La corruzione tra politica e mercato
La questione della persistenza di sacche di corruzione sistemica, sconosciute ad altri Paesi liberaldemocratici con equivalenti livelli di sviluppo, è entrata prepotentemente nel discorso pubblico dopo l’avvio delle inchieste di ‘mani pulite’, all’inizio degli anni Novanta, come una tra le componenti di un’ipotizzata anomalia italiana. Questo contributo si propone di fornire una cornice interpretativa per inquadrare l’evoluzione del fenomeno, prendendo in considerazione sia le macrovariabili, di natura politico-istituzionale, culturale, economica che hanno alimentato le reti di scambio occulto tra amministratori pubblici e imprenditori, sia i meccanismi di regolazione ‘interna’ che ne hanno garantito la stabilità.
Quanto più la corruzione diventa sistemica, modellando regole informali di condotta conosciute e applicate nei partiti politici, nelle burocrazie, nelle imprese, tanto più essa tende a ritrarsi nell’ombra. Trattandosi, infatti, di uno scambio volontario, in virtù del quale corrotti e corruttori si appropriano congiuntamente, e per vie riparate, di risorse appartenenti alla collettività, a nessuno dei partecipanti conviene denunciare la corruzione. Quando non lascia tracce e non è perseguita penalmente, la corruzione resta celata al giudizio dell’opinione pubblica: dunque non suscita allarme né scandalo, né produce ripercussioni negative – in termini di sanzioni penali, politiche, disciplinari o reputazionali – per chi vi è coinvolto. La lettura dei medesimi dati si presta allora all’impiego di chiavi interpretative opposte: un basso livello di denunce può segnalare che il fenomeno sta declinando, o che al contrario si è irrobustito e inabissato. Nonostante queste difficoltà metodologiche, incrociando informazioni ricavate da fonti diverse, e guardando alle loro linee di tendenza, è comunque possibile formulare alcune ipotesi sulla evoluzione del fenomeno. Le fonti disponibili per un’analisi dei dati quantitativi sulla corruzione si concentrano su tre passaggi che – in un percorso ‘a imbuto’ – permettono la stima o misura di tre dimensioni del fenomeno:
1) l’universo ‘oscuro’ di attività corrotte, nella sua estensione;
2) l’insieme di scambi corrotti che sono scoperti e, dato il vincolo di obbligatorietà dell’azione penale (che in concreto si scontra, come si vedrà, con le potenziali distorsioni dovute a partitizzazione o politicizzazione della magistratura), danno luogo a procedimenti giudiziari (disciplinari, contabili, ecc.), che nel loro iter potranno concludersi o meno con la condanna degli imputati;
3) le vicende di corruzione che attirano l’attenzione dei media e, in base a considerazioni etico-professionali o di opportunità politica, sono veicolate all’opinione pubblica (Cazzola 1988).
Gli indicatori sulla diffusione sotterranea della corruzione impiegano due tipi di fonti: i sondaggi condotti sull’intera popolazione, relativi a esperienze od opinioni personali; e gli indici fondati sulle ‘percezioni’ di panels di esperti. Le occasionali rilevazioni statistiche stimano la diffusione della ‘corruzione spicciola’, focalizzandosi sulle tangenti di piccolo cabotaggio ai comuni cittadini – fatta salva la difficoltà di rilevazione su un tema sensibile, che nell’ambiguità connotativa del termine tangente può condizionare le risposte degli intervistati. Confrontando il dato delle due rilevazioni Eurobarometro 2009 e 2012 della Commissione europea (la domanda era se qualcuno avesse chiesto o si fosse aspettato il pagamento di una tangente nei 12 mesi precedenti) e le ultime due indagini Global corruption barometer nel 2010 e 2013 della ONG Transparency international (la domanda era se qualcuno in famiglia avesse pagato una tangente nei 12 mesi precedenti per accedere a uno tra otto servizi pubblici essenziali), si riscontra nei Paesi dell’Unione Europea una forte correlazione tra le diverse rilevazioni. In Italia la percentuale di risposte affermative oscilla tra il 5 e il 17% (fig. 1), sensibilmente superiore alla media europea.
Secondo un sondaggio analogo, condotto su base regionale dall’istituto di ricerca dell’Università di Göteborg Quality of government institute (QoG) (fig. 2), tra il 2010 e il 2013 c’è stato un drastico incremento dei cittadini che hanno vissuto esperienze dirette di corruzione, superando in alcune regioni il 20%: quelle maggiormente interessate sono Campania, Molise, Lazio, Basilicata, Calabria, Abruzzo e Sicilia.
Lo strumento maggiormente utilizzato – anche nella ricerca scientifica – per la stima indiretta della diffusione della corruzione è il Corruption perception index (CPI) di Transparency international, basato su opinioni di osservatori privilegiati (imprenditori, giornalisti, esperti, ecc.) raccolte da 13 organizzazioni indipendenti. A conferma della sua attendibilità va sottolineata la forte (e statisticamente significativa) correlazione tra questo indicatore e i sondaggi sulle esperienze dirette degli intervistati: percezioni degli esperti e ‘realtà’ della corruzione catturata dai sondaggi tendono a convergere (Transparency international, Global corruption barometer, 2009, p. 14; Vannucci 2012, p. 92). Il punteggio di 100 corrisponde al massimo di trasparenza, 0 al massimo di corruzione: l’Italia con 43 nell’indagine del 2013 si colloca alla terzultima posizione tra i Paesi UE, superata solo da Grecia e Bulgaria (fig. 3). Se si analizza la linea di tendenza tra il 1995 (anno della prima rilevazione) e il 2011, prima del cambiamento della metodologia e della scala, si nota che il punteggio dell’Italia migliora fino al 2001, quindi le percezioni si sono fatte via via più pessimistiche, con un crollo dal 41° posto del 2006 al 69° posto su 175 Paesi considerati nel 2013. L’orientamento negativo è condiviso anche dai cittadini: appena il 4% ritiene che la corruzione si sia ridotta negli ultimi due anni, il 32% la considera stabile, per il 64% è cresciuta (Transparency international, Global corruption barometer, 2013).
Le pratiche di corruzione possono essere misurate quando vengono alla luce, a seguito di denuncia o di indagini autonome dei magistrati. Le statistiche giudiziarie, infatti, certificano l’ampiezza della corruzione emersa, perseguita e sanzionata. I numeri risultanti dipendono dalla sottostante diffusione del fenomeno, ma anche dalla forza dei suoi meccanismi di regolazione interna, dall’efficacia dei meccanismi di controllo sociale, da qualità e quantità di risorse (materiali e ‘normative’) a disposizione degli organi giudiziari e di polizia.
Incrociando dati ISTAT, statistiche giudiziarie penali e dati del Servizio anticorruzione e trasparenza (SAET) si individua una linea di tendenza piuttosto netta nel periodo tra il 1984 e il 2009: il numero di persone coinvolte e di reati denunciati per corruzione e concussione, esploso nel 1992 con ‘mani pulite’, è in costante diminuzione dopo il picco raggiunto nel 1995, quando ci sono stati quasi 2000 crimini e oltre 3000 persone denunciate. I dati del Ministero dell’Interno sulle denunce alle forze di polizia mostrano che il trend discendente, con qualche oscillazione, prosegue fino al 2010, quando presumibilmente si realizza uno dei livelli più bassi di corruzione svelata dal 1992.
Considerando invece una gamma più estesa di reati contro la pubblica amministrazione – corruzione, concussione, peculato, malversazione e frode – è possibile analizzare l’evoluzione del tasso di denunce rispetto alla popolazione risalendo fino al 1948. Inquadrata in questa prospettiva, la vicenda di ‘mani pulite’ perde parte della sua straordinarietà, almeno per quanto riguarda l’ampiezza dell’intervento giudiziario – analogo per intensità a quello dei primi anni del dopoguerra. Come emerge dalla fig. 4, il picco di ‘mani pulite’ scaturisce dalla brusca accelerazione di un processo di progressiva emersione per via giudiziaria di tali crimini, cominciato da oltre un decennio. Dagli episodi sporadici di metà degli anni Settanta, con 0,7 delitti denunciati ogni 100.000 abitanti, la crescita è stata costante, fino al picco di 5,6 casi del 1994. Dopo una diminuzione alla fine degli anni Novanta, dal 2000 il trend delle denunce è nuovamente in ascesa, su livelli che nel 2010 – 4,3 delitti ogni 100.000 abitanti – sono circa il doppio rispetto a un decennio prima, di poco inferiori a quelli registrati negli anni ruggenti di ‘mani pulite’. Le accompagna però un allarme sociale molto inferiore, come si mostrerà più avanti.
Se si analizzano i dati del Ministero della Giustizia e del SAET le condanne per reati di corruzione seguono un marcato andamento decrescente. Si passa infatti da oltre 1700 condanne per reati di corruzione nel 1996 ad appena 263 nel 2010, meno di un quinto, una tendenza che si accentua a partire dal 2001. Su base regionale – si veda la figura 5 – le condanne mostrano tra il 2009 e il 2010 una consistente variazione tra aree diverse: il tasso di condanne rispetto alla popolazione oscilla sensibilmente da un anno all’altro (per es., si dimezza in Sicilia) e tra una regione e l’altra (in Campania nel 2010 è 16 volte più elevato che nelle Marche e in Sardegna).
Le statistiche sui reati perseguiti non permettono di formulare giudizi univoci sull’evoluzione del fenomeno in un dato Paese, ma si può ipotizzare che a parità di efficacia dell’azione repressiva delle forze di polizia e della magistratura, dotate di risorse pressoché omogenee e soggette agli stessi vincoli, l’ammontare di reati denunciati in aree diverse nel medesimo Paese e nel medesimo periodo fornisca una rappresentazione più attendibile – in termini relativi, non assoluti – della sottostante diffusione dei fenomeni di corruzione. La figura 6 fornisce una scomposizione su base regionale del tasso di denunce per corruzione e concussione tra il 2004 e il 2010. Le regioni centromeridionali, caratterizzate da un radicamento delle organizzazioni mafiose, si collocano nella parte bassa, mentre Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Marche si contendono la palma della trasparenza.
Accanto a una faglia sotterranea che separa Settentrione e Meridione d’Italia, la mappa della corruzione denunciata mostra una sensibile variazione tra regioni diverse: funzionari, politici, imprenditori delle tre regioni più virtuose hanno circa un sesto delle probabilità di incappare in una denuncia dei loro concittadini che vivono nelle regioni in fondo alla classifica.
Questa stima viene corroborata da un indicatore sintetico predisposto dal QoG in base a risposte sulla percezione del ricorso alla corruzione per accedere ad alcuni servizi pubblici e sulle tangenti pagate nei 12 mesi precedenti (Charron, Lapuente, Rothstein, 2013). Nella figura 7 le 21 regioni e province autonome italiane sono poste su una scala di integrità, in base alle rilevazione del 2013. Ai vertici si collocano le province autonome del Trentino-Alto Adige, la Valle d’Aosta, il Friuli, seguite dalle altre regioni del Centro-Nord. In fondo alla classifica si collocano ancora le regioni dell’Italia centromeridionale: Campania, Calabria, Puglia, Sicilia, Molise e Lazio. L’indice di corruzione regionale del QoG si sovrappone con precisione, in modo statisticamente significativo, al tasso di denunce per reati di corruzione e concussione nelle regioni italiane tra il 2004 e il 2010, a conferma dell’affidabilità delle denunce come stima della diffusione in termini relativi del fenomeno nel medesimo periodo (Vannucci 2012). Piuttosto sorprendentemente, invece, a livello regionale non sussiste alcun legame significativo di correlazione tra diffusione della corruzione (stimata dagli indici qui presentati) oppure densità di denunce e il tasso di condanne per questi reati: è come se, una volta avviati, i procedimenti giudiziari per questi reati affrontassero nelle diverse sedi territoriali un destino imprevedibile, influenzato da fattori accidentali, che slega le probabilità di condanna dalla frequenza del perseguimento penale.
Un’ulteriore fonte di informazioni è rappresentata dai mezzi di comunicazione che – a parte casi straordinari di giornalismo d’inchiesta e di denuncia – si limitano a filtrare le notizie provenienti dai procedimenti giudiziari in corso, emersi grazie a indagini o denunce, presentandone un resoconto selettivo. Dai media l’opinione pubblica ricava informazioni su un sottoinsieme di inchieste, di norma quelle con protagonisti più in vista (o considerati politicamente avversi ai giornalisti) e maggiori poste in palio. L’attenzione dei media vale come indicatore per cogliere non la realtà della corruzione, ma le dinamiche dello scandalo: quanto più estesa è la copertura mediatica delle vicende di tangenti, tanto più intensa – a parità di condizioni – sarà la reazione dell’opinione pubblica, anche in termini di sanzioni politiche (perdita di voti e consenso, ecc.).
È stata dimostrata l’esistenza di una forte correlazione tra libertà di stampa e bassi livelli di corruzione (A. Brunetti, B. Weder, A free press is a bad new for corruption, «Journal of public economics», 2003, 87, 7-8, pp. 1801-824), ma in Italia il circolo virtuoso tra estesa copertura mediatica di vicende di corruzione e interesse e disponibilità dei cittadini a sanzionare i politici coinvolti sembra essersi inceppato. Se si osserva la percentuale sul totale dei lanci di agenzia ANSA (principale anello di congiunzione tra inchieste e pubblicazione di notizie) che fanno riferimento a reati di corruzione e concussione dal 1981 al 2013 (R. Asquer, Media coverage of corruption and incumbent renomination in Italian parliamentary elections, 1992-94 and 2008-13, Ph.D. dissertation, University of California, Los Angeles, 2015), si nota che a metà anni Novanta, in corrispondenza con ‘mani pulite’, l’esposizione mediatica ha raggiunto un picco straordinario – quasi un quarto di tutte le notizie aveva per oggetto tali reati – mentre in seguito si rileva un netto riflusso. Nel primo decennio del 2000 l’attenzione precipita fino a livelli inferiori a quelli degli anni Ottanta. Si osserva una modesta risalita solo tra il 2010 e il 2013, con poco più del 2% di notizie che fanno riferimento alla corruzione, in coincidenza con un’ondata di scandali che ha colpito – tra gli altri – Protezione civile, Finmeccanica e molti consigli regionali.
La figura 8 mostra la correlazione tra ammontare di denunce per reati di corruzione – la ‘materia prima’ cui attingono i mezzi di comunicazione – e la percentuale di comunicati stampa ANSA su questi temi. Da un lato trova conferma l’eccezionale risalto delle inchieste di ‘mani pulite’, che hanno prodotto un effetto moltiplicativo sull’offerta di informazioni; dall’altro si rileva la brusca ‘normalizzazione’ degli anni successivi: a partire dal 1996, infatti, la percentuale di notizie ANSA riguardanti casi di corruzione risulta sempre al di sotto della linea di correlazione, assume cioè relativamente minor peso nell’universo della comunicazione. Questo può essere spiegato da almeno due ordini di fattori: la più bassa caratura politica di molti protagonisti di casi di corruzione nell’ultimo decennio, che ha reso meno interessanti per i giornalisti le relative vicende giudiziarie; la declinante attenzione dell’opinione pubblica, dovuta a una sorta di assuefazione dopo l’overdose di notizie a metà anni Novanta, ossia a un innalzarsi della ‘soglia di scandalizzazione’. Del resto, nello stesso periodo le indagini sono state sempre più spesso associate – nel dibattito pubblico e nell’esposizione mediatica – alla denuncia di una strumentalizzazione politica dei magistrati, entrando in gioco come elemento che contribuiva a rinfocolare tensioni irrisolte tra classe politica e magistratura.
In sintesi, l’analisi dei sentieri evolutivi dei tre aspetti della corruzione cui si accennava all’inizio permette di formulare alcune ipotesi sulle sue dinamiche sommerse. La percezione diffusa tra esperti e cittadini di un fenomeno in crescita nell’ultimo decennio e profondamente radicato nella società e nel settore pubblico stride con l’ammontare costante (o in lieve riduzione) di procedimenti giudiziari, cui si accompagnano il crollo delle condanne e una relativa disattenzione dei media. In altri termini, le reti di corruzione si sviluppano negli stessi anni in cui per i protagonisti di tali reti diventa più remoto sia il rischio penale sia quello d’incorrere in sanzioni politiche e sociali. Si sarebbe dunque allargata la forbice tra la corruzione praticata nell’ombra e quella che viene alla luce grazie alle inchieste penali, in altri termini ne è lievitata la ‘cifra oscura’ (Davigo, Mannozzi 2007). In misura ancora maggiore sembra aumentata quella che si potrebbe definire la ‘cifra grigia’ della corruzione: l’insieme di vicende che, affiorate grazie a un procedimento penale, non producono ricadute sotto il profilo penale – in assenza di condanna definitiva – né sociale o politico, visto il disinteresse dei media e degli elettori. Ne consegue una rafforzata aspettativa di impunità, che incoraggia l’ingresso di imprenditori, politici e burocrati nelle reti della corruzione, in grado di garantire ingenti profitti illeciti a basso rischio ai suoi beneficiari.
Modelli diversi di spiegazione sono stati utilizzati per individuare i principali fattori che hanno favorito lo sviluppo della corruzione in Italia, guardando in particolare all’interazione tra l’estensione ‘orizzontale’ del fenomeno e il suo radicamento ‘verticale’ – in termini di tendenza alla diffusione di reti di corruzione ‘sistemica’, soggetta a forme di regolazione interna. La corruzione è un fenomeno complesso, che incide ed è a sua volta condizionato da molteplici variabili di natura istituzionale, politica, economica e sociale. Di qui la pluralità di paradigmi utilizzati nello studio delle condizioni che ne favoriscono o ne ostacolano l’emergere.
Un primo approccio, di matrice economica, considera le scelte individuali di offrire o accettare tangenti come prodotto di un calcolo razionale, fondato sulla ponderazione di profitti e costi attesi, confrontati con quelli delle alternative disponibili. In termini generali, la pratica della corruzione in un certo contesto è direttamente proporzionale all’ampiezza delle rendite create e distribuite dalla mano pubblica, al grado di discrezionalità di chi ne decide la destinazione, alla relativa trasparenza/opacità dei processi decisionali, all’inefficacia dei meccanismi di controllo che assicurano la responsabilità degli agenti (R. Klitgaard, Controlling corruption, 1988).
Nel caso italiano alla radice della diffusione della corruzione vi sarebbe allora la concomitante influenza di tali fattori. In primo luogo, entra in gioco l’ingente ammontare di rendite create dall’intervento pubblico, a seguito di attività redistributive o regolative dello Stato, ovvero prodotte da restrizioni concorrenziali nei mercati. A questo si somma l’estensione e la rilevanza delle decisioni politiche nell’organizzazione delle attività economiche e sociali, che si traduce in un elevato ammontare di investimenti e di spesa pubblica, in ampi poteri di licenza, concessione e interdizione, in vasti poteri di nomina a ruoli di responsabilità in campo sociale ed economico – oltre che nel settore pubblico – attribuiti a soggetti e organi di direzione politica (Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione 1996). Le stesse modalità di attuazione delle politiche hanno accresciuto l’esposizione al rischio corruzione. La carente capacità di programmazione e la conseguente frammentarietà degli interventi hanno spinto a negoziazioni ad hoc con gli interessi privati in gioco, condotte spesso sottobanco. Inoltre, la persistenza di molteplici organizzazioni economiche di proprietà o soggette al controllo pubblico, anche in sede locale, ha costituito per un verso un serbatoio di consensi presidiato da personale politicamente affiliato, per un altro un canale per accedere a fondi pubblici e stornarli a beneficio dei decisori politici (Pizzorno 1992, p. 54). Anche le dinamiche collusive di alcuni mercati – in particolare quelli soggetti a regolazione e controllo pubblico – generano posizioni di rendita che possono a loro volta diventare oggetto di corruzione sia nel settore pubblico sia nei rapporti economici tra privati (G. Sapelli, Storia economica dell’Italia contemporanea, 1997, 20082).
Frequenza e intensità dell’intervento pubblico nell’allocazione delle risorse sono precondizione necessaria al proliferare di distorsioni causate da scambi informali tra decisori pubblici e beneficiari delle loro scelte: ‘merce di scambio’ sono le risorse di autorità o le informazioni riservate che consentono al corrotto di assicurare una rendita al corruttore, o di accrescere le sue probabilità di conseguirla. Quanto più estesi sono i poteri di fatto discrezionali degli agenti pubblici, tanto più questi ultimi possono creare, distribuire, espropriare tali rendite, a prescindere da attribuzioni formali e prescrizioni normative: anche la capacità di accelerare o rallentare una pratica o un iter amministrativo danno all’agente pubblico il potere di assegnare selettivamente vantaggi e costi ai privati.
Per queste ragioni alcune consolidate caratteristiche del sistema istituzionale e amministrativo italiano risultano particolarmente vulnerabili alla corruzione. L’inefficienza e le disfunzioni amministrative consentono ai funzionari che sovrintendono i corrispondenti processi decisionali di monetizzare – sotto forma di tangenti – il controvalore del tempo e dell’impegno profuso nell’esercizio delle proprie mansioni, generando un potere arbitrario (nella rapidità di risposta) e dunque un potenziale corruttivo. Si intrecciano a questi fattori l’inflazione normativa e regolativa e la scarsa qualità testuale delle prescrizioni: ne scaturisce un’incertezza sui contenuti delle disposizioni vincolanti che accentua il potere di chi è chiamato ad applicare, interpretare o esercitare controlli sul rispetto della selva di norme e procedure (M. Ainis, La legge oscura, 1997, 20105). La tangente diventa così la contropartita per scongiurare contestazioni in merito alla violazione di queste ampie e complesse forme di regolazione, ovvero per ottenerne un’applicazione congruente con gli interessi del corruttore (Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione 1996).
La moltiplicazione e la confusa sovrapposizione di regole e procedure sono in ultima istanza il prodotto della sfiducia dello Stato nei confronti dei cittadini e dei funzionari, la cui attività libera dai vincoli imposti dall’autorità pubblica viene ritenuta potenzialmente lesiva degli interessi collettivi, in assenza di adeguati strumenti di controllo degli esiti di tali scelte. Ma l’eccesso di regolazione formale si traduce in ritardi o paralisi dei corrispondenti processi decisionali, cui fa seguito l’autorizzazione ex post dell’esercizio di poteri in deroga agli ordinari vincoli procedurali, per questo più esposti alla corruzione; ciò avviene soprattutto nei settori nei quali il fattore temporale è decisivo per la qualità delle prestazioni, come nelle procedure contrattuali relative alla sanità o alle opere infrastrutturali, nelle più o meno artificiose condizioni di ‘emergenza’, nel governo del territorio: «Provvedimenti dovuti verranno allora venduti, perché il tempo e le procedure per attuarli si sono trasformati in risorsa scarsa che il funzionario usa come sua proprietà privata. Il concetto di ‘corsia preferenziale’ illustra bene il meccanismo» (Pizzorno 1992, p. 55).
Il condizionamento dei processi decisionali a vantaggio dei corruttori può realizzarsi utilizzando come risorsa di scambio anche informazioni riservate e confidenziali – sui contenuti di un bando di gara, sui tempi di una verifica fiscale, ecc. – che aumentano le loro probabilità di ottenere una rendita, o scongiurare un costo al termine della procedura. In Italia diversi fattori contribuiscono ad accrescere l’opacità nel settore pubblico, basti pensare alla complessità delle procedure amministrative e ai contenuti ‘oscuri’, spesso difficilmente intellegibili e interpretabili di molte disposizioni normative, cui hanno fatto seguito ritardi e interpretazioni formalistiche degli adempimenti legati alla trasparenza (A. Vannucci, R. Cubeddu, Lo spettro della competitività, 2006). L’incertezza sugli esiti dei processi decisionali alimenta dunque una domanda di protezione: in cambio di un pagamento periodico di tangenti, gli interlocutori politici o burocratici offrono una sollecita risoluzione, a favore dei corruttori, di inconvenienti o controversie con l’amministrazione pubblica.
La responsabilità degli agenti pubblici si riflette nel rischio di incorrere in sanzioni in caso di coinvolgimento nella corruzione, rischio che dipende dall’efficacia dei meccanismi di controllo penale, disciplinare, contabile, sociale, politico: quanto più incisiva la valutazione del loro operato e severe le sanzioni previste dall’ordinamento o applicate spontaneamente dagli attori politici e sociali (tramite stigma, ostracismo, danno alla reputazione, ecc.), tanto meno conveniente risulta il coinvolgimento nell’illecito.
Nel caso italiano gli strumenti di deterrenza della partecipazione ad attività illegali risultano indeboliti da alcuni fattori. Sulla qualità dell’azione di repressione penale incidono le vischiosità e la complessiva inefficienza del sistema giudiziario, cui si associano disfunzioni specifiche nel contrasto ai ‘crimini dei colletti bianchi’ accentuate, specie a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, dall’indebolirsi delle fattispecie legate ai reati finanziari e da una restrizione dei termini di prescrizione, fortemente penalizzante per l’azione dei magistrati. In alcune fasi, specialmente prima della stagione dei ‘pretori d’assalto’ negli anni Settanta, e in alcuni contesti, il controllo penale è stato indebolito anche da una diffusa collusione di ceto o di affari tra magistrati e classe politica (Pizzorno 1992). Esemplare il caso del Tribunale di Roma, a lungo conosciuto come ‘porto delle nebbie’ per l’abitudine di alcuni suoi giudici, più contigui al potere politico, di avocare da altre sedi procedimenti scomodi per insabbiarli. Gli stessi organi di controllo amministrativo si sono dimostrati inefficaci sia nel disvelamento sia nel perseguimento della corruzione. Solo con la l. 27 marzo 2001 nr. 97 e con la successiva l. 6 nov. 2012 nr. 190 è stato introdotto il principio che alla condanna penale per reati di corruzione conseguano sanzioni disciplinari e politiche, in termini di decadenza e ineleggibilità, in precedenza quasi mai applicate. A questo esito ha contribuito anche la politicizzazione degli organi di controllo, così come la loro neutralizzazione attraverso l’instaurarsi di relazioni collusive di scambio, piuttosto che di supervisione e responsabilizzazione, tra controllori e controllati (Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione 1996).
Sul piano del controllo politico, inoltre, fino alla crisi del sistema partitico dei primi anni Novanta, la mancata alternanza al governo nazionale ha indebolito il controllo reciproco e gli incentivi alla denuncia; al contrario, si è rafforzato un orientamento consociativo non dichiarato tra forze politiche formalmente contrapposte, cementato nell’ambito della sfera di attività illecite da un potere di ricatto derivante dal comune coinvolgimento nelle reti della corruzione (A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, 1993). D’altro canto, salvo che in alcune ‘giunture critiche’ – nelle fasi di più intensa esposizione mediatica a notizie di scandali, come dopo il 1992 – gli elettori italiani hanno dimostrato una limitata capacità di risposta all’emergere di vicende di corruzione: l’elevata incidenza del voto di scambio e di appartenenza ha indebolito l’efficacia della sanzione politica e reputazionale per i soggetti coinvolti in inchieste giudiziarie (S. Sberna, A. Vannucci, It’s the politics, stupid!, «Crime law and social change», 2013, 60, pp. 565-93). Resta agli annali, in questo senso, l’appello lanciato nel 1976 dal giornalista Indro Montanelli a «turarsi il naso e votare DC», nonostante il fetore provocato dalla corruzione dilagante, per mantenere una barriera contro la paventata alternanza al governo della sinistra comunista.
A disinnescare la funzione di controllo esercitata dai mezzi di comunicazione e dall’opinione pubblica sul potere politico prevalente in Italia sono in effetti anche la dipendenza dei media dallo Stato e la tendenza al ‘parallelismo politico’ – in posizione spesso di sostanziale sudditanza – dei professionisti dell’informazione rispetto ai partiti, cui si somma la loro scarsa professionalizzazione (D. Hallin, P. Mancini, Comparing media systems, 2004, trad. it. Modelli di giornalismo, 2004). Anche sul versante privato il sistema di controllo e di gestione di natura ‘familiare’ prevalente in ampi segmenti del tessuto imprenditoriale, pure a livello di grandi imprese, da un lato ha indebolito i meccanismi di controllo aziendale interno, dall’altro ha favorito gli orientamenti collusivi nei rapporti con le altre imprese e con gli interlocutori nel sistema politico-amministrativo (G. Sapelli, Cleptocrazia, 1994).
Tradotto in termini prescrittivi, l’approccio economico prefigura come strategie efficaci per ridurre le ‘occasioni’ di corruzione il contenimento della mano pubblica – in termini di ammontare di risorse amministrate e di poteri delegati ai decisori – e l’inasprimento di controlli e sanzioni. Esiste però un ‘paradosso scandinavo’: i Paesi del Nord Europa si collocano ai vertici delle classifiche per livello di trasparenza nella vita pubblica, nonostante lo Stato giochi un ruolo estremamente ampio e penetrante nella vita economica e sociale (Vannucci 2012, p. 127). È un segnale che il calcolo costi-benefici non è l’unica determinante del coinvolgimento individuale nella corruzione. Due ulteriori modelli di spiegazione sono per questo particolarmente indicati per cogliere le peculiarità del caso italiano.
Seguendo un approccio di matrice socioculturale l’attenzione si sposta alla struttura di norme etiche e valori: entrano qui in gioco quell’insieme di fattori – convenzioni e tradizioni, senso civico, etica pubblica, spirito di corpo e senso dello Stato dei funzionari, cultura politica e amministrativa – capaci di plasmare le ‘preferenze morali’ degli individui. Questi elementi si riflettono nel ‘costo morale’ associato alla violazione delle leggi e al tradimento del mandato fiduciario ricevuto. Così come altre attività illegali, la corruzione sarà tanto meno diffusa quanto maggiore è la forza delle convinzioni personali che sostengono il rispetto delle leggi. Quando i criteri di riconoscimento morale prevalenti nelle cerchie sociali, nelle quali l’individuo si identifica, sono analoghi a quelli che sostengono l’autorità pubblica e attribuiscono valore positivo alle disposizioni di legge, l’eventuale uscita da queste cerchie, conseguente al coinvolgimento nella corruzione, risulterà particolarmente gravosa. I vantaggi ottenuti con la corruzione, infatti, possono essere goduti soltanto se i mezzi per conseguirli non sono in contrasto coi valori adottati dalle cerchie di riferimento dell’individuo, che danno significato alle sue scelte (Pizzorno 1992). La vulnerabilità individuale alle opportunità di corruzione risponde alle caratteristiche della struttura dei valori sociali: la spinta alla corruzione si attenua dove gli standard etici – sostenuti da un giudizio etico orientato sia dalla ‘pressione dei pari’ sia da credenze personali – sono congruenti col rispetto delle leggi. Per quanto favorevoli siano le occasioni, le barriere morali sono un freno potente alla pratica della corruzione: sotto questo profilo, in Italia la struttura di valori e norme sociali prevalenti nella società e nelle organizzazioni economiche e sociali presenta alcuni punti deboli.
La cultura politica dominante, caratterizzata da adesioni ideologiche forti e marcate divisioni subculturali, ha prodotto una debole legittimazione e una scarsa fiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche, favorendo così la giustificazione di forme di illecito funzionali rispetto agli interessi politici di cui si è portatori, esemplificata da una formula autoassolutoria spesso echeggiata negli anni di ‘mani pulite’, secondo la quale sarebbe condonabile il ‘rubare per il partito’: «Essendo lecito usare dello Stato (delle istituzioni, delle procedure, degli uffici) per altri fini sembrava superfluo, e, anzi, pericoloso inceppo, far nascere il rispetto per il valore proprio di quelle realtà» (Pizzorno 1992, p. 68). Inoltre, nelle organizzazioni pubbliche la debolezza del senso dello Stato e dello spirito di corpo – che disinnesca la valenza deterrente del ‘giudizio dei pari’ – si sposa con il dominio di una cultura giuridica formalistica, che privilegia l’attenzione all’adempimento procedurale piuttosto che agli esiti dell’azione amministrativa (della Porta, Vannucci, 1999b).
A livello sociale, alla fragilità – soprattutto nell’Italia centromeridionale – delle reti di impegno civico e comunitario si accompagna il radicamento di strutture di valori che propiziano atteggiamenti particolaristici e ‘familistici’ (R.D. Putnam, Making democracy work, 1993, trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, 1993). Come conseguenza, sono disinnescati il controllo diffuso e la sanzione politica delle decisioni politico-amministrative più inefficienti od opache, ed è viceversa incoraggiato il reinvestimento dei proventi della corruzione nella costruzione di reti di consenso clientelare. La figura 9 dimostra lo stretto nesso tra la diffusione della corruzione – stimata tramite l’indice del QoG – e un indicatore della densità di capitale sociale nelle regioni italiane (F. Sabatini, Il capitale sociale nelle regioni italiane: un’analisi comparata, «Rivista di politica economica», 2009, p. 198), una correlazione significativa, controllata rispetto al reddito pro capite.
Anche nel sistema economico, nelle imprese e nel mondo delle professioni si sono radicati modelli culturali dominati dalla ricerca di relazioni personali e protezioni, dall’avversione alla concorrenza e al mercato, dalla preferenza per la rendita e la speculazione finanziaria piuttosto che per il profitto; una distorta ‘etica degli affari’ che tende a giustificare anche l’impiego delle risorse di influenza nei confronti dei decisori pubblici come strumento per concorrere ‘ad armi pari’. Ciò rispecchia un orientamento culturale diffuso: la figura 10 mostra che, tra i Paesi UE coperti dal sondaggio Global corruption barometer del 2013, i cittadini italiani sono quelli che attribuiscono il peso più alto all’utilità delle relazioni personali nei contatti con le strutture pubbliche.
Una diversa prospettiva di analisi sottolinea come le dinamiche interne alle reti di corruzione siano fattore decisivo a comprenderne la capacità diffusiva in un particolare contesto istituzionale (J. Lambsdorff, The institutional economics of corruption and reform, 2007; della Porta, Vannucci 2012). Il consolidarsi di informali ‘strutture di governo’, infatti, può tutelare i partecipanti dal pericolo d’incorrere in una denuncia o di essere ‘truffati’ dalle loro controparti. I meccanismi che assicurano l’adempimento negli scambi illeciti spesso sono decisivi per la regolarità e la continuità delle relazioni. Ad alimentare la fiducia tra corrotti e corruttori c’è la consapevolezza condivisa che esistono norme non scritte, vere e proprie ‘regole del gioco’ che disciplinano i loro rapporti, rassicurati anche dalla presenza di mediatori e ‘garanti’ specializzati che facilitano i contatti, assicurano il rispetto dei patti e la risoluzione di controversie. Per questo il radicamento passato della corruzione crea condizioni favorevoli alla sua persistenza e al suo sviluppo nei periodi successivi, abbattendo sia i rischi e gli svantaggi ‘materiali’ sia le resistenze morali.
Questa ‘eredità della corruzione’ si manifesta attraverso alcuni meccanismi che incoraggiano un indolore coinvolgimento nelle reti di scambio corrotto. La condivisione di precedenti esperienze e attività illecite favorisce la socializzazione dei nuovi partecipanti alle regole della corruzione nelle organizzazioni politiche ed economiche, sviluppando nuove ‘competenze d’illegalità’ che si traducono nel saper agire per vie riparate, sviluppare una rete ampia di conoscenze e relazioni fiduciarie con altre persone disponibili a entrare in questo tipo di scambi, organizzarne i passaggi in modo da contenere i rischi e massimizzare i profitti (Pizzorno 1992, p. 23). Questo processo è favorito dall’affermarsi di soggetti specializzati nel fornire servizi di intermediazione e protezione, utili o necessari per condurre a buon fine lo scambio corrotto e generare nuove occasioni di affari illeciti. Il consolidarsi di credenze e aspettative condivise – per es., che il ricorso alle tangenti in percentuali prefissate sia inevitabile in certi rapporti con l’autorità – facilita il coordinamento di corrotti e corruttori alle vigenti regole del gioco della corruzione (della Porta, Vannucci 1999a; della Porta, Vannucci 2012).
L’ampiezza della corruzione in Italia e le resistenze incontrate dalle inchieste giudiziarie sarebbero dunque da ricondurre anche alla persistenza di un tessuto di relazioni fiduciarie che nel tempo ha fornito il collante nei rapporti tra corrotti e corruttori. Tra gli attori che hanno svolto una funzione di regolazione e arbitrato nelle reti della corruzione, altrimenti ad alto rischio di instabilità, vi sono stati i partiti politici. Al loro interno gli alti costi dell’attività di intermediazione politica e le forme di regolazione delle contribuzioni pubbliche e private hanno alimentato una domanda di risorse necessarie al funzionamento sia delle strutture organizzative ufficiali sia delle ‘macchine politiche’ in cui queste tendono a frazionarsi a seguito dell’afflusso di risorse finanziarie non rendicontabili. Prima di ‘mani pulite’ i vertici dei partiti – grazie al loro potere di nomina e all’influenza sui centri di spesa pubblica – hanno assunto un ruolo centrale di regolatori nell’accesso alle reti di scambio corrotto, nonché di garanti delle pretese dei soggetti che allacciavano rapporti contrattuali con lo Stato o dipendevano dall’esito dei suoi processi decisionali. In cambio, essi hanno incassato sotto forma di tangenti una quota delle risorse in gioco negli scambi occulti (della Porta, Vannucci, 1999a). Anche le organizzazioni mafiose hanno garantito con particolare efficacia e continuità il pacifico funzionamento degli scambi corrotti. Il radicamento territoriale dei gruppi criminali e la forza espansiva nella loro ‘colonizzazione’ di nuove aree del Centro-Nord Italia discende anche dalla loro partecipazione in veste di garanti alle reti di scambi corrotti, il cui adempimento è assicurato dall’impiego di risorse di coercizione, reputazione, informazione (D. Gambetta, La mafia siciliana, 1992).
Dall’analisi degli episodi affiorati in Italia nel dopoguerra non sembra rilevabile alcuna significativa linea di frattura nei persistenti equilibri della corruzione, nonostante gli occasionali scandali e le inchieste giudiziarie dagli effetti deflagranti sul sistema politico, come quella di ‘mani pulite’ avviata a Milano nel 1992. Si manifesta piuttosto una linea di sostanziale continuità nello sviluppo sottotraccia del fenomeno, coerentemente con l’assenza di mutamenti rilevanti delle macrovariabili sopra esaminate – fatte salve, a partire dalla metà degli anni Novanta, la realizzata alternanza al governo nazionale e le ricadute di un ciclo di riforme del sistema amministrativo (Organisation for economic cooperation and development, Italy: better regulation to strengthen market dynamics, 2009). La capacità di adattamento a mutate condizioni esterne sembra caratterizzare le modalità di regolazione interna della fitta trama di rapporti di scambio occulto, divenuta sistemica entro alcune organizzazioni pubbliche.
Storicamente la consistenza della ‘questione corruzione’ nel discorso pubblico, la sua capacità di polarizzare l’attenzione dei mezzi di comunicazione e della classe dirigente, premessa per la formulazione di politiche di intervento, sembrano rispondere a una logica emergenziale e reattiva. La questione è entrata a fasi alterne nel dibattito pubblico, quando un qualche scandalo ha investito esponenti politici di spicco, attirando l’attenzione dei media e inducendo la classe politica a proporre e discutere – eccezionalmente anche approvare – provvedimenti di riforma. Come esempio si consideri la vicenda dell’Istituto nazionale gestione imposte di consumo (INGIC), ossia «il primo importante caso di criminalità economico-politica dell’Italia repubblicana» (R. Canosa, Storia della criminalità in Italia dal 1946 ad oggi, 1995, p. 44). Si tratta di una sorta di pietra miliare nell’evoluzione della corruzione nell’Italia del dopoguerra, nella quale già si rilevano molti elementi che nei decenni successivi caratterizzeranno lo sviluppo della corruzione sistemica. L’INGIC, costituito nel 1936 come ente pubblico finalizzato alla gestione di contratti per la riscossione di tributi locali dalle amministrazioni comunali, era giunto nel 1954 a ottenere circa 2000 appalti in tutta Italia. Nel momento in cui l’ente pubblico – perso nel dopoguerra il vantaggio della posizione monopolista – dovette affrontare ‘ad armi pari’ la concorrenza delle società private di riscossione, finì per adottare «gli stessi metodi seguiti da queste ultime», creando un’organizzazione nascosta «con lo scopo di esercitare una funzione di propaganda e di pressione anche politica» (Camera dei deputati, Relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere n. 93-a, 1972, p. 2). All’inizio del 1954, a seguito della pubblicazione sulla rivista «Pace e libertà» della lettera di dimissioni del vicedirettore Francesco Simoncini, emerse che l’INGIC aveva sovvenzionato in nero federazioni e sezioni in cambio dell’assegnazione degli appalti o del rinnovo dei contratti per opera dei rappresentanti di quei partiti negli enti locali. L’esito era stato quasi sempre soddisfacente, rari i pagamenti a vuoto. Oltre ai vertici dell’INGIC furono coinvolti esponenti di tutti i partiti politici – la sola procura di Firenze chiese l’autorizzazione a procedere per 17 parlamentari democristiani, socialisti, comunisti e missini –, amministratori locali (sindaci, assessori, consiglieri), funzionari di prefettura e comunali.
Queste furono le principali caratteristiche dello scandalo INGIC, simili a quelle di vicende che sarebbero emerse nei decenni seguenti:
1) la dimensione ‘sistemica’ e diffusiva della corruzione: a fronte di 1163 imputati furono rinviati a giudizio per corruzione, peculato e falso in atti pubblici 671 persone. Da Arezzo e Piacenza, dove furono avviate, le indagini «si estesero man mano a quasi tutto il territorio nazionale e in particolare a tutte quelle regioni dove l’INGIC aveva organizzato i propri servizi relativamente alla collocazione degli appalti per l’imposta di consumo» (Camera dei deputati, Domanda di autorizzazione a procedere n. 62, 1964, p. 2);
2) la natura aggregante e ‘consociativa’ degli scambi occulti. Per quanto l’INGIC avesse dirigenti di orientamento centrista e filogovernativo, sovvenzionava in forme sotterranee tutti i partiti, inclusi quelli di opposizione, generando un tessuto invisibile di connivenza fondato sulla ricattabilità reciproca. Un’implicita intesa collusiva si manifestò, per es., nel diniego unanime delle autorizzazioni a procedere nei confronti dei parlamentari coinvolti nell’inchiesta;
3) il modello di governo della rete di scambi occulti incentrato sul ruolo cardine di ‘regolatori’ esercitato dai partiti, da un lato collettori dei finanziamenti ricevuti dall’INGIC e reinvestiti nell’attività politica, dall’altro garanti sia dell’adempimento per opera dei propri amministratori, sia della carriera di questi ultimi all’interno degli enti locali. La funzione subordinata dell’Istituto rispetto ai partiti è confermata dall’analisi dei suoi flussi di bilancio, che registrano un modesta crescita degli utili a fronte di un aumento vertiginoso delle erogazioni politiche. In altri termini, i dirigenti dell’Istituto acquistavano una protezione politica pagando i partiti «in modo continuativo», anche su base mensile, al fine di «farlo vedere di buon occhio negli ambienti locali», ovvero «per creare un ambiente favorevole» (Camera dei deputati, Domanda di autorizzazione a procedere n. 62, 1964, p. 6);
4) la consapevolezza, che si andò a radicare nell’opinione pubblica e tra gli attori politici, del nesso tra la diffusione di alcune forme di corruzione e le esigenze di finanziamento della politica, finalizzate sia alla gestione delle campagne elettorali – in diversi casi le tangenti furono impiegate per affissioni e altre spese di propaganda – sia al mantenimento della struttura organizzativa. Proprio a seguito dello scandalo INGIC, infatti, per la prima volta entrò nell’agenda politica il tema del finanziamento dei partiti. Nel 1958 Luigi Sturzo (1871-1959) promosse una prima proposta di legge su questo tema, presentata al Senato con queste parole: «si è avuta l’impressione nel Paese di una specie di Fiera aperta per ottenere la rappresentanza parlamentare. Se si parla di moralizzare la vita pubblica […] noi abbiamo ormai una struttura partitica le cui spese aumentano di anno in anno in maniera tale da superare ogni immaginazione. […] Quando entrate e spese sono circondate dal segreto della loro provenienza e della loro destinazione la corruzione diviene impunita, manca la sanzione morale della pubblica opinione, manca quella legale del magistrato e si diffonde così nel Paese il senso di sfiducia nel sistema parlamentare» (Senato della Repubblica, Disegno di legge n.124, 1958);
5) l’incapacità dell’apparato giudiziario di sanzionare la capillare diffusione della corruzione svelata dall’inchiesta. La sentenza di primo grado – che diede sostanziale conferma alle ipotesi accusatorie – giunse nell’aprile 1975, al limite della prescrizione che di lì a poco avrebbe cancellato l’iter giudiziario. Tutti i parlamentari inquisiti vennero sottratti al giudizio respingendo l’autorizzazione a procedere: la relazione della Giunta sottolineava proprio l’esigenza di uguaglianza nell’assicurare anche ai parlamentari (per i quali il corso della prescrizione era sospeso durante il mandato) l’estinzione del reato, al pari di tutti gli altri imputati già prescritti (Camera dei deputati, Relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere n. 93-a, 1972, p. 4).
Il flusso di finanziamenti proveniente dal sistema economico si è distribuito in maniera asimmetrica, beneficiando soprattutto i partiti di governo. Nei primi decenni del dopoguerra i fondi neri dal mondo delle imprese al sistema dei partiti sono stati gestiti prevalentemente da Confindustria e dalle società elettriche. La presenza di assetti societari a proprietà familiare, persino all’interno della grande industria, ha favorito la formazione di rapporti diretti e personali con precisi referenti politici e istituzionali, di norma accompagnati da pagamenti nascosti (A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, cit., p. 309). A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, in concomitanza col progressivo estinguersi dei finanziamenti provenienti dall’estero, le rigidità di bilancio dei partiti di massa – derivanti dalla presenza sul territorio di un’ampia rete di sedi, pubblicazioni nazionali e locali, centri studi, funzionari, personale stipendiato – hanno accresciuto le loro esigenze economiche. Con l’avvio dell’esperienza dei governi di centrosinistra e l’espansione dell’intervento pubblico – si vedano le politiche di nazionalizzazione dell’industria elettrica – una quota crescente di risorse venne raccolta sfruttando i poteri di indirizzo e di nomina degli amministratori di imprese ed enti pubblici. L’arcipelago di imprese pubbliche o a partecipazione statale e di enti pubblici (ENEL, ANAS, Ferrovie dello Stato, ecc.) ha rappresentato infatti un altro terreno privilegiato per la raccolta di tangenti destinate ai partiti dell’area di governo. È questo il caso, per es., dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), che dalla sua nascita, nel 1952, fino alla morte di Enrico Mattei, nel 1962, ha destinato generose quote di finanziamenti in nero ai partiti di maggioranza. L’ex presidente dell’ENI e di Montedison Eugenio Cefis (1921-2004) ricorda che Mattei, a cui egli era succeduto, «aveva in più occasioni detto che, prima di dare il denaro ai partiti, occorreva farselo richiedere almeno tre volte e alla fine non dare più del 25-30% di quanto richiesto. Le dazioni, nella filosofia di Mattei, dovevano poi essere proporzionate al beneficio che il gruppo Eni riceveva dai partiti» («L’Espresso», 6 giugno 1993, p. 68).
Nel 1973 il cosiddetto ‘scandalo dei petroli’ nacque dall’iniziativa di Mario Almerighi, Adriano Sansa e Carlo Brusco, tre giovani pretori d’assalto, a dimostrazione del mutato atteggiamento di una parte della magistratura nei confronti del potere politico, conseguente all’indebolirsi di quella ‘collusione di ceto o d’affari’ che aveva fino ad allora contribuito a disinnescare il potenziale di controllo giudiziario della diverse forme di illegalità politica. I partiti erano gli interlocutori in uno scambio consolidato con le imprese del settore petrolifero, fondato su specifiche richieste, avanzate in un memorandum poi sequestrato dalla Guardia di finanza: tra queste, la revisione dei meccanismi per la determinazione dei prezzi in senso favorevole all’industria petrolifera, a giustificazione di un rincaro del 30% della benzina, il blocco alla concessione di nuovi impianti, il pagamento differito delle imposte. I provvedimenti desiderati furono approvati nei tempi attesi in cambio di versamenti pari al 5% del loro ‘valore’ (almeno 15 miliardi di lire destinati ai segretari amministrativi), distribuiti tra tutti i partiti dell’area di governo in base al loro peso politico in Parlamento (G. Galli, L’Italia sotterranea. Storia, politica e scandali, 1983). I pagamenti in nero e le conseguenti misure a favore dei petrolieri cominciarono nel 1966 e si protrassero fino al 1973, annoverando almeno 20 decreti ministeriali e 5 decreti legge (Commissione inquirente per i procedimenti di accusa, Relazione del 9 febbraio 1979, pp. 7-9). A differenza dello scandalo INGIC, in questo caso la natura delle decisioni richiese l’intervento di membri dell’esecutivo (6 ministri furono indagati dalla Commissione inquirente) e della maggioranza parlamentare che li sosteneva. Di conseguenza, soltanto i soggetti politici che facevano parte della maggioranza a sostegno dei governi in quel periodo beneficiarono dei finanziamenti occulti, vale a dire la Democrazia cristiana (DC), il Partito socialista italiano (PSI), il Partito socialista democratico italiano (PSDI) e il Partito repubblicano italiano (PRI).
Le risultanze della vicenda confermano da un lato il ruolo centrale assunto dai partiti nelle reti della corruzione, dall’altro la natura collusiva delle relazioni che in questo contesto tendono a svilupparsi tra di essi: «il potenziale delle transazioni corrotte agì come collante di una classe politica sempre più interessata a spartire che a scontrarsi. O a scontrarsi nei modi che restassero funzionali per lo spartire» (Pizzorno 1992, p. 60). I vertici dei partiti divennero infatti gli interlocutori privilegiati dei portatori di interessi privati, mentre i segretari amministrativi assunsero il ruolo di collettori dei finanziamenti irregolari, da intendersi quale contropartita della protezione assicurata nei più tortuosi e discrezionali processi decisionali.
Sempre a seguito dello scandalo, nell’agenda politica entrò di prepotenza il tema del reperimento delle risorse necessarie al mantenimento delle onerose strutture dei partiti di massa. Le vicende giudiziarie contribuirono infatti a superare le resistenze che avevano prodotto l’impasse precedente: per un verso resero giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica un provvedimento potenzialmente impopolare come quello sul finanziamento pubblico dei partiti, che avrebbero conservato lo status di associazioni non riconosciute; inoltre quelle indagini, per quanto destinate a precoce insabbiamento, acuirono la consapevolezza dei pericoli insiti nelle prassi di finanziamento illecito e ne inaridirono temporaneamente l’afflusso, favorendo l’accettazione dei deboli controlli in cambio di un sicuro e costante accesso ai contributi statali. La postulata sostituibilità tra fondi di provenienza lecita e tangenti vene addotta a giustificazione dell’approvazione in soli 16 giorni della l. 2 maggio 1974 nr. 195 sul finanziamento pubblico ai partiti, con il consenso di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, a eccezione del Partito liberale italiano (PLI).
Il finanziamento pubblico giunse in coincidenza con la progressiva riduzione delle risorse derivanti dall’impegno volontario dei militanti. Poiché l’attività politica organizzata si basa sostanzialmente su disponibilità al lavoro dei militanti e denaro, quando le passioni collettive si affievoliscono «i partiti vedono diminuire il flusso di risorse gratuite che si erano rivolte verso di loro sull’onda degli entusiasmi, e devono quindi dedicarsi alla raccolta della risorsa alternativa, quella finanziaria» (A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta, cit., p. 300). Gli scandali per i pagamenti in nero ai partiti che alla fine degli anni Settanta investirono l’ENI e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) indussero i partiti stessi a rafforzare ulteriormente i meccanismi istituzionali e informali di controllo sulle imprese pubbliche, tramite l’ingresso di personale di diretta affiliazione politica nella loro gestione (G. Galli, Affari di Stato, 1991).
Il fatto che sia i finanziamenti occulti sia quelli pubblici fossero proporzionali ai risultati elettorali ha fatto lievitare i costi della politica, incoraggiando le spese nelle campagne elettorali: il consenso conseguito infatti attribuiva il ‘diritto’ a reclamare quote maggiori di quei fondi. Sul versante privato Confindustria si era trasformata in un organismo più ampio e articolato, incapace di coordinare in forma accentrata i rapporti – tra cui quelli finanziari – col mondo politico, che cominciarono a essere gestiti autonomamente dalle imprese soggette a regolazione o a caccia di appalti. Negli stessi anni l’attuazione del decentramento regionale ha moltiplicato i costi sostenuti dai soggetti politici e partitici: questi fattori, alimentando sia ‘domanda’ sia ‘offerta’ di corruzione, hanno segnato il ricorso sempre più capillare alle tangenti nelle relazioni tra imprese private – da quel momento di norma identificabili come ‘imprese di partito’, grazie a una esibita affiliazione partitica informale dei loro vertici operativi – in diverse aree geografiche e mercati pubblici (della Porta, Vannucci 1999a). I versamenti a beneficio dei partiti di governo hanno assunto sempre più spesso la veste di una sorta di imposizione fiscale periodica, contropartita di una protezione politica ad ampio spettro sia dei vertici dell’ente sia dell’attività economica delle imprese.
Il radicarsi di aree di corruzione sistemiche, specie a partire dagli anni Ottanta, è stato favorito anche dagli ingenti flussi di spesa pubblica allocati con meccanismi emergenziali e gestiti con criteri arbitrari (per la ricostruzione dopo il terremoto in Irpinia, le Colombiadi, i Mondiali di calcio di Italia ’90, ecc.) in modo da massimizzare il ritorno economico per i gatekeepers partitici (L. Barca, La patologia degli anni Ottanta, in L’economia della corruzione, a cura di L. Barca, S. Trento, 1994, p. 80). I vertici dei principali partiti hanno costruito – dapprima localmente, poi a livello centrale – meccanismi di gestione coordinata degli esborsi da parte di imprese politicamente protette, garantendo una tutela a vasto raggio dei loro contatti con le procedure pubbliche (Belligni 1998, p. 211). Questa la testimonianza di un imprenditore:
Sia Citaristi che Balzamo [segretari amministrativi nazionali di DC e PSI] intorno ai primi anni della seconda metà degli anni ’80 mi dissero che era necessario concordare in maniera sistematica e continuativa un contributo che la [mia] (come del resto le altre imprese) avrebbe dovuto versare nelle casse della Dc e Psi, indipendentemente dai singoli appalti o commesse che di volta in volta l’impresa avrebbe potuto aggiudicarsi […]. In cambio di tale disponibilità essi garantivano, a nome dei loro partiti, gli opportuni interventi nei confronti di coloro che gestivano le commesse che la [mia impresa] riceveva onde evitare ostruzionismi di sorta (M. Andreoli, R. Cantore, A. Carlucci et al., Tangentopoli: le carte che scottano, 1993, p. 43).
La ‘questione morale’ sollevata nel 1981 dal segretario del Partito comunista italiano (PCI) Enrico Berlinguer (1922-1984) rappresenta il primo tentativo di porre il tema della corruzione tra le priorità dell’agenda politica, guardando alle degenerazioni dei partiti come al nucleo del problema:
I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela […] La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti […]. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano («La Repubblica», 18 luglio 1981, p. 4).
Ma il tema restò marginale nel dibattito pubblico. Esclusa dall’agenda politica la questione del ruolo distorsivo giocato dai partiti nel presidiare i centri di spesa pubblica e di nomina, negli anni successivi la disponibilità di flussi consistenti di tangenti ha prodotto pesanti ricadute sulle dinamiche di interazione tra i partiti e sulla loro organizzazione interna.
Riguardo al primo punto, lo sviluppo di forme di corruzione sistemica ha inciso sui processi di ‘cartellizzazione’ dei partiti, data la necessaria compartecipazione o connivenza di esponenti di diversi partiti nelle arene decisionali dalle quali sono raccolti finanziamenti leciti, illeciti o tangenti. Le risorse della corruzione, al pari di quelle ricavate da sovvenzioni statali e altri contributi legali dello Stato, sono state prodotte in misura crescente attraverso processi decisionali che hanno visto il coinvolgimento di tutti i principali partiti, che per questa via hanno contribuito al tempo stesso al proprio mantenimento e a erigere barriere all’ingresso di possibili concorrenti (R.S. Katz, P. Mair, La nascita del “cartel party”, in Partiti e sistemi di partito. Il cartel party e oltre, a cura di L. Bardi, 2006, p. 46). Nelle parole dell’ex leader socialista Bettino Craxi (1934-2000), dell’illegalità del sistema
erano ben consapevoli tutti i dirigenti dei partiti, i parlamentari, gli amministratori. […] Prova ne è il fatto che i partiti, pur presentando in Parlamento per decenni, bilanci che non corrispondevano al vero, e cioè bilanci falsi, non sono mai stati fatti oggetto da parte di nessuno di denunce per le loro gravi irregolarità. I partiti di opposizione di regola non denunciavano i partiti di governo ed i partiti di governo non denunciavano i partiti di opposizione. La complicità in questo senso era totale o quasi (B. Craxi, Il caso C., 1994, pp. 24-25).
Le modalità di coordinamento osservabili hanno spaziato da un’aperta cooperazione entro ‘comitati d’affari’ – comprendenti politici di diversa estrazione, sia di maggioranza sia di opposizione, funzionari e amministratori pubblici, imprenditori, faccendieri e intermediari, professionisti (in alcune regioni del Sud Italia integrati da garanti mafiosi) – fino a forme di suddivisione per sfere d’influenza dei centri di spesa, in base ad accordi informali cementati dal reciproco potere di ricatto.
La disponibilità di flussi consistenti di tangenti ha prodotto ricadute significative anche sull’organizzazione interna dei partiti, nell’ambito dei quali si è accentuata la frazionalizzazione in sottocorrenti, reticoli informali, centri di potere raccolti attorno a ‘macchine politiche’ capaci di drenare quote più estese di risorse dal controllo dei centri di spesa pubblica, reinvestendole nella costruzione di reti clientelari. I partiti che sono ricorsi a fonti occulte di finanziamento hanno rafforzato il loro potere di delega, ma nel contempo sono diventati soggetti frammentati, le cui fazioni – aggregate intorno a boss locali e aventi di fatto strutture e bilanci separati – si sono specializzate nella cattura di risorse, grazie al controllo dei centri di spesa pubblica. Come osserva Loris Zaffra, fino al 1992 esponente di vertice del PSI milanese:
era come se esistessero separati bilanci facenti capo ognuno ai rappresentanti politici più in vista. [...] A questa struttura parcellizzata sotto il profilo amministrativo corrispondeva anche una struttura analoga nel campo delle scelte politiche, nel senso che non era il partito a contare in sede decisionale, quanto i singoli soggetti muniti di potere tra l’altro anche economico. [...] La gestione dell’amministrazione prescindeva dalle cariche formali, poiché il punto di riferimento era la persona e non la carica. [...] I funzionari di zona non venivano retribuiti dalla federazione, ma dai loro referenti politici attraverso remunerazioni che sfuggivano ai movimenti finanziari risultanti dalla pubblicità del partito («L’Espresso», 17 genn. 1993, p. 43).
La corruzione sistemica ha così prodotto una distorsione della competizione interna ai partiti, giocata sull’accesso a ruoli di potere che assicuravano risorse addizionali derivanti dalle tangenti; tali fondi erano utilizzati anche per accrescere le quote di tesserati fittizi, che servivano a conquistare il controllo dei pacchetti di voti congressuali. La partecipazione di militanti autonomi, fonte di controllo potenziale, era dissuasa. Il controllo del tesseramento assicurava un titolo spendibile nella ripartizione dei ruoli di potere interno, dei posti nelle liste elettorali, delle nomine.
Il nesso causale tra sviluppo della corruzione sistemica – così come disvelata dalle inchieste di ‘mani pulite’ negli anni Novanta – e mutamento organizzativo e funzionale dei partiti è dunque bidirezionale. Nei partiti infatti si sono rafforzati quei centri di potere capaci – grazie anche al reinvestimento nella competizione politica delle risorse addizionali della corruzione – di garantire efficacemente il ‘governo’ delle transazioni illegali, offrendo protezione e fiducia riguardo all’adempimento della fitta trama di scambi che ne accompagnava la diffusione. La disponibilità di risorse utilizzate per garantire l’adempimento degli accordi (in particolare il potere di delega nei ruoli pubblici e la capacità di orientare l’allocazione della spesa pubblica) ha indotto una progressiva concentrazione di poteri e una maggiore redditività, in termini di tangenti, dei poteri decisionali esercitati nei partiti. Di qui l’importanza crescente del denaro nelle carriere politiche, come osserva il primo inquisito di ‘mani pulite’, Mario Chiesa:
Disporre personalmente di soldi significa decidere di testa propria il tipo di investimento. Vuoi sulla corrente cui appartieni, vuoi sui singoli compagni. […] Non sono uno a cui devi comprare i voti. I voti li metto io sul tavolo di un accordo politico più generale, quello in cui vengono definiti gli organigrammi del potere. È insomma un rapporto paritario quello che finalmente si instaura tra il sottoscritto e gli altri maggiorenti (M. Andreoli, Andavamo in piazza Duomo, 1993, p. 60).
L’esito di questo processo, che ha conosciuto un’accelerazione a partire dagli anni Ottanta, è la formazione di un’articolata rete composta da ‘macchine di partito’ – finalizzate a rendere capillari, continuativi e reciprocamente sicuri per i contraenti gli scambi corrotti – progressivamente svincolate da motivazioni identitarie e ideologiche (Belligni 1998, pp. 204-205).
Il ruolo dei partiti è così diventato quello di ‘meccanismi di governo’ (nonché beneficiari) del sistema di transazioni illegali, in grado di fornire protezione negli scambi differiti e fiducia nella possibilità di riscuotere i crediti maturati, consolidandone così equilibri e aspettative di stabilità. Come osserva Pizzorno:
si potrebbe dire che il sistema dei partiti in Italia aveva cessato di essere un sistema di partecipazione per diventare un sistema di protezione. Ai partiti si aderiva non per partecipare alla vita pubblica, ma per essere favoriti, spalleggiati, protetti nella propria attività privata. […] A volte non si trattava neppure di ottenere vantaggi specifici, ma semplicemente di ‘entrare nel giro’, acquisire una cittadinanza privilegiata e protetta che apriva, pagandone il prezzo, ‘una finestra di opportunità’, come diceva il termine entrato nel gergo. Comitati d’affari provvedevano poi all’equità del sistema, regolarmente alimentato da un sistema fiscale secondo, quello delle tangenti (A. Pizzorno, Vecchio e nuovo nella transizione italiana, in Il Paese dei paradossi, a cura di N. Negri, L. Sciolla, 1996, p. 269).
I centri di potere cresciuti dentro e attorno ai partiti hanno così svolto – sia a livello nazionale, sia localmente – la funzione di prevenire, dirimere, applicare sanzioni nelle controversie riguardanti risorse scambiate, prestazioni promesse, carriere di corrotti, contratti pubblici, diritti a prestazioni dell’amministrazione pubblica, pagamenti o spartizioni di tangenti. Descrivendo la distribuzione delle tangenti, i giudici di ‘mani pulite’ osservano che
tali somme solo in parte – e non sempre – venivano trattenute da coloro che le avevano richieste o comunque ricevute, più spesso venivano versate ad esponenti politici i quali […] avevano o avrebbero successivamente svolto una funzione di garanzia (direttamente ovvero attraverso la loro influenza su chi le cariche pubbliche ricopriva) (Camera dei deputati, Richiesta di autorizzazione a procedere n. 266, 1993, p. 2).
Si possono distinguere diversi contesti nei quali la domanda di protezione si è indirizzata a centri di potere nei partiti. Una fonte di incertezza per i partecipanti alla corruzione discende dalla natura illegale delle transazioni: i referenti di partito spesso sono stati chiamati in causa per garantire il rispetto degli impegni assunti in questi ‘contratti’ illegali e scambi differiti, se necessario applicando sanzioni agli inadempienti, e incassando così una quota delle tangenti in gioco. Si prenda, a titolo di esempio, la controversia per la ripartizione di una tangente pagata da un’impresa nell’appalto relativo alla costruzione dell’ospedale di Lecco, nelle parole di un esponente politico locale: [l’amministratore dell’impresa] aveva versato una prima rata ai politici locali di Lecco, la seconda l’aveva data a me, e per la terza si vedeva buio. […] Non riuscimmo a raggiungere un’intesa». Solo l’intervento della segreteria nazionale del partito sbloccò la situazione: «[l’amministratore dell’impresa] mi confidò che era stata organizzata una riunione a Roma, in piazza del Gesù. […] Venne deciso che la terza mazzetta […] sarebbe finita nelle casse della Dc di Lecco («Panorama», 18 ott. 1992, p. 54).
Un’altra fonte di preoccupazione per gli imprenditori è rappresentata dall’imprevedibilità degli esiti della loro interazione con le organizzazioni pubbliche. Simili a una polizza assicurativa, le tangenti versate nelle casse dei referenti di partito hanno avuto in alcuni casi quale contropartita impalpabile una durevole salvaguardia da contenziosi, ritardi o altri possibili inconvenienti dovuti a inefficienza e imponderabilità degli iter procedurali o delle decisioni degli agenti pubblici. Naturalmente questa protezione politica non è accordata secondo criteri universalistici, ma in maniera selettiva, caso per caso, in relazione a rapporti personali e fiduciari preesistenti e ai contenuti dell’accordo negoziato coi centri di potere. Una salvaguardia a titolo oneroso si sostituisce così alla tutela dei diritti fornita imparzialmente dagli organi dello Stato, ma di fatto inefficace o troppo incerta negli esiti, anche a causa dei tempi lunghi e dell’aleatorietà degli esiti delle procedure di risoluzione delle controversie legali. In un simile contesto i soggetti economici che hanno relazioni frequenti ed economicamente significative con le organizzazioni pubbliche formulano una domanda di protezione ad ampio spettro contro l’inefficienza della macchina dello Stato, invece di soggiacere alle pretese di interlocutori più o meno accidentali. Come osserva un imprenditore:
Nell’assegnazione degli appalti e delle forniture e poi nella gestione di tutto l’iter contrattuale possono capitare e di fatto capitano mille inconvenienti [...]. La mia [impresa], invece di dover sottostare ogni volta a fenomeni del genere sopra specificato, ha cercato di garantirsi trattando a livello centrale direttamente con le segreterie nazionali dei partiti (Tangentopoli: le carte che scottano, a cura di M. Andreoli, R. Cantore, A. Carlucci et al., 1993, p. 42).
Conferma il segretario amministrativo della DC milanese,
il discorso dell’aggancio delle somme che noi percepivamo a specifici contratti cominciava a diventare poco sostenibile per noi. […] L’idea era quella che le imprese […] ci avrebbero versato del denaro non come percentuale sui lavori effettivamente assunti, ma come versamento di carattere generale che ovviamente sottintendeva un atteggiamento di favore (A. Carlucci, Tangentomani, 1992, p. 10).
La tangente si configura come qualcosa di simile alla tassa d’iscrizione a un ‘club ristretto’: tra i vantaggi della protezione politica vi era spesso anche l’esclusione (di fatto o di diritto) degli altri concorrenti dall’accesso a procedure di appalto, licenze, concessioni, sussidi, e così via. Le tangenti e i contatti personali sono così diventati la contropartita delle invisibili barriere all’ingresso nei mercati pubblici e nelle altre aree soggette a regolazione e concessione, dove già operavano soggetti imprenditoriali dotati di un capitale di relazioni fiduciarie e legami politici. E accanto agli imprenditori, anche gli amministratori pubblici hanno indirizzato quote delle tangenti percepite ai centri di potere nei partiti, così da proteggere i loro precari diritti sui ruoli di potere pubblico soggetti alla sfera di influenza dei loro referenti politici.
Nelle reti di corruzione sistemica svelate da ‘mani pulite’ si è dunque realizzato un progressivo slittamento del baricentro di potere dai funzionari di apparato agli amministratori che acquisivano, in virtù del loro ruolo di ‘garanti’ di carriere e nomine, o della loro posizione negli enti pubblici, la disponibilità di risorse in nero, legami fiduciari, informazioni riservate e potere di ricatto da reinvestire nella lotta politica. L’acquisizione delle necessarie competenze d’illegalità è stata in alcuni casi delegata a individui che occupavano ruoli formali nel partito, opportunamente riconvertiti alle nuove funzioni, come i segretari amministrativi o i tesorieri; in altri si sono invece affermate figure autonome, a metà strada tra politico d’affari e faccendiere, che hanno esercitato il ruolo di collettori e centri di smistamento dei flussi di tangenti (Pizzorno 1992, pp. 23-24). Si assiste così, in forma ancora embrionale, a un ampliamento del ventaglio di soggetti alternativi che acquisiscono il potere di regolare, prevenire e dirimere controversie o applicare sanzioni nel mercato della corruzione, una linea di tendenza destinata a svilupparsi negli anni successivi, a seguito della parziale eclissi dei partiti come luogo privilegiato di ‘governo’ delle transazioni corrotte.
A partire dalla metà degli anni Novanta la capacità di adattamento endogena delle reti di corruzione sistemica riflette l’adattamento di nuovi e vecchi protagonisti alle mutate condizioni esterne. In particolare, all’inasprirsi del rischio penale – chiaramente percepito con l’esplodere delle inchieste di ‘mani pulite’, per poi sfumare rapidamente – ha fatto seguito l’indebolirsi della capacità regolatrice dei partiti. Nel perdurante funzionamento dei meccanismi di ‘governo’ delle transazioni corrotte soggetti di diversa natura si sono proposti quali erogatori di servizi di protezione.
Nel nuovo ‘ecosistema’ della corruzione, inoltre, sono all’opera due processi paralleli di selezione e di apprendimento. Riguardo al primo aspetto, la pressione operata dall’attivismo della magistratura sul fronte della repressione penale avrebbe generato una sorta di spontaneo ‘miglioramento della specie predata’, realizzatosi a seguito dell’uscita dal sistema politico e imprenditoriale dei soggetti che per vari motivi (propensione e capacità personali, resistenze morali, ecc.) sono risultati meno adatti a operare in un contesto ad alta densità di corruzione (P. Davigo, Tempo per un nuovo inizio, «Economia & management», 1993, 2, 9-17).
Quanto al secondo aspetto, la reiterata esposizione al rischio e l’esperienza dei soggetti coinvolti in procedimenti penali hanno favorito lo sviluppo, l’applicazione e la condivisione di tecniche più efficaci di dissimulazione della corruzione, così da contenere i pericoli di un coinvolgimento penale o di controversie interne. Le «tangenti pulite e fatturate» – secondo la definizione dei protagonisti dell’inchiesta sulla Protezione civile – possono assumere forme diverse, a seconda dei ruoli istituzionali dei beneficiari e delle competenze degli erogatori (G. D’Avanzo, Tangenti pulite e fatturate, «La Repubblica», 22 febbr. 2010, http://www.repubblica.it./cronaca/2010/02/22/news/ragnatela_bertolaso-2389122). Tra queste, per es., la gestione tramite familiari o uomini di fiducia di conti ‘chiavi in mano’ in paradisi fiscali, sui quali dirottare bonifici estero su estero; l’intestazione a prestanome o familiari di società fornitrici di servizi ad enti pubblici; l’attribuzione di incarichi fittizi di consulenza a beneficiari per dissimulare tangenti e consolidare il circuito di omertà; l’erogazione di prestazioni o pagamenti ‘in natura’ (servizi di domestici o escort, pagamento di spese turistiche o di beni immobili, ecc.); le partecipazioni societarie incrociate, come camera di compensazione per la suddivisione dei proventi illeciti; la diluizione nel tempo dell’erogazione delle contropartite, così da allontanare il sospetto che di merce di scambio si tratti; l’assunzione fittizia di congiunti (Vannucci 2012, pp.149-53).
Un elemento di continuità rispetto alle vicende emerse dalle inchieste di ‘mani pulite’ è l’evidenza di una corruzione che nelle vicende più rilevanti si manifesta ancora come pratica ‘istituzionalizzata’: scelte, atteggiamenti, trattative, aspettative, linguaggio sono incardinati entro copioni prefissati, seguono regole note e informalmente codificate, assecondano modelli di comportamento resi familiari da una ripetizione consuetudinaria. Come rileva il rapporto 2009 sull’Italia del Council of Europe’s Group of States against corruption (GRECO):
La corruzione è profondamente radicata in diverse aree della pubblica amministrazione, nella società civile, così come nel settore privato. Il pagamento delle tangenti sembra pratica corrente per ottenere licenze e permessi, contratti pubblici, finanziamenti, per superare gli esami universitari, esercitare la professione medica, stringere accordi nel mondo calcistico, ecc. […] C’è una percezione ampiamente condivisa (tanto nella società civile che negli organismi di governo) che la corruzione in Italia è un fenomeno pervasivo e sistemico che influenza la società nel suo complesso (GRECO, Evaluation report on Italy, 2009, pp. 3, 6).
Appaiono ancora in vigore norme di condotta che consentono il funzionamento del sistema: norme che facilitano l’identificazione di partner affidabili, differenziano i ruoli nelle reti di corrotti e corruttori, accrescono i profitti attesi dei processi decisionali, attenuano l’eventuale disagio psicologico dell’illegalità, emarginano o puniscono chi si oppone o esprime dissenso, socializzano i nuovi entrati alle ‘leggi’ della corruzione (della Porta, Vannucci, 2007). L’invisibile norma fondamentale che regola la corruzione sistemica sancisce l’ineluttabilità del ricorso alle tangenti per avere diritto di accesso e possibilità di successo nei contatti con gli agenti pubblici; si consolida così l’aspettativa che il ricorso alla corruzione sia inevitabile in cambio di qualsiasi risorsa ottenibile dalla struttura pubblica (appalti, licenze, concessioni, accelerazione di passaggi procedurali, informazioni riservate, controlli addomesticati, mancata contestazione di illeciti), in una casistica che si sovrappone alla gamma di attività pubbliche che hanno valore per i privati. Questa la testimonianza di un imprenditore:
È un sistema che va avanti da quando ho cominciato a lavorare nel ’50. Questo sistema va avanti da sempre e io non ho mai lavorato per il pubblico perché bisognava pagare. Allora, si fa un contratto e si paga una percentuale, sul pubblico, dappertutto […]. È un meccanismo che funziona dappertutto per chiunque vuole lavorare. A Roma, Milano, in Sicilia e in Sardegna («La Repubblica-Milano», 2 genn. 2012, p. 3).
Anche il cosiddetto ‘sistema gelatinoso’ di appalti della Protezione civile era caratterizzato – a giudizio dei magistrati – dalla «sistematicità delle condotte illecite e dei rapporti illeciti e di cointeressenza tra gli indagati e per le rilevantissime ripercussioni finanziarie ed economiche ai danni dello Stato» (Tribunale di Firenze, Ordinanza di custodia cautelare in carcere, proc. n. 1460/09, 2010, p. 3).
Attraverso il formarsi di ‘aspettative adattive’, la pratica della corruzione continua a prendere piede nei centri di spesa dove si istituzionalizza, dettando le regole del gioco. Al suo sviluppo, in altre parole, si associa ancora la presenza di un corollario di regole che fissano la gamma di condotte accettabili e i meccanismi redistributivi delle rendite, di solito automatici (per es. nella forma di una percentuale prestabilita sul valore dell’appalto) e quindi sottratti ai rischi di reiterate rinegoziazioni. La fiducia reciproca e le aspettative convergenti spesso sono sufficienti ad assicurare ai partecipanti il buon esito delle transazioni, specie quelle frequenti e ripetute, con poste in palio e rischi contenuti, come accade nella corruzione ‘pulviscolare’, di piccolo cabotaggio (della Porta, Vannucci 2012). Interagendo nel corso del tempo aspiranti corrotti e corruttori ottengono con relativa facilità informazioni sugli interlocutori ai quali rivolgersi e sulla loro attendibilità, su modalità di approccio da utilizzare, percentuali da pagare, parametri di spartizione, criteri di rotazione tra imprese e beneficiari politici.
D’altro canto, qualora si manifestino attriti, anche nella corruzione sistemica assumono un ruolo centrale i soggetti che assicurano il rispetto delle regole non scritte e degli specifici ‘accordi contrattuali’, scongiurando intrusioni esterne e defezioni interne, appianando dispute e, qualora necessario, applicando sanzioni a chiunque metta a repentaglio stabilità e segretezza degli scambi. Come si è visto nel paragrafo precedente, la crisi provocata dalle inchieste di ‘mani pulite’ ha indotto un calo degli standard qualitativi assicurati in precedenza dai garanti partitici, proprio negli stessi anni in cui sul versante imprenditoriale un processo di destrutturazione delle grandi imprese moltiplicava e frammentava la domanda di servizi di protezione politica. Il titolare di un’impresa di servizi che lavora con la pubblica amministrazione così descrive la fase di transizione:
Io ho vissuto cosa era la politica di prima. A Roma incassava uno solo: o parlavi con lui, o con nessuno. […] Tutto il resto era codificato: si prendeva il 7-10% su ogni commessa, e poi c’era la divisione fra Dc, Psi, Pci e laici, ognuno con quote fisse. [Oggi per vincere una gara si deve pagare] praticamente ovunque. La novità è che oggi devi pagare e non hai l’appalto in tasca. Magari c’è qualcuno che ha pagato meglio di te, e ti tocca il prossimo turno. Nel mio settore ho la certezza [che pagano tutti]. Basta leggere un capitolato d’appalto. Ognuno è firmato, [...] scritto in modo che possa vincere solo una impresa. È come se ci fosse sotto la firma («Libero», 17 dic. 2011, p. 9).
In questa cornice, diversi attori specializzati hanno cercato di intercettare la domanda di protezione, impiegando risorse d’influenza politica, di reputazione, coercitive o economiche per scongiurare defezioni o punire gli inadempienti. Estendendo la loro sfera d’influenza alla regolazione e all’enforcement degli scambi corrotti, hanno assicurato un funzionamento relativamente ‘pacifico’, ordinato e prevedibile delle arene nelle quali i processi decisionali si legano ad aspettative di tangenti. Il grado relativamente elevato di efficacia dei meccanismi di regolazione della corruzione sistemica trova conferma in un sondaggio Global corruption barometer del 2009 (fig. 11): i cittadini italiani si collocano al secondo posto tra i Paesi dell’Unione Europea considerati, preceduti solo dalla Lituania, quanto a ‘sicurezza’ di poter ottenere senza alcun problema quanto atteso una volta pagata una tangente.
Tra i soggetti che operano in qualità di regolatori e garanti in aree di corruzione sistemica si trovano dunque figure diverse: dirigenti burocratici, faccendieri, amministratori politici e ‘boss dell’ente pubblico’, leader politici, imprenditori, famiglie mafiose. Per es., negli appalti della Protezione civile, un alto dirigente ministeriale avrebbe messo ordine tra i molti aspiranti appaltatori-corruttori grazie alla sua capacità «di gestire il proprio potere ripartendo le proprie attenzioni tra più imprenditori di suo interesse e componendo eventuali situazioni di contrasto derivanti dal mancato soddisfacimento di aspettative concernenti l’aggiudicazione degli appalti, così evitando possibili denunce da parte di imprenditori scontentati» (Tribunale di Firenze, Ordinanza di custodia cautelare in carcere, proc. n. 1460/09 Rg Gip, 8 febbr. 2010, pp. 65-66). In conclusione, nella spiegazione del radicamento della corruzione in Italia occorre considerare, accanto alle macrovariabili di natura culturale e istituzionale e alla carenza di efficaci misure anticorruzione, la robustezza dei meccanismi di autogoverno delle reti di relazioni illecite. Nella realtà politico-amministrativa italiana pesa infatti il retaggio di una storia pluridecennale di corruzione pervasiva, che ha sviluppato prassi, aspettative, modelli di condotta, competenze di illegalità e criteri di legittimazione delle condotte illecite, condensando i principi di una vera e propria ‘cultura della corruzione’, col suo retaggio di (dis)valori radicati nell’intera classe dirigente.
La presenza di organizzazioni mafiose nelle regioni dell’Italia meridionale, così come la loro migrazione in aree del Centro-Nord, ha rappresentato un ulteriore, potente elemento di continuità e stabilità negli equilibri della corruzione sistemica. Le attività criminali dei mafiosi e gli scambi corrotti si realizzano infatti in ambiti distinti ma complementari, favorendo lo sviluppo di un nesso simbiotico nell’intreccio tra corruzione, infiltrazioni mafiose, regolazione dei mercati illegali, organizzazione del consenso (della Porta, Vannucci 2012, pp. 192-202). Amministratori pubblici sensibili al potere d’acquisto dei corruttori sono interlocutori ideali per i mafiosi: grazie ai capitali illeciti di cui dispongono e al know-how criminale, i gruppi mafiosi possono acquistare con le tangenti versate a esponenti di Forze dell’ordine e magistratura, oppure ai politici capaci di influenzarne l’operato, una salvaguardia dall’azione repressiva dello Stato, incrementando profitti e ‘aspettative di vita’ nei mercati illeciti. Per le organizzazioni criminali, del resto, il ricorso alla corruzione è preferibile all’impiego della violenza, poiché attenua i rischi e l’allarme sociale, creando con gli agenti pubblici un legame persistente cementato dal possibile ricatto (E. Ciconte, Politici (e) malandrini, 2013). L’organizzazione mafiosa opera come una ‘struttura di governo’, all’occorrenza brutale, capace di fornire servizi di protezione privata in quei contesti nei quali la pressione estorsiva, la sfiducia, la natura criminale o informale delle relazioni fanno sì che l’aspettativa di ottenere una salvaguardia dei propri precari ‘diritti’ sulle risorse in gioco negli scambi economici e nelle interazioni sociali non trovi risposta nello Stato (D. Gambetta, La mafia siciliana, 1992). Tra i mercati illegali nei quali emerge una domanda di salvaguardia e di ‘regolazione’ delle condotte, quello della corruzione (cui si associa il mercato delle intese collusive tra imprenditori) ha un’importanza centrale per le organizzazioni mafiose, per un duplice ordine di motivi: le consistenti opportunità di profitto illecito, dato l’ammontare di risorse allocate dagli enti pubblici; il potenziale accesso a una rete di relazioni con soggetti che si collocano in snodi strategici – amministratori politici e burocratici, professionisti, imprenditori, ecc. (R. Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove, 1998, 20092) –, fattore che assicura ai mafiosi accesso a competenze, processi decisionali e informazioni riservate, accrescendone sia prestigio sociale sia speranze d’impunità.
La solidità e la stabilità delle reti della corruzione discendono, dunque, dalla presenza di organizzazioni criminali capaci di offrire servizi di salvaguardia nei patti illeciti, ma anche di ricambiare ‘proteggendo’ dalle incertezze del mercato elettorale gli interlocutori politici, per es. organizzando a loro favore la raccolta dei pacchetti di voti controllati: «La ’ndrangheta ha bisogno della politica e i politici hanno bisogno della ’ndrangheta. Il patto si fa prima: a loro i voti a noi i cantieri», è la sintesi di un collaboratore di giustizia (La Repubblica.it, 14 genn. 2012, http://www.repubblica.it/cronaca/2012/01/14/news/partito_varacalli_a_volto_scoperto_ndrangheta_mafia_nord-28098934/). Un camorrista così descrive le prospettive di collaborazione proposte da un candidato alle elezioni provinciali di Caserta, in una riunione appositamente organizzata:
Presente il candidato, io rassicurai i presenti che lo stesso ci avrebbe in futuro compensato del nostro appoggio in quanto ‘se fosse cresciuto lui, saremmo cresciuti anche noi’. A titolo esemplificativo, tra l’altro, io avrei avuto altri appalti dai comuni limitrofi della provincia e avrei pertanto potuto assumere i figli dei miei dipendenti che avessero avuto bisogno di lavoro (Camera dei deputati, Domanda di autorizzazione a eseguire la misura cautelare n. 26, 2011, p. 87).
L’appoggio del politico, a sua volta, assicura al clan camorrista un vantaggio concorrenziale nelle trattative (e negli scontri) con altri gruppi criminali. Come osserva un collaboratore di giustizia, l’onorevole «rappresenta un punto di forza dei casalesi. È la garanzia politica del clan. E quando mi sono rapportato ad appartenenti ad altre organizzazioni, il fatto che noi casalesi godessimo di un rapporto privilegiato con l’onorevole [...] ci dava un punto in più» (La Repubblica-Napoli.it, 7 dic. 2011, http://www.napoli.repubblica.it/cronaca/2011/12/07/news/cosentino_volpe-26207360/).
Anche agli imprenditori viene offerta dai gruppi criminali una salvaguardia nei loro contatti con la pubblica amministrazione (licenze, contratti, concessioni, ricorsi, controlli, ecc.), oltre che nelle più turbolente relazioni con i concorrenti. Qualcosa di simile a un contratto di assicurazione li lega alla famiglia mafiosa che si fa carico di tutelarne diritti e pretese; nelle parole di un collaboratore di giustizia mafioso:
posso, con assoluta certezza, dire che si tratta di un’impresa ‘amica’, per le ragioni che le posso spiegare: in quanto, sia [essa], sia le altre imprese per gli appalti che indicherò, sfruttavano la forza di intimidazione della nostra organizzazione per dissuadere eventuali concorrenti in gare di appalto, sfruttavano le nostre conoscenze presso politici o pubblici amministratori per aggiudicarsi le gare – è il caso dell’ospedale Garibaldi – beneficiavano della nostra protezione, oltre che delle imprese legate alla ‘famiglia’, che potevano eseguire lavori in subappalto.
Per questo le imprese pagano in cambio una somma di denaro – in percentuale sul valore degli appalti – «per la ‘protezione’, cioè per una sorta di assicurazione a vita per l’impresa» (Senato della Repubblica, Domanda di autorizzazione all’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare n. 4, 1999, pp. 315-16). L’autorevolezza dei mafiosi, frutto della reputazione che l’accompagna, spesso è sufficiente perché tutto fili liscio, ed essi possano svolgere la loro funzione di garanti dei patti che legano i protagonisti della corruzione, senza bisogno di ricorrere – se non eccezionalmente – alla violenza. Pochi osano sfidare le regole della corruzione sistemica, come osserva il capo-area in Sicilia di un’impresa settentrionale:
Il sistema degli appalti funziona in Sicilia come funziona in Italia. La differenza è che in Sicilia c’è più disciplina. Che significa? Significa che in Sicilia, al contrario di quanto avviene in Italia, ogni tanto ci scappa il morto e la disciplina ne è una conseguenza. […] Quel che so io è questo: ogni appalto dai dieci miliardi in su si decide in un triangolo tra politici-imprenditori-funzionari e progettisti. La mafia in questo triangolo non c’è, ma c’è, eccome, all’esterno di questo triangolo (Tribunale di Palermo, Sentenza n. 2537, 2002, p. 127).
Le quattro regioni meridionali caratterizzate da una strutturata presenza mafiosa sul territorio – come mostrano le figure 2 e 7 – si collocano in coda nelle classifiche su percezione e denunce di corruzione, a conferma della simbiosi tra i due fenomeni. Tanto la corruzione quanto le organizzazioni criminali, del resto, traggono linfa vitale da un deficit di capitale sociale, che si riflette nella debolezza dei legami di fiducia interpersonale e delle norme di reciprocità generalizzata, nel pessimismo sulla capacità dello Stato e dei suoi funzionari di tutelare i diritti dei cittadini.
La capacità di regolazione delle organizzazioni criminali nel mercato della corruzione si è manifestata con forme e intensità diverse nel corso del tempo. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, per es., nel settore degli appalti pubblici si è consolidato in Sicilia un meccanismo ferreo di controllo. Nelle parole di un collaboratore di giustizia, le tangenti erano ripartite in percentuali fisse tra locali famiglie mafiose, in riconoscimento della loro parziale sovranità sull’area sede dei lavori, ‘cupola’ mafiosa, imprenditori, politici e burocrati: «La percentuale era così divisa: 2% la mafia, 2% al gruppo andreottiano, lo 0,50% era per la commissione provinciale di controllo [...]. Stiamo parlando del solo accordo provincia. Perché poi ce ne erano altri» (Tribunale di Palermo, Sentenza di primo grado contro Andreotti Giulio, 1999, p. 776). In seguito venne prevista una quota ulteriore dello 0,8% sul valore dell’appalto, la ‘tassa Riina’, da convogliare direttamente al nucleo centrale di ‘cosa nostra’, con cui coprire le uscite comuni: acquisto di armi, spese legali, sostentamento delle famiglie dei detenuti. Un altro collaboratore di giustizia ricostruisce la fase in cui, per conciliare i molti appetiti ed evitare tensioni, i vertici mafiosi sancirono che gli appalti al di sopra di una certa soglia di valore sarebbero stati assegnati secondo criteri decisi dal cosiddetto tavolino, attorno al quale sedevano mafiosi e imprenditori autorevoli:
Questo tavolo aveva appositamente la funzione di spartire sin dall’inizio i lavori garantendo le tangenti una volta che la gara fosse stata espletata ed appaltato i lavori agli uomini politici da un lato, e alla zona, alla famiglia mafiosa dove ricadeva il lavoro. Ora diciamo che in questo momento noi eravamo i supervisori dietro le quinte, questo lavoro veniva espletato da un cartello di imprese che si univano tra di loro e portavano avanti la spartizione dei lavori con il nostro bene placido [sic], e quando occorreva mettevamo ordine (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Richiesta di fermo di indiziati nel p.p. n. 3779, 2004, p. 1053).
La corruzione ha finito così per espandersi orizzontalmente a ogni appalto: secondo un collaboratore definito «ministro dei lavori pubblici di ‘cosa nostra’», «tutte le gare erano truccate, tutte, nessuna esclusa, da quella dei cento milioni a quella dei cento miliardi» (Tribunale di Palermo, Deposizione al processo De Eccher + 31, 1998). La protezione mafiosa nel settore degli appalti ha consentito inoltre di risalire a monte nel controllo dell’iter della gara, cementando equilibri politici tra partiti e amministratori coinvolti già nella programmazione e nel finanziamento dei lavori, fino al punto di pianificare gli interventi nei rispettivi programmi elettorali. Questa la ricostruzione fornita da un collaboratore di giustizia della camorra:
In effetti il clan inizia a programmare la gestione degli appalti fin dal momento in cui si parla dell’assegnazione dei finanziamenti da enti sovraordinati. Anche i finanziamenti dello Stato per la legge 488 furono utilizzati dal clan per far aprire imprese commerciali e poi farle fallire […]. Tutti gli appalti erano controllati per conto [del boss camorrista] e per il tramite dei funzionari del Comune (Camera dei deputati, Domanda di autorizzazione a eseguire la misura cautelare della custodia n. 26, 2011, pp. 55-56).
Scambi differiti di questa natura richiedono interlocutori politici e amministrativi stabili e affidabili in un esteso arco temporale, verso i quali converrà dunque convogliare anche il consenso organizzato dal gruppo mafioso.
La deterrenza mafiosa si è dimostrata efficace nello scongiurare defezioni dal patto di omertà, tanto che, come osservano i magistrati, negli anni Novanta in Italia meridionale i protagonisti della corruzione sistemica hanno attraversato pressoché indenni le inchieste giudiziarie di ‘mani pulite’.
A differenza che in altre regioni d’Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo da inchieste riguardanti l’illecita gestione degli appalti hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’autorità giudiziaria (Tribunale di Palermo, Ordinanza “Mafia e appalti”, 1997, p. 5).
Nell’evoluzione della corruzione nelle regioni ad alta densità mafiosa non si registra dunque alcuna cesura netta tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ ‘mani pulite’, data la perdurante capacità dei gruppi criminali di disciplinare le relazioni tra corrotti e corruttori nelle aree di comune interesse. A partire dall’inizio degli anni Duemila, tuttavia, vi sono stati momenti di crisi nella regolazione mafiosa degli appalti, specie a seguito della cattura di diversi esponenti mafiosi di spicco e della collaborazione coi magistrati di alcuni di essi, fattori che hanno accentuato spinte centrifughe nelle organizzazioni criminali. In Sicilia, in particolare, gli anni Novanta hanno sancito il fallimento della strategia accentratrice della fazione corleonese – culminata nella stagione delle stragi mafiose – inducendo una parziale sommersione delle attività criminali a più alto rischio di esposizione pubblica. Tra di esse si annoverano quelle che richiedono contatti con imprenditori collusi, politici e funzionari corrotti, i cui spazi di manovra autonoma sono di conseguenza aumentati. Del resto il rovesciamento degli equilibri politici che fino agli anni Novanta – facendo perno sulla Democrazia cristiana – avevano contrassegnato la Sicilia e le altre aree del Sud Italia ha aperto nuovi scenari. Mafiosi, politici, funzionari, professionisti, imprenditori non hanno interrotto i contatti e le ‘alleanze nell’ombra’, organizzando accordi di cartello e scambiando tangenti, appalti, finanziamenti comunitari, licenze e altri vantaggi erogati dalla mano pubblica (Alleanze nell’ombra, a cura di R. Sciarrone, 2011). In assenza di interlocutori stabili e affidabili nelle istituzioni, in uno scenario politico affollato, movimentato, incerto, nelle stesse organizzazioni criminali le singole famiglie mafiose, abbandonate le ambizioni accentratrici, sembrano muoversi con maggiori spazi di autonomia.
Fino al 1992 gli scandali ricorrenti non sono stati sufficienti a stimolare politiche di contrasto e prevenzione della corruzione, fatta eccezione per l’introduzione del finanziamento pubblico ai partiti nel 1974. Soltanto gli effetti dirompenti delle inchieste di ‘mani pulite’, con la dissoluzione dei partiti dell’area di governo e la radicale delegittimazione dell’intera classe dirigente, hanno modificato l’inerzia dei decisori politici su questi temi. Diversi fattori, come il clima di ostilità verso il ‘vecchio’ ceto politico, l’incriminazione e l’eclissi dei principali leader, la crisi dei partiti tradizionali hanno creato le condizioni per una risposta inizialmente ‘difensiva’ della classe politica, volta a dimostrare una qualche assunzione di responsabilità – in termini politici, simbolici e giudiziari – a fronte del disvelamento di uno scenario di corruzione sistemica senza precedenti nella storia delle democrazie occidentali. Si pensi alla riforma costituzionale delle regole per la concessione dell’autorizzazione a procedere dei parlamentari, all’introduzione di un sistema elettorale maggioritario, a livello sia nazionale sia locale, alle nuove regole per le procedure di appalto, alle misure di semplificazione dell’attività amministrativa. Si è trattato tuttavia di interventi parziali, non coordinati in un quadro organico. Nel 1996 l’istituzione di una speciale commissione legislativa anticorruzione presso la Camera dei deputati è valsa a certificare, con il suo bilancio fallimentare, il mutamento di clima politico, mentre il tema scivolava fuori dall’agenda pubblica (della Porta, Vannucci, 1999b). Fatta salva una tardiva ratifica della convenzione ONU sulla corruzione nel 2009, le frammentarie iniziative in questo campo si sono tradotte in altrettanti nulla di fatto, come dimostrano l’inerzia dell’Alto commissario anticorruzione, istituito nel 2003 e posto alle dirette dipendenze funzionali della Presidenza del Consiglio, poi degradato nel 2008 a Servizio anticorruzione e trasparenza (SAET), con una drastica decurtazione di risorse e competenze (A. Vannucci, The controversial legacy of ‘mani pulite’, «Bulletin of Italian politics», 2009, 1, 2, pp. 233-64).
Nell’eclissi dell’attenzione pubblica sui temi della lotta alla corruzione, a partire dalla fine degli anni Novanta maggioranze di diverso colore, coerentemente con un disegno condiviso di riequilibrio dei rapporti di forza tra magistratura e classe politica, hanno approvato una gamma di provvedimenti che hanno inciso negativamente – anche in termini simbolici – sulle prospettive di rischio e le opportunità di guadagno del coinvolgimento nella corruzione. Si pensi, per es., alla sensibile riduzione dei tempi di prescrizione per i ‘crimini dei colletti bianchi’; agli scudi giudiziari approntati per figure politiche di vertice; agli aggravi procedurali posti al lavoro dei giudici; al depotenziamento dei ‘reati-sentinella’ (che permettono ai magistrati di indagare su sottostanti crimini di corruzione, altrimenti non denunciati) di falso in bilancio e abuso d’ufficio; all’applicazione estensiva del metodo dell’emergenza continua, eletto a strumento di assegnazione selettiva di appalti a imprenditori protetti (D. della Porta, A. Vannucci, Corruption and anti-corruption: the political defeat of ‘Clean Hands’ in Italy, «West European politics», 2007, 30, 4, pp. 830-53). In alcuni casi si è trattato di misure approvate frettolosamente, che hanno scontato abrogazioni parziali e totali a opera della Corte costituzionale e per via referendaria, fornendo comunque al pubblico un segnale inequivocabile – anche sotto il profilo simbolico – di un mutato clima politico, accompagnato da un atteggiamento indulgente o autoassolutorio delle forze di governo verso l’irrisolta ‘questione corruzione’, derubricata a spunto di ricorrenti drammatizzazioni del rapporto tra magistratura e classe politica.
Ancora in chiave di risposta emergenziale a una nuova ondata di scandali è maturata l’adozione della l. 6 nov. 2012 nr. 190, avviata nel 2010 e conclusa dopo un lungo iter per iniziativa di un governo tecnico. A distanza di oltre vent’anni dall’avvio delle inchieste di ‘mani pulite’, tali disposizioni configurano un primo tentativo di coniugare la riforma dei meccanismi di repressione dei reati di corruzione con la loro prevenzione. La nuova cornice normativa tuttavia ha modificato solo marginalmente la struttura di opportunità e aspettative. In particolare, sono rimaste lettera morta le principali raccomandazioni del GRECO sulle carenze dei profili di repressione, come «il riordino della normativa in materia di corruzione ed i termini di prescrizione dei reati, la formazione specializzata per le forze dell’ordine ed il rafforzamento del coordinamento delle forze investigative, i meccanismi di verifica dell’efficacia delle misure in tema di sequestro e confisca dei proventi del reato di corruzione, le misure sul contrasto al riciclaggio e quelle in materia di falso in bilancio» (SAET, Relazione al Parlamento 2010, 2011, p. 30). Al contrario, a complicare il lavoro interpretativo dei magistrati vengono moltiplicate le fattispecie: per es., la concussione è stata ‘spacchettata’ in due reati distinti, con una dubbia efficacia della ‘indebita induzione’ – che copre la quasi totalità dei casi, a seguito dell’introduzione della punibilità anche per il privato (che ne cancella gli incentivi alla collaborazione coi giudici) – e della sensibile riduzione della pena massima e dei tempi di prescrizione previsti; o ancora sono stati introdotti i nuovi reati di corruzione privata e traffico di influenze illecite, come previsto dalla convenzione di Strasburgo del Consiglio d’Europa, sottoscritta nel 1999. Tali reati però prevedono pene massime di appena tre anni, con il rischio di impedire le intercettazioni e di accompagnare verso una probabile prescrizione i procedimenti avviati, producendo effetti di segno negativo sia sull’attività di uffici giudiziari già sovraccarichi sia sulle aspettative di impunità degli imputati.
Sotto il profilo della prevenzione è stato imposto l’obbligo di un nuovo adempimento a tutte le organizzazioni pubbliche, consistente nell’elaborazione e nell’attuazione – sotto la supervisione di un responsabile ad hoc – di un piano triennale anticorruzione. L’approccio di fondo sembra tuttavia improntato a una dimensione di mero controllo formale dell’attività amministrativa, escludendo la componente politica. Ne è conferma l’istituzione di un’Autorità anticorruzione priva di risorse organizzative e poteri effettivi di riscontro sull’operato o sull’arricchimento dei funzionari, cui è delegata l’ennesima verifica di adempimento procedurale.
Il caso italiano sembra così dimostrare le ragioni di una debolezza di fondo delle politiche anticorruzione. Generando benefici diffusi ma costi concentrati sulla cerchia coesa di corrotti, le misure di prevenzione e contrasto difficilmente trovano condizioni favorevoli alla loro formulazione e attuazione. I vantaggi della loro adozione ricadono su una platea estesa ma indistinta di beneficiari, in genere inconsapevoli e disposti al più a un tiepido appoggio, mentre le ricadute negative si concentrano su categorie di soggetti consci della loro posizione di rendita – politici e burocrati corrotti, imprenditori e professionisti collusi – ai quali per giunta è conferito un potere decisivo di iniziativa o di veto nei corrispondenti processi decisionali (Vannucci 2012, p. 257).
Per spezzare simili resistenze si possono ipotizzare due tipi di processi. Il primo richiede l’iniziativa ‘calata dall’alto’ di imprenditori e politici capaci di sensibilizzare e mobilitare i cittadini su questi temi, ove possibile collegando i provvedimenti anticorruzione a riforme di ampio respiro del sistema politico-amministrativo. Il secondo si fonda su iniziative dal basso, attraverso il coordinamento e la condivisione di proposte e ‘buone pratiche’ diffuse sul territorio, a opera dei soggetti istituzionali (amministratori locali, organi di controllo, ecc.) e sociali (associazioni, movimenti, comitati, ecc.) già mobilitati e attivi in questo campo. Ma queste politiche, se isolate o discontinue, rischiano di risultare poco incisive, o di produrre effetti effimeri. Come mostrano alcune esperienze straniere, tra cui quella dei Paesi scandinavi, perché il passaggio dalla corruzione diffusa alla trasparenza nel settore pubblico sia netto e irreversibile occorre l’avvio di un ‘circolo virtuoso’ tra il rafforzamento degli strumenti di controllo civico e le riforme delle ‘regole del gioco’ politico-istituzionale in direzione di una maggiore partecipazione e responsabilità dei decisori pubblici (B. Rothstein, The quality of government, 2011). Questa combinazione di fattori in passato si è dimostrata in grado di superare le incrostazioni del potere corrotto, creando le condizioni istituzionali e le sensibilità culturali necessarie per la messa in atto di misure anticorruzione efficaci: la sua applicabilità al caso italiano è tutta da sperimentare.
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