La conquista e l'organizzazione dello spazio urbano
Lungo tutto il secolo XIII Venezia si propone come una città in movimento: movimento degli individui e del tessuto urbano, dei cantieri e delle istituzioni... È questa dinamica a dare senso e unità al periodo in questione, mentre l'urbanistica, ritracciata qui nell'espansione e nell'organizzazione degli spazi cittadini, ne prova l'autonomia e la coerenza. La ricerca che proponiamo non ha per oggetto i monumenti o gli stili, ma gli uomini e le pietre, i rapporti che legavano la comunità al territorio così come sono rivelati dallo spazio urbano nella sua graduale conquista e sistemazione. Nella storia di una società urbana, l'ambiente materiale non ne rappresenta riduttivamente il supporto o la cornice, né fornisce un dato opaco accessibile soltanto attraverso l'attività del gruppo volto a modellare e trasformare i luoghi della propria esistenza collettiva. Nello spazio si scoprono, seguendo una traduzione diversa da quella consentita da altre fonti o fenomeni, i ritmi demografici e le trasformazioni delle strutture sociali, i mutamenti dell'ambito politico come di quello economico.
Ora, l'espansione di Venezia nel secolo XIII costituisce un fatto centrale, immediatamente visibile, di cui è necessario sottolineare innanzitutto la ricchezza e la complessità. L'abbondanza dei documenti non ne falsa l'approccio forzando l'importanza di eventi finora poco conosciuti se non addirittura ignorati; essa propone semplicemente una lettura, seppure imperfetta e incompleta, dello slancio urbano. Un primo filo conduttore sarà dunque rintracciabile in questa espansione, in questa storia - fattuale quanto sociopolitica - della città nel suo moto di conquista del territorio. L'opera di prosciugamento, ovviamente, non prese l'avvio con il secolo XIII: tutta la storia di Venezia si è sviluppata in primo luogo intorno alla lotta quotidiana condotta contro le acque e le paludi per edificare la città in mezzo alla laguna. L'espansione urbana, malgrado le pause e le crisi, proseguì, ora più ora meno rapida, durante gli ultimi secoli del Medioevo. Ma fu proprio nel corso del Duecento che l'accelerazione dei tempi si fece vieppiù percepibile.
Dunque, all'interno di una dinamica storica di lunga durata, il secolo XIII, rivisitato tutto intero attraverso questa "marcia" della città, acquista un suo aspetto originale. Analizzare tale fenomeno caratteristico significa distinguere i tempi e gli assi di crescita, significa descrivere e valutare dei fatti nonché cogliere, insieme alle forme sociali e giuridiche della bonifica, gli agenti cronologicamente distinti dell'opera di prosciugamento, le strutture sociali e politiche della città del tempo.
Compilata negli ultimi decenni del Duecento, la cronaca di Martin da Canal (1) si apre con una rapida descrizione della città. L'autore, piegandosi alla retorica dell'elogio urbano, dichiara innanzitutto la singolarità di Venezia: "Venise est desor la marine". L'annotazione non costituisce soltanto l'evocazione, com'è d'obbligo in ogni cronaca urbana, del sito ove sorge la città, ma vale a enunciare, all'inizio delle Estoires de Venise, l'originalità dell'esistenza veneziana e il rapporto ontologico che la città intrattiene con le sue acque. Negli ultimi decenni del periodo che esaminiamo, le righe di da Canal costituiscono ben più che una delle tante manifestazioni dell'interesse di cronisti e storici di Venezia per la particolare posizione urbana della città. Esse marcano una tappa, un punto di riferimento nella cronologia, anch'essa estesa nel tempo, del costituirsi del mito. Traducono, al di là dei mutamenti politici e degli intenti particolari di questa specifica cronaca (2), il bilancio vittorioso che, alla fine del secolo XIII, la città poteva vantare nella sua espansione.
Innanzitutto, dai tempi dei primi, fragili ripari fino al conseguimento di una dimensione monumentale, Venezia conquistò il proprio spazio modificando i rapporti fra terra e paludi. Seconda singolarità, la nuova città non costruì mura. La cinta muraria - il più antico e familiare simbolo urbano - era completamente assente, e solo confine - peraltro in continua modificazione - rimase la linea di demarcazione fra terra e acqua. Lo sviluppo urbano ne fu totalmente determinato. L'originario popolamento, sfuggendo alle strette di una organizzazione spaziale antica e tenace, venne fissandosi in nuclei dispersi; e la vitalità di Rialto, nuova sede del Dogado, si tradusse in uno sciamare di comunità umane entro i confini di uno spazio in costante espansione.
Mentre per altre città l'analisi topografica associa la cronologia delle fortificazioni al ritmo dell'edificazione delle chiese, nella civitate Rivoalti dei secoli IX e X solo il succedersi delle fondazioni dei luoghi di culto rende conto dei movimenti urbanistici. È pur vero che la datazione delle chiese veneziane varia spesso a seconda delle cronache, e che la nascita del corpo urbano, così intaccata da zone d'ombra, è soggetta a una cronologia talvolta sostenuta soltanto da ipotesi; pare tuttavia certo che, nel secolo XII, la creazione della rete parrocchiale fosse stata portata a termine. Fra San Marco e San Samuele i centri si erano fatti più vicini e la densità della popolazione era in aumento. Identico fenomeno si può osservare, tanto per limitarci a qualche esempio, nei settori anticamente abitati di Luprio e della Mendigola, così come nel perimetro precedentemente definito dalle chiese di Santa Maria Formosa e dei Santi Apostoli. Ovunque la trama urbana si faceva più serrata e cominciava a forzare i limiti della frammentazione originaria (3). La spinta demografica portava alla colonizzazione di isolotti decentrati e attenuava l'isolamento delle prime chiese periferiche (4). Nel secolo XII l'attività edilizia si sviluppò soprattutto entro questi confini (5).
Nella sua concisione, questo richiamo si vuole limitare a un sommario bilancio geografico delle diverse fasi dell'insediamento. Nelle zone a contatto con la laguna, il fronte urbano progrediva a spese dell'acqua. Ma al contempo la colonizzazione andava avanti anche sul versante interno. I nuclei abitativi si moltiplicavano e le comunità sistemavano gradualmente l'intero spazio del proprio isolotto prima di raggiungere, con successive bonifiche e consolidamenti del suolo, la società parrocchiale vicina.
I primi gruppi si erano stabiliti su quelle lingue di terra emersa che la topografia lagunare chiama "tumbe" (6). Cantieri venivano aperti lungo ogni direttrice urbana dalle famiglie della nobiltà - proprietarie di zone intere della futura mappa veneziana -, dalle chiese parrocchiali e dai monasteri - largamente rappresentati in città e in laguna -, causa efficiente di una attività che sarebbe proseguita durante tutto il secolo XIII. Per rammentare un solo, significativo esempio, citeremo quel pievanus di San Pantalon, Angelo Semitecolo, promotore, a partire dal 1222, dell'opera di prosciugamento di un settore del vasto specchio d'acqua (7) che, a sud-ovest di Dorsoduro, frenava l'ampliamento degli spazi abitati.
A illustrazione della continuità delle bonifiche e a testimonianza concreta delle nuove condizioni demografiche e della pressione urbana nel secolo XIII, valga la vicenda del monastero di San Gregorio. Originariamente fondato in laguna, nel secolo IX il convento benedettino - allora intitolato a san Servolo - si trasferì sulla terraferma. Noto dopo l'819 sotto il nome dei santi Ilario e Benedetto, già prima del 1075 disponeva di vaste proprietà a Dorsoduro. Nel secolo XI, dunque, i suoi monaci si insediarono numerosi nei pressi della chiesa di San Gregorio (8), dove già all'inizio del secolo XII era stabilmente installato un cenobio. Priorato nella seconda metà del secolo, San Gregorio divenne sede unica della comunità intorno al 1249, quando le vicissitudini politiche e geografiche di quella zona di frontiera resero necessario il definitivo abbandono del monastero dei Santi Ilario e Benedetto (9). A questa data - indice di una crescita autonoma - il territorio di San Gregorio si era trasformato. Conosciuto grazie ad alcuni testi, questo isolotto di Dorsoduro mescolava nel suo spazio ridotto terra e acque. Anzi, quando nella zona meridionale del sestiere sembrerebbe già avviata l'azione di bonifica, quest'area ancora denuncia un certo ritardo; presso la chiesa e il suo portico - proprietà benedettine - si estendeva la palude di San Gregorio.
A partire dal 1200 (10) le bonifiche sono attestate in serie, sì che risulta possibile ripercorrere la crescita degli spazi edificati. Per il solo anno 1200, nell'arco di poche settimane si succedono molteplici contratti enfiteutici. Se pure vi ricorrono i nomi di alcune famiglie, quali responsabili della bonifica di singole parcelle sono indicati per lo più degli artigiani, impegnati su lotti modesti ma le cui dimensioni andavano via via aumentando. L'impresa di San Gregorio non mancava, già dall'inizio, di metodicità: guidata dal monastero, si avvaleva di uomini che, nei primi contratti, parrebbero tutti originari del confinium. Fu poi con il progresso della colonizzazione che il gruppo degli agenti allargò la propria base geografica verso le contrade prossime.
Gli atti accostano lotti spesso limitrofi, sempre vicini. Di alcuni settori siamo quindi in grado di ricostituire la topografia generale, orientata lungo i due assi di riferimento del Canal Grande, chiamato qui di preferenza canale di Rialto, e del canale della Giudecca, identificato sotto l'originario appellativo di canal Vigano. A collegare le due vie d'acqua, una trasversale, un rio che i testi, dapprima muti, designano in seguito rio di San Gregorio. La colonizzazione ebbe dunque origine lungo quel canale, che costeggiava un passaggio terrestre pubblico largo sette piedi. All'interno della contrada, leggermente spostato verso il Canal Grande, assumeva caratteristiche proprie un nucleo urbano comprendente il monastero, la chiesa e l'orto. Anche in questa direzione progredì la conquista.
Al primo fronte, calamitato dal canale parrocchiale principale, se ne aggiunsero altri due, il primo dei quali a ridosso del Canal Grande. Negli anni successivi al 1230, l'urbanizzazione era andata procedendo dal primo centro abitato verso i limiti estremi della contrada. Il polo monastico si rafforzò ulteriormente quando, a partire dal 1230, iniziò a essere lottizzato il campo di San Gregorio, un vasto appezzamento alle dipendenze della chiesa. Non si trattava allora di bonificare ma di costruire. La successione degli accordi e l'incedere dei lavori evidenziano gli elementi di strutturazione dello spazio: una calle principale, alcuni vicoli ad essa connessi e un pozzo nella parte non edificata del campo.
Alla metà del secolo XIII si aprì un terzo fronte, che interessava le zone comprese fra un rio, il cui tracciato si perdeva nelle paludi, e il canal Vigano. Insomma, la conquista pareva aver raggiunto il canale della Giudecca. Gli sforzi vennero quindi spostandosi sui limiti meridionali della parrocchia. Si drenò il suolo fangoso e si aprì un "rio nuovo", al limitare fra l'acquitrino e le terre prosciugate, attestato nel 1256; venne approntata una nuova via pubblica, di larghezza pari a quella tracciata lungo il rio di San Gregorio; si aprirono, man mano che se ne presentava la necessità, calli pubbliche secondarie. Il vocabolario dei contratti riflette la lenta e difficoltosa vittoria dell'urbanizzazione sui primi cantieri, e il richiamo ad acque stagnanti non si ripresenta che nelle zone prossime al canale della Giudecca, e solo per qualche anno ancora.
Attaccata e frammentata, la palude principale oppose comunque una lunga resistenza. Il fatto che venisse menzionata ancora nel tardo secolo XIII - 1263, 1268, 1278, 1280, 1292... - evidenzia la durata dell'impresa e la relativa asprezza dell'ambiente. Essa sembra solo negli ultimi anni del Duecento definitivamente domata dalla colonizzazione interna; ogni riferimento ad essa scomparve. Eppure l'acqua c'era ancora nei pressi del canale della Giudecca, ma anche qui l'ultimo terzo del secolo segnò la riduzione della superficie allagata. I lavori rallentarono; nella sua globalità, l'opera era stata un successo. Certo, ancora nel secolo XIV persistevano alcuni tratti d'acqua o acquitrini in prossimità delle case ma, ormai residuali o periferici, non costituivano altro che il ricordo di una realtà superata.
Man mano che il terreno si solidificava, mutava anche la fisionomia del confinium. Alla lottizzazione fecero inizialmente seguito leggere costruzioni in legno, assai comuni fino al volgere del secolo XIII. Tuttavia, già dopo il 1262 cominciò a guadagnare spazio una differente tipologia costruttiva: la casa di pietra. Consolidato infine il suolo, in perfetta coincidenza cronologica con le ultime colmate, il patrimonio immobiliare si trasformò. Il numero crescente di nuove attestazioni dimostra come, fra il monastero e il rio, tal genere di edifici venisse rapidamente generalizzandosi. Un denso reticolo di vie terrestri accompagnava il progredire dell'edificazione, mentre drenaggi e riporti di materiale avevano, in un primo tempo, organizzato il sistema delle vie d'acqua.
Nel secolo XIII la contrada di San Gregorio, da modesto nucleo iniziale fra paludi e stagni, acquisì in capo a sette o otto decenni ben altre dimensioni; raggiunse e spinse più avanti le proprie frontiere naturali, prosciugò le terre interne inondate e organizzò lo spazio conquistato. Il monastero lottizzò dunque il fondo, come prova la nutrita sequenza dei contratti di bonifica e di costruzione. Così assestata, nel secolo XIV la forma urbana della contrada si trovò a essere modificata solo in misura minima. E nel successivo lo sviluppo del territorio comportò bensì un nuovo avvio, ma di dimensioni ridotte, non interessando che un tratto del canale della Giudecca.
Se il caso di San Gregorio rende conto delle iniziative, via via più ampie, condotte dagli stabilimenti ecclesiastici, a maggior ragione vale a illustrare, con un esame approfondito, i nuovi assi geografici della conquista urbana nonché, conseguentemente alla vitalità demografica del secolo XIII, la vivacità dell'espansione sulla riva destra come su tutti i confini, al di là di un centro già strutturato fra Rialto e San Marco. Per i secoli precedenti, sarebbe stata piuttosto la sistemazione del settore di San Zaccaria (11) a esemplificare meglio l'opera di bonifica portata avanti dai monasteri. Ma lo stesso accostamento dei due casi prova la realtà geografica della conquista e, con lo spostamento dei fronti della colonizzazione, il vigore del popolamento delle zone limitanee, caratteristico di quel periodo.
Mentre San Gregorio manteneva, pur su nuovi confini, il ruolo tradizionale degli stabilimenti benedettini, l'insediamento degli ordini mendicanti rappresentò un fenomeno innovatore e gravido di conseguenze per l'equilibrio reciproco dei quartieri cittadini e per l'urbanizzazione delle due rive del Canal Grande. Gli effetti della fondazione dei diversi conventi si manifestarono in maniera diseguale: l'azione di bonifica da essi intrapresa urtava talvolta contro la rapida avanzata delle vicine terre risanate e si opponeva ai diritti e agli interessi delle parrocchie circostanti. La posizione più o meno periferica spiega i caratteri propri di ciascuna sede; ma l'appoggio di cui beneficiavano gli ordini mendicanti, accordato con larghezza dall'autorità dogale e dalle famiglie aristocratiche, li portò a essere protagonisti nella storia dell'espansione urbana.
Si possono sottoporre ad analisi alcuni modelli atti a chiarire al contempo la trasformazione di talune zone cittadine e la costruzione delle sedi di questi ordini. I contratti e i passaggi di proprietà che, conservati sistematicamente dal 1206, descrivono la geografia sociale, immobiliare e religiosa delle contrade di San Tomà, di San Giacomo dell'Orio, di San Stin e perfino di San Pantalon ignorano la sistemazione primitiva dei francescani, né specificano il sito esatto della cappella o la sua posizione all'interno di una topografia generale per altri versi nota. Fra le aree primitive del popolamento di Luprio e di Dorsoduro, si allungava una vasta zona paludosa, affrontata in primo tempo dalla parte di San Giacomo dell'Orio. Nei primi decenni del secolo XIII, benché la sistemazione avesse già preso l'avvio, gli stagni e gli acquitrini condizionavano pur sempre la morfologia di queste parrocchie (12).
Nel 1234 Giovanni Badoer fece dono ai frati minori (13) di una proprietà sita al confine fra le contrade di San Stin e di San Tomà e sottoposta a quest'ultima parrocchia. L'appezzamento di terreno, lungo centosettantaquattro piedi e largo cento, venne edificato nel corso dell'anno, giustapposto a un fianco della chiesa dei Frari. Da allora i francescani proseguirono in una tenace politica di estensione delle proprie pertinenze nel corso della quale autonome acquisizioni vennero a rafforzare le donazioni. A San Tomà come a San Stin i frati entrarono in possesso di lotti già interrati e continuarono nell'attività di prosciugamento. Il "lago dei Frari", che nell'ultimo terzo del Duecento separava Santa Maria Gloriosa dei Frari dall'ospedale di San Giovanni Evangelista, fu così colmato, ma l'interramento di un rio scatenò con la chiesa di San Pantalon un conflitto sintomatico delle lotte sostenute sullo scorcio del secolo intorno ai terreni da bonificare, testimonianza dei ripetuti scontri con il clero parrocchiale.
Se, per la prossimità alle terre vergini e alle acque, l'edificazione della prima cappella francescana ai margini di San Tomà seguì le caratteristiche, più volte accertate, di una installazione mendicante periferica, ciò non fa automaticamente dell'ordine minorita un protagonista decisivo delle bonifiche. Il suolo cittadino fu creato, altrettanto se non in misura maggiore, da privati cittadini e da secolari. I francescani non fecero che favorire una fase di sviluppo già avviata (14).
Divergente, invece, l'esempio del convento domenicano. A nord della città i padri predicatori aprirono a loro volta una frontiera. Il doge Giacomo Tiepolo, nel giugno del 1234, cedette ai domenicani una "nosta pecia de terra aqua superlabente" a Santa Maria Formosa (15). A Padova come a Venezia l'ordine era giunto prima dell'ottobre del 1226, trovando in laguna, grazie al favore dogale, sede definitiva. La caratteristica primitiva del terreno concesso ai domenicani, a cavallo delle contrade di Santa Maria Formosa e di Santa Marina, ricorda la posizione iniziale dei Frari nonché la frequenza di un'aureola acquitrinosa ai margini delle parrocchie. Ma qui, ai limiti di Santa Maria Formosa, la terra instabile era inondata: l'acqua assediava la concessione.
Tre testi risalenti al 1278 permettono di misurare la progressione della bonifica e delle costruzioni (16). Indubbiamente i predicatori catalizzarono il primo popolamento attorno alla loro chiesa, rappresentando su confini allora inospitali un punto di cristallizzazione; la loro pionieristica bonifica assume pertanto un significato determinante. Se a loro si deve la prima realizzazione, il movimento proseguì poi con i prosciugamenti sistematicamente condotti dai proprietari privati, tanto che le attività connesse alla lavorazione del legno sono attestate, a partire da quegli anni, un po' dappertutto in questa zona della contrada (17). I risanamenti a ovest del rio dei Santi Giovanni e Paolo, e così pure le numerose altre opere di bonifica realizzate a nord della Barbaria de le Tole, confermano l'esistenza di una colonizzazione attiva su tutto il fronte lagunare.
Se i francescani rafforzarono a San Tomà uno degli assi della montata urbanizzatrice, i domenicani inaugurarono un vero e proprio cantiere. Di più, durante la prima ondata di fondazioni, la maggior parte dei nuovi stabilimenti corrispondeva, con l'eccezione di Santa Maria dei Servi (18), al modello proposto dai padri predicatori. Ne fornisce un chiaro esempio il sestiere di Castello. Il margine settentrionale era già stato aggredito dai domenicani, l'espansione si sviluppava ora anche verso est.
Il futuro papa Gregorio IX, di passaggio per Venezia dopo il suo soggiorno in Lombardia (19), persuase Pietro Ziani a costruire una chiesa in onore di santa Maria di Gerusalemme. Là dove si ergeva una vecchia chiesa, nel bel mezzo degli acquitrini, il doge fece edificare verso il 1224 il convento comunemente chiamato in laguna Santa Maria della Vergine, che, nel 1239, avrebbe ricevuto l'autorizzazione a espandersi nella palude di San Pietro di Castello. Il santuario faceva rivivere un antico e dimenticato luogo santo, ricreando al contempo nello spazio veneziano il tempio di Gerusalemme, allora nelle mani degli Infedeli. Esempio eloquente, esso svela i caratteri generali della bonifica, che non soltanto costituiva un processo di conquista, ma esprimeva anche la tendenza a una ricerca di costruzione e di identificazione urbana. Il modello della città di Dio faceva dunque sentire tutto il suo peso, conferendo senso all'impresa. Fra Santa Maria della Celestia e San Pietro di Castello era stato fissato un primo punto base. La città avanzava verso est.
Il movimento proseguiva. Nella contrada di San Pietro di Castello gli eremitani di Sant'Agostino avevano acquisito nel 1242 un lembo di terra compreso fra la palude e il rio di Castello. L'acquisto dell'appezzamento limitrofo, realizzato l'anno successivo, ne conferma l'insediamento. Alla fine del secolo, gli eremitani abbandonarono i bordi del rio per la nuova sede di Santo Stefano, nel cuore stesso della città. Se con il trasferimento nel sestiere di San Marco gli agostiniani avevano seguito la tendenza degli ordini mendicanti - spesso osservata - a una seconda e più centrale sistemazione, la testa di ponte di Sant'Anna non era meno attiva. Il convento così intitolato fu venduto ai benedettini, che vi si stabilirono nel 1297 (20). Intorno ad alcuni poli, la conquista urbana avviava l'opera di bonifica; e, seppure la prima sistemazione del sestiere di Castello proseguisse, nell'arco di quasi un secolo, fino agli anni iniziali del secolo XIV, la marginalizzazione dei confini orientali venne attenuandosi grazie all'insediamento delle comunità mendicanti.
Un fenomeno analogo si osserva anche sul limite settentrionale. I frati sacchini si erano stabiliti all'estremità nord della città, su uno di quegli isolotti che a lungo i Veneziani considerarono separati dal corpo cittadino, soglia di passaggio fra Rialto e Murano. Il monastero e l'ospedale di Santa Maria dei Crociferi erano stati fondati un secolo innanzi nella contrada di Santa Sofia; fu dunque su un appezzamento di terra "aqua super labente" venduta dai crociferi che, nel 1254, si sistemarono i sacchini. Dimora, la loro, che non poté segnare a lungo il paesaggio poiché l'ordine venne soppresso nel 1274, in occasione del secondo concilio di Lione. Ma negli anni successivi una comunità femminile agostiniana venne a stabilirsi in quella sede, sotto il nome di Santa Caterina dei Sacchi (21). Testamenti generosi e acquisti nelle parrocchie limitrofe, che ne incrementarono il patrimonio fondiario, provano il favore almeno locale di cui godette.
Sul versante settentrionale le opere per il collegamento degli isolotti decentrati, mediante la creazione di una stabile linea di contatto fra la terra e l'acqua, si prolungarono fino al tardo secolo XV. Progressione lenta, ma tenace e spettacolare; la crescita del perimetro conobbe, dopo l'insediamento di Santa Caterina, un'indubbia accelerazione e l'espansione si volse a nord e verso la laguna, volta a unire gli spazi abitati.
Su queste stesse frontiere, ove la conquista avanzò a partire dal rio della Misericordia, la storia dell'espansione si svolse secondo una cronologia più o meno simile a quella di Santa Caterina. Le prime fondamenta, corrispondenti peraltro a una fase assai approssimativa dell'occupazione del territorio, vennero rinforzate. Era il segnale di una tappa ulteriore e più attiva della colonizzazione.
Gli esempi sono molteplici. L'estremità occidentale della città, dove, dopo il 1237, l'istituzione di Santa Chiara consolidò una delle aggettate della mappa veneziana (22); o il fronte di Santa Margherita, sul quale i carmelitani ebbero un ruolo determinante: presto sostenuti dai proprietari laici della parrocchia, i frati fecero progredire il margine meridionale della colonizzazione (23).
Nell'insieme, l'apporto degli ordini mendicanti al progresso delle bonifiche fu senz'altro ragguardevole; disseminate le loro case, in meno di un secolo la loro presenza sconvolse l'economia interna dei quartieri e la morfologia di una città dall'urbanizzazione discontinua. E l'operosità mendicante innervò quel secolo centrale della crescita veneziana, di cui i cantieri aperti un po' dovunque negli anni 1220-1230 riflettono lo slancio formidabile. Per un verso le reticenze o le resistenze delle strutture ecclesiastiche preesistenti all'installazione dei nuovi ordini all'interno delle parrocchie centrali, dall'altro gl'intendimenti dogali e le motivazioni pastorali determinarono agli esordi del secolo XIII condizioni tali per cui i mendicanti poterono aprire nuove frontiere o facilitarne la conquista, e rafforzarsi essi stessi nel corso dei decenni successivi all'espansione. Sebbene occorra distinguere le conseguenze del loro insediamento a seconda dei quartieri e delle date di fondazione, la creazione della nuova geografia conventuale in ogni caso rappresenta una stazione essenziale nella storia dello sviluppo urbano.
Mentre, a conti fatti, fino alla metà del secolo il potere politico era intervenuto in misura appena parziale nei cantieri di prosciugamento, gli anni successivi al 1250 segnarono una svolta nell'evoluzione delle bonifiche. Il comune riaffermò i propri diritti sul dominio delle acque. Fatte salve prerogative particolari, era al comune che appartenevano fra Grado e Cavarzere - vale a dire entro i confini del Dogado - acque e paludi. Una concessione pubblica avrebbe dovuto, da ora in poi, giustificare qualsiasi prosciugamento.
In pochi decenni fu realizzato il nuovo sistema di controllo pubblico. Nel 1254, riprendendo un atto precedente non pervenutoci, il maggior consiglio demandò alla facoltà del doge, affiancato dal suo consiglio, l'attribuzione dei lotti negli acquitrini a sud-est della Giudecca (24). Nel 1281, poi, i capi dei quaranta si affiancarono al doge e ai consiglieri nelle decisioni riguardanti le vicine acque di San Giorgio. Se il fatto rende manifesti i limiti posti all'autorità dogale, conferma nondimeno la tutela pubblica sull'area palustre. Il primo dispositivo generale venne messo a punto nel 1297, con precauzioni più rigide.
Dopo tale data, nessuna terra o acqua nel Dogado avrebbe potuto essere assegnata senza che la donazione effettuata dai pubblici poteri fosse confermata per iscritto e i confini accuratamente stabiliti (25). Centrale nel sistema, venne creata nel 1282 una nuova magistratura super publicis (26). I tre ufficiali eletti nel 1283, cui furono attribuite vaste competenze, formavano la corte del piovego incaricata della tutela del demanio nella totalità della sua estensione geografica e giuridica, nonché della custodia di tutti i beni comunali, d'acqua e di terra.
Da allora in poi le bonifiche sottostarono all'azione congiunta di tre agenti: il comune, i magistrati del piovego e i "vicini", cioè i proprietari della contrada.
La procedura per gratiam - pratica corrente nel diritto amministrativo veneziano - regolamentava l'attribuzione dei lotti da risanare (27). Nell'ambito dei nuovi orientamenti storiografici che, contro il mito dell'eccellenza del governo lagunare, da alcuni decenni tendono a evidenziare piuttosto le smagliature del sistema, la procedura per gratiam è stata sottoposta a una rilettura particolare (28). Tale analisi tende a definire principalmente la grazia come una struttura di patrocinio al servizio del patriziato. Che i legami di sangue, di alleanza, di affari, di "amicizia" o i rapporti di vicinato potessero facilitare il corso amministrativo fino al conseguimento della grazia stessa pare evidente; ma a tutt'oggi le decine di migliaia di casi elencati appunto nei registri delle grazie non hanno costituito l'oggetto di uno studio sistematico. Soltanto l'analisi precisa delle categorie dei privilegi così accordati e dei loro beneficiari sociali può render conto della complessità della procedura e delle molteplici funzioni che poteva contemporaneamente assumere.
L'analisi dettagliata dei registri delle grazie concesse dal maggior consiglio consente di porre all'attenzione una constatazione essenziale: l'evidente diversità degli agenti della bonifica. Il "quod fiat gratia de aqua sive palude" conglobava di fatto, più che patrocini individuali, l'azione spesso coordinata dei "vicini" della contrada. La consultazione del gruppo dei proprietari si faceva sentire in tutte le fasi dell'operazione. Il riferimento alla comunità dei "vicini" serviva a giustificare la domanda della grazia, mentre le dimensioni delle precedenti concessioni influivano sulla misura di quelle da attribuire. Non di rado il permesso comunale veniva perfino accordato alla comunità dei "vicini". La forza dell'impulso locale variava a seconda dei casi ma, al di là della portata dei lavori, ridotti o radicali che fossero, i "vicini" erano sempre presenti. Allo stesso modo i magistrati del piovego intervenivano in ogni stadio delle operazioni, sorvegliandone il progredire e i procedimenti tecnici usati, ispezionando o misurando i terreni, decidendo, controllando, giudicando e, talvolta, punendo.
Così trasformate, le nuove strutture della bonifica furono messe a punto negli ultimi decenni del secolo, anche se il completo controllo dell'espansione urbana da parte del potere politico si fece sentire con un certo ritardo. Nel silenzio stesso delle fonti si può leggere una qualche resistenza alle costrizioni derivanti dal nuovo sistema: praticamente il Novus Liber delle grazie - il primo registro conservato della serie - che copre il periodo 1299-1305, non contiene concessioni di terre da bonificare. I primi libri del maggior consiglio, benché abbiano elaborato l'apparato teorico descritto, quasi non riportano esempi di bonifiche. Previsto nella seconda metà del secolo XIII, il prosciugamento della Giudecca Nuova non sarà realizzato che nei primi decenni del XIV. Va detto però che negli anni successivi al 1310 le serie delle concessioni pubbliche si fecero frequenti, attestando il buon funzionamento della conquista sotto la pubblica tutela.
Se tale scarto nei tempi va segnalato, non meno clamorosa risulta la rottura avvenuta nella seconda metà del secolo, quando il comune di Venezia si dimostrò capace di elaborare e imporre gradualmente un nuovo modello giuridico, amministrativo, politico e sociale di bonifica. Nel perdurare delle usurpazioni e delle colmate selvagge, il sistema soffriva di evidenti imperfezioni e l'apparato comunale dovette più volte piegarsi. Ciononostante si rivelò notevole la resistenza delle strutture che rimasero immutate fino agli ultimi anni del secolo XV. L'espansione urbana passava sotto il controllo pubblico.
All'inizio del secolo XIV le prime serie delle grazie provano, con le loro citazioni di lavori precedenti, l'esistenza di alcuni fronti attivi da più decenni. Uno di essi riguardava il confine settentrionale; e quando si trattava di concessioni a nord della Barbaria de le Tole o nei pressi di Santa Caterina dei Sacchi, la bonifica pubblica seguiva all'azione dei conventi. A Santa Lucia e a San Marziale, le parrocchie periferiche progredivano verso ovest e verso nord. Rimanevano ancora aperti i cantieri nelle contrade di Sant'Angelo Raffaele e di San Basegio, alle prese con i loro acquitrini. È dunque possibile fare un bilancio della situazione a partire dal confronto delle varie informazioni.
Benché la demografia veneziana sia conosciuta in modo piuttosto vago, dalle indicazioni delle cronache si può ricavare che, negli anni precedenti il 1330, gli abitanti superavano di poco le centomila unità. Secondo un modello generale, la crescita della popolazione veneziana raggiunse il suo apice alla fine del secolo XIII.
Prima della peste nera, i primi anni del secolo XIV segnarono, a Venezia come altrove, un assestamento. Il calendario delle bonifiche serve dunque a precisare la realtà di quell'impennata dell'incremento demografico. Il quadro dell'agglomerato, un primo spazio continuo articolato lungo il Canal Grande fra Rialto e San Marco, circondato da una corona di comunità più decentrate, esplose nel secolo XIII, periodo in cui furono bonificate una parte consistente delle terre vergini. La città avanzò a Dorsoduro, a Santa Croce, a Cannaregio, a Castello. Al di là di questi veri e propri fronti pionieri, le altre trasformazioni portate a termine, per quanto poco spettacolari, testimoniano il progredire in densità e compattezza della trama urbana. Nelle parrocchie centrali, a San Samuele, San Maurizio e San Salvador, gli acquitrini erano ormai prosciugati e le "piscine" colmate.
Così ricostituita nelle sue fasi successive e in talune tra le più significative realizzazioni, l'espansione urbana conferisce unità al XIII secolo veneziano. Il moto di conquista animava la città ma, oltre tale procedura di estensione, ai suoi ritmi e forme, si impose l'intervento - ben presto determinante - del potere comunale nell'organizzazione cittadina; ed ecco il secondo fenomeno fondamentale della storia del periodo in questione.
Gradualmente, dunque, il comune si cimentava nella gestione dello sviluppo dell'organismo urbano. Il controllo delle bonifiche non rappresentava che uno degli aspetti di tale intervento crescente e multiforme. A partire dalla seconda metà del secolo XIII, i rapporti dell'istanza pubblica con lo spazio mutarono. L'azione del potere politico rappresentava ormai un fatto primario, dalla cui analisi si possono ricavare le caratteristiche politiche e sociali, nonché urbane, di quegli anni.
Poche, rapide immagini varranno come esempi tali da tradurre la realtà della condotta comunale.
Taluni perimetri, compresi nell'ambito cittadino, furono creati o rimodellati dall'attività pubblica; a San Marco, a Rialto, sulla riva del porto, si aprirono gli spazi della politica e dell'economia. Potremmo dire, più in generale, che Venezia prese forma attraverso tali interventi. L'analisi sarà dunque volta alla descrizione di tali trasformazioni, nell'intento di precisarne la cronologia e di misurarne gli effetti sulla città.
Questa si era organizzata intorno a due centri. Lo spazio pubblico, San Marco innanzitutto, si formò con la civitas. Nel secondo decennio del secolo IX, il palazzo Ducale si innalzava di fronte al bacino lagunare mentre la basilica, prolungamento del primitivo edificio, si era sviluppata verso l'interno. Gli spazi circostanti andavano strutturandosi attorno ai due monumenti. Più complesso pare il caso del mercato di Rialto che, nella sua originaria posizione - sulla curva del Canal Grande, ma sulla riva sinistra - e malgrado le sue installazioni e attività, evidentemente modeste, sembra tuttavia si differenziasse presto dagli altri centri di scambio. La donazione effettuata dagli Orio nel 1097 al potere dogale e al popolo delle botteghe e del mercato ne accelerò l'evoluzione. Il passaggio al pubblico dominio significò un clamoroso sviluppo delle funzioni precedenti, come pure la definizione di Rialto quale secondo centro d'interesse cittadino. Si stava dunque affermando un secondo spazio decisionale e di riferimento via via che le magistrature economiche - trasferite o istituite nel quadro del processo di perfezionamento dell'apparato amministrativo - si installavano a Rialto.
La sistemazione della Piazza, fra prosciugamenti e aggiunte, occupò diversi secoli, in quanto le funzioni del Palazzo e della basilica ne frenarono per qualche tempo l'autonoma compiutezza morfologica. Ma in seguito fu proprio la Piazza a ordinare e unificare la creazione dello spazio urbano, guidandone e prefigurandone i progressi materiali ed esprimendone il senso e la realtà simbolici. Lo spazio di San Marco affermava e rivelava la città. Quanto a Rialto, la donazione Orio, con i rischi che essa induceva ma anche con il riconoscimento dell'autorità civile, fu alla base della dissociazione delle sedi economiche da quelle politiche. Il potere accettò e accentuò tale partizione spaziale e organizzò le funzioni e l'irraggiamento di Rialto come polo.
Quando la Piazza, unificata, assurse a nuova dignità, l'isola di Rialto acquistò un'individualità via via più distinta. Erano dunque due i processi paralleli operanti in città, e di cui va tuttavia sottolineato lo sfasamento cronologico. Dopo l'opera di Sebastiano Ziani, la Piazza si immobilizzò in una struttura piuttosto rigida; a Rialto, in conseguenza dell'adattamento alle necessità commerciali, i lavori proseguirono con un vigore disuguale, come divergenti erano le date e la relativa ampiezza delle concezioni. La Piazza, spazio originale che anticipava i trionfi del comune e le fortune della città, si impose; il mercato si ridefinì con una lentezza maggiore, con una successione di soluzioni meno ardite, più in accordo con le necessità urbane che in anticipo sui tempi.
Dalla metà del secolo XIII ai primi decenni del secolo successivo, il comune diresse, in perfetta coincidenza, molteplici lavori relativi alla riva portuale e al mercato di Rialto. Il potere politico traeva le conseguenze delle nuove funzioni economiche della città; l'autorità pubblica intendeva farsi carico della sistemazione degli spazi indispensabili per gli scambi.
L'Arsenale, già largamente attestato all'inizio del secolo XIII (29), ma la cui creazione risaliva a qualche anno prima, alla fine del secolo si era dimostrato uno strumento efficace, supporto e mezzo di un intervento ormai sviluppato nel Mediterraneo. Benché non detenesse alcun monopolio - gli "squeri" privati assicuravano una produzione notevole, indispensabile per l'armamento commerciale -, per la sua attività, sottoposta all'autorità dei patroni Arsenatus, fu fatto oggetto di scelta nelle prime decisioni urbane del comune. Nel calendario delle infrastrutture determinate dall'attività marinara, il cantiere comunale costituiva il punto di riferimento cronologico e geografico su cui si orientava l'analisi degli adattamenti urbani. Fondato all'estremità orientale dell'agglomerato, in mezzo agli acquitrini, l'Arsenale disponeva di riserve di spazio e beneficiava di una relativa vicinanza alla riva lagunare meridionale. Quando la costruzione navale si fissò nel sestiere di Castello, il nuovo cantiere abbisognò della bonifica di distese ancora in larga parte paludose. Necessario alle esigenze di uno spazio commerciale allargato, strumento politico ed economico al servizio di un comune in trasformazione, agente di popolamento e di urbanizzazione, l'Arsenale costituì ben più di una semplice risposta alle esigenze della città portuale. Assicurando un ruolo decisivo per la formazione della zona di Castello, fu partecipe della creazione urbana.
Alla foce del canale che collega Venezia al passo navigabile litoraneo di San Nicolò, la riva meridionale confermava certo, da subito, il suo orientamento marittimo. Tali funzioni, l'importanza della zona nel traffico delle imbarcazioni come pure nelle comunicazioni via terra spiegano, nella seconda metà del secolo XIII, i ripetuti interventi del potere comunale e la costituzione materiale e giuridica della riva che ne risultava. Contro i monaci di San Zaccaria che affermavano i propri diritti sulla sezione della riva che andava fino al rio della Bragora, i magistrati del piovego, decidendo in favore della libera circolazione e dell'utilizzo pubblico, ordinarono la sistemazione della banchina. Il maggior consiglio poi, contrapponendosi nel 1247 alla famiglia Gabrieli, impose la nozione di spazio pubblico. Il potere comunale venne ancora una volta a patti e, riconoscendo la forza delle rivendicazioni private, accordò ai Gabrieli e agli altri frontisti il diritto a un agevole accesso all'acqua tramite scale (30).
Tali concessioni, rivelatrici di un'autorità che si limitava ancora a imporre unicamente l'essenziale, dimostrano, nello scontro di interessi contraddittori, l'importanza della posta in gioco e il ruolo tenuto dalla riva nell'economia urbana. Due decenni più tardi, l'apparente continuità dell'asse è provata da un testo: "la via che va da San Giovanni in Bragora a San Marco attraverso la riva"; e - ricordando le necessità di una comunicazione agevole - il divieto di "scaldarvi la pece, piantarvi pali, depositarvi ancore" (31) sottolinea la presenza, notevole lungo tutto il fronte lagunare, di attività di carico e di scarico, di costruzioni e di riparazioni navali. La prossimità della prima dogana veneziana alla parrocchia di San Biagio e l'esistenza di magazzini di sale nella stessa contrada definivano ulteriormente il perimetro.
Quando, alla fine del secolo, la città sviluppò fra Rialto e San Marco una urbanizzazione continua, le funzioni portuali definivano un quartiere ancora relativamente periferico. Sulla riva di San Giovanni in Bragora e di San Biagio esse rafforzarono e caratterizzarono alcune parrocchie di antica fondazione, accelerando il processo di integrazione delle vie di comunicazione, con un anticipo di vari decenni sulla cronologia generale di tale movimento, ed entrando di peso con l'Arsenale nel più vasto processo della conquista del suolo. Su una riva che si presentava dapprima discontinua e frammentata dagli indebiti interventi dei privati e dal taglio di numerosi rii, il comune impose una certa unità, dando la precedenza alla circolazione, alla pubblica agibilità della sponda, ai collegamenti terrestri e all'accesso. Così facendo confermò al supporto urbano la sua vocazione portuale e cominciò a definire il porto come spazio pubblico.
Queste prime manifestazioni di politica urbana impegnarono anche un secondo spazio: l'interesse si andava concentrando sull'isola di Rialto e l'identità assoluta delle decisioni avvicinò le due zone urbane. A Rialto come sulla riva di San Giovanni in Bragora il comune delimitò e protesse uno spazio pubblico. Nel 1256 si colmò, si pavimentò e si collegò al Canale la palude di San Matteo, che bloccava l'espansione del mercato (32). Nel 1260 si demolirono i muri e le costruzioni che restringevano la via del deposito delle farine (33); si sgombrò la riva a partire dal ponte fino al fondaco delle farine e, nel contempo, si garantì un facile attracco. Nel 1266 si diede inizio ai lavori destinati a permettere al mercato l'accesso verso l'interno e a collegare l'asse terrestre principale, la "ruga maistra" alle parrocchie limitrofe di Sant'Aponal e San Silvestro. Nel 1288 il maggior consiglio avviò - tentativo più volte ripreso - un'opera di chiarificazione dei punti di vendita, al fine di tracciare in campo San Giacomo, fra la chiesa, la loggia e il ponte, il circuito ideale del grande commercio (34).
Sull'acqua, considerando solo una modesta sezione del Canal Grande, il traffico e i punti di sbarco risultavano ormai ben ordinati.
All'interno di tale perimetro le autorità sperimentarono quei primi tentativi di ordine urbano che sarebbero poi stati applicati al resto della città. Ma la riva portuale e l'isola di Rialto non erano paragonabili solamente per tale unità di trattamento che le metteva al servizio delle stesse finalità economiche e politiche. Si può dire che l'esistenza dell'organismo urbano dipendesse dal riconoscimento dello spazio pubblico. La realizzazione del destino economico, fosse o meno proclamato esplicitamente nei testi che regolamentavano l'organizzazione veneziana, passava attraverso il dominio comunale del territorio.
Al di fuori dei suddetti settori modellati dalla città e che ne creavano la nuova organizzazione urbanistica, lo spazio pubblico dovette la sua penetrazione al sistema dei collegamenti. Patrimonio comune, indispensabile alla circolazione durante i primi secoli, nel XIII il tessuto dei rii era di competenza essenzialmente pubblica. La circolazione era libera sui canali principali quando ancora, a Rialto, una parte della rete rimaneva privata. I prosciugamenti successivi però ricostituirono in profondità l'organizzazione dei canali e le pressioni esercitate dal gruppo ne resero generale l'uso collettivo. Le vie indispensabili alla comunicazione tra i differenti isolotti urbani, tutti i rii intitolati al santo protettore della società parrocchiale erano comunitari, e, a partire dagli ultimi decenni del secolo XIII, la forza vincente di un principio e la ormai indiscussa riappropriazione pubblica delle acque e delle zone acquitrinose abusivamente occupate vennero comprovate dai processi promossi dalla corte del piovego per restituire all'uso pubblico paludi e bacini occupati abusivamente. Profondamente modificato dall'azione umana che aveva riempito i rii e ne aveva aperti altri, la rete dei canali dava forma alla configurazione della città, ne assicurava la principale circolazione e, nonostante un relativo declino, la manteneva in funzione. Sottolineava inoltre, nella sua forma e nelle sue rappresentazioni, l'orgogliosa singolarità della città.
La politica di manutenzione e di preservazione permette di delimitare la stessa sequenza cronologica già osservata. Negli ultimi decenni del secolo XIII si era avviata una fase di tutela dell'ambiente acquatico. Primo asse preventivo o repressivo, la garanzia della libera circolazione. Tale prescrizione, temperata da numerose concessioni, esprimeva ben più della lotta contro sconfinamenti e usurpazioni o dello scontro tra pubblico e privato; essa segnava, con i problemi del luogo, una delle difficoltà principali nella storia della città. A Venezia era necessario salvaguardare l'ambiente, ma anche conciliare tale difesa con gli imperativi della crescita urbana e dello sviluppo delle attività marinare e artigianali.
Si comprende così la disposizione che, a partire dal 1293, tendeva ad allontanare gli intagliatori di pietre di almeno due passi dalle rive (35). Una simile analisi va condotta riguardo alla legislazione portuale. All'inizio del 1293, il maggior consiglio isolò due settori d'acqua, gli accessi della punta della Trinità e alla stessa altezza il tronco del Canal Grande, ove vigeva l'interdizione di caricare e scaricare zavorra, di riparare navi, galere, banzoni e tarette (36). Poche settimane più tardi, le navi che scaricavano il sale furono esentate dal divieto (37). Se le ammende, già in precedenza abbassate, variavano nel 1299 secondo la stazza della nave, l'interdizione sussisteva nelle sue linee generali (38), mentre un atto contemporaneo riaffermava, negli stessi limiti, il divieto del calafataggio. Nella pratica, tuttavia, la fermezza non era così assoluta.
La preoccupazione del regolamento coincideva così con la coscienza della fragilità dell'ambiente, e tentativi di preservarlo furono sperimentati fin dagli ultimi anni del secolo XIII giungendo, nei limiti del bacino di San Marco - il cuore stesso delle acque cittadine -, a un effettivo vigore. I testi insistono sull'unicità della situazione veneziana e dell'alleanza tra la città e l'acqua ma, nella gerarchia delle determinazioni, il timore del degrado ambientale cede ancora con regolarità di fronte alla speranza del profitto, alla forza degli imprenditori nonché alle esigenze del traffico e delle attività industriali.
Allo stesso modo le fonti permettono di delimitare i contorni di alcuni cantieri siti sui canali. Contro gli interramenti e il loro regolare progredire, il comune disponeva ormai i necessari interventi di ripulitura; la cura dei canali era una delle principali competenze degli ufficiali "supra rivos et piscinas". Dall'attestazione nei documenti alle tracce concrete degli interventi il passaggio fu rapido. Il maggior consiglio, decidendo nel 1272 di procedere congiuntamente al rifacimento delle rive e allo scavo dei canali, confermò la stretta interdipendenza tra i diversi elementi dell'ambiente. Una decisione della stessa assemblea regolò, tre anni più tardi, le modalità di finanziamento delle opere di pulizia e suddivise le spese tra rivieraschi e comune (39). Tali misure operative rinviavano a lavori in corso di cui ignoriamo sia le dimensioni che le connotazioni geografiche. Nel 1299 la signoria elesse, in ciascuno dei sestieri, tre uomini "soprastantes ad faciendum cavari rivos". I magistrati permanenti conservavano la propria giurisdizione ma, tre volte alla settimana, i succitati ufficiali straordinari ispezionavano il territorio di loro competenza decidendo le opere di manutenzione (40). Da tali differenti annotazioni risaltano distintamente le attività dei cantieri, sicuramente numerosi in quegli anni in cui, in ogni settore della politica urbana, l'azione pubblica si trovava a disporre di particolare forza.
Alla prima rete di comunicazioni, il comune volle aggiungerne una seconda, formata da vie di terra. In quest'ambito l'acquisito era già sostanziale; i documenti, pur senza autorizzare una valutazione precisa per quartieri, lasciano intendere una generale coesistenza dei due sistemi. Gli atti di Santa Maria Formosa provano che, sebbene nel secolo XII le calli private fossero acquistate, vendute e impegnate al pari degli altri immobili, alcune di esse erano già raccordate a una calle pubblica. Ogni parrocchia aveva approntato dei collegamenti principali e garantito l'accesso alla chiesa e al campo. L'urbanizzazione, la spinta demografica e i mutamenti in corso nelle strutture familiari provocavano il frazionamento delle grandi proprietà e dunque i nuovi lotti potevano rimanere privi dell'accesso alla via d'acqua. L'antico sistema esplose e la via di terra permise l'apertura dei fondi interclusi. Altrove, la bonifica impose più agevolmente di collegare a un sistema terrestre gli appezzamenti conquistati. L'autorità politica operò dunque su questo primo fronte. Nelle zone ad alta densità come in quelle della colonizzazione, l'azione comunale mirò a generalizzare la realtà materiale e giuridica della via pubblica. Si aprirono dunque varchi, si procedette a trasformazioni, allargamenti e pavimentazioni. Un testo del 1271 segnala i lavori ordinati "in viis aptandis" (41). Se gli sforzi dedicati alla viabilità proseguirono nei primi decenni del secolo XIV come a ogni ripresa dell'espansione urbana, le delibere dei primi registri del maggior consiglio ebbero un carattere fondativo. È dunque possibile distinguere una svolta nella storia del tessuto urbano. Il comune non ha inventato la via pubblica, ma l'ha diffusa e migliorata.
Traiamo un primo esempio dai documenti. Nel 1269 si sarebbe dovuto pavimentare la Merceria, da San Marco a Rialto (42), ma la delibera rimase senza effetto. Difatti nel 1272 il maggior consiglio votò un testo esemplare e ordinò una serie di lavori lungo quest'asse terrestre centrale (43). Il progetto prevedeva la pavimentazione della via e ordinava, oltre alla distruzione preventiva delle tettoie sporgenti sul passaggio, la posa di grondaie su tutte le case. Le proprietà di San Giorgio Maggiore, sul tratto della Merceria di San Zulian, legato dal doge Sebastiano Ziani al monastero, funsero da modello alla sistemazione prescritta. Il colare delle acque piovane nuoceva alla comodità del passaggio e, d'altra parte, la stessa durata degli edifici ne veniva minacciata. Negli stessi anni, in altri quartieri, i lavori si limitavano a rialzare il suolo viario ceduto per le inondazioni o tendevano a riunire le maglie delle differenti calli per ricavarne un iter publicus. Negli anni successivi al 1270 (44) la Merceria, concepita come un tutt'uno malgrado la sua sinuosità, fu tra i primi luoghi a conoscere una nuova sistemazione. La funzione del percorso centrale e la qualità della via pubblica stesa fra i due poli urbani giustificavano la notevole precocità dell'intervento.
Il pesante onere finanziario e il carattere eccezionale del programma spiegano l'elezione di una commissione straordinaria di savi, chiamati a decidere dei lavori di demolizione e a valutare il carico economico delle trasformazioni mentre ai signori di notte era affidata la ricerca dei contravventori. Il comune risarcì i proprietari in fasi successive. L'operazione fu finanziata con un totale di 3.000 lire. Il comune consentiva dunque un reale sforzo finanziario: una giusta contropartita alla tutela esercitata. A San Marco come a Rialto, il potere politico aveva preso in carico la trasformazione fisica e le differenti operazioni di rinnovamento, assicurando le spese di pubblico interesse nell'operazione della Merceria.
L'intervento, sistematico, interessò la via in tutta la sua lunghezza, grazie anche alla notevole mole dei crediti accordati. Al di là dell'esposizione teorica di qualche principio e dell'elaborazione astratta di un ordine ideale, le prescrizioni normative conobbero, negli ultimi decenni del secolo XIII, una effettiva applicazione di cui possiamo direttamente valutare le conseguenze entro taluni perimetri.
L'apertura della riva di San Giovanni in Bragora venne votata nel 1270, e nel 1281 (45) fu steso un atto che, a Rialto, fra il ponte e la Ca' Vidal, si proponeva di accordare la stessa libertà di passaggio tra i muri delle case e il canale. Si inseriva così in una serie normativa di primaria importanza la delibera del 1272 che, evidenziando i legami fra interventi apparentemente dispersivi e facendo nuovamente luce sui luoghi prioritari ove si sperimentavano le regole dello sviluppo urbano, introdusse alla logica tematica e cronologica delle realizzazioni comunali veneziane.
Il progredire della banchina testimonia i nuovi equilibri intervenuti nel sistema delle comunicazioni e, favorendo l'apertura delle proprietà chiuse, dimostra inoltre il peso crescente della pubblica amministrazione. La banchina, spesso in legno ancora nel secolo XIII, successivamente rifatta in pietra, sostituì la riva. Venezia non ne generalizzò mai la continuità che interrompeva l'accesso diretto al canale e rendeva complicato lo sbarco delle merci, come dimostra la distribuzione degli spazi lungo il Canal Grande imposta dalle necessità del trasporto fino ai depositi. E l'impossibilità delle comunicazioni terrestri sulle suddette rive, fatta qualche limitata eccezione, portò all'apertura di percorsi pedonali interni, paralleli all'asse dell'acqua.
Nella sua globalità, però, il peso della via d'acqua si andava riducendo e la banchina divenne progressivamente parte costitutiva del nuovo paesaggio urbano. La storia del rio veneziano è quella di un declino; indispensabile dapprima agli uomini come alle merci, alla fine del Medioevo assicurava principalmente la circolazione di queste. La diffusione della viabilità terrestre sconvolse il tessuto urbano. La banchina non si accompagnava all'insieme dei canali ma a poco a poco si andò unendo ad almeno una sponda del rio. Il comune condusse direttamente alcuni lavori, le contrade costruirono e trasformarono il paesaggio parrocchiale. Ma, dappertutto, l'autorità pubblica vegliava sul tracciato degli argini privati e ne imponeva il restauro. Valga come esempio di tali trasformazioni la parrocchia di Santa Sofia che, nel 1283, sistemò i propri confini sul Canal Grande. Sotto la responsabilità dei signori di notte furono eletti due incaricati delegati a riscuotere i contributi dei proprietari (46).
Il moltiplicarsi dei ponti, con la conseguente trasformazione dei collegamenti urbani, conferma i progressi avvenuti nel sistema di terra. Il doge e il suo consiglio proposero nel 1282 di gettare un ponte sul canale di Cannaregio (47). L'incremento demografico - e la geografia delle bonifiche lo attesta - progrediva verso la parte ovest della città. I1 canale, data la larghezza, dava luogo a una reale frattura nel tessuto urbano in formazione ma garantiva, verso Murano e verso il nord della laguna, un collegamento di primaria importanza. Provvisoria e finanziata dalla totalità del sestiere, la struttura non avrebbe dovuto durare più di un anno, cioè il tempo necessario per valutarne pregi e difetti. Malgrado la sua moderazione, il testo non fu adottato. Nel 1298, avversari e partigiani si scontrarono ancora sull'eventuale costruzione: l'aspro dibattito ci rivela le difficoltà del passaggio da un sistema di comunicazioni a un altro. Al centro della discussione, il traffico delle imbarcazioni e l'accesso alle rive, il problema dunque di conciliare le attività via acqua con quelle via terra. A Cannaregio, finalmente, come in tutta la città, il partito del ponte ebbe il sopravvento e i segni di una tale evoluzione definiscono il periodo già segnalato dall'esame di altri lavori cittadini.
I cantieri seguirono calendari variabili in accordo con i ritmi dell'urbanizzazione. Sulla riva della laguna furono approntati ben presto alcuni grandi percorsi longitudinali (48), tra cui un itinerario meridionale via terra parallelo al Canal Grande a partire da San Marco; il ponte di San Moisè poi, costruito in pietra già nel 1312 (49), completò quel primo collegamento. A partire dal secolo XIII, la zona di Rialto risultava unificata da un certo numero di vie. Il campo di Santa Maria Formosa, in posizione centrale, regolò prima di altri il flusso della circolazione verso le parrocchie vicine, mentre quello di San Bartolomeo sosteneva un ruolo sempre più nodale allo sbocco della Merceria, dominando l'accesso al ponte di Rialto (50) come anche la comunicazione con San Giovanni Grisostomo e San Lio. Anche altrove, dove l'urbanizzazione procedeva con un certo scarto di tempo - come sulla riva destra dove le vaste distese paludose rallentavano lo sviluppo -, i collegamenti all'interno di ogni parrocchia erano ormai assicurati. Con cronologie diverse, lo spazio pubblico e la coesione urbana si generalizzarono, mentre gli interventi comunali e i cantieri aperti ovunque negli ultimi decenni del secolo XIII tendevano all'abbattimento delle ultime frontiere urbane.
Supporto e mezzo di tale crescente intervento dell'autorità pubblica nella gestione della città e nell'amministrazione degli spazi, il comune creò corpi di pubblici ufficiali. L'analisi delle strutture amministrative definite nel corso del secolo XIII si rivela determinante per la comprensione della politica urbana veneziana.
La città, al semplice esame dei mandati che collazionano i testi regolamentari, manifesta una compresenza di cariche permanenti e straordinarie ma al contempo stupisce per il rigoglio dei suoi corpi di addetti ufficiali. La prima menzione di una magistratura dipendente dal pubblico demanio risale al 1224; essa cita, per la repressione dei lavori vietati, due giudici "apositi pro ripis et pro viis publicis et pro viis de canali". Nel corso di un'evoluzione che, a partire dal placito originario, portò alla moltiplicazione delle corti veneziane, la difesa della proprietà pubblica, assicurata dapprima dal doge e dal suo consiglio, passò a una magistratura permanente. Prima della metà del secolo, essa si era suddivisa in due corpi distinti per l'acqua e per la terra (51). Nel 1282 - come si è notato - fu presa la decisione di creare la nuova corte super publicis con il compito di riprendere e ampliare il mandato implicitamente affidato ai primi magistrati, riguardante la sfera del pubblico dominio nella totalità della sua estensione. La nuova magistratura, dimostratasi, pur nei limiti del dogado, di un'estrema ampiezza, si rivelò vincente e assorbì le corti destinate alla sorveglianza di particolari elementi della morfologia urbana, la via e il canale. Nel 1297 la decisione di affidare alla corte del piovego la responsabilità dei ponti segnò il completamento del suddetto processo di fusione.
Non è agevole precisare la data esatta di istituzione della magistratura dei signori di notte. Come già ebbe a scrivere Marin Sanudo, si è spesso ritenuto che esistesse già nella prima metà del secolo XIII e che fosse divenuta collegiale nel 1250, ma le manifestazioni concrete delle funzioni di quei domini non sono attestate che nella seconda parte del secolo. Non pare dunque inverosimile far risalire alla metà del secolo XIII (52) la nascita e la specializzazione della nuova magistratura, a partire dalla curia ducalis. La guardia della città venne in tal modo affidata a un corpo di ufficiali retribuiti, mentre nei loro sestieri i signori di notte continuavano a essere i responsabili dell'ordine pubblico.
Gli editti fondatori della politica urbana aggiunsero alle precedenti responsabilità nuovi compiti e i signori di notte, benché non fossero stati istituiti per dirigere i cantieri pubblici, ne ricevettero ben presto l'onere. Si nota in tale attività il segno di una confusione delle incombenze pratiche di ordinaria amministrazione nel sistema veneziano. Il ruolo assunto dai signori di notte, manifestando la necessità di realizzare l'impresa nel quartiere, di inquadrarla e di seguirne i progressi, instaurò soprattutto - a parer mio - un sistema coerente. Esprime inoltre quali legami fondamentali si trovassero alla base dei tentativi di dare un ordine alla città in mutazione. Gli uomini addetti ad assicurarlo controllarono ben presto i mutamenti degli spazi cittadini; dopo il 1300, nella via, i signori di notte dirigevano ufficialmente tutti i cantieri. Al piovego rimanevano il canale, l'acqua, i prosciugamenti e la difesa generale del dominio pubblico.
Tali giurisdizioni si suddivisero ulteriormente con l'accrescersi del peso dei capisestieri nella gestione degli spazi. Contro la tradizione storiografica che spesso non fa distinzioni fra i capisestieri del consiglio dei dieci e quelli del maggior consiglio, va provata l'esistenza di questi ultimi alla fine del secolo XIII. Tale asserzione si basa su un testo trascurato, votato nel 1272 dal maggior consiglio: esso conferiva ai capisestieri la responsabilità delle rive limitrofe dei canali e delle "piscine" da scavare e ne mostra al contempo la partecipazione allo sviluppo urbano (53). Sebbene i capi-sestieri non occupassero ancora che un rango minore, Venezia disponeva, nell'ultimo terzo del secolo XIII, dei suoi principali corpi di ufficiali.
L'importanza acquisita dalle diverse magistrature (54) nella scena urbana rende con chiarezza la potenza della germinazione in corso: città feconda, nei limiti di un periodo cronologico già ben identificato, Venezia univa la spinta demografica allo slancio urbano e al fiorire delle istituzioni. Fino ai primi anni del secolo XIV i testi, di qualsiasi natura essi siano, ci restituiscono un'immagine edificante di dinamismo, rendendo il rigoglio di un organismo urbano vivo e vincente.
L'analisi dell'espansione urbana ha orientato fin qui questo studio, come l'ha fatto, in un secondo momento, l'altro fenomeno innovatore e determinante della storia del secolo XIII: l'intervento del potere comunale sullo spazio cittadino. Attraverso la lettura spaziale qui proposta, furono dunque al contempo le condizioni demografiche della città, le nuove strutture economiche e così pure la metamorfosi delle basi e delle forme del potere a rivelarsi, in qualche modo, durante il secolo XIII.
L'analisi delle trasformazioni dello spazio veneziano ha indirettamente posto in evidenza i caratteri originali dell'organizzazione urbana. La divisione degli spazi in zone funzionali fu legata innanzitutto alla disposizione delle tre articolazioni principali di San Marco, di Rialto e dell'Arsenale. Il fenomeno si rivelò parte integrante della creazione cittadina e, regolandone lo sviluppo, costituì per la crescita dell'agglomerato un primo schema conduttore. Se i lavori intrapresi nei primi trent'anni del secolo XIV a Terranova e sulla punta della Trinità diedero completa coerenza allo spazio portuale e se, negli stessi decenni, le infrastrutture mercantili di Rialto conobbero sensibili miglioramenti, le linee di forza di una sociotopografia generale erano tuttavia nettamente percepibili già alla fine del secolo XIII. Si è mostrato come, grazie alle sistemazioni all'attivo del potere comunale, il perimetro portuale, periferico e discontinuo, tendesse a convertirsi in spazio portuale investendo, a partire dalla seconda metà del secolo XIII, tutto il bacino di San Marco e collegandosi al mercato di Rialto tramite il Canal Grande. Parimenti, dalla specializzazione dei due poli di Rialto e di San Marco, benché si debba sfumarne la spartizione delle funzioni, si ricava l'organizzazione generale degli spazi centrali veneziani.
Va allora rilevato un fenomeno determinante. In talune contrade, l'analisi monografica può, alla fine del secolo XIII, evidenziare, oltre al normale tessuto socioeconomico dei piccoli lavori del tessile, dell'alimentazione e della distribuzione al dettaglio, una più fitta concentrazione artigianale. Ma la geografia socioeconomica della città era marcata anche da tratti più originali. Se a Venezia la nozione di confine era in costante ridefinizione in seguito alle condizioni dell'espansione, la geografia dei centri e delle zone periferiche si era dilatata con altrettanta rapidità. Mentre gli sforzi di sistemazione miravano prioritariamente al cuore della città costituitasi tra Rialto e San Marco dove una prima zona residenziale si andava edificando lungo l'asse centrale del Canal Grande, l'insediamento maggioritario, diretto o spontaneo, di un'attività artigianale in un settore periferico, servì a favorire il movimento di conquista e di urbanizzazione.
Lo stoccaggio del legname nei pressi dei Santi Giovanni e Paolo, attestato dai permessi di bonifica e da vari articoli di polizia in materia di canali, catalizzò il popolamento e contribuì all'espansione e alla stabilizzazione dei terreni da quel lato della laguna. E l'insediamento dei padri predicatori rafforzò e accelerò, come si è notato, l'urbanizzazione e la crescita demografica a nord di Santa Maria Formosa.
La geografia delle vie di comunicazione e l'ampiezza delle riserve di spazi spiegano la localizzazione del commercio del legno attorno alla Barbaria de le Tole. La città diede anche l'avvio, in maniera più autoritaria, a un elementare tentativo di distribuire le arti, decentrando verso la periferia o negli isolotti intorno a Rialto le mansioni pericolose con i connessi rischi di inquinamento e di incendi. Così facendo, Venezia non diede alcuna prova di originalità e il corpus statutario dell'epoca attesta, in tutte le città dell'Italia del Nord e del Centro, un tentativo paragonabile di difesa ambientale, di protezione minimale dell'ecosistema. Similmente, il successo dell'azione normativa va moderato e il richiamo, fino alla fine del secolo XV, dei divieti emanati nel secolo precedente dà sufficiente prova dei limiti dell'azione comunale. Tali sfumature si limitano a correggere il fenomeno di investimento spaziale dei confini, operante nell'ultimo trentennio del secolo XIII, che è carattere tra i più originali dell'urbanesimo veneziano. I lavori del cuoio presero piede alla Giudecca. L'attività industriale è attestata nell'isola a partire dal 1285, data in cui gli artigiani dell'isola vennero in conflitto con i giudici del piovego che contestavano loro la libera disponibilità delle acque (55). Negli stessi anni (56), Venezia allontanò dal suo territorio i forni dell'Arte del vetro e i loro pericoli. Benché alcuni vetrai tentassero di lavorare a Rialto, l'emigrazione a Murano fu un fatto reale.
Quando le altre città isolavano fuori dalla cinta o nelle periferie i mestieri pericolosi e le attività nocive ai primi sforzi di igiene urbana messi in atto, Rialto li relegò ai confini della città o alla Giudecca o a Murano. Tale zoning rudimentale dunque rende conto al contempo delle finalità della politica urbana, delle forme assunte dallo sviluppo a Rialto e delle modalità generali dell'organizzazione dello spazio.
A grandi linee, la struttura spaziale d'insieme della città veneziana si trova così ripristinata. A tale approccio generale va associato uno studio più dettagliato dell'organizzazione del tessuto urbano, tale da riequilibrare la prospettiva e precisare le strutture sociali della città dell'epoca. Riportiamo un esempio concreto per illustrare la morfologia di una contrada e le relazioni sociali.
Alla metà del secolo XIII, il patrimonio Ziani (57), raccolto a partire dal doge Sebastiano, comprendeva un nucleo principale a Santa Giustina. Il testamento di Pietro Ziani elencava, nel 1228, una "ruga" di case a San Geminiano, una proprietà a San Giovanni di Rialto e case a San Zulian. Quello del figlio Marco vi aggiungeva dei possedimenti a San Bartolomeo, a Sant'Aponal e a Santa Maria Formosa. Fra i numerosi lasciti, il doge Pietro distingueva, come segno della sua residenza, quelli che si indirizzavano alla sua chiesa, a Santa Giustina. Con Marco, la consistenza del patrimonio pare si sia ulteriormente accresciuta all'interno di quel confinium decentrato dal rapido sviluppo, formando, alla metà del secolo, un vero e proprio complesso. Al centro innanzitutto, il palatium; raggruppato alle sue spalle, un complesso di case che si estendeva fino alla palude; vicino al campo poi, accanto alla chiesa da cui era separata da un piccolo rio, una vigna che Marco attribuiva in parte alla fondazione del convento di San Francesco. Sul campo si trovavano case d'affitto di recente costruzione e, fra queste e il palatium, altre costruzioni trasmesse in eredità, nel testamento di Marco, a parenti di nome Ziani. Come prova delle trasformazioni fatte eseguire da Marco, citiamo una "arsena", anch'essa prossima alla palude, approntata di recente. La descrizione precisava lo statuto delle case: tutte quelle non destinate alla locazione de sequentibus, erano provviste di giardino o, talvolta, di corte. E i vicini prossimi - identificabili in base a confronti o grazie alle liberalità testamentarie che li riguardano - illuminano sulla cerchia di parenti e di clientes intorno agli Ziani.
Il tessuto urbano di Santa Giustina, assolutamente discontinuo, aveva dunque conosciuto negli ultimi due o tre decenni rapidi mutamenti; la frammentazione e la parziale lottizzazione della vigna, avvenuta successivamente alla morte di Pietro, ne forniscono la prova più chiara. Effettuata sotto il controllo della famiglia, diretta da Marco che ne era a capo e dai suoi parenti prossimi, la colonizzazione del confinium di Santa Giustina si integrò nella cronologia generale delle bonifiche. Poche calli, per la maggior parte private, assicuravano i collegamenti fra i diversi elementi del complesso mentre l'accesso all'acqua e la prossimità del rio rimanevano determinanti. Il campo costituiva una superficie aperta, ancora imperfettamente definita, che sarebbe stata via via delimitata dalle nuove costruzioni.
Le strutture principali del tessuto urbano si gerarchizzarono. Se per loro stessa natura i testamenti degli Ziani non svelano che una frazione geografica e umana della parrocchia, condizionando di conseguenza l'analisi, cionondimeno lo spazio cui si faceva riferimento per l'insieme della zona pare identificabile nella corte del palatium. Il campo era pubblico ma circondato dalle proprietà degli Ziani. La "curia" equivaleva a un sito ancor più centrale: attorno al palazzo gravitavano i dipendenti, i locatari, i protetti e i vicini, mentre la presenza dei parenti rafforzava il radicamento territoriale. Espressione delle molteplici forme di potere e di influenza, l'"arsena" documentava la diversità degli investimenti della famiglia e degli orientamenti artigianali del perimetro.
L'esempio degli Ziani può dunque introdurre alla conoscenza dell'organizzazione spaziale del patrimonio immobiliare di una nobile famiglia veneziana. Un imponente complesso concentrato in una parrocchia si trovava contrapposto a beni da affittare, acquisiti mediante prestiti e transazioni dispersi in tutto il territorio cittadino. Notevole appare l'ascendente sulla parrocchia, probabilmente accentuato dalle caratteristiche stesse della contrada di Santa Giustina, periferica e ancora solo parzialmente urbanizzata. La posizione e la ricchezza degli Ziani, la solidità del loro sistema di patronato e la loro preminenza esclusiva in una parrocchia decentrata, accentuano forse ancora il vigore del loro radicamento. Nondimeno, la natura dell'assetto sociale qui manifestato può fungere da esempio per il resto della città. La struttura della corte, con tutte le sfumature del caso, organizzava il tessuto urbano, mezzo ed espressione delle solidarietà verticali, segno dell'influenza e del peso delle differenti famiglie nobiliari nei quartieri.
Se, in un moto continuo, la città di Venezia ha prosciugato e colonizzato acque e acquitrini e creato le condizioni necessarie alla sua espansione demografica e urbana, nel secolo XIII la storia urbanistica non si riduceva a tale dinamica, benché centrale. L'autorità pubblica progressivamente riaffermando il proprio diritto, dirigendo la bonifica o organizzando i perimetri centrali del potere politico e dell'attività economica, tendeva a farsi carico dell'amministrazione dell'organismo cittadino. È dunque una fase decisiva dell'adattamento della città quella che possiamo qui osservare, adattamento dello spazio e della forma urbana ai mutamenti nel sistema politico come all'evoluzione delle strutture sociali e alle necessità delle funzioni economiche. E le parole stesse degli atti pubblici con i quali si commissionavano i cantieri o si istituivano nuovi organismi ufficiali ci dicono che, attraverso la crescita urbana, la graduale sistemazione degli spazi e la ricerca di un ordine e di una estetica cittadini, era l'identità stessa del gruppo ad essere forgiata.
Traduzione di Dario Formentin
2. Si può qui fare riferimento ad alcune analisi: Gina Fasoli, La Cronique des Véniciens di Martino da Canale, "Studi Medievali", 2, 1961, pp. 42-74; Agostino Pertusi, Maistre Martino da Canal interprete cortese delle crociate e dell'ambiente veneziano del secolo XIII, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli del 1204, Firenze 1966, pp. 103-135; Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967; La storiografia veneziana fino al XVI secolo. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970.
3. Con un evidente ritardo rispetto all'altra sponda del Canal Grande, la riva destra ne offre un chiaro esempio.
4. Da notare anche, fra le fondazioni dei secoli X e XI, quelle di Santa Ternita e di Sant'Agnese.
5. Citiamo qui i casi di Santa Lucia o di San Marziale.
6. Per la colonizzazione delle "tumbe" di Luprio, possiamo segnalare anche, fra altre possibili attestazioni, la cronaca di Lorenzo de Monacis.
7. Flaminii Cornelii Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, I-XVIII, Venetiis 1749, decas 2, pp. 365-366, 368.
8. La pieve esiste almeno dal 1088. Dal 1140, la chiesa è di obbedienza monastica.
9. Giuseppe Marzemin, Le abbazie veneziane dei SS. Ilario e Benedetto e di S. Gregorio, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 23, 1912, pp. 96-162, 351-407; SS. Ilario e Benedetto e S. Gregorio (819-1199), a cura di Luigi Lanfranchi - Bianca Strina, Venezia 1965.
10. L'analisi che segue si basa sullo spoglio inedito dell'A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, S. Gregorio, b. 2.
11. Mario Piana - Francesca Cavazzana Romanelli, Archivi monastici e archeologia urbana medievale: la strutturazione dell'insula di San Zaccaria fra XI e XII secolo, in corso di pubblicazione negli Atti del convegno "Venezia e l'archeologia", maggio 1988.
12. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, Santa Maria Gloriosa dei Frari, bb. 109 e 110 (specialmente b. 110, nrr. 261 e 262).
13. Per l'insediamento dei frati minori, oltre alle indicazioni della cronaca di Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, piuttosto che alle differenti monografie consacrate a Santa Maria Gloriosa dei Frari, si farà riferimento a Francesca Cavazzana Romanelli, Il refettorio d'estate nel convento dei Frari a Venezia ora sede dell'Archivio di Stato, in Storia e restauri, "Bollettino d'Arte", Supplemento nr. 5, 1983, pp. 13-32 (pp. 11-62).
14. La seconda fondazione dei frati francescani a San Francesco della Vigna, dopo il testamento di Marco Ziani, determinò, sullo sviluppo urbano, effetti similari. Nella parrocchia di Santa Giustina, il nuovo edificio sorse su una vigna. La fondazione ha interesse per la storia dell'occupazione degli spazi, non per quella dei prosciugamenti.
15. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, SS. Giovanni e Paolo, b. B, fasc. 30, c. 1.
16. Ibid., nr. 1.
17. Per una delle prime attestazioni del toponimo di Barbaria de le Tole, datata 1331: ivi, Maggior Consiglio, Spiritus, c. 56.
18. Benché settentrionale, la fondazione di Santa Maria dei Servi si trova di fatto spostata verso l'interno della contrada di San Marziale. Gli appezzamenti man mano acquistati spesso erano edificati, in ogni caso prosciugati. Se l'insediamento dei frati serviti giovò alla strutturazione degli spazi, non portò tuttavia a una conquista territoriale alla stessa scala di altre fondazioni mendicanti (ivi, Corporazioni religiose soppresse, Santa Maria dei Servi, b. 1, cc. 1-10).
19. Secondo le indicazioni della cronaca di A. Dandolo, Chronica, p. 290.
20. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, Sant'Anna di Castello, b. 1, cc. 1-12.
21. Ibid., Santa Caterina dei Sacchi, b. 1., cc. 56, 62r-v.
22. F. Cornelii Ecclesiae Venetae, decas 9, p.160.
23. A.S.V., Corporazioni religiose soppresse, Santa Maria del Carmine, b. 1.
24. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, II, a cura di Roberto Cessi, Liber Comunis, Bologna 1931, p. 120.
25. A.S.V., Avogaria di Comun, Deliberazioni, Cerberus, c. 55.
26. O del piovego; il Codex Publicorum è stato in parte edito: Codex Publicorum (Codice del Piovego), I, (1282-1298), a cura di Bianca Lanfranchi Strina, Venezia 1985. È conservato in copia in A.S.V., Piovego, b. 3.
27. Cassiere della Bolla Ducale, Grazie Novus liber (1299-1305), a cura di Elena Favaro - Luigi Lanfranchi, Venezia 1962.
28. Dennis Romano, "Quod sibi fiat gratia": Adjustement of Penalties and the Exercise of Influente in Early Renaissance Venice, "Journal of Medieval and Renaissance Studies", 13, 1983, pp. 251-268.
29. Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, p. 9.
30. Deliberazioni del Maggior Consiglio, p. 119.
31. Ibid., p. 213; A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Pilosus, c. 72v.
32. Deliberazioni del Maggior Consiglio, p. 50.
33. A.S.V., Provveditori al Sal, b. 2, capitolare degli Ufficiali sopra Rialto.
34. Ivi, Maggior Consiglio, Liber Zaneta, c. 45.
35. Ibid., Liber Pilosus, c. 37.
36. Ibid., c. 29v.
37. Ibid., c. 32v.
38. Ibid., Liber Magnus, c. 3v.
39. Deliberazioni del Maggior Consiglio, p. 223.
40. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Magnus, cc. 4v, 16.
41. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Bifrons, c. 10v.
42. Ivi, Compilazione leggi, b. 357, c. 225r-v. Si trattava in realtà di una lastricatura di petrae coctae. L'atto del 1269 contiene anche una delle prime attestazioni documentarie, per quanto concerne Venezia, della lotta del settore pubblico contro gli sconfinamenti stabili: banchi, portici...
43. Ivi, Avogaria di Comun, Deliberazioni, Bifrons, c. 38v.
44. "Per quam itur recto tramite a sancto Marco ad Rivoaltum".
45. Si può ancora citare l'atto del 1288 che, a Santa Maria Formosa, prevedeva la demolizione di una sporgenza della casa di ser Jacobo Querini, per facilitare le processioni via terra della festa delle Marie: A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Zaneta, c. 53.
46. Ibid., Liber Luna, c. 30v; ibid., Liber Zaneta, c. 6.
47. Ivi, Avogaria di Comun, Cerberus, c. 8.
48. Così l'itinerario dogale attraverso il ponte dei Santi Filippo e Giacomo.
49. A.S.V., Maggior Consiglio, Liber Civicus, c. 135.
50. Tradizionalmente i cronisti veneziani fecero risalire al 1172 e al doge Sebastiano Ziani la prima costruzione del ponte (così anche Marin Sanudo il Giovane, nelle Vite dei dogi). Un'altra tradizione ne fissa la ricostruzione alla metà del secolo XIII.
51. L'uno esercitava la propria autorità "super canales, rivos et piscinas", l'altro "super pontibus et viis civitatis rivoalti".
52. Per l'edizione dei diversi "capitolari": Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane ed i loro capitolari fino al 1300, I, Padova 1906; II-III, Venezia 1909-1911.
53. Deliberazioni del Maggior Consiglio, p. 233.
54. Vanno aggiunti, come responsabili del mercato e dell'isola, gli ufficiali di Rialto e i procuratori di San Marco i quali, nell'insula Sancti Marci, esercitavano parimenti competenze urbane.
55. A.S.V., Piovego, b. 1, cc. 6, 12.
56. Il decreto conservato dal maggior consiglio è datato 8 novembre 1291 (ivi, Maggior Consiglio, Liber Pilosus, c. 15v), ma probabilmente decreti anteriori sono stati perduti. I registri del maggior consiglio citavano i vetrai di Murano già nel 1287 e nel 1289 (ibid., Liber Zaneta, cc. 37v, 63v). Numerose menzioni, che rievocano una comunità numerosa e ben inserita, sono state fatte pure nei primi atti conservati dei podestà di Murano.
57. I testamenti qui analizzati sono stati pubblicati da Silvano Borsari, Una famiglia veneziana del Medioevo: gli Ziani, "Archivio Veneto", ser. V, 110, 1978, pp. 27-72. Riguardo alla stessa famiglia: Irmgard Fees, Reichtum und Macht im mittelalterlichen Venedig. Die Familie Ziani, Tübingen 1988.