La considerazione morale dei viventi non umani
Mentre vi è un generale consenso sulla valutazione morale di specifici comportamenti verso gli esseri umani, almeno nelle questioni essenziali (uccidere o provocare un danno fisico oppure esercitare una violenza), e la discussione è confinata ad alcuni aspetti particolari, la valutazione morale del comportamento verso gli esseri viventi non umani, cioè animali, piante e microrganismi, è ancora oggetto di dibattito. In questo saggio descriveremo e discuteremo le principali opinioni riguardanti la valutazione morale del comportamento verso gli esseri viventi non umani, sia in termini generali, sia in riferimento ad alcune tematiche particolari come il mantenimento in cattività e l'uccisione degli animali, la sperimentazione animale, il comportamento verso le piante e i microrganismi e l'ingegneria genetica.
L'uomo si serve degli esseri non umani, cioè degli animali, delle piante e dei microrganismi, in molti modi e per scopi diversi: per produrre cibo e manufatti, come mezzi di trasporto o di lavoro, per esperimenti scientifici o a fini educativi o di intrattenimento (per esempio, gli zoo, il cinema, le corse, ecc.). Mentre in passato, e ancora oggi all'interno di culture omogenee, il comportamento verso gli esseri non umani era regolato da norme morali tradizionali ampiamente condivise, oggi la situazione, almeno nei paesi occidentali, è molto diversa. Le ragioni di questo cambiamento sono, da una parte, l'intensificazione e la razionalizzazione dell'impiego degli esseri non umani, per esempio in seguito allo sviluppo della grande industria alimentare e manifatturiera, all'incremento del numero degli esperimenti sugli animali e della loro complessità, all'introduzione delle nuove tecniche di ingegneria genetica e, dall'altra, una maggiore consapevolezza dei problemi etici causata, per esempio, dalla crescita degli scambi culturali e dal confronto di codici morali differenti, dall'acuirsi della sensibilità verso ogni forma di lesione o di crudeltà e, ultimo ma non meno importante, dall'espandersi della coscienza etica in genere. Tutto ciò ha portato alla disgregazione del consenso che circondava le norme di comportamento verso gli esseri non umani. In particolare, sono oggetto di critiche e di proteste il mantenimento in cattività e l'uccisione degli animali, il loro impiego nella sperimentazione e la manipolazione genetica degli esseri viventi.
Queste critiche possono fondarsi su due posizioni etiche sostanzialmente diverse: ci si può limitare a prendere in considerazione gli interessi umani, e quindi a giudicare gli esseri non umani solo come utili strumenti per il soddisfacimento di tali interessi; secondo questa posizione, per esempio, il timore che l'ingegneria genetica possa condurre alla creazione di nuovi tipi di batteri, che potrebbero a loro volta causare l'insorgere di nuove malattie nell'uomo, esprime esclusivamente la difesa degli interessi umani. Oppure si può ritenere che gli esseri non umani siano meritevoli per se stessi di una considerazione morale indipendente dagli interessi umani, cioè che debba essere riconosciuto loro uno status morale, a prescindere dalla loro utilità per l'uomo. La prima alternativa è detta antropocentrica o, nel caso in cui sia accompagnata da preoccupazioni di carattere estetico, dalla compassione, da un rapporto di custodia o dal rifiuto di ogni forma di crudeltà, antroporelazionale; la seconda alternativa è detta non antropocentrica. La prima alternativa è solo un caso particolare degli obblighi morali verso gli esseri umani e rappresenta quindi semplicemente un'estensione e un'applicazione della moralità tradizionale. La seconda alternativa è più audace e innovativa perché può implicare la trasformazione di abitudini e istituzioni tradizionali, comportando, per esempio, l'abolizione dell'impiego degli animali a scopo alimentare o la proibizione delle nuove tecnologie, come la manipolazione genetica degli.essen non umanI. Questo saggio si occupa principalmente della posizione più innovativa, quella non antropocentrica. Tranne poche eccezioni, secondo questa alternativa gli esseri non umani vengono considerati eticamente come "fini in sé", ovvero viene riconosciuto loro uno status morale. Questo significa che l'attore umano ha l'obbligo di tenere in considerazione nelle sue decisioni gli impulsi, originari o acquisiti, degli esseri non umani destinati a subire le conseguenze delle sue azioni. Il riconoscimento di uno status morale agli esseri non umani non implica immediatamente l'attribuzione di diritti. Perché si possano riconoscere loro dei diritti, sia morali sia legali, è necessaria infatti la presenza di alcune condizioni aggiuntive che saranno analizzate più avanti.
Alcune norme generali di comportamento verso gli esseri umani sono oggi ampiamente accettate: non uccidere, non ferire, non causare dolore agli altri, non privarli della loro libertà, ecc. Le giustificazioni etiche di queste norme possono variare, ma non fino al punto che divenga impossibile trovare un accordo sulle questioni centrali. Nel caso degli animali e degli altri esseri non umani, la situazione è diversa: infatti, mentre per alcuni il fatto di causare una lesione, un dolore o la morte di un essere non umano non costituisce un problema di ordine etico, altri non scorgono al contrario alcuna differenza morale tra esseri umani ed esseri non umani, cosicché causare una lesione o la morte di un essere non umano è altrettanto grave che causare quelle di un essere umano. Tra questi due estremi sono possibili molte posizioni intermedie.
Questa varietà di posizioni, tuttavia, esiste più in letteratura che tra la gente comune. L'atteggiamento morale della maggioranza degli abitanti delle società occidentali si situa tra queste due alternative, avvicinandosi però molto di più alla prima posizione: solo agli animali superiori, cioè ai mammiferi o forse a tutti i vertebrati, è riconosciuto uno status morale. Il problema etico più sentito nei rapporti con gli animali superiori è quello di causare un dolore a un essere senziente, intervento che pure è considerato lecito nel caso in cui i benefici per l'uomo non siano trascurabili. Il problema che dobbiamo porci è quindi il seguente: su quali giustificazioni etiche si fondano gli standard morali riguardanti gli esseri non umani, e quali sono gli argomenti a favore o contro le diverse posizioni? Di seguito viene presentata e discussa una serie di posizioni etiche tradizionali e tuttora ampiamente condivise e di posizioni sviluppatesi solo recentemente.
l cristiani credono nell'esistenza di un ordine teleologico e gerarchico dell'universo, al vertice del quale vi è Dio. Dio ha creato il mondo e ne ha stabilito le leggi. L'uomo è al di sotto di Dio, ma è al vertice della creazione. Secondo la Genesi, uno dei libri dell'Antico Testamento, l'uomo ha ricevuto da Dio la supremazia sul mondo, dominium terrae . Gli esseri non umani, privi di anima, non sono stati creati a immagine di Dio, come l'uomo, e non hanno la facoltà di dare un nome alle cose. Nei dieci comandamenti non viene posto alcun limite esplicito al comportamento degli uomini nei confronti degli esseri non umani, sulla base del loro proprio interesse, né viene riconosciuto loro uno specifico status morale, indipendente dalla dignità dell'uomo. Nel decimo comandamento si parla degli animali, ma solo in quanto proprietà dell'uomo. "Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo" (Esodo 20, 17).
Nella tradizione cristiana autori come Agostino e Tommaso d'Aquino affermano che gli esseri non umani sono stati creati da Dio per servire l'uomo e che l'uomo ha dunque il diritto di utilizzarli per i propri bisogni e anche di ucciderli. Tuttavia, alcuni passi isolati della Bibbia e, secondo alcune interpretazioni, la divina rivelazione nel suo complesso, come pure lo stesso ordine teleologico del mondo naturale scaturito dalla creazione, indicano l'esistenza di confini etici per il comportamento degli uomini verso gli esseri non umani. L'uccisione, la violenza e la crudeltà immotivate non sono permesse. Di conseguenza, lo sfruttamento degli animali e la sperimentazione su di essi sono soggetti ad alcune restrizioni, che rimangono tuttavia, per forza di cose, piuttosto vaghe e blande. Essendo frutto di un'interpretazione della Bibbia, tali restrizioni sono soggette al dubbio e alla discussione e non hanno quindi impedito alla civiltà occidentale di creare un complesso industriale nel quale gli animali vengono sfruttati in modo violento e crudele, con il solo limite di alcune norme molto generiche sulla loro protezione. Solo recentemente i teologi cristiani hanno cercato di interpretare le limitazioni bibliche in senso più rigido e restrittivo, ma con diversi risultati. L'accento viene posto sempre sul fatto che i comportamenti umani possono interferire con l'ordine della creazione e con i divieti divini e non sul riconoscimento dell'esistenza di impulsi propri e di un autonomo status morale degli esseri non umani. Come tutte le etiche teologiche, anche quella cristiana è un'etica teocentrica, che pone al primo livello Dio e al secondo l'uomo, al di sopra di tutte le creature. Gli esseri non umani, posti al terzo livello, possono godere di una certa protezione dalle azioni dell'uomo solo attraverso la loro relazione con il primo livello dell'intera gerarchia, cioè come creazione divina. Tutto dipende insomma dal rigore con cui vengono interpretate queste limitazioni alla libertà d'azione dell'uomo. Il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992 (e quindi nell'edizione ufficiale latina nel 1997), interpreta in senso ampio il settimo comandamento, "non rubare", includendovi anche il comportamento umano nei confronti delle creature non umane: "rubare" è inteso come sinonimo di "danneggiare la creazione divina". Il catechismo afferma che gli uomini possono servirsi degli animali per i propri bisogni, con alcune limitazioni, giustificate tuttavia da un riferimento alla dignità dell 'uomo (§ 2415-2418). La possibilità del riconoscimento di uno status morale agli esseri non umani, chiaramente non antropocentrica, non viene quindi presa in considerazione. In genere i pensatori cristiani hanno seguito questa linea, che considera leciti il mantenimento in cattività e l'uccisione degli animali per motivi ragionevoli, ma non la crudeltà immotivata (Spaemann, 1989). Nel considerare la posizione cristiana in generale, come pure tutte le altre posizioni teologiche, bisogna tener conto del fatto che la creazione divina e l'ordine teleologico del mondo sono un argomento di fede e non di ricerca scientifica. Di conseguenza, l'accettazione della moralità religiosa o teologica è subordinata all'accettazione della fede, sia nel cristianesimo sia in qualsiasi altra religione simile. La ricerca di una base secolare per l'etica e la moralità, necessaria per i non cristiani e i non credenti, è comunque una necessità anche per i credenti, poiché la stessa indeterminatezza delle direttive bibliche o profetiche impone l'adozione di alcune considerazioni aggiuntive di carattere razionale. Gli esseri umani, destinatari di ogni rivelazione o profezia, sono fallibili e dotati di capacità epistemologiche limitate, soggetti inevitabilmente ai pregiudizi storici della loro epoca. Di conseguenza, il ricorso alla razionalità immanente è uno strumento indispensabile per purificare le dottrine religiose dagli elementi soggettivi e storici in esse contenuti. Non bisogna infine dimenticare l'esistenza di molte altre religioni e sette, che ebbero e hanno tuttora una visione diversa dello status morale degli esseri non umani, come dimostra per esempio l'adozione del vegetarianismo. Per chi crede nella reincarnazione, come gli indù, gli esseri non umani partecipano al ciclo della vita e hanno uno status morale totalmente autonomo rispetto agli esseri umani. È impossibile fornire in questa sede un resoconto dettagliato delle dottrine delle altre religioni, ma si deve tener presente che, in una prospettiva globale, la morale occidentale cristiana rappresenta solo una proposta tra molte altre.
L'etica kantiana riconosce solo agli esseri razionali la capacità di avere dei "fini in sé" (Zwecke-an-sich). Gli esseri razionali (cioè, se si escludono Dio e gli angeli, gli esseri umani) sono pertanto le sole entità a cui sia possibile riconoscere uno status morale (Kant, 1785). La razionalità è la condizione necessaria per l'acquisizione di uno status morale, perché tutti gli esseri non razionali sono soggetti alle leggi causali della natura e, di conseguenza, non sono responsabili delle proprie azioni e non possono essere considerati soggetti morali. Solo un essere razionale è in grado di trascendere il mondo causale ed entrare a far parte, con le sue finalità razionali, del cosiddetto "regno dei fini" (Reichder-Zwecke).
La posizione kantiana stabilisce delle limitazioni indirette, antroporelazionali, al comportamento verso gli animali superiori e senzienti. Non è lecito trattare con crudeltà questi animali, ma solo per impedire che l'assuefazione alla violenza possa provocare il verificarsi di analoghe crudeltà verso gli esseri umani (Kant, 1797). Kant condanna perciò la sperimentazione dolorosa sugli animali da un punto di vista puramente speculativo (Kant, 1797) ma non stabilisce, da quanto si può capire, ulteriori limitazioni a questo genere di esperimenti nella misura in cui vengano effettuati per servire una finalità razionale umana, contrapposta a quella degli altri animali, e senza inutili crudeltà. Secondo questa visione' il mantenimento in cattività e l'uccisione degli animali possono essere considerati leciti. Limitazioni alle manipolazioni genetiche potrebbero essere stabilite solo per la salvaguardia degli interessi umani.
La tesi di Kant, secondo cui solo gli esseri razionali possiedono finalità proprie e quindi una rilevanza morale, non appare però molto convincente. È evidente che anche gli esseri non razionali possiedono impulsi e finalità che sono loro propri e non vi è motivo di considerare moralmente rilevanti solo le frnalità razionali. Perfino teorici come L. Nelson (Nelson, 1970), che erano kantiani o comunque appartenevano a questa tradizione, hanno criticato questa posizione. La meccanica quantistica e la teoria della relatività hanno reso obsoleta la visione newtoniana di un universo dominato dal principio di causa, condivisa da Kant. Il confine tra esseri viventi e non viventi è divenuto quindi altrettanto vago di quello che separa gli animali dall'uomo. Anche la visione per cui solo gli esseri razionali sarebbero in grado di trascendere la determinazione causale appare sorpassata. Una visione più corretta potrebbe essere basata sull'assunto che tutte le cose sono soggette alle leggi della fisica ma, all'interno dell'azione determinante di tali leggi, gli impulsi consci e inconsci degli esseri viventi rivestono un ruolo decisivo dal punto di vista etico.
Nell'utilitarismo classico, il criterio etico decisivo è rappresentato dalla riduzione al minimo del dolore e dalla massimizzazione del piacere. Questo criterio non agisce a livello intrapersonale ma interpersonale, sotto forma di calcolo riepilogativo fra danni e benefici, in cui viene tenuto conto anche delle sensazioni degli animali superiori (Bentham, 1963). L'utilitarismo è quindi non antropocentrico, anche se la gamma dei viventi non umani a cui viene riconosciuto uno status morale è molto limitata e comprende, come abbiamo visto, i soli animali superiori senzienti. Il problema, risolto in modo diverso dai vari pensatori utilitaristi, è quello di stabilire se il dolore degli animali sia o no analogo a quello degli esseri umani. Quelli che, come J. Bentham, interpretano il piacere e il dolore da un punto di vista materialistico ed edonistico, propendono per la prima ipotesi, mentre quelli che, come J.S. Mill, lo interpretano in senso intellettuale e spirituale, tendono piuttosto alla seconda. Il mantenimento in cattività e l'uccisione degli animali sono consentiti purché siano effettuati in modo indolore. La sperimentazione animale è ammessa se la somma delle conseguenze è complessivamente positiva, cioè se il piacere o l'utilità che ne derivano in generale per gli esseri umani o per gli animali o per entrambi superano il dolore inflitto agli animali usati come cavie. Secondo la posizione utilitarista, i test di prodotti cosmetici o comunque di sostanze che non possono né causare gravi danni né procurare grossi vantaggi agli esseri umani o agli animali vanno condannati. La manipolazione genetica degli esseri non umani è consentita, purché non causi danni né agli esseri umani né agli animali, oppure, nel caso sia in qualche misura dannosa, purché i benefici tratti siano superiori alle conseguenze nocive. La ricerca del piacere e il desiderio di evitare il dolore non rappresentano però né l'unico né il più elevato degli scopi umani. Secondo il cosiddetto paradosso edonistico, chi ricerca il piacere direttamente non riesce a ottenerlo. Le finalità umane sono molteplici: gli esseri umani desiderano essere accettati, moltiplicarsi, comunicare, socializzare, ampliare le proprie conoscenze e il proprio sapere, sviluppare la propria personalità, ecc. Gli animali non hanno desideri o bisogni culturali e intellettuali ma, anche per loro, l'autoconservazione, la riproduzione e la libertà di movimento sembrano essere in molti casi più forti del desiderio di evitare il dolore (von der Pfordten, 1995; 1996). Perfino le piante lottano per auto conservarsi e riprodursi. I girasoli seguono il movimento del sole e molte piante si proteggono dai nemici con l'aiuto di particolari sostanze chimiche. In termini fisiologici, il dolore non è altro che un sistema di allarme per proteggere la vita e l'integrità fisica di un essere dagli attacchi esterni. Esperimenti come quello in cui una femmina di ratto è costretta ad attraversare una grata incandescente o elettrificata per raggiungere la propria nidiata dimostrano che l'interesse per la procreazione ha carattere prioritario. Il dolore è solo uno strumento di cui il corpo si serve per evitare lesioni o malattie, ma per gli animali, che sono privi di interessi culturali e intellettuali, evitare il dolore rappresenta una priorità più importante che per gli essen umam. Non sembrano inoltre esservi valide ragioni per accettare o sostenere l'adesione a un metodo di calcolo basato sui criteri dell'aggregazione interpersonale tra gli esseri umani e gli animali e della massimizzazione del piacere, che non siamo disposti ad accettare quando in gioco vi sono gli interessi vitali degli esseri umani. Se l'aggregazione fosse un criterio etico valido, sarebbe lecito, per esempio, imprigionare degli innocenti per evitare una sanguinosa sommossa. R. Nozick ha immaginato la figura di un mostro di libidine, capace di trarre da ogni cosa il massimo piacere possibile. Se avessimo il dovere di massimizzare il piacere, allora dovremmo cedere ogni cosa a questo mostro, perché in questo modo si otterrebbe complessivamente il massimo piacere possibile. L'utilitarismo è fondato su una premessa individualistica, perché tiene conto allo stesso modo di tutti gli esseri senzienti, ma finisce per adottare un criterio collettivistico di massimizzazione del piacere totale. Se non siamo disposti ad accettare questo criterio per gli esseri umani, perché dovremmo adottarlo quando si tratta degli interessi degli animali? A questo punto, la giustificazione della sperimentazione animale in nome del progresso scientifico non è più accettabile in questa forma astratta per la ricerca futura. Sarebbe prima necessaria una generale accettazione del criterio di massimizzazione del piacere e dell'utilità, per la quale sembrano mancare le premesse. Lo stesso vale per il mantenimento in cattività e l'uccisione degli animali e per l'ingegneria genetica.
Per alcuni teorici, il sentimento della compassione, o più in generale l'empatia, svolge un ruolo decisivo nell'azione etica (Hume, 1817; Schopenhauer, 1978; Wolf, 1990). Il punto da tenere presente è che, in contrasto con l'utilitarismo, il criterio decisivo è qui un sentimento dell'agente morale, e non dell'elemento passivo, ossia un sentimento dell'attore umano e non dell'essere non umano che subisce l'azione. È tuttavia altrettanto chiaro che normalmente il sentimento dell'attore è causato da un evento doloroso o nocivo che colpisce l'essere per il quale l'attore prova compassione. La seconda differenza dall'utilitarismo è che questa posizione non accetta i criteri di aggregazione interpersonale e di massimizzazione del piacere.
Da questo punto di vista, ogni essere sensibile che soffrendo fa sorgere in noi, in quanto attori morali, la compassione merita la nostra considerazione morale e un'azione di soccorso. L'unica eccezione è costituita da un'emergenza comune dell'attore e dell'elemento passivo o da un'aggressione da parte di quest'ultimo. Le conclusioni di questa posizione sul tema degli esperimenti sugli animali possono variare, ma in genere conducono a severe limitazioni, fino alla proibizione totale di tutti gli esperimenti sugli animali, come nel caso di molti autori recenti (Wolf, 1990). Gli esperimenti sugli animali sono vietati per ragioni sostanzialmente analoghe a quelle che impediscono gli esperimenti su esseri umani non consenzienti. Il mantenimento in cattività e l'uccisione degli animali sono sottoposti a severe limitazioni ma non vengono stabilite limitazioni etiche non antropocentriche all'ingegneria genetica, se l'essere non umano prodotto dalla manipolazione è in grado di svilupparsi e di sopravvivere senza soffrire. Le manipolazioni delle cellule fetali sono lecite, dal momento che si verificano in uno stadio dello sviluppo dell'essere in cui esso non può provare dolore.
Tuttavia, la presenza nell'attore di un sentimento di compassione o di empatia non può essere considerata una valida giustificazione del suo impegno etico. Se l'attore è privo di questo sentimento, sarà necessaria una base diversa per la manifestazione del sentimento. Se invece l'attore prova compassione o empatia, la semplice esistenza di questo sentimento non è una ragione sufficiente per vietare o ordinare una certa azione. Il sentimento potrebbe infatti rivelarsi del tutto inappropriato alla situazione reale dell'altro essere. Un'etica della compassione, inoltre, favorisce potenzialmente i criminali privi di sentimenti e priva l'attore della libertà di agire in conformità ai suoi obblighi morali o contro di essi. Queste difficoltà impediscono di classificare con chiarezza la teoria, che risulta non antropocentrica in relazione al dolore degli esseri non umani, ma antropocentrica in rapporto all'empatia dell'attore. Dato che è impossibile garantire che il dolore dell'essere non umano e l'empatia dell'attore siano congruenti tra loro, restano solo due soluzioni: basare la decisione sulla realtà dell'essere non umano e ridimensionare l'importanza dell'empatia dell'attore, oppure basare la decisione sull'empatia dell'attore, senza preoccuparsi se essa coincide o meno con la realtà dell'essere non umano. La prima alternativa esula da un'etica empatica, la seconda non è molto soddisfacente. Il predominio storico avuto nel mondo occidentale dalle prime tre posizioni etiche finora illustrate (posizione cristiano-teologica, filosofia kantiana, utilitarismo) spiega perché nei secoli passati non siano state stabilite limitazioni più severe all'impiego degli esseri non umani. La quarta posizione, quella basata su compassione ed empatia, divenne molto popolare nel 18° e 19° secolo in Gran Bretagna, dove nel 1822 fu varata la prima legge per la protezione degli animali e si iniziò molto presto a eseguire esperimenti sugli animali. Altri paesi seguirono l'esempio inglese, con maggiore o minore rapidità, ma con l'entrata in scena di alcune posizioni teoriche più recenti, il quadro è cambiato notevolmente.
Vi sono due correnti di pensiero che, pur situando si nella tradizione kantiana, rigettano la maggior parte degli assunti metafisici della filosofia di Kant: il contrattualismo e la filosofia del discorso. Si tratta delle uniche teorie moderne che negano agli animali una propria posizione etica non antropocentrica e, di conseguenza, uno status morale. Secondo queste teorie, la morale e l'etica sono il risultato di un contratto ideale (J. Rawls), di un accordo (T. Scanlon) o quantomeno di un discorso (Habermas, 1992). Ciò che viene raggiunto attraverso questo contratto ideale, accordo o discorso è moralmente vincolante (Carruthers, 1992). Solo le entità che possono partecipare in linea di principio a questo genere di contratto, accordo o discorso, possono essere considerate potenzialmente soggetti morali, dotati di uno status morale; ma gli animali non sono esseri razionali e, di conseguenza, sono privi di status morale (Carruthers, 1992) e meritano solo una considerazione morale indiretta, come accadeva nella teoria di Kant. Poiché sono in molti a preoccuparsi per gli animali e a sentirsi profondamente turbati dallo spettacolo delle loro sofferenze, questo fatto ci obbligherebbe a non causare sofferenze agli animali, se non per ragioni molto serie (Carruthers, 1992). Questo divieto, tuttavia, è valido solo nel caso in cui la crudeltà verso gli animali si verifichi in pubblico, mentre non vi è nulla di moralmente riprovevole nelle crudeltà che avvengono in privato. Di conseguenza, l'allevamento industriale e la sperimentazione in laboratorio sono considerati leciti (Carruthers, 1992). Questo approccio ha sollevato numerose obiezioni, in primo luogo quella di violare le nostre intuizioni morali di base. Nessuno pensa che torturare un gatto in privato sia sostanzialmente diverso dal farlo in pubblico, né che la crudeltà verso gli animali possa essere giustificata dal soddisfacimento di interessi umani del tutto secondari. Sono note, inoltre, le difficoltà incontrate dai contrattualisti nella spiegazione dello status morale dei bambini piccoli, dei neonati, dei non ancora nati e degli esseri umani in coma irreversibile, la cui mancanza di capacità razionale è simile per molti aspetti a quella degli animali superiori. l contrattualisti hanno tentato di risolvere il problema ricorrendo all'argomento dell'incertezza o del 'piano inclinato', affermando cioè che, dato che non possiamo essere certi del momento esatto in cui la razionalità inizia a manifestarsi negli esseri umani, è necessario prendere come punto di partenza per la considerazione morale del bambino la sua nascita; tuttavia la scelta dei criteri morali ed etici seguita dai contrattualisti appare nel complesso insoddisfacente. Se il contratto, o accordo, costituisce il criterio determinante per la costruzione dell'etica, allora lo status morale di ogni entità dipende dalle altre entità, il che contraddice il principio che vede nel riconoscimento di uno status morale autonomo alle altre entità la precondizione di ogni moralità. È la moralità che ha origine da questo riconoscimento, non il contrario, come pensano i contrattualisti. L'errore del contrattualismo e dell'etica del discorso è quello di estendere indebitamente un metodo di inquadramento e di analisi dei problemi, adeguato alla sfera sociale e politica degli esseri umani, alla valutazione morale delle interazioni tra entità umane e non umane.
J. Habermas ha tentato di ampliare la portata dell'etica del discorso oltre questo confine antropocentrico, con la costruzione dei cosiddetti "rapporti tra analoghi morali" tra gli esseri umani e gli animali (Habermas, 1992). Se trattiamo gli animali in modo comunicativo, come alter ego, allora si stabilisce una relazione tra analoghi morali. Questo approccio tuttavia non riconosce agli animali uno status morale realmente indipendente, ma si limita a elevare lo status morale degli animali domestici, lasciando quelli selvatici al di fuori da ogni considerazione etica. Non vi è dubbio che un certo comportamento verso gli animali crei anche degli obblighi verso di loro, ma il tentativo di costruire tutti i rapporti tra gli esseri umani e gli animali secondo questo modello appare discutibile. Non si può parlare di una reale considerazione morale e di un riconoscimento degli esseri non umani come entità autonome, con un proprio status morale, se è soltanto la nostra decisione di integrarli simbolicamente nella comunità dei comunicatori che può conferire loro lo status di soggetti morali.
Secondo le varianti più avanzate dell'utilitarismo, il criterio fondamentale per il riconoscimento delle entità eticamente rilevanti è la presenza di preferenze o interessi. Si tratta evidentemente di un allargamento del criterio piaceredolore tipico dell'utilitarismo classico. Tutte le azioni che possono produrre un danno o un vantaggio a una determinata entità vengono prese in considerazione. Se un'entità è sensibile, i suoi interessi rappresentano una limitazione per l'azione umana, ma solo se questa azione non produce una quantità di piacere maggiore in altri esseri sensibili. Il calcolo riepilogativo degli interessi è insomma l'unico fattore decisivo. Gli animali sono soggetti al calcolo del massimo beneficio totale del massimo numero di persone, come nell'utilitarismo classico.
Essere uccisi è una forma di danno, che però può essere compensato dai piaceri di una vita felice. Gli esponenti più ortodossi di questa scuola non esitano quindi a concludere che il vegetarianismo è sbagliato, perché la sua generalizzazione causerebbe l'abbandono dell'allevamento degli animali e, di conseguenza, la riduzione della quantità totale di felicità esistente, misurata in tutti gli esseri senzienti (Rare, 1993) mediante un parametro denominato QAL Y (Quality Adjusted Life Years, anni di vita corretti per la qualità). Spinta alle sue estreme conseguenze, questa teoria porterebbe tuttavia all'assurda affermazione che sia nostro dovere far nascere quanti più animali felici possiamo, se questo non riduce la quantità totale di felicità esistente; ma questo è chiedere un po' troppo! Non ci è permesso decidere della nostra vita individuale, ma siamo responsabili in ogni momento della felicità del resto del mondo, compreso il mondo degli animali senzienti.
Altri teorici di questa corrente, come P. Singer, si sono allontanati maggiormente dal ceppo comune dell'utilitarismo classico, tracciando una distinzione tra esseri razionali coscienti e autocoscienti (Singer, 1993). La vita degli esseri razionali e autocoscienti merita un riconoscimento etico proprio, non è soggetta ai criteri di aggregazione interpersonale e di massimizzazione dei diversi interessi e può essere sacrificata solo in cambio di un'altra vita. Queste entità razionali e autocoscienti sono individui che conducono una vita indipendente e non possono in nessun modo essere ridotti a meri ricettacoli contenenti una certa quantità di felicità (Singer, 1993): in altre parole, sono gli esseri umani.
Per quanto riguarda gli animali superiori, una decisione chiara e positiva è possibile solo per le grandi scimmie, cioè scimpanzé, gorilla e oranghi, la cui vita non può essere sottomessa al calcolo utilitaristico generale. Tuttavia, per stare sul sicuro e a seconda di quanto siamo disposti a spingerci lontano nel concedere agli animali il beneficio del dubbio, è preferibile estendere questo tipo di protezione morale anche agli altri mammiferi, come balene, delfini, scimmie, cani, gatti, bovini, maiali, ecc. Il mantenimento in cattività e l'uccisione di mammiferi superiori a scopi alimentari o per analoghi interessi umani sono quindi moralmente condannabili. In conclusione, si chiede che vengano stabiliti diritti morali e legali per le grandi scimmie (Cavalieri e Singer, 1993). La sperimentazione che causa la morte di mammiferi è considerata illecita, a meno che non si tratti di un esperimento in grado di salvare la vita di molte 'persone' (umane o animali) sacrificandone una sola (Singer, 1990).
Per gli animali diversi dai mammiferi sono previste limitazioni meno rigide. Le vite di questi animali sono soggette ai criteri di aggregazione interpersonale e di massimizzazione degli interessi, come nell'utilitarismo classico, e di conseguenza non se ne proibiscono il mantenimento in cattività e l'uccisione per soddisfare i bisogni umani, se questo produce un aumento della quantità totale di piacere esistente. La sperimentazione medica o scientifica è consentita in base a un principio utilitaristico, cioè se essa è in grado di incrementare il benessere generale.
La critica di questa forma di utilitarismo dovrebbe partire dalla constatazione che il calcolo fra danni e benefici, decisivo per stabilire il comportamento verso l'entità in questione, è ancora insufficiente, perché non tiene affatto conto di impulsi importanti, come l'impulso a muoversi, a procreare, a socializzare, o non lo fa in modo adeguato (su questo punto vi sono opinioni diverse), a meno che la mancata realizzazione di tali impulsi non provochi un danno concreto all'entità in questione. In secondo luogo, il metodo dell'aggregazione non è convincente, come nel caso dell 'utilitarismo classico. Come non pretendiamo che un essere umano sacrifichi la propria vita, per esempio, donando i propri organi per salvare altre vite, così non vi è in generale una ragione per pretenderlo dagli animali. La versione elaborata da Singer tenta di aggirare questo ostacolo, ma non spiega come mai capacità naturali come la razionalità o l'autocoscienza dovrebbero generare automaticamente l'obbligo di considerare individualmente la vita delle entità in questione. Da questo punto di vista, la teoria di Singer è solo una versione moderna e più sofisticata del naturalismo; egli incappa così nella fallacia naturalistica, cioè trae una falsa conclusione, stabilendo da un fatto, cioè l'autocoscienza, un obbligo, cioè preservare la vita dell'essere in questione.
J.-C. Wolf ha sviluppato la posizione di Singer, allontanandosi ulteriormente dalle origini utilitaristiche. Secondo questo autore, non è necessaria la presenza dell'autocoscienza per escludere un'entità dall'aggregazione interpersonale del calcolo utilitaristico, ma è sufficiente la semplice coscienza. Un essere cosciente non si limita a provare delle sensazioni anonime, ma sperimenta sensazioni proprie. La continuità della coscienza è sufficiente a fare della sua distruzione un male etico per sé. La conclusione è il divieto di ogni forma di sperimentazione sugli animali che ne metta in pericolo l'esistenza (Wolf, 1992).
Contro questa teoria si possono avanzare le stesse critiche mosse a quella di Singer: la coscienza è una capacità psicologica naturale dalla quale non è possibile trarre divieti morali, senza ulteriori specificazioni. Neppure W olf sfugge alla fallacia naturalistica. Non vi è alcun motivo per cui la presenza della coscienza debba essere giudicata una ragione per riconoscere agli impulsi degli esseri coscienti una rilevanza etica, mentre gli impulsi degli esseri non coscienti vengono giudicati moralmente irrilevanti o comunque soggetti al calcolo utilitaristico.
T. Regan ha sviluppato una teoria molto radicale. Secondo questo autore, ogni "soggetto di una vita" ha un valore intrinseco e merita quindi rispetto, o meglio è 'titolare' del diritto di essere rispettato. Gli individui "sono soggetti di una vita se sono in grado di percepire e di ricordare; se hanno credenze, desideri e preferenze; se sono in grado di agire intenzionalmente in vista del soddisfacimento dei propri desideri e del conseguimento dei propri obiettivi; se sono senzienti e se hanno una vita emozionale; se hanno il senso del futuro e, in particolare, del proprio futuro; se hanno un'identità psico-fisica nel tempo e sono in grado di avere esperienze di benessere individuale, ecc." (Regan, 1983). Così, i mammiferi che abbiano almeno un anno di età sono severamente protetti. La teoria di Regan è sostanzialmente intuizionistica, cioè si basa sulle intuizioni del senso comune. Pur ponendo l'accento sui doveri e non, come l'utilitarismo, sulla massimizzazione delle conseguenze positive, Regan giunge a conclusioni molto simili a quelle di Wolf: la sperimentazione animale è severamente proibita. "Coloro che accettano la visione dei diritti, e che firmano per gli animali, non potranno essere soddisfatti da nulla che sia meno della proibizione totale dell'uso pernicioso degli animali nella scienza, a fini didattici, nei test di tossicità, nella ricerca di base". Anche l'uccisione degli animali viene proibita e il loro mantenimento in cattività fortemente limitato.
Contro questa teoria si possono muovere le stesse critiche avanzate contro quella di Wolf. Non si vede per quale motivo il fatto di possedere certe capacità mentali, come dato in sé, debba giustificare l'imposizione di limitazioni e di divieti morali a favore degli animali coscienti e l'esclusione dal campo morale degli impulsi degli altri esseri non umani. La teoria dei doveri di Regan si limita ad asserire delle verità senza fornire sufficienti giustificazioni.
In questo caso non abbiamo a che fare con una teoria etica vera e propria, quanto piuttosto con una forma di ragionamento che consiste nel denunciare ogni sopravvalutazione degli esseri umani e dei loro interessi, che non sia giustificata da differenze moralmente rilevanti, condannandola come specismo (Singer, 1990; 1993; Ryder, 1991; Rollin, 1992). La tesi che viene sostenuta è che non esiste nessun elemento oggettivo che giustifichi una disparità di trattamento tra gli esseri umani e gli animali superiori; alcuni teorici considerano soltanto gli esseri auto coscienti, mentre altri arrivano a includere anche quelli semplicemente coscienti. Non vi è alcun motivo di ritenere che il dolore umano sia, in genere, più acuto di quello animale, o che gli interessi umani meritino più attenzione di quelli animali: agli animali manca infatti la coscienza della durata e della persistenza del dolore, che rende meno sopportabili le sofferenze degli esseri umani, ma manca anche la capacità di prevedere la fine del dolore, che contribuisce ad alleviare le sofferenze umane.
Le accuse dei sostenitori dell'egualitarismo, che denunciano la disparità di trattamento, non appaiono infondate, almeno nel caso di entità effettivamente uguali nell'aspetto pertinente al problema. Tuttavia la prima domanda che dobbiamo porci è: uguaglianza di cosa? il primo passo di una teoria etica dovrebbe essere l'individuazione del criterio eticamente rilevante. Solo in seguito si potrà stabilire se sia giusto oppure no seguire un comportamento egualitario. Come abbiamo chiarito in precedenza, il dolore e la coscienza non possono essere giudicati l'unico o il più elevato criterio etico. Di conseguenza, il giudizio sulla teoria egualitaristica deve essere sospeso fino a quando non verrà stabilito un altro criterio etico determinante.
Le teorie frn qui esaminate ammettono nel campo della considerazione morale non antropocentrica i soli animali senzienti. La coscienza o l'autocoscienza, o entrambe, rappresentano la condizione necessaria per il riconoscimento di uno status morale. Altri autori contestano però la validità di queste condizioni e assumono come criterio etico decisivo la vita, in tutte le sue forme. Secondo costoro, quindi, anche le piante e i microrganismi devono essere considerati soggetti morali; l'etica animale deve trasformarsi in etica ambientale. Alcuni spingono questa visione olistica fino a includere nel campo etico le diverse specie, gli eco sistemi e tutta la biosfera. Queste posizioni si distinguono tra loro solo per il peso attribuito alle diverse forme di vita: per alcuni si deve tener conto di una gerarchia (Attfield, 1991), mentre altri sostengono l'esistenza di una sostanziale uguaglianza (Taylor, 1989).
Tuttavia, anche questo tipo di approccio va incontro a difficoltà simili a quelle incontrate dalle teorie che assumono la coscienza o l'autocoscienza o entrambe come criterio etico decisivo. Il semplice fatto di vivere, il metabolismo biologico, non è sufficiente a giustificare l'imposizione di doveri morali. Ritenere il contrario vorrebbe dire cadere nella fallacia naturalistica. Dobbiamo quindi fare un passo indietro e considerare la funzione dell'etica su un piano più astratto.
Se un essere umano potesse vivere da solo nell'universo, non avrebbe alcun tipo di limitazione morale. Così la prima condizione alla base di ogni etica è l'esistenza di altri esseri, soggetti morali, che pongono delle limitazioni alle azioni degli esseri umani, agenti morali. Queste limitazioni non agiscono in modo fattuale, non rappresentano cioè un ostacolo concreto alle azioni umane, come una pietra che ostruisce un sentiero, ma le limitano in senso normativo.
Che significa questo? Sotto quali aspetti una limitazione normativa è diversa da una fattuale? Fattuale significa fisica; le leggi fisiche naturali pongono dei limiti alle nostre azioni. Se un masso pesantissimo e inamovibile mi blocca il cammino, non posso proseguire perché, secondo le leggi della fisica, due oggetti non possono occupare lo stesso spazio nello stesso istante. Normativo significa dunque, prima di tutto, non fisico o meglio non solo fisico: mentire è proibito, in senso morale e normativo, ma non esiste un ostacolo fisico che ci impedisca di farlo. Siamo perfettamente in grado di produrre il fenomeno fattuale necessario alla menzogna, cioè le onde sonore. Non si tratta quindi di una limitazione di natura fisica, ma linguistica e mentale. Le persone con cui siamo in contatto esprimono il proprio desiderio di conoscere la verità. La loro ricerca della verità e l'espressione di questa ricerca sono le condizioni necessarie della limitazione morale che ci vieta di mentire. In un mondo nel quale nessuno cercasse di conoscere la verità, sarebbe irragionevole proibire la menzogna.
Ora, la domanda decisiva per la costruzione di un'etica non antropocentrica è: si devono considerare limitazioni normative i soli interessi linguistici e mentali, in altre parole, se escludiamo Dio e gli esseri soprannaturali, gli interessi degli esseri umani? Kant e i suoi seguaci la pensavano così. Gli utilitaristi aggiunsero il dolore e il piacere, riconoscendo anche agli impulsi degli animali superiori un valore normativo; ma come dobbiamo giudicare gli impulsi degli altri animali senzienti, per esempio, l'impulso a muoversi liberamente o a procreare? Cosa pensare poi dell'impulso a socializzare? E cosa degli impulsi degli animali non senzienti? E della ricerca di acqua e di luce delle piante?
Tutti questi interessi possiedono una base fisica e si manifestano nel quadro delle leggi fisiche, come accade per le azioni e le espressioni degli esseri umani. Una possibile obiezione al riconoscimento etico di questi impulsi potrebbe essere che essi sono del tutto riconducibili all'azione di alcune forze fisiche. La questione se i processi biologici e mentali, o entrambi, siano riducibili alla realtà fisica è ancora aperta, e non è questa la sede adatta per approfondirla. Il punto che ci interessa è che, in una prospettiva etica, non ha importanza raggiungere una decisione di tipo scientificodescrittivo su questa questione: una discussione che si svolga all'interno di una cornice etica e morale, infatti, non può prescindere dal presupposto che un'azione possa essere interpretata come qualcosa di più del semplice risultato di un processo fisico. Le azioni non ci appaiono come un mero effetto della combinazione di alcune forze fisiche, ma come impulsi di esseri in grado di auto orientarsi, come ricerca dell'autoconservazione e dell'autosviluppo o - per servirci del linguaggio della fisica, che però può fornirci solo una descrizione parziale di tali processi - come impulso a utilizzare l'energia esterna per mantenere un elevato livello di energia interna e sfuggire così all'entropia. A meno di non voler abbracciare un totale scetticismo e nichilismo etico, l'accettazione dell'idea che il mondo è determinato dalle forze fisiche non esclude quella di limitazioni morali nei rapporti umani. Questo vale però anche per gli esseri non umani, i cui impulsi rappresentano qualche cosa di più del risultato delle forze fisiche. Tutti gli esseri viventi non umani, cioè animali, piante e microrganismi, possiedono un proprio status morale. Esiste anche un argomento positivo a favore del riconoscimento dello status morale degli esseri non umani? Perché dovremmo rispettare gli impulsi degli esseri non umani? In primo luogo si deve considerare che, anche nel caso degli esseri umani, non riconosciamo una rilevanza morale solo agli impulsi coscienti e articolati, o a entrambi, ma anche a quelli vegetativi. Non è lecito danneggiare il sistema immunitario di un essere umano, anche se questi non sa neppure di possederne uno. La coscienza e l'articolazione di un impulso non rappresentano quindi una condizione necessaria della sua forza normativa. Se riconosciamo dunque il valore normativo degli impulsi vegetativi nel caso di esseri dotati di coscienza e di linguaggio, perché non dovremmo riconoscerlo anche agli impulsi di quegli esseri che ne sono privi?
Per proseguire la discussione su questo punto di importanza cruciale, è preferibile passare da un linguaggio fattuale a uno normativo. L'aspetto normativo degli impulsi degli altri esseri non risiede nella realtà fattuale di questi impulsi, ma nel loro essere interessi degli altri. Per comprendere meglio questo punto dobbiamo prendere in esame le dinamiche dello scambio di interessi nel campo etico. L'elemento decisivo per l'emergere di limitazioni morali non è la volontà, il desiderio, il bisogno o l'interesse dell'attore, ma l'interesse dell'entità coinvolta nell'azione, i cui interessi costituiscono altrettante limitazioni alla libertà di azione dell'attore. Anche se, in un secondo momento, gli interessi dell'attore vengono a loro volta a restringere la portata di questa limitazione, fino a raggiungere un equilibrio, l'origine della limitazione etica rimane sempre l'entità coinvolta nell'azione. La considerazione degli interessi degli altri è insomma l'elemento decisivo per l'emergere di un comportamento etico. La domanda etica fondamentale è la seguente: è necessario considerare gli interessi delle altre entità (von der Pfordten, 1995; 1996)?
I miei interessi costituiscono per me una ragione per comportarmi in modo adeguato a essi. Se è mio interesse spostarmi da A a B, mi sposterò da A a B. Tra gli interessi dell'attore e le sue azioni esiste una relazione di tipo non causale, o debole. Sono libero di non agire secondo i miei interessi, ma ho buone ragioni per farlo. Tuttavia, per gli altri i miei interessi non costituiscono una ragione per realizzarli, almeno nel caso in cui ciò richieda un seppur minimo sforzo. Se è mio interesse andare da A a B, nessun'altra entità ha per principio il dovere di trasportarmi da A a B. Per chiarire meglio questa situazione, si può utilizzare una metafora spaziale: ogni entità con interessi propri stabilisce intorno a sé un campo di interessi. Un'entità ha buone ragioni, di tipo debole, per perseguire gli interessi nel proprio campo, ma non ha ragione di interferire nel campo di interessi di altre entità. In assenza di un consenso informato, questa interferenza appare ingiustificata e le ragioni deboli delle altre entità sono un valido motivo per vietarla. Questa situazione richiede l'individuazione di una chiara linea di confine tra i diversi campi di interessi, operazione che spesso in pratica è difficile ma, nella maggior parte dei casi, non impossibile.
Nel caso di interferenza positiva, la conclusione è la stessa. Al di fuori del proprio campo di interessi, in linea di principio, non esistono obblighi di soccorso delle altre entità. Un modello che prevede campi di interessi nettamente separati è valido solo per una situazione di totale estraneità tra entità che non hanno alcun contatto tra loro, neppure in forma indiretta. Se esistono però una comunanza, anche vaga come l'appartenenza al genere umano, un accordo o una precedente azione significativa, dobbiamo sovrapporre al modello di base un secondo strato che dia conto dell'emergere di doveri positivi di mutuo soccorso. Il modello di base mantiene in ogni caso la sua efficacia.
L'introduzione del concetto di interessi non permette però di risolvere una volta per tutte il problema della portata del loro potere di giustificazione etica, ossia di stabilire quali entità siano suscettibili di considerazione etica e quali no, perché questo concetto è impiegato con significati molto diversi. Alcuni autori ascrivono la capacità di avere interessi ai soli esseri umani (Frey, 1980), mentre altri la estendono anche agli animali superiori senzienti (Feinberg, 1980), a tutti gli esseri viventi (Attfield, 1991) o perfino a tutti i sistemi omeostatici autoregolantisi, come le specie, gli ecosistemi e la biosfera. La vaghezza e l'indeterminatezza del concetto di 'interessi' appaiono insormontabili. Tuttavia, se si vuole respingere un'interpretazione egoistica, che cancellerebbe la possibilità stessa dell'etica o della moralità, è sufficiente che sia soddisfatta un'unica condizione: gli interessi dovrebbero essere riconosciuti dall'attore come interessi degli altri esseri coinvolti nell'azione. Questo significa, se escludiamo, in quanto speculativa o eticamente irrilevante, la possibilità di un'attribuzione da parte di Dio o di altre persone, che le entità interessate devono possedere interessi autoattribuiti. Un aspetto essenziale di questa autoattribuzione di interessi è costituito dalla modalità in cui essa avviene. In altre parole, l'uomo, come essere dotato di razionalità, linguaggio e sensitività, non ha il diritto di assumere la razionalità, il linguaggio e la sensitività come condizioni necessarie all'attribuzione di interessi. Se così fosse, infatti, l'autoattribuzione dell'entità in questione verrebbe a perdere il suo ruolo determinante a favore dell'attribuzione dell'attore. La razionalità, il linguaggio e la sensitività devono quindi essere considerati come indicazioni di una forma più intensa ed elaborata di auto attribuzione di interessi, ossia come condizioni che non determinano la possibilità stessa di un'attribuzione di interessi, ma solo la sua intensità. Quanto al problema di quali interessi debbano essere riconosciuti, l'unico criterio possibile è la percezione di una qualsiasi auto attribuzione da parte dell'entità in causa.
Per analizzare tale questione in termini più concreti, è possibile considerarla separatamente nei tre aspetti che contraddistinguono il normale sviluppo di ogni essere vivente: autoproduzione, auto sviluppo e auto conservazione. Perché sia possibile attribuire degli interessi a un'entità, è necessaria la presenza di tutte e tre queste condizioni. È possibile allora pervenire per i diversi tipi di entità a varie distinzioni e conclusioni (tab. I) che possono essere spiegate nel seguente modo:
1) gli animali superiori selvatici possiedono capacità di autoproduzione, autosviluppo e autoconservazione, come gli esseri umani, ma presentano assenza, o minore evoluzione, delle capacità razionali e linguistiche;
2) negli animali superiori domestici è presente la capacità di autoprodursi, come negli esseri umani, ma l'autonomia dello sviluppo e della conservazione è limitata dalla domesticità;
3) gli animali selvatici in generale hanno capacità di autoproduzione, auto sviluppo e auto conservazione, ma non così evo Iute come negli esseri umani (per esempio, presentano mancanza di sensitività);
4) le piante selvatiche possiedono capacità di autoproduzione, auto sviluppo e autoconservazione, ma non hanno razionalità, linguaggio, sensitività e movimento. Inoltre, questi aspetti non sono così evoluti come nell'uomo e negli altri animali;
5) le piante domestiche hanno la capacità di autoprodursi, limitata però, come lo sviluppo e la conservazione, dall'ingegneria genetica e dalla coltivazione;
6) per le pietre o i fiumi, produzione, sviluppo e conservazione sono causati unicamente da processi chimici e fisici esterni;
7) la specie presenta produzione, sviluppo e conservazione completamente riconducibili a influssi individuali (mutazione) ed esterni (selezione);
8) per eco sistema e biosfera, la capacità di autoprodursi e auto svilupparsi non è certa; la conservazione è completamente riconducibile a influssi fisici esterni o al comportamento delle singole entità;
9) i computer presentano produzione non autonoma, perché costruiti dagli esseri umani, ma parziali capacità di sviluppo e di conservazione autonomi nei modelli avanzati (per esempio, auto controllo computerizzato).
La prima conclusione che possiamo trarre da queste considerazioni è che tutti gli esseri viventi non umani, cioè animali, piante e microrganismi, devono essere riconosciuti come soggetti morali dotati di propri interessi e, di conseguenza, di status morale. Le entità collettive, come le specie, gli eco sistemi o la biosfera, sono al contrario escluse da tale riconoscimento. Il loro sviluppo e la loro esistenza sono infatti il risultato dei comportamenti degli individui che le compongono e dell'azione delle forze fisiche.
La seconda conclusione è che non tutti gli interessi meritano la stessa considerazione morale. Alla riduzione della complessità dell'autoattribuzione deve corrispondere una riduzione della rilevanza morale degli interessi generati da tale auto attribuzione. L'auto attribuzione razionale e autocosciente è più complessa e progredita e merita pertanto una maggiore considerazione morale di quella semplicemente cosciente; l'auto attribuzione cosciente e sensibile merita maggiore considerazione di quella istintiva; quella istintiva merita maggiore considerazione di quella puramente fisiologica, ecc. Così i bisogni di piante e microrganismi meritano la minore considerazione, quelli degli animali una considerazione lievemente maggiore, quelli degli animali senzienti una ancora più alta, mentre i bisogni dell'uomo meritano la massima considerazione.
Non vi sono in generale ragioni che giustifichino il ricorso ai criteri dell'aggregazione interpersonale e della massimizzazione degli interessi. Tuttavia, può essere lecito adottarli nel caso di una forte discrepanza nella complessità degli interessi in gioco, come nei rapporti tra gli esseri umani e le piante e tra gli esseri umani e gli animali, nei casi in cui la specifica discrepanza degli interessi in gioco è molto elevata. L'esistenza di una comunità volontaria, che preveda obblighi di mutuo soccorso tra i suoi membri, riduce il livello di discrepanza tra gli interessi necessario per consentire un'aggregazione interpersonale. La situazione è simile a quella esistente tra gli esseri umani, dove gli interessi vitali non sono soggetti a una valutazione interpersonaIe, ma se un interesse secondario si contrappone a un interesse vitale, allora è consentito e anzi necessario valutarne la rispettiva importanza. Il fatto di vivere insieme in una società dà infatti origine ad alcuni doveri fondamentali di soccorso: se qualcuno sta per affogare, è consentito salire su una barca di proprietà di qualcun altro e servirsene per prestare aiuto. Per riassumere, gli animali selvatici meritano in generale una maggiore considerazione etica di quelli domestici, che vivono in comunità con gli esseri umani e sono da questi nutriti, accuditi, ecc. Il problema se sia necessario tracciare una distinzione categorica tra animali senzienti e non senzienti o tra animali e piante si rivela così non decisivo per la considerazione etica. Tutti gli interessi delle entità moralmente rilevanti, cioè tutti gli interessi di tutti gli esseri viventi, meritano questo tipo di considerazione.
La prima conseguenza da trarre dalle precedenti considerazioni è che l'assenza di dolore non può essere l'unico criterio per porre limitazioni al mantenimento in cattività e all'uccisione degli animali. Il rispetto di altri impulsi, come quello a non essere uccisi o feriti, è ancora più importante, perché questi impulsi costituiscono in condizioni normali gli scopi principali dell'animale. La seconda conseguenza è che tutti i comportamenti relativi ai diversi interessi dell'animale devono essere riconosciuti come limitazioni morali, compresi gli impulsi a muoversi, procreare, socializzare, ecc.
L'impiego degli animali è quindi consentito solo quando sono in gioco interessi umani vitali che non possono essere soddisfatti diversamente. Poiché gli esseri umani potrebbero vivere seguendo una dieta vegetariana nella maggior parte dei paesi del mondo, in quei paesi essi hanno l'obbligo morale di farlo. L'uccisione degli animali a scopi alimentari non dovrebbe essere consentita, a meno che le condizioni del territorio e la quantità di popolazione non impediscano l'agricoltura. Il sistema industriale per l'allevamento e lo sfruttamento degli animali, sviluppato nei paesi occidentali, dovrebbe essere proibito. Potrebbe essere consentita solo un'economia casearia basata su fattorie di piccole dimensioni, purché gli animali godano di condizioni di vita accettabili e di sufficienti opportunità di movimento e di socializzazione. L'esibizione degli animali selvatici negli zoo e nei parchi di divertimento non appare moralmente giustificabile. Solo le riserve naturali, che garantiscano condizioni di vita il più possibile simili a quelle naturali, sono accettabili. Come per gli esseri umani, è consentita l'uccisione di animali per legittima difesa, per esempio, per evitare di essere punti da una zanzara.
In assenza di una comunanza di interessi tra gli esseri umani e gli animali, non abbiamo alcun dovere di soccorso nei loro confronti. Non abbiamo quindi nessuna responsabilità verso gli animali selvatici. Si deve anche considerare il fatto che un simile aiuto potrebbe interferire con il ciclo naturale predatore-preda, causando imprevedibili danni all'equilibrio ecologico e alla stabilità degli eco sistemi. Tuttavia, se gli animali selvatici sono minacciati dalla presenza di manufatti umani, quali strade, vetrate, linee elettriche, ecc., allora esiste un dovere di soccorso di tipo debole. Se invece gli animali vengono allevati dall'uomo per qualche scopo, ciò implica per gli esseri umani un dovere di soccorso, anche nel caso in cui non siano direttamente responsabili del pericolo che minaccia gli animali. Si tratta di una situazione simile a quella di un bambino che vive con i suoi genitori. Così, se un gatto torna a casa pieno di ferite dopo una notte di battaglie con i suoi simili, il proprietario ha la responsabilità di curarlo. Questa responsabilità rappresenta il rovescio della medaglia del piacere che gli animali domestici procurano con la loro compagnia.
Nella misura in cui gli animali meritano una considerazione morale autonoma e viene esclusa l'aggregazione interpersonaIe degli interessi di diverse entità, la sperimentazione animale, finalizzata al soddisfacimento degli interessi degli esseri umani o di altri animali, non dovrebbe essere consentita. Questo principio di carattere generale va però soggetto a due tipi di restrizione: in primo luogo, non tutti gli interessi meritano la stessa considerazione morale. Come già sottolineato, alla riduzione della complessità dell'autoattribuzione corrisponde una riduzione della rilevanza morale degli interessi generati da tale autoattribuzione. Inoltre, in una comunità volontaria, in cui vi siano doveri di mutuo soccorso, l'insorgere di una forte discrepanza di interessi impone una valutazione della loro rispettiva importanza. Come abbiamo visto, gli animali selvatici meritano in genere una maggiore considerazione etica di quelli domestici, come le piante selvatiche e quelle coltivate.
Tenendo conto di tutti e due gli aspetti della questione, si può ritenere che possano esservi delle eccezioni alla proibizione totale della sperimentazione animale, pur rimanendo entro i limiti della responsabilità morale. Gli esperimenti sui vertebrati selvatici possono essere consentiti solo se producono conseguenze minime, come nel caso in cui si fissi un anello sulla zampa di un volatile, ecc. Per gli animali allevati dagli esseri umani, si dovrebbero seguire le seguenti regole:
1) grandi scimmie: sono vietati gli esperimenti che causino ansietà prolungata o lesioni non trascurabili, dolore o morte;
2) altri primati, balene, delfini, bovini, cani, gatti, pecore, maiali, ecc.: gli esperimenti che causino ansietà prolungata o lesioni non trascurabili, dolore o morte sono consentiti solo allo scopo di sperimentare o sviluppare direttamente tecniche operatorie o medicine salvavita per gli esseri umani, quando nessun'altra forma di sperimentazione è in grado di dare risultati analoghi;
3) altri mammiferi: gli esperimenti che causino ansietà prolungata o lesioni non trascurabili, dolore o morte sono consentiti solo allo scopo di sperimentare o sviluppare direttamente tecniche operatorie o medicine salvavita per gli esseri umani, quando nessun'altra forma di sperimentazione è in grado di dare risultati analoghi;
4) altri vertebrati: gli esperimenti che causino ansietà prolungata o lesioni non trascurabili, dolore o morte sono consentiti solo allo scopo di sperimentare o sviluppare efficaci tecniche operatorie o medicine per gli esseri umani, quando nessun'altra forma di sperimentazione è in grado di dare risultati analoghi;
5) altri animali: gli esperimenti che causino ansietà prolungata o lesioni non trascurabili, dolore o morte sono consentiti solo allo scopo di sperimentare o sviluppare tecniche operatorie o medicine per gli esseri umani e gli altri mammiferi, quando nessun'altra forma di sperimentazione è in grado di dare risultati analoghi.
Tutti gli esperimenti a scopi didattici, i test di tossicità e quelli sui cosmetici, la ricerca di base, lo sviluppo di strumenti bellici e la ripetizione degli esperimenti sono in linea di principio eticamente inammissibili. In generale, la sperimentazione animale dovrebbe rispettare tre grandi principi: riduzione, sostituzione e perfezionamento. Riduzione significa diminuire il numero complessivo degli esperimenti, per esempio, attraverso la creazione di un registro, per evitare la ripetizione degli esperimenti; sostituzione significa supplire agli esperimenti sugli animali con altri metodi (simulazioni matematiche, costruzione di modelli meccanici, impiego di piante o di colture batteriche); perfezionamento significa miglioramento degli esperimenti inevitabili. Per quanto riguarda quest'ultimo punto, lo scopo non dovrebbe essere unicamente l'eliminazione del dolore, come accade molto spesso. Lo scopo principale dovrebbe essere l'eliminazione del rischio di morte o di gravi lesioni. Allo stesso modo, non è permesso uccidere gli animali dopo l'esecuzione dell'esperimento. Questo tipo di uccisione è ancora più deprecabile della normale uccisione di animali a scopi alimentari, perché riguarda un essere che precedentemente è stato di aiuto agli uomini. Si potrebbe paragonare questa situazione a quella di un imprenditore che sopprimesse i suoi impiegati al momento in cui devono andare in pensione.
Alcuni scienziati troveranno forse queste norme troppo restrittive. Vorrei però sottolineare che, al momento attuale, l'obiettivo politico più urgente nel campo dell'etica animale non è quello di ottenere l'abolizione o una regolamentazione più severa degli esperimenti sugli animali, ma di pervenire all'abolizione della disumana pratica dell'allevamento di massa seguita nell'industria alimentare. Ciò appare giustificato in base a diverse considerazioni. In primo luogo, il numero complessivo degli animali impiegati nella sperimentazione è enormemente inferiore a quello degli animali utilizzati dall'industria alimentare. Per esempio, in Germania 330 milioni di animali vengono soppressi ogni anno a scopi alimentari, mentre meno di 2 milioni vengono utilizzati per effettuare esperimenti, per lo più topi e ratti. Inoltre, le condizioni di allevamento degli animali da laboratorio sono in genere migliori, per la semplice ragione che gli sperimentatori hanno bisogno di animali sani. Infine, gli argomenti portati a giustificazione della sperimentazione animale, almeno quella condotta a scopi medici, sono obiettivamente molto più forti di quelli generalmente addotti a difesa dell'industria alimentare, come il sapore dei cibi o la conservazione delle abitudini alimentari tradizionali.
Come abbiamo detto, gli interessi delle piante e dei microrganismi meritano solo una blanda considerazione morale. Se esistono buone ragioni, abbiamo il diritto di servircene per i nostri bisogni: è consentito tagliare un albero per ricavarne legna da ardere o per fabbricare mobili o se vi è il rischio che l'albero cada, danneggiando una casa o i suoi abitanti, ma non è lecito danneggiare una pianta per puro divertimento, se è disponibile qualche altra forma di svago. Non è consentito, per esempio, tagliare un albero per il piacere di fado, per mostrare quanto siamo forti oppure per esercizio. Qualcuno troverà bizzarra l'idea di rispettare gli interessi delle piante, ma se riflettiamo un po' più a lungo, vediamo che le nostre intuizioni collimano molto bene con il modello prospettato. Per esempio, pensiamo che non sia la stessa cosa che un fanciullo calpesti senza necessità delle pietre o dei fiori selvatici. Come nel caso degli animali, non esistono doveri di soccorso nei riguardi delle piante selvatiche, ma se le nostre piante domestiche hanno bisogno di acqua o di nuova terra, siamo tenuti a fornirgliele.
La considerazione morale delle piante ha un'altra importante conseguenza: la semplice somma dei blandi interessi delle singole piante può giustificare l'opposizione a giganteschi progetti industriali. Se i vantaggi economici ottenibili da un nuovo canale o da una nuova diga sono incerti o comunque scarsi, non sono in grado di bilanciare la perdita di miliardi di esseri viventi e quindi la realizzazione del progetto non appare moralmente giustificabile.
Il progresso scientifico ha sviluppato un nuovo campo di ricerca, vasto ed entusiasmante: la genetica. A causa della novità dei metodi impiegati in questo campo, la moralità tradizionale non è in grado di fornire gli strumenti necessari a una loro valutazione etica. Questo almeno nel caso in cui l'animale creato goda di buona salute e non soffra. Creare un animale malato o sofferente è una colpa altrettanto grave quanto causare una malattia o una sofferenza in un animale già esistente. Ma cosa dire della valutazione morale della manipolazione genetica in se stessa? Come giudicare la fecondazione in vitro, la donazione, la manipolazione dei singoli geni, se il prodotto di queste tecniche è un animale sano, privo di deficienze e non sofferente o una pianta che non differisce per molti aspetti dalle piante naturali? Mai come in questo caso appare evidente l'esistenza di due diversi standard di valutazione morale, uno per gli animali, l'altro per gli esseri umani. Nel caso degli esseri umani, infatti, consideriamo la manipolazione come un male in sé e non esitiamo a proibire, per esempio, la donazione, anche se dovesse dar luogo a un esemplare identico all'originale, come nei parti gemellari. Verso gli animali, invece, manteniamo un atteggiamento differente.
Per valutare gli aspetti etici dell'ingegneria genetica do bbiamo prima di tutto tener presente un principio fondamentale dell'etica, che chiamerò principio del potere del produttore: esso stabilisce che chi produce qualcosa ha il diritto di servirsene. Il produttore di un'automobile ha il diritto di guidarla, di venderla, di disfarsene come meglio crede, posto che questo non interferisca con gli interessi degli altri, come avverrebbe nel caso di guida pericolosa o di vendita fraudolenta. Ritroviamo il principio del potere del produttore in molte teorie, come nella teoria del lavoro di J. Locke o nel principio cristiano secondo cui Dio ha il diritto di governare il mondo perché ne è il creatore. Una conseguenza di questo principio basilare è che se qualcuno ha prodotto qualcosa, il prodotto non può vantare dei diritti morali verso il suo produttore, prima di tutto perché se il produttore ha il diritto di usare il prodotto, quest'ultimo non può porre limitazioni al suo uso e inoltre perché il produttore avrebbe potuto decidere di costruirlo in modo del tutto diverso o di non costruirlo affatto.
Il principio del potere del produttore può essere visto come il rovescio della medaglia della posizione etica che abbiamo esposto nelle pagine precedenti. L'elemento che conferisce uno status morale a un'entità è la capacità di attribuirsi autonomamente degli interessi, che comprende a sua volta la capacità di autoprodursi, auto svilupparsi e autoconservarsi; ciò significa che l'entità non è totalmente o in gran parte prodotta da altri. Così, se fosse possibile produrre un essere vivente in tutti i suoi dettagli, questa macchina biologica non potrebbe vantare nessun diritto morale nei confronti del suo produttore. L'ingegneria genetica minaccia così di privare le entità che vengono manipolate della loro rilevanza morale.
Il problema che dobbiamo affrontare in questo momento non è però la produzione completa di esseri viventi con i metodi dell'ingegneria genetica, ma un graduale incremento della manipolazione: i metodi usuali di allevamento, l'inseminazione artificiale, la fecondazione in vitro, la donazione, la modificazione dei geni rappresentano altrettante tappe lungo la strada che conduce alla realizzazione di una macchina biologica. Questo processo sempre più intenso di manipolazione dovrebbe essere soggetto a due regole. Anzitutto, la manipolazione genetica è tanto più problematica quanto più elevata è la posizione che l'entità interessata occupa nella gerarchia biologica. La manipolazione genetica sugli esseri umani è quindi più discutibile di quella sui mammiferi, la manipolazione sui mammiferi è più discutibile di quella sugli altri animali, quella sugli animali è più discutibile di quella sulle piante, ecc. In secondo luogo, ogni passo compiuto in direzione di una totale manipolazione genetica è più problematico del precedente. I metodi usuali di allevamento sono quindi meno discutibili dell'inseminazione artificiale, quest'ultima è meno problematica della fecondazione in vitro, che a sua volta è meno problematica della donazione o della modificazione diretta dei geni.
Sommando insieme le due regole, giungiamo a queste condusioni: la manipolazione genetica delle piante è accettabile solo se viene effettuata per scopi molto importanti, come per sviluppare nuovi medicinali o sconfiggere le carestie, ma non per servire interessi economici secondari, come nel caso dei cosiddetti 'nuovi cibi'. La manipolazione genetica degli animali richiede ragioni ancora più solide, mentre non può essere consentita la donazione o la manipolazione genetica degli esseri umani.
Molto spesso i concetti filosofici sono paragonabili ad armi, che vengono create o riscoperte per essere impiegate nella guerra contro certe posizioni consolidate. Questo è particolarmente vero per ciò che riguarda l'uso etico del concetto di diritti. Fino alla fine degli anni Sessanta, la dottrina etica dominante nel mondo anglosassone era l'utilitarismo, che ruotava intorno ai concetti di piacere, buono, valore, obbligo e dovere. I diritti svolgevano un ruolo secondario ed erano considerati come una semplice forma o inferenza degli obblighi. In tempi più recenti, dopo l'avvio della rivoluzione individualista contro i principi collettivisti, egualitaristi e massimizzanti dell'utilitarismo, il concetto di diritti si è trasformato in una delle principali armi utilizzate in questo conflitto. L'assegnazione di diritti morali a determinate entità esprimeva due propositi fondamentali: l'unica fonte di un dovere verso un'entità è l'entità stessa e non un qualcosa di esterno, per esempio, il bene collettivo o una regola logica universalizzante comune, come nell'utilitarismo; gli interessi di un' entità (o una parte di questi) non sono soggetti ai criteri di aggregazione interpersonale e di massimizzazione adottati dall'utilitarismo.
Come abbiamo visto, perfino un utilitari sta come Singer si serve di questo concetto per escludere una parte degli interessi degli esseri autocoscienti dalla massimizzazione generale, mentre tra i non utilitaristi Regan se ne serve per attribuire agli animali una posizione morale simile per molti aspetti a quella degli esseri umani. Molti degli autori e delle istituzioni più radicali nel mondo anglosassone, ma anche al di fuori di esso, che militano a favore del riconoscimento di uno status morale degli animali, preferiscono per questo motivo parlare non solo di etica animale o di status morale, ma di diritti animali (Cavalieri e Singer, 1993; Regan, 1993).
Parlare di diritti piuttosto che di etica o di interessi può servire a molti altri scopi. Un primo obiettivo, di tipo pragmatico, è la prosecuzione e l'ampliamento del vittorioso movimento per i diritti umani, con l'inclusione della difesa dei diritti degli animali senzienti superiori e in particolare delle grandi scimmie (Cavalieri e Singer, 1993). Un secondo obiettivo pragmatico è quello di dare maggiore visibilità alla richiesta di considerazione etica per gli animali, riconoscendoli come titolari di diritti legali; questo obiettivo potrebbe essere raggiunto sia attraverso il rafforzamento dell'attuale legislazione di protezione animale, sia tramite la formulazione di una sorta di costituzione dei diritti animali. Inoltre, a livello teorico, l'impiego del concetto di diritti esclude la possibilità di derivare dagli interessi umani i divieti a difesa degli animali, cioè elimina la possibilità di una posizione puramente antropocentrica. La considerazione morale degli animali viene invece a ricevere in questo modo una base pienamente non antropocentrica. Gli animali sono riconosciuti come soggetti morali, meritevoli di considerazione morale in base ai loro interessi. Infine, anche ammettendo un ricorso, sistematico o parziale, all'aggregazione interpersonale, il concetto di diritti rafforza la posizione dei titolari dei diritti stessi.
Si tratta ora di capire se, a parte la battaglia contro l'utilitarismo nel mondo anglosassone, il concetto di diritti possa rivelarsi anche altrove uno strumento utile. Il problema principale a tale riguardo è rappresentato dal fatto che spesso non si distingue con sufficiente chiarezza tra l'uso etico, quello morale e quello legale del termine. l diritti legali esistono, in quanto sono stabiliti da un determinato sistema legale. l diritti morali esistono invece come consuetudini accettate in un determinato sistema morale. l diritti etici, al contrario, non possono essere né stabiliti per legge né accettati per consuetudine, ma sono espressione di una posizione etica, che impone di riconoscere uno status morale a una determinata entità. Come abbiamo visto, questa forma di considerazione etica degli altri, ossia il riconoscimento del loro status morale, rappresenta la base stessa dell'etica. L'impiego del concetto di diritti al posto di quello di status morale non aggiunge quindi nulla di sostanziale alla discussione etica, a meno che non si abbia una posizione utilitari sta e a patto di voler escludere l'aggregazione interpersonale (Regan e Singer, 1989).
Questa è la ragione per cui alcuni teorici hanno indicato come caratteristica specifica del diritto il fatto di consentire all'entità interessata di avanzare una pretesa valida nei confronti di un'altra persona (l'attore o una terza persona), obbligando l'attore ad assolvere un certo dovere morale; ma in ogni etica costruita sulla base degli individui coinvolti, tutti i doveri sono fondati su pretese di carattere etico.
Per quanto riguarda l'aspetto legale, si deve considerare il fatto che è impossibile pretendere la trasformazione automatica dei diritti etici e morali in diritti legali. L'impossibilità di identificare questi due aspetti è dimostrata dal fatto che perfino entità prive di diritti morali, come le società, possono avere diritti legali e viceversa non tutti i diritti etici e morali si traducono in diritti legali: per esempio, il diritto morale di sapere dagli altri la verità non rientra, almeno in questa forma generale, nei codici esistenti. Alcuni aspetti particolari del sistema legale, come quelli riguardanti la pubblicità, la socialità e l'uso della forza, andrebbero maggiormente approfonditi. Non intendo affermare con questo che sia impossibile o non desiderabile giungere al riconoscimento dei diritti legali degli animali, ma solo che un uso indifferenziato del termine diritti non contribuisce a fare chiarezza sulle difficili questioni etiche e legali che questo riconoscimento comporterebbe.
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