La costruzione della monarchia papale
Tra il pontificato di Leone IX (1049-1054) e quello di Bonifacio VIII (1294-1303), l’istituzione del papato si trasforma profondamente con l’obiettivo di affermare una sua nuova posizione di centralità in seno alla cristianità occidentale, imperniata su due elementi decisivi: la superiorità nei confronti di tutte le strutture ecclesiastiche e di tutti i poteri laici, e l’universalità della sua funzione. È un programma che Pier Damiani enuncia con chiarezza nella sua epistola sulla «brevità della vita dei pontefici romani» del 1064: il papa vi è definito con i termini di ‘vescovo universale’, ‘principe degli imperatori’ e ‘superiore a tutti gli uomini’. L’evoluzione arriva a un suo apice verso il 1300 quando Egidio Romano, teologo di Bonifacio VIII, può affermare che «il sommo pontefice che dirige il vertice della Chiesa [...] può essere detto la Chiesa» (Aegidius Romanus, De ecclesiastica potestate, III, c. 12, cit. in R. Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII., 1903, p. 60).
Lo stesso titolo di ‘Vicario di Cristo’ – il più celebre dei titoli attribuiti al papa durante il Medio Evo – accompagna e sostiene l’evoluzione istituzionale del papato dalla Riforma gregoriana in poi. Nel 1057, Pier Damiani scrive che Cristo disse personalmente al papa (Vittore II, 1055-1057) di averlo istituito suo Vicario. Nell’opuscolo Sul celibato dei sacerdoti, dedicato a Niccolò II (1059-1061), Pier Damiani aggiunge che il papa «funge le veci di Cristo». Nelle lettere a Innocenzo II (1130-1143) e nelle sue opere anteriori al 1147, Bernardo di Chiaravalle usa il titolo di Vicarius Petri ma opta per Vicarius Christi dopo l’elezione di Eugenio III (1145-1153) al pontificato, contribuendo così all’affermazione storica del titolo. Nel De consideratione, Bernardo va oltre: Cristo si è designato un unico Vicario, il papa.
Mezzo secolo dopo, Innocenzo III (1198-1216) accostò ancor più metaforicamente il papa a Cristo affermando: «il papa è colui che è chiamato a ‘portare’ o a ‘rappresentare’ (gerere) la persona di Cristo». Diventando l’unico Vicarius Christi, il papa assurse a immagine vivente di Cristo in terra. Bosone, il biografo di Alessandro III (1159-1181), descrive così il trionfale ritorno del papa a Roma (marzo 1178): «Allora tutti guardarono il suo volto (del papa) come il volto di Cristo, di cui egli fa le veci in terra». Persino l’annuncio dell’avvenuta elezione di un nuovo pontefice – «Annuntio vobis gaudium magnum» – ricalca una frase di san Paolo relativa a Cristo: «Costui è Cristo Gesù che io vi annuncio» (Atti degli Apostoli 17, 3). Dante (Purg. XX, 86-87) vedrà in Bonifacio VIII «Cristo prigioniero» (su queste fonti, v. Paravicini Bagliani, 1994 p. 89).
Un’evoluzione così profonda influenzò il significato di antichi simboli del potere pontificio di origine imperiale, primi fra tutti la tiara. Il papa appare incoronato con il phrygium (tiara) per la prima volta, sembra, in una moneta di papa Sergio III (904-911). Per molti secoli, l’uso della tiara non sembra essersi distinto dalla mitra. Il papa appare nelle illustrazioni di cerimonie liturgiche con la tiara sul capo o con la mitra bicornis in scene di carattere temporale (istrumentazione di atti ecc.). Innocenzo III propose però una distinzione fondamentale: la tiara è il simbolo del potere del papa (in signum imperii), la mitra, il simbolo della sua funzione sacerdotale (in signum sacerdotii). Va però detto che, essendo il potere pontificio spirituale e temporale, la tiara finì per diventare simbolo della plenitudo potestatis papale. E anche a questo riguardo l’evoluzione giunge a un suo apice con Bonifacio VIII, le cui tiare altissime rappresentano simbolicamente, secondo la Genesi, un cubitus che corrisponde alla sommità dell'Arca di Noé, tradizionalmente simbolo della Chiesa. Ugo da San Vittore e Pietro Comestor avevano identificato il cubitus della sommità dell’Arca di Noé con Cristo. Egidio Romano e Bonifacio VIII lo identificano invece con il papa (per le fonti v. Paravicini Bagliani 2009, pp. 137-51).
A questa identificazione progressiva della figura del papa con Cristo, e quindi con la Chiesa, hanno contribuito anche canonisti del livello di Uguccio da Pisa. Secondo un’antichissima tradizione, i vescovi dovevano recarsi a Roma per effettuare una visita sulla tomba (ad limina) degli apostoli Pietro e Paolo. Il secolare accostamento delle parole ad limina agli apostoli incomincia a evolvere intorno alla metà del 12° secolo. Nella Summa di Rufino (1157-1159), l’atto religioso di presentarsi ai sepolcri degli apostoli è già sostituito da una visita al papa, cui i vescovi devono presentare la reverentia (J.F. von Schulte, Die Summa magistri Rufini zum Decretum Gratiani, 1892, p. 160). Ma il passo decisivo viene compiuto da Uguccione nel suo commento al Decreto (1188-1191). Egli intende per limina «anche la curia romana, ovunque sia» (Maccarrone 1991, 2° vol., p. 1143 n. 29). Ovunque sia. Ciò significa che Roma è là dove è la Curia, ossia dove è il papa.
Un altro celebre canonista, Sinibaldo Fieschi, futuro papa Innocenzo IV (1243-1254), stabilisce un’identificazione ancora più esplicita tra i limina e l’ubicazione del papa. Per limina degli apostoli, egli intende «dove è il papa» (ubi papa est). Nessuno prima di lui si era spinto così lontano. Qualche anno più tardi, l’Ostiense creerà in proposito un assioma destinato a diventare celebre: ubi papa, ibi Roma (Maccarrone 1991, 2° vol., p. 376). Tutto ciò rivela la capacità di insediare in formule astratte molteplici evoluzioni istituzionali e realtà curiali. Ma l’astrazione è sorretta da un assorbimento totale della Chiesa romana nella persona del papa. La persona del papa rappresenta l’universalità della Chiesa anche nella sua dimensione spaziale.
Sulla scia del programma riformatore del papato dell’11° sec., Innocenzo III si è anche definito verus imperator, il che ci ricorda che simboli e metafore che attingono a quel vasto serbatorio simbolico abitualmente definito imitatio imperii hanno svolto un ruolo fondamentale a favore delle pretese e attese politiche del papato in termini di superiorità e di universalità. La metafora delle due spade, ma anche dei due occhi, delle due mani, dei due cherubini, delle due colonne del Tempio di Gerusalemme, oltre che le opposizioni oro-piombo, sole-luna e corpo-anima sono immagini e simboli che hanno per secoli sostenuto l’evolversi delle pretese temporali del papato, nell’ambito dei rapporti difficili e delicati tra le due sfere, temporale e spirituale.
Nella Per venerabilem (1202), il papa afferma che la Chiesa non deve compiere atti di ingerenza nell’ambito della giurisdizione civile, nemmeno in un campo che confina con la morale. Nella Novit ille (1204), destinata a spiegare all’episcopato del regno di Francia la legittimità dei suoi interventi nel conflitto politico che opponeva Filippo Augusto al re di Inghilterra Giovanni Senzaterra, Innocenzo III, pur riconoscendo che il dominio feudale apparteneva al re, sostenne però che l’intervento del papa era possibile e necessario ratione peccati. L’immagine delle due spade è presente anche nella bolla Unam Sanctam, promulgata da Bonifacio VIII il 18 novembre 1302. Il papa dichiara che non vi è che una Chiesa, santa, cattolica e apostolica e che questo è un dogma che si impone a ciascun cristiano. Al di fuori di essa non c’è salvezza né remissione dei peccati. La Chiesa rappresenta un unico (unum) corpo mistico, un corpo il cui capo è Cristo. In essa c’è un solo Signore, una sola fede e un solo battesimo. Ne consegue che «la Chiesa, non essendo che un solo corpo, non può avere che un unico capo, – e non due capi come un mostro –, ossia Cristo e il vicario di Cristo, Pietro e il successore di Pietro». Il potere di quest’ultimo viene esercitato attraverso le due spade, quella spirituale e quella temporale. Chi rifiuta la spada temporale a Pietro non interpreta bene la parola del Signore: «Rimetti la tua spada nel fodero». Entrambe le spade, quella temporale e quella spirituale, appartengono al potere della Chiesa, è necessario che una spada sia sottomessa all’altra, che l’autorità temporale sia sottomessa al potere spirituale. Il papa è l’homo spiritualis guidato dallo Spirito e la cui autorità è assoluta. Di qui la celebre conclusione: «Noi dichiariamo, affermiamo, definiamo che è assolutamente necessario alla salvezza che ogni creatura umana sia in tutto sottomessa al romano pontefice» (Paravicini Bagliani 2003, pp. 303-11).
Tra Leone IX e Pasquale II (1099-1118), i tre gruppi di cardinali – diaconi, preti, vescovi –, rappresentanti il clero della città di Roma e le diocesi suburbicarie, diventano il principale strumento di governo pontificio della Chiesa e il supporto istituzionale della concezione ecclesiologica secondo cui il papato deve essere considerato come episcopato universale. Poco dopo la sua elezione Leone IX decide di nominare vescovi delle diocesi situate nelle vicinanze di Roma persone di fiducia (Giovanni di Porto, Umberto di Moyenmoûtier). Vittore II, Stefano X (1057-1058) e Niccolò II presero decisioni analoghe, chiamando in seno al collegio dei cardinali vescovi Pier Damiani e Bonifacio d’Albano. I cardinali vescovi furono reclutati in diverse parti della cristianità e poterono assumere un ruolo determinante nelle attività riformatrici del papato; ricevettero la conferma del loro nuovo rango in occasione della promulgazione del decreto di elezione pontificia di Niccolò II (1059). Dall’inizio del 12° sec., il collegio dei cardinali venne definitivamente organizzato in tre gruppi. Le loro antiche funzioni liturgiche furono trasferite – sotto un’altra forma – alla cappella papale. I cardinali ebbero da quel momento in poi esclusivamente cariche legate al governo della Chiesa romana. Questa collaborazione tra il papa e il collegio dei cardinali troverà espressione concreta nella costituzione del concistoro.
La straordinaria ascesa del cardinalato ai vertici del governo della Chiesa romana dall’11° sec. in poi fu simbolicamente sostenuta anche da un’altra metafora di origine imperiale, secondo cui i cardinali erano «parte del corpo del papa»: Innocenzo III fu il primo papa a servirsene. In una lettera dell’agosto 1198, egli chiama i cardinali «membri del nostro corpo», ed esclama: «siamo tutti (il papa e i cardinali) un solo corpo in Cristo» (Die Register Innocenz’ III., hrsg. O. Hageneder, A. Haidacher, 1° vol., 1964, p. 515). La formula creava una duplice identificazione: il corpo del papa, di cui fanno parte i cardinali, fa corpo con Cristo. La metafora del corpo implicava il riconoscimento del diritto dei cardinali a prendere parte al potere giurisdizionale del capo della Chiesa, ma anche la loro subordinazione al potere supremo del papa. All’inizio del Trecento, l’espressione pars corporis pape è già argomento tradizionale della letteratura canonistica. Ciò va attribuito all’influenza del Codice di Giustiniano, che definiva i senatori pars corporis dell’imperatore.
Anche l’adozione della parola curia va compresa dall’interno del programma riformatore del papato dell’11° secolo. Leone IX e i suoi successori lottarono sistematicamente contro l’alienazione di proprietà e di introiti ecclesiastici a favore di signori laici, considerata una delle principali cause dell’impoverimento delle istituzioni religiose e del declino della disciplina e della morale. Il problema si poneva in modo particolarmente drammatico proprio a Roma, dove gli introiti erano stati sequestrati durante i secc. 9° e 10° dai baroni romani, in particolare dai conti di Tuscolo. I membri delle grandi famiglie romane, poco inclini ad accogliere gli ideali di riforma, continuarono a occupare i posti chiave dell’amministrazione romana, il cui elemento centrale era costituito, secondo la tradizione, dal sacrum palatium Lateranense, dal quale dipendevano i giudici palatini, definiti secondo le loro diverse funzioni: arcarius, sacellarius, primus defensor, adminiculator, vestariarius, vicedominus.
All’inizio dell’11° sec., tutti questi ‘funzionari palatini’ erano familiari del conte di Tuscolo. L’imperatore Enrico II (1014-1024) aveva liberato il papato dal dominio dei conti di Tuscolo, ma non aveva tolto loro gli uffici redditizi della Sede apostolica. La decisione di papa Leone IX di nominare Ildebrando oeconomus e cardinale aveva interrotto questa tradizione e persino innovato per quanto riguarda il titolo. Poco dopo la sua elezione, Niccolò II affidò a Ildebrando l’amministrazione dei beni temporali del papato nominandolo arcidiacono della Chiesa romana: anche questa funzione era stata fino allora tenuta dai membri dell’aristocrazia romana. Non è certo una coincidenza se il più antico elenco delle proprietà e degli introiti della Chiesa romana risale appunto al pontificato di Gregorio VII (1073-1085), nel corso del quale si centralizzò il controllo degli interessi temporali e si iniziò a tenere una contabilità regolare. Riferendosi al modello amministrativo cluniacense, Urbano II (1088-1099) modificò ancora più radicalmente la struttura dell’amministrazione pontificia, ponendo i fondamenti di una organizzazione curiale destinata a un grande avvenire. Da allora in poi, e per tutti gli ultimi secoli del Medioevo, camera e cappella costituirono, accanto alla cancelleria, i principali organi amministrativi della curia romana.
La parola curia rinvia all’antica Roma, è cioè elemento di imitatio imperii, che si impone soltanto negli ultimi anni dell’11° sec. quale termine per designare l’organizzazione del governo centrale della Chiesa. Nella Roma antica, il termine curia aveva dapprima designato un insieme di famiglie importanti della città di Roma, poi il luogo di riunione e, finalmente, la sede del Senato e quindi anche la stessa corporazione senatoriale.
Come per il titolo di Vicarius Christi, il successo della formula plenitudo potestatis, destinata a diventare emblematica per definire il potere papale dagli ultimi secoli del Medioevo in poi, fu assicurato dall’entusiasmo con cui Bernardo da Chiaravalle l’aveva adottata e dall’approfondimento giuridico e dottrinale di Uguccio. Due altri testi inseriti nel Decreto – una lettera dello pseudo Gregorio IV e una decretale pseudo isidoriana – opponevano il potere pontificio a quello dei vescovi: al primo era riservata la plenitudo potestatis, ai secondi la pars sollicitudinis. Questa antitesi finì per sostenere il principio secondo cui il potere dei vescovi deriva dal potere di giurisdizione del papa, poiché essi sono chiamati da lui in partem sollicitudinis. Nel 1198, fin dal primo anno del suo pontificato, Innocenzo III se ne servì in alcune sue lettere. I canonisti l’adottarono subito. Con Innocenzo IV e i decretalisti del Duecento, il concetto di plenitudo potestatis conobbe un’estensione massima. Sinibaldo Fieschi pretese che, grazie alla plenitudo potestatis, il papa potesse esercitare il suo potere temporale non soltanto su tutti i cristiani ma anche sugli infedeli. Per l’influente decretalista Ostiense, il potere del papa era di natura duplice: la potestas ordinaria o ordinata veniva esercitata dal papa in virtù della plenitudo officii, in accordo con le leggi esistenti. La potestas absoluta derivava dalla plenitudo potestatis: grazie a essa, egli poteva, invece, trascendere la legge esistente. Nell’esercizio della plenitudo potestatis, il papa non era tuttavia solo. I cardinali costituivano con il papa un collegio che esercitava l’autorità affidata da Dio alla Chiesa romana.
Nel corso del Duecento, i canonisti presero l’abitudine di riunire in una singola collezione lettere pontificie di particolare importanza sul piano legislativo. Questi testi venivano generalmente definiti con il termine di decretali, perché contenevano quasi esclusivamente risposte della più alta autorità della Chiesa a consultazioni giudiziarie o extragiudiziarie provenienti da dignitari ecclesiastici o laici. Le decretali diventarono assai rapidamente lo strumento con il quale la Chiesa romana creava il nuovo diritto.
Il Breviarium extravagantium (collezione di decretali qui vagant extra Decretum) di Bernardo, prevosto di Pavia (1189-1193 circa), conosciuto più tardi come Compilatio I, servì da modello alle future collezioni del genere. Organizzata secondo gli stessi principi della Compilatio I, la Compilatio II fu pubblicata nel 1210, ancora durante il pontificato di Innocenzo III. Composta in curia prima del 1212, la collezione di Pietro da Benevento fu chiamata Compilatio III. Contenente le decretali dei dodici anni del pontificato di Innocento III, fu la prima a ricevere un’approvazione ufficiale scritta da parte di un papa. Verso la fine del pontificato di Innocenzo III (1216), un celebre professore di diritto dello Studium di Bologna, Giovanni Teutonico, compose e commentò una nuova collezione sistematica delle decretali di quel papa e si recò a Roma per farla autenticare. Il papa rifiutò, forse perché questa nuova collezione era troppo vicina alla Compilatio III. Terminata dopo la morte del papa, la collezione del Teutonico fu nondimeno considerata dagli Studia come la collezione delle decretali degli ultimi anni del pontificato innocenziano e prese il nome di Compilatio IV. Essa aveva il vantaggio di offrire le decretali del quarto Concilio Lateranense. La Compilatio V, iniziata da Tancredi nel 1225-1226, ossia dopo dieci anni di pontificato e terminata poco tempo dopo (febbraio-maggio 1226), figura nei registri della cancelleria: 570 lettere sono state segnate da una croce, fatta certamente da Tancredi.
Per favorire ancor più l’accesso alle università e ai giurisconsulti dell’insieme delle decretali prodotte tra Graziano e Innocenzo III, Gregorio IX (1227-1241) incaricò nel 1234 il domenicano Raimondo de Peñafort di fondere le collezioni precedenti in una nuova opera organica. Il Liber Extra – questo nome si impose assai rapidamente – segnò l’evoluzione giuridizionale della Chiesa romana: sotto l’autorità del papa, una collezione indicava quale ius vetus continuava a essere valido. La compilazione di Gregorio IX segna un passo importante verso la costituzione di un vero e proprio codice legislativo nel senso moderno del termine.
Anche Bonifacio VIII inviò la sua raccolta di decretali – il Liber sextus – alle università di Bologna, Padova, Napoli, Parigi, Orléans, Tolosa, Oxford, Cambridge e Salamanca, oltre che ai dottori e agli studenti dell’università pontificia, lo Studium Curiae (3 marzo 1298). Molte decretali portano il nome di Bonifacio VIII, anche se il loro testo è stato promulgato da uno dei suoi predecessori. È questa una nuova testimonianza della potente coscienza di sé di papa Caetani, tanto più che i redattori, seguendo senza dubbio le direttive del pontefice, sono intervenuti ovunque per riscriverle in maniera omogenea; e per questo si è potuto dire che il Liber sextus è una raccolta di ‘testi nuovi’ piuttosto che di decretali già pubblicate (T. Schmidt, Palinsesto del "Liber sextus", in Le culture di Bonifacio VIII, 2006, pp. 47-62).
Nei secc. 12° e 13° nessun canonista giunse ad affermare che l’autorità legislativa di un Concilio era superiore a quella del papa. È questo del resto il periodo in cui il papato ha organizzato assisi conciliari che hanno permesso al papato di svolgere un ruolo propulsore centrale in seno alla Cristianità occidentale, di riforma spirituale ed ecclesiale, forse la più importante che possa essere attribuita al papato come istituzione per l’intero Medio Evo. In un secolo (1179-1274), il papato tenne quattro Concili generali: il terzo (1179) e il quarto Lateranense (1215), il primo (1245) e il secondo di Lione (1274). La loro importanza è ineguale, ma il travaglio legislativo compiuto in quelle assisi fu di immensa portata, non solo per le istituzioni ecclesiali, ma per la società intera. Chiamati a sostituire la lunga serie dei sinodi romani dell’età gregoriana, i concili dei secc. 12° e 13° sono una chiara manifestazione dell’affermazione storica dell’universalità della Chiesa romana postgregoriana.
I problemi politici e istituzionali prevalsero al primo Lateranense, indetto all’indomani del Concordato di Worms (1122), ma il secondo Concilio Lateranense, celebrato da Innocenzo II nella basilica di S. Giovanni in Laterano tra il 4 e il 9 aprile 1139, promulgò un’importante opera legislativa. Su 30 canoni, soltanto due (canoni, poi sempre c. o cc., 23 e 30) riguardavano la fede; gli altri riprendevano e amplificavano i decreti del primo Concilio Lateranense in tema di divieto dei matrimoni consanguinei (c. 17), di condanna dell’usura (c. 13), delle armi meurtrières (c. 29), dei tornei (c. 30), degli incendi volontari (cc. 18, 19, 20), degli attentati contro chierici e monaci (c. 15), di Tregua e di Pace di Dio (c. 12). Il c. 25 riafferma il c. 8 del primo Concilio Lateranense relativo all’investitura laica, ora condannata con maggiore grande fermezza. I divieti di simonia e di vendita di benefici o promozioni ecclesiastiche (cc. 1 e 2) come anche del matrimonio e del concubinaggio dei chierici maggiori (c. 6), dei canonici regolari e dei monaci professi (c. 7) furono confermati con un’insistenza particolare. I figli di preti furono ufficialmente allontanati dalla successione alle cariche del padre (c. 16) e dal ministero sacerdotale, a meno che non avessero abbracciato la vita religiosa (c. 21).
Quarant’anni dopo, un nuovo Concilio celebrato nella basilica di S. Giovanni in Laterano fu chiamato a manifestare che la Chiesa romana aveva ritrovato la sua unità sotto la piena autorità di Alessandro III (1159-1181), ormai capo incontestato di una comunità cristiana che aveva attraversato una gravissima crisi interna. Il Concilio si tenne nel marzo 1179 alla presenza di ben circa 300 vescovi, oltre che di un numero imprecisato di abati e di principi rappresentanti la Cristianità latina. Era presente anche un prelato della Chiesa orientale. Proprio il primo canone (Licet de evitanda) fissò nuove regole a proposito dell’elezione del papa, per la quale si esigeva d’allora in poi la maggioranza dei due terzi dei votanti. Di tutti i Concili romani del 12° sec., i decreti del terzo Concilio Lateranense conobbero la più grande diffusione, poiché entrarono in più di venti collezioni canoniche (Compilatio prima, Liber Extra ecc.). Quattordici canoni su ventisette, ossia tutti quelli che avevano implicazioni pastorali, lasciarono tracce profonde nelle numerose summae pastorales composte prima del quarto Concilio Lateranense.
Il quarto Concilio Lateranense – il più importante dell’intero Medioevo – fu l’ultimo grande avvenimento del pontificato di Innocenzo III che ne fissò gli obiettivi: la riforma dei costumi, la lotta contro le eresie, il rafforzamento della fede, la realizzazione di un progetto di Crociata, e così via. Il Concilio doveva dunque occuparsi di tutti i grandi problemi del momento, spirituali, pastorali e anche politici: nell’impero, la sostituzione di Federico II a Ottone IV; in Inghilterra, la scomunica dei baroni e il sostegno dei vescovi a Giovanni Senzaterra; in Francia, la scomunica di Raimondo VI di Tolosa; nella Peninsola iberica, i diritti primaziali di Toledo; in Oriente, l’unione con i Greci, e così via. Per Innocenzo III, il modello erano i grandi Concili della Chiesa antica, il che spiega l’appello del papa alla più ampia rappresentazione possibile. Nell’elenco ufficiale dei membri del concilio figurano i nomi di 402 cardinali, patriarci, arcivescovi e vescovi, rappresentanti 80 province ecclesiastiche (contro 62 al terzo Concilio Lateranense), di cui la metà di origine italiana, e di 800 prelati inferiori (abati, priori, prevosti e decani). Queste cifre segnano un netto progresso rispetto al terzo Concilio Lateranense.
Prendendo lo spunto dal riconoscimento dei privilegi dei patriarchi orientali e della preminenza di Costantinopoli, il Concilio enuncia la dottrina del primato papale, che il papa aveva già discussa in tante sue lettere. La definizione (c. 5), concisa, è di ricco contenuto teologico: la Chiesa romana possiede il ‘principato’ su tutte le altre chiese ordinarie, nella sua qualità di «madre e maestra di tutti i fedeli di Cristo». Il quarto Concilio Lateranense innovò anche per quanto riguarda la legislazione contro gli ebrei (cc. 67-70), tenuti d’ora in poi a distinguersi dai cristiani con un abito diverso (c. 68). La norma si rifletterà negli ordinamenti canonistici per tutto il secolo. Il c. 67 è particolarmente consacrato al problema dell’usura. Mai prima di allora, un’assise conciliare aveva compiuto uno sforzo legislativo di così grande ampiezza. I decreti del quarto Lateranense sono i soli dei quattro primi Concili Lateranensi a essere entrati nelle grandi collezioni canoniche ufficiali. La loro importanza per l’evoluzione generale della società medievale fu considerevole.
Tre settimane dopo il suo arrivo a Lione, il 27 dicembre 1244, Innocenzo IV convocò un Concilio per la festa di san Giovanni dell’anno successivo. Una convocazione fu indirizzata anche all’imperatore. Per la prima volta, i maestri generali degli ordini mendicanti erano invitati a prendere parte a un Concilio generale e per la prima volta dopo i grandi Concili Lateranensi, la scena conciliare fu occupata essenzialmente da problemi politici e non disciplinari e pastorali (la riforma della Chiesa, la lotta contro le eresie). Il rappresentante dell’imperatore, Taddeo di Suessa, affermò che la convocazione del 27 dicembre 1244 non era stata valida, protestò contro l’autenticità di certi privilegi e annunciò la sua decisione di fare appello contro ogni condanna dell’imperatore da parte del prossimo Concilio. Il papa rifiutò di discutere, anzi fece leggere all’assemblea la bolla di deposizione, poi intonò il Te Deum prima di chiudere la terza e ultima sessione del Concilio. Il Concilio contribuì soltanto parzialmente a risolvere i grandi problemi di cui soffrivano le Chiese d’Occidente, a causa della centralizzazione romana che aveva conosciuto un’importante evoluzione proprio sotto Innocenzo IV: l’imposizione fiscale istituita dal papato, le ricadute locali della politica beneficiale della curia romana, la progressiva limitazione della libertà di scelta dei capitoli cattedrali nelle elezioni vescovili, la politicizzazione della Chiesa romana e altro ancora.
Il 13 aprile 1273, Gregorio X (1271-1276) scrive ai vescovi e prelati informandoli della sua decisone di tenere un Concilio a Lione, la città che aveva già ospitato l’ultimo Concilio generale. Le più importanti costituzioni riguardano l’elezione del sovrano pontefice (c. 2, Ubi periculum), la disciplina delle cariche ecclesiastiche (cc. 3-4, 6, 7-14, 16), i vescovi e i prelati (cc. 15, 18, 21, 22, 24), il servizio divino e il culto (cc. 17, 25), la soppressione degli ordini religiosi fondati dopo il quarto Concilio Lateranense senza l’approvazione della Sede apostolica (c. 23), le sanzioni ecclesiastiche e repressione dell’usura (cc. 20, 26-31), nonché la disciplina dell’attività degli avvocati e procuratori ecclesiastici (c. 19: obbligo di prestare giuramento di promuovere il bene dei loro clienti; questa costituzione non entrò nel Corpus iuris canonici). La rapida inserzione di quasi tutte le costituzioni lionesi nelle collezioni canoniche e nel Liber sextus le conferirono un valore duraturo.
L’aumento incessante di cause affidate all’arbitrato papale in prima o seconda istanza provocò una completa riorganizzazione delle procedure giudiziarie e amministrative della curia romana. Nel corso della prima metà del 13° sec. appare un nuovo tipo di personale giudiziario, composto per lo più da cappellani del papa, destinati a sostituirsi ai cardinali, che erano stati fino allora gli unici collaboratori del papa in tema di amministrazione della giustizia. L’innovazione appartiene a Innocenzo III, che ricercava soluzioni efficaci nell’ambito delle istituzioni curiali esistenti. Innocenzo III utilizzò molto più di prima i membri della sua cappella quali uditori. Dal 1202, la loro funzione in questo campo fu del tutto analoga a quella dei cardinali.
L’aumento del numero dei processi portati davanti la curia romana fece nascere una nuova figura di giudice ecclesiastico, il giudice delegato (iudex delegatus), incaricato di istruire in sede locale un processo su ‘delega’ papale. La giurisprudenza prodotta da questi giudici delegati fu il principale canale attraverso il quale il diritto canonico di ispirazione romana penetrò nella prassi giuridica delle corti diocesane locali. Se i primi esempi risalgono ai pontificati di Pasquale II (1099-1118) e di Onorio II (1124-1130), Alessandro III e Innocenzo III si servirono sistematicamente di questo nuovo strumento giudiziario romano.
Gregorio IX continuò ad affinare i diritti dei delegati pontifici, come testimoniano alcuni capitoli del suo Liber Extra. Ma fu soprattutto l’istituzione dei legati a sostenere in modo determinante la centralizzazione della Chiesa romana. Il Decreto di Graziano non aveva riservato nessuna sezione ai legati, il cui ruolo, già molto importante nell’11° sec., si sviluppò soprattutto sotto il pontificato di Alessandro III. Questo pontefice favorì l’ascesa del prestigio istituzionale dei rappresentanti diretti del papa con poteri plenipotenziari (domini pape vicem gerens), definendoli a latere papae: un titolo che nel Duecento fu sempre più riservato alle missioni dei cardinali romani o degli alti prelati della curia romana. Le prerogative dei nuncii ordinarii, o dei legati missi, come saranno chiamati più tardi, erano ovviamente più limitate.
Tradizionalmente, il dovere di mantenere la purezza della fede e la disciplina dei costumi era affidato ai vescovi. Ma nel corso del 12° sec., Roma si abitua a lanciare appelli sempre più pressanti per la messa in opera di inchieste contro eretici o gruppi dissidenti. E verso la fine del secolo, nel 1184, la decretale Ad abolendam compie un passo decisivo in termini di ingerenza romana. Frutto di un accordo tra Federico Barbarossa e il papa Lucio III, la bolla ordinò che nelle parrocchie le persone sospette di eresia fossero segnalate da due o tre uomini di buona fama, se non addirittura dall’intera popolazione. Già nel secondo anno del suo pontificato, Innocenzo III prevede la possibilità che gli organi giuridiziari competenti possano procedere a inchieste contro crimini e criminali, ex officio e per inquisitionem, senza cioè attendere la presentazione di un’accusa formale. Tale procedura doveva permettere alla Sede apostolica di intervenire, ordinando inchieste contro membri dell’alto clero, colpevoli di reati e retrivi alle riforme. Soltanto indirettamente esisteva allora un legame con la lotta antiereticale. Lo strumento giudiziario dell’inquisitio si diffuse del resto rapidamente anche nel mondo civile, grazie alla legislazione di Federico II e dei Comuni dell’Italia centrale.
Nell’aprile 1233, Gregorio IX prese una decisione storica, affidando ai domenicani l’incarico di aiutare alcuni vescovi del regno di Francia nella loro lotta contro gli eretici. Il papa, che era legato ai domenicani e ai francescani fin dall’epoca del suo cardinalato, giustificò la decisione, affermando che i vescovi erano troppo presi dalle loro occupazioni ordinarie. Lo stesso avvenne, da quello stesso anno in poi, nel Patrimonium Petri e in altre regioni italiane (così, nel 1233, le diocesi di Viterbo, Tuscania, Orte, Bagnoregio, Castro di Volsci, Soana, Amelia e Narni). A questi inquisitori, il papa non conferì però alcun potere giurisdizionale. Sotto Gregorio IX l’inquisitio haereticae pravitatis sembra dunque ancora corrispondere a un tribunale di eccezione. Con la decretale Ad extirpanda del 15 maggio 1252, indirizzata ai Comuni dell'Italia settentrionale, Innocenzo IV compie un nuovo passo, sottoponendo gli eretici sospetti al giudizio non soltanto del vescovo o del vicario ma anche degli inquisitori inviati dalla Sede apostolica. Per la prima volta, l’officium inquisitionis (il termine figura nella bolla) viene presentato come un vero e proprio ‘ufficio’, assume cioè i tratti di un vero e proprio istituto giuridico del diritto canonico. Nuovamente promulgata da Innocenzo IV due anni dopo, la bolla Ad extirpanda trovò una rapida diffusione nei manuali degli inquisitori e diventò quindi norma giuridica anche al di fuori dell’Italia. Innocenzo IV vi riconosce la necessità di sottoporre gli eretici a una ‘moderata’ tortura. Il papa aggiunge che tale prescrizione doveva essere inserita negli statuti cittadini. L’esercizio della tortura era lasciato alle autorità civili. Ai chierici era vietato parteciparvi, sia attivamente che passivamente (L. Paolini, Papato, inquisizione, frati, in Il papato duecentesco e gli Ordini mendicanti, 1998, pp. 177-204).
Nella storia dei rapporti tra il papato e gli ebrei, la bolla Sicut Judaeis promulgata da Callisto II (1119-1124) nel 1123 occupa un posto di assoluto rilievo. La lettera, rivolta a tutti i Cristiani, apre infatti una serie di prese di posizione ufficiali che pongono gli ebrei sotto la protezione papale. L’argomentazione del papa è la seguente: dato che vi sono limiti a ciò che è permesso agli ebrei, ci dovranno essere limiti a ciò che è loro proibito. Malgrado gli ebrei siano ostinati a credere alla loro fede, il papa assicura protezione a coloro che la chiederanno. Nessuno deve essere convertito per forza, poiché una conversione non volontaria non è degna di fiducia. Nessun ebreo dovrà essere condotto a morte, se non da una decisione delle competenti autorità giudiziarie locali. Nessun ebreo dovrà subire ingiurie, né nel corpo né nei beni. Gli ebrei potranno continuare a osservare i loro costumi, nei vari Paesi in cui abitano. Gli aggressori di cimiteri ebrei dovranno essere puniti. Unica minaccia rivolta agli ebrei: la Chiesa potrà condannare gli ebrei che si saranno resi colpevoli di sovvertimento della fede cristiana. Continuamente riconfermata, anche da numerosi papi duecenteschi, la bolla Sicut Judaeis svolse indubbiametene un ruolo di difesa della popolazione ebraica, in un periodo di crescente antigiudaismo sociale.
Nel corso del Duecento si assiste però a un progressivo allentamento del dispositivo giuridico enunciato dalla Sicut Judeis. In una lettera del 1201, Innocenzo III distingue tra coloro che, pur essendo stati obbligati a convertirsi, protestano verbalmente e con ostinazione, e coloro che non obiettano in modo così insistente. Il battesimo di questi ultimi deve essere considerato valido e quegli ebrei devono essere chiamati cristiani. L’inserimento di questa decretale nel Liber Extra (lib. 3, tit. 42, c. 3) costituì un notevole impoverimento del grado di protezione che la bolla Sicut Judeis aveva assicurato agli ebrei. Anche il canone del quarto Concilio Lateranense, che prescriveva agli ebrei di distinguersi nei vestiti dai cristiani, appare in contraddizione con lo spirito della bolla. In meno di mezzo secolo, tra Callisto II e Innocenzo III, la situazione giuridica degli ebrei in seno alla cristianità si era profondamente trasformata: se all’epoca di Callisto II, gli ebrei avevano chiesto e ottenuto la protezione del papato, intorno al 1200, essi erano soggetti giuridici della Chiesa, e dunque anche di corti ecclesiastiche locali, con conseguenze potenzialmente pericolose, dato il clima di diffuso antigiudaismo, per le comunità ebraiche sul piano dell’amministrazione della giustizia.
Il programma riformatore del papato del sec. 11°, che siamo soliti definire con il termine storiografico di Riforma gregoriana, era fin dall’inizio improntato a una lucida, per molti aspetti, nuova visione della figura istituzionale del papa, sostenuta da un’inedita creatività metaforica e da un programma incentrato verso la realizzazione di chiari obiettivi, di centralità, di superiorità e di universalità. Ma la ricerca di una nuova centralità doveva potersi fondare su strumenti costituzionali che potessero garantire un sicuro e completo trapasso della potestas papae, il che si realizzò, quasi contemporaneamente, con la nascita di un nuovo corpo costituzionale, il collegio dei cardinali, chiamati a diventare gli esclusivi detentori del potere di eleggere il papa. I cardinali diventarono però anche i principali consiglieri del papa all’interno di strutture e sulla base di un prestigio ecclesiologico che non farà che aumentare. La pretesa del papato di affermare una sua superiorità sulle potenze laiche (anzitutto l’impero) fu sostenuta da un travaglio metaforico e simbolico di grandi dimensioni, in perfetta coerenza con una visione del mondo che privilegiava centralità e universalità. Per rendere efficaci i suoi interventi nella realtà politica, e per affermare un suo ruolo propulsore di riforma della società cristiana, il papato ricorse sistematicamente a uno strumento antico, che rinnovò fondamentalemente: il Concilio. In quei secoli, il papato diede inoltre vita a numerosi nuovi strumenti istituzionali, intellettuali e organizzativi – dai legati alla legislazione canonica e alla politica di canonizzazione – , capaci di garantire una penetrazione capillare della centralità romana nelle varie compagini della Cristianità occidentale. Di qui l’interesse crescente, e il ricorso a interventi giuridico-istituzionali inediti, nei confronti di eretici ed ebrei.
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