Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia demografica europea del XV secolo è fortemente segnata dall’epidemia di peste del 1347, la famigerata “peste nera” che ha una serie di conseguenze negative sull’economia nel suo complesso. La crescita economica di quel secolo, inoltre, è bloccata dalle trasformazioni in atto in ogni settore produttivo. Tutto ciò in un contesto in cui il mercato nascente e le sue prime regole richiedono sempre più spazio, uno spazio che il sistema feudale non è in grado di garantire.
Popolazione e produzione
Premessa fondamentale nello studio della demografia per l’età medievale è la mancanza di fonti che permettano stime verosimili. Gli studi più recenti, tuttavia, consentono in qualche misura di avanzare ipotesi realistiche che, almeno quanto alla tendenza generale, possono essere giudicate attendibili.
Da una serie di considerazioni e dall’accentuarsi di molti fenomeni collegati direttamente e indirettamente alla popolazione è possibile desumere che dall’XI al XIII secolo vi sia stata una forte impennata della curva demografica europea. La messa a coltura di nuove terre, la fondazione di castelli – con il contesto paraurbano che vi è collegato – e di nuovi villaggi, l’estensione dei perimetri urbani e delle mura di cinta delle città più grandi e di più antica tradizione sono tutte spie di estremo interesse, che fanno comprendere come nell’arco di circa 200 anni si sia per l’appunto registrata una crescita della popolazione in tutte le aree d’Europa. Questa fase, tuttavia, si interrompe agli inizi del Duecento, quando i progressi dell’agricoltura registrati in precedenza, con il conseguente andamento decrescente della produzione, non riescono più a far fronte alla domanda di prodotti sostenuta dall’aumento della popolazione. D’altra parte lo stretto rapporto tra produzione agricola, qualità dell’alimentazione e andamento demografico, che determina il ciclo carestia-epidemia-carestia, contraddistingue i cicli economico-demografici preindustriali e svolge un ruolo di primaria importanza per la comprensione dei fenomeni presi qui in esame.
L’epidemia di peste e la crisi demografica
A rendere oltremodo composito e complicato il quadro vi è la diffusione della peste e, in particolare, dell’epidemia del 1347 – la cosiddetta “peste nera” – che condizionerà a lungo le vicende della popolazione europea. Contrariamente a quanto si può immaginare a prima vista, le conseguenze dello scoppio e della propagazione del morbo tendono a farsi evidenti nei decenni successivi, sia perché gli uomini sopravvissuti portano in sé una debolezza che sconteranno col tempo, sia perché dalla metà del Trecento e ancora per tutta la prima metà del Quattrocento la peste si ripresenta in Europa a “ondate” più o meno cicliche che minano i già precari equilibri demografici.
L’incidere delle carestie, per esempio, sull’organismo umano comporta un indebolimento organico che manifesta nelle generazioni successive i suoi effetti negativi; per esempio, la “grande carestia” del 1308-1318 confermerebbe questa ipotesi con una popolazione più debole, più esposta al contagio della peste e conseguentemente meno resistente alle malattie.
Occorre osservare, pur continuando a non disporre di serie quantitative certe, l’epidemia del 1347 e quelle posteriori sono ampiamente descritte dalle fonti letterarie dell’epoca o immediatamente successive, pertanto è possibile ricostruire uno scenario più chiaro della storia europea di quel periodo. Le stime più attendibili, proposte da Massimo Livi Bacci, propongono per il periodo considerato cifre che vanno dai 100/110 milioni di abitanti in Europa per il principio del XIV secolo, ai circa 80 milioni dei primi del XV, per poi risalire quasi agli stessi livelli del Trecento per la fine di quest’ultimo secolo; ci sarebbero voluti, pertanto, 100 anni per recuperare le perdite subite sia a causa delle diverse ondate di peste, sia a causa dei conflitti bellici che sconvolgono l’Europa, come per esempio la guerra dei Cent’anni.
Va ancora ricordato come non sia del tutto pacifico tra gli studiosi se la crisi dei secoli XIV e XV sia riconducibile alle epidemie e, quindi, a un alto tasso di mortalità o, piuttosto, a un calo di natalità. È comunque evidente che una popolazione decimata abbassi “naturalmente” il proprio tasso di natalità, facendolo flettere per un periodo più o meno lungo e, ancora, va considerato che la fascia maggiormente colpita dalla mortalità da epidemia è proprio quella infantile, da cui l’abbassamento del tasso di natalità che per risalire ha bisogno di almeno una o due generazioni.
Crisi economica: il passaggio a nuovi equilibri
Questo andamento in discesa della curva demografica contribuisce, contemporaneamente e insieme ad altri fattori, a provocare una crisi economica che attraverserà l’intero XV secolo, passando da una fase di flessione a una di ristagno. La storiografia ha messo però bene in evidenza come la parola crisi vada intesa essenzialmente come processo di rottura dei vecchi equilibri e di graduale trasformazione verso forme di economia più moderna. Il sistema feudale non assicura più quegli equilibri economici e sociali sui quali si è retta l’espansione dall’XI al XIV secolo, pur considerando che la crisi della feudalità si manifesta in maniera e in tempi differenti nelle diverse regioni europee.
Nel settore dell’agricoltura termina il processo di messa a coltura di nuove terre e tende a diminuire il rendimento delle colture, della rendita signorile e, di conseguenza, gli investimenti nel settore. La dinamica dei rapporti città-campagna, avviata già nei secoli precedenti, in qualche misura rompe gli equilibri e i meccanismi di mercato condizionano sempre più il lavoro agricolo.
Il settore artigianale vede invece interrompersi il flusso di innovazioni tecniche apportate nei cicli produttivi, impoverendo il fattore lavoro. In questa fase può essere intravisto il primo cenno di declino del sistema corporativo che scoppierà con tutta evidenza nel corso del XVII secolo. Le corporazioni durante il Quattrocento, infatti, sono rivolte principalmente alla difesa delle posizioni fino ad allora raggiunte e non cercano di migliorare né i rapporti di lavoro al loro interno, né la graduale introduzione di nuove tecniche e macchine nel ciclo della produzione.
Nel settore mercantile, infine, cresce il numero degli addetti con l’effetto di un aumento della concorrenza. Tale dinamica, però, tende a scontrarsi inevitabilmente con l’atteggiamento delle corporazioni artigianali, allora espressione principale dell’attività manifatturiera, con il risultato dell’aumento diffuso dei costi e la diminuzione dei saggi di profitto.