patriziato in formazione: l'esempio veronese del '400, in Il primo dominio veneziano a Verona (1405-1509) (Atti del convegno, 16-17 settembre 1988), Venezia 1991, pp. 35-52.
87. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 82-85.
88. A. Menniti Ippolito, La dedizione di Brescia a Milano, p. 35.
89. F. Cusin, Il confine orientale, I, pp. 319-322.
90. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 210-216.
91. Ibid., p. 211.
92. J.E. LAw, Venetian Mainland State, p. 167; J.S. Grubb, Firstborn of Venice, p. 151.
93. Sui savi della Terraferma, Andrea Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia, I-II, Roma 1937-1941: I, p. 22; Enrico Besta, Il Senato veneziano: origini, attribuzioni e riti, Venezia 1899, pp. 65-66; M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 207-209.
94. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 220-222, e M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 209 ss., forniscono informazioni generali circa l'accresciuto ruolo dei dieci nell'amministrazione della Terraferma; per un esame più dettagliato, soprattutto riferito alla seconda metà del secolo, Michael Knapton, Il consiglio dei dieci nel governo della Terraferma: un'ipotesi interpretativa per il secondo '400, in Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori (Atti del convegno), Milano 1981, pp. 41-71, nonché A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 179-274.
95. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 22, 115, 173-174.
96. Si veda, per le élites locali, A. Ventura, Nobiltà e popolo, passim; si veda inoltre Giorgio Borelli, Patriziato della Dominante e patriziato della Terraferma, in Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori (Atti del convegno), Milano 1981, pp. 79-95.
97. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, p. XIX.
98. Marino Berengo, Il governo veneziano di Ravenna, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 38-39.
99. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 224-226.
100. Oltre a G. Del Torre, Il Trevigiano, pp. 23-61, sul rapporto città-campagna nella prima metà del secolo XV si vedano, Gian Maria Varanini, Il distretto veronese nel Quattrocento: vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980, e J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 63-72.
101. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 187-222.
102. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 209-210.
103. Sull'assunzione dei feudi esistenti da parte di Venezia, e sulle nuove investiture da essa concesse, Gina Fasoli, Lineamenti di politica e legislazione feudale veneziana in terraferma, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 25, 1952, pp. 61-94; A. Ventura, Il dominio di Venezia, pp. 174-178; S. Zamperetti, I piccoli principi, passim.
104. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 71-72.
105. Si vedano in particolare Stato, società e giustizia, I-II, e Gaetano Cozzi, La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, in Id., Repubblica di Venezia e stati italiani, Torino 1982, pp. 217-318.
106. Ceferino Caro Lopez, Gli Auditori Novi e il dominio di Terraferma, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1981, pp. 259-316; A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 147-177.
107. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 136-148.
108. Marvin Becker, Florence in Transition, II, Studies in the Rise of the Territorial State, Baltimore 1968, pp. 201-250; David Herlihy-Christianne Klapisch-Zuber, Les Toscans et leurs familles: une étude du "catasto" florentin de 1427, Paris 1978, passim.
109. Sulle politiche fiscali si veda M. Knapton, Guerra e finanza, pp. 301-353, con bibliografia.
110. Reinhold C. Mueller, L'imperialismo monetario veneziano nel Quattrocento, "Società e Storia", 8, 1980, pp. 277-297; J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 116-117.
111. Bilanci generali, p. CLXXVII; Giambattista C. Giuliari, Documenti dell'antico dialetto veronese nel secolo XV (1411-72), Verona 1879, pp. 6-13; Michael Knapton, Il fisco nello stato veneziano di Terraferma tra '300 e '500: la politica delle entrate, in Il sistema fiscale veneto: problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di Giorgio Borelli-Paola Lanaro-Francesco Vecchiato, Verona 1982, pp. 32-35 (pp. 15-57).
112. Sulle relazioni economiche, G. Luzzato, Storia economica di Venezia, pp. 155-179, e G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 226-230. Per una serie di interrogativi sull'economia della Terraferma si veda M. Knapton, Venezia e Treviso, pp. 52-58.
113. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 228-229.
114. Ibid., p. 226.
115. Ibid., p. 227.
116. Domenico Sella, The Rise and Fall of the Venetian Wool Industry, in Crisis and Change in the Venetian Economy, a cura di Brian Pullan, London 1986, pp. 106-126.
117. Lesley Ling, La presenza fondiaria veneziana nel Padovano (secc. XIII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci (Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986), a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, p. 312 (pp. 305-320).
118. G.M. Varanini, Il distretto veronese, p. 110.
119. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 213.
120. A. Viggiano, Governanti e governati, p. 19.
121. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 248-251; J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 128-131.
122. Si vedano, in particolare, J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 131-133, e Giovanni Mantese, Correnti riformistiche a Vicenza nel primo Quattrocento, Vicenza 1958.
123. Su Andrea Giuliano - che tra il 1417 e il 1448 fu quasi continuativamente in Terraferma o impegnato in ambasciate - si veda Sigfrido Troilo, Andrea Giuliano, politico e letterato veneziano del Quattrocento, Firenze 1932, e M.L. King, Venetian Humanism, pp. 379-381. Su Francesco Barbaro ibid., pp. 323-325, e Percy Gothein, Francesco Barbaro (1390-1454): Friihhumanismus und Staatskunst in Venedig, Berlin 1932. Francesco Barbaro fu per sette volte rettore in Terraferma, nove volte ambasciatore e sette volte savio della Terraferma prima di passare a più alti incarichi, divenendo a suo tempo procuratore di San Marco. La carriera di Ludovico Foscarini, ricostruita da M.L. King, Venetian Humanism, pp. 374-377, contempla dieci incarichi di rettore in Terraferma, nove ambascerie e tre periodi come savio della Terraferma per approdare infine anche lui alla carica di procuratore di San Marco. Infine Jacopo Antonio Marcello fu, tra il 1438 e il 1454, per cinque volte rettore e per molto tempo provveditore presso l'esercito: cf. ibid., pp. 393-397.