La crisi degli organismi internazionali
Vi sono alcune condizioni fondamentali che permettono un efficace funzionamento delle grandi organizzazioni internazionali: la riconosciuta legittimità loro e del sistema internazionale al cui servizio esse sono poste; la disponibilità dei principali Stati a operare per il tramite di tali organizzazioni, accettando anche una diluizione del loro peso relativo entro forum multilaterali che riconoscono solo in parte le gerarchie di potenza del sistema; la convinzione dell’opinione pubblica internazionale che queste organizzazioni agiscano effettivamente a favore del bene collettivo e facciano del loro meglio per adempiere alla loro missione istituzionale; infine, la trasparenza delle modalità con le quali le grandi istituzioni internazionali operano e, al tempo stesso, vengono governate.
Si tratta di condizioni che in modi diversi sono largamente venute meno nel corso degli ultimi anni. La speranza che con la fine della guerra fredda si potesse consolidare un nuovo ordine internazionale, fondato sul primato del diritto e su modalità consensuali e multilaterali di gestione e risoluzione delle crisi, si era andata spegnendo già nel corso degli anni Novanta del 20° secolo. Almeno a parole, però, si continuava a ribadire la necessità di riformare le organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, di ampliare il raggio d’azione del diritto internazionale, consolidando il processo di normazione delle relazioni internazionali e di non derogare dalla via del multilateralismo e del dialogo.
Dopo il 2000, anche questa retorica multilateralista e collaborativa è stata progressivamente abbandonata. In una spirale fattasi vieppiù intensa, il rifiuto della maggiore potenza del sistema, gli Stati Uniti, di riconoscere un ruolo alle principali organizzazioni internazionali ha finito per ridurre la funzione e l’immagine di queste organizzazioni e per stimolare reazioni simili da parte di altre grandi potenze, a partire dalla Cina e dalla Russia. È quindi sulla posizione e sulle politiche degli Stati Uniti che ci si deve inizialmente soffermare per capire le origini della crisi delle organizzazioni internazionali nel 21° secolo.
L’unilateralismo degli Stati Uniti
Durante la campagna presidenziale del 2000, il candidato repubblicano George W. Bush accusò esplicitamente le amministrazioni democratiche degli anni Novanta di avere sacrificato l’interesse nazionale degli Stati Uniti, subordinandolo a una collaborazione internazionale spesso fine a sé stessa. Il multilateralismo – accusavano Bush e i suoi sostenitori – era diventato un obiettivo e non più un metodo e uno strumento. Si trattava di un’accusa discutibile e in parte infondata: condizionato da un Congresso a maggioranza repubblicana e con alleati europei non di rado passivi di fronte agli eventi, il presidente Bill Clinton aveva spesso optato per scelte unilaterali o, come nel caso dell’intervento in Kosovo del 1999, aveva agito senza una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Clinton e il suo secondo segretario di Stato Madeleine Albright avevano però ribadito la volontà statunitense di muoversi entro un quadro di regole internazionali che andavano ripensate e aggiornate. A dimostrazione di ciò, Clinton aveva chiuso il suo secondo mandato presidenziale (1997-2001) sottoponendo al Senato la ratifica del trattato istitutivo della Corte penale internazionale, stipulato nel 1998, ma al quale gli Stati Uniti non avevano aderito. Una decisione, quella di Clinton, dalle scarse implicazioni politiche (non vi era alcuna possibilità che il trattato fosse sostenuto dalla maggioranza dei 2/3 dei senatori necessari per la sua ratifica), ma dalla forte rilevanza simbolica.
Quella di Clinton fu solo una delle tante decisioni che la nuova amministrazione repubblicana di Bush, insediatasi nel gennaio 2001, decise di rovesciare. Il trattato fu quindi ritirato dal Senato e la Corte penale internazionale (ratificata nel 2008 da 108 Paesi su un totale di 192 che compongono l’Assemblea generale delle Nazioni Unite) non venne più riconosciuta dagli Stati Uniti. Di nuovo, la rilevanza simbolica della decisione di Bush s’intrecciava strettamente con quella politica che rifletteva convinzioni radicate e recepiva le pressioni interne provenienti da importanti settori del mondo conservatore statunitense. La Corte penale internazionale rappresentava il simbolo più importante della piena affermazione di un diritto internazionale che travalicava i confini e imponeva il suo primato anche a discapito della sovranità degli Stati. Esso esprimeva una filosofia che risultava inaccettabile per una parte della destra statunitense, secondo la quale la Corte avrebbe potuto diventare uno strumento da usarsi contro i molti militari americani che operavano all’estero, nelle tante basi di cui gli Stati Uniti dispongono o nelle missioni di pace a cui essi partecipano.
Nei primi mesi del 2001 gli Stati Uniti si resero protagonisti di altri eclatanti gesti pratici e simbolici volti ad affermare la volontà di agire unilateralmente al di fuori della cornice di regole e procedure istituzionalizzate create nel corso del 20° secolo. L’amministrazione Bush rifiutò di aderire al Protocollo di Kyoto sull’ambiente (1997), un trattato internazionale che impegnava gli Stati a ridurre la produzione di elementi inquinanti a partire dal biossido di carbonio. Nella primavera del 2001 Bush annunciò inoltre l’intenzione di abbandonare il trattato ABM (Anti-Ballistic Missile) del 1972, poi rivisto nel 1974, che limitava la capacità di difesa antimissilistica e sul quale poggiava l’effettivo funzionamento del meccanismo della deterrenza nucleare. Una decisione, questa, che suscitò perplessità in Europa e fu severamente denunciata dalla Russia, in quanto sembrava preludere al rilancio di una competizione in materia di armamenti e alla edificazione di un sistema di difesa da eventuali attacchi nucleari che, laddove realizzato, avrebbe potuto avere effetti profondamente destabilizzanti. La pace nucleare, affermavano i critici di Bush, si fonda sulla garanzia di distruzione assicurata delle due parti in caso di conflitto; riuscire a erigere una difesa in grado di limitare, o addirittura azzerare, la capacità di rappresaglia dell’avversario vuol dire far venir meno questa garanzia, rendere di nuovo plausibile la possibilità di un attacco preventivo (il ‘primo colpo’) e rilanciare quindi la competizione e la corsa agli armamenti. Sempre negli stessi mesi, gli Stati Uniti annunciarono la loro decisione di non rendere attuativo un trattato del 1972 relativo al controllo internazionale delle armi biologiche e batteriologiche (BTWC, Biological and Toxin Weapons Convention). L’amministrazione Bush giustificò la decisione sostenendo che le procedure di monitoraggio e verifica dell’accordo fossero deboli e inefficaci. Molti osservatori, pur concordando con questa critica, individuarono nella scelta statunitense un’altra dimostrazione della volontà di Washington di agire unilateralmente, fuori dalle convenzioni, dalle regole e dalle istituzioni internazionali.
Il compimento della svolta unilateralista statunitense si ebbe però con gli attacchi terroristici al Pentagono e alle Twin Towers di New York dell’11 settembre 2001. A un breve momento di rinnovata coesione e unità internazionale fece seguito quella che a tutti gli osservatori internazionali parve una frattura definitiva tra gli Stati Uniti e gran parte del mondo, e l’apertura quindi di una crisi degli organismi internazionali e delle Nazioni Unite in particolare. L’ONU fu coinvolta in Afghānistān, dove gli Stati Uniti avevano promosso un’operazione militare finalizzata al rovesciamento del regime dei Ṭālibān, complice dell’organizzazione terroristica al-Qā῾ida responsabile degli atti terroristici dell’11 settembre. Ma le Nazioni Unite, guidate allora dal ghaneano Kofi Annan, furono soggette a critiche severe negli Stati Uniti: per non aver fatto abbastanza negli anni precedenti nella promozione e diffusione della democrazia e per avere espresso una sorta di neutra equidistanza, politica e morale, tra Stati democratici e Stati autoritari, Paesi che rispettavano le regole del diritto internazionale e Paesi che le violavano. Questa obiezione di principio si accompagnava a un’altra, assai più pragmatica, che inizialmente fu avanzata dal Pentagono e dal segretario della Difesa Donald Rumsfeld, il quale denunciò i vincoli, e la conseguente inefficacia operativa, che sarebbero stati imposti alla campagna antiterroristica promossa dagli Stati Uniti qualora essi avessero deciso di operare per il tramite di canali istituzionali multilaterali. Il vantaggio che ne sarebbe derivato in termini di consenso e di legittimità – argomentò Rumsfeld – non compensava le costrizioni che ciò avrebbe imposto alla libertà d’azione degli Stati Uniti. Secondo Rumsfeld, anche coalizioni più circoscritte, come quella NATO che aveva promosso l’intervento in Kosovo nel 1999, potevano rendere l’azione meno efficace e legare le mani degli Stati Uniti. La soluzione preferibile per il Pentagono era quella di un’azione guidata dagli Stati Uniti e alla quale avrebbero potuto partecipare pochi alleati fidati e militarmente capaci, su tutti la Gran Bretagna.
Queste posizioni furono recepite nel documento sulla sicurezza nazionale statunitense del settembre del 2002 (The national security strategy of the United States), che contrapponeva esplicitamente un multilateralismo effettivo, di potenza, a quello fittizio, ancorché altamente istituzionalizzato, che sarebbe stato incarnato dalle Nazioni Unite. Una prima importante riprova si ebbe durante la crisi che precedette l’intervento anglo-statunitense in ῾Irāq. Sollecitato in tal senso dall’alleato britannico e dal suo segretario di Stato Colin Powell, Bush decise di sottoporre inizialmente all’ONU la possibilità di promuovere un intervento militare per rovesciare il regime di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn), accusato di essere prossimo a dotarsi di armi di distruzione di massa, in violazione di varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Un fragile accordo fu raggiunto in seno a quest’ultimo quando, nel novembre del 2002, fu votata all’unanimità la risoluzione 1441, che obbligava l’Irāq ad accettare in modo incondizionato nuove ispezioni a tutti gli impianti di produzione di armi. Quando però gli Stati Uniti non riuscirono a ottenere una seconda risoluzione del Consiglio che autorizzava esplicitamente l’intervento militare, essi decisero di agire anche senza il preciso mandato delle Nazioni Unite e contro le posizioni dell’organizzazione che, seppure in modo cauto, aveva sottolineato la necessità di lasciare più tempo alle ispezioni e all’azione diplomatica. Lo fecero costruendo una coalizione ad hoc (la cosiddetta coalizione dei volenterosi), fronteggiando però l’opposizione non solo delle Nazioni Unite, ma anche di larga parte dell’opinione pubblica internazionale. Era questa una delle contraddizioni più stridenti e rivelatrici della crisi apertasi nei mesi che precedettero l’intervento anglo-americano in ῾Irāq: l’ONU rivelava tutta la sua debolezza politica laddove non riusciva a evitare la guerra, ma continuava a rappresentare l’unico forum internazionale in grado di conferire legittimità, e quindi consenso, alle politiche che una data potenza voleva promuovere sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti potevano agire, come fecero, unilateralmente e in spregio alle sconfitte politiche subite in seno al Consiglio di sicurezza. Facendolo, però, si condannavano a una posizione di minoranza nel sistema internazionale, dove vedevano grandemente diminuita la propria influenza, il proprio peso e, di conseguenza, la propria capacità d’azione.
Tutto ciò emerse drammaticamente in ῾Irāq. Il caos che si aprì nel Paese dopo la facile vittoria delle truppe statunitensi e britanniche concorse a riportare gradualmente l’ONU al centro della scena. Nel 2003-04 furono approvate varie risoluzioni del Consiglio di sicurezza relative all’Irāq: in particolare, le Nazioni Unite s’impegnavano ad appoggiare il governo ad interim formatosi in ῾Irāq e assumevano un ruolo guida nel facilitare il processo di transizione, mobilitando la comunità internazionale per sostenerlo. Un’apposita missione ONU in ῾Irāq, la UNAMI (United Nations Assistance Mission for Iraq), venne istituita con la risoluzione 1500 dell’agosto 2003. L’UNAMI estese progressivamente le proprie prerogative e competenze in concomitanza con il rinnovo annuale del mandato, l’ultimo dei quali avvenne con la risoluzione 1883 del Consiglio di sicurezza, presentata da Regno Unito, Stati Uniti, Italia e Slovacchia, e approvata nell’agosto del 2008. Assieme alla Banca mondiale, l’ONU istituì inoltre un’apposita struttura, l’IRFFI (International Reconstruction Fund Facility for Iraq), incaricata di raccogliere e gestire fondi destinati alla ricostruzione irachena e allo sviluppo economico del Paese (al 2008 la cifra raccolta era di circa 1,8 miliardi di dollari provenienti da 25 donatori).
Le difficoltà incontrate dagli Stati Uniti nella gestione del dopoguerra iracheno, e l’assoluta necessità per Washington di abbandonare le scelte radicalmente unilateraliste del 2002-2004 e di ripristinare meccanismi multilaterali di gestione dell’ordine internazionale, hanno quindi conferito una nuova rilevanza all’ONU. Le missioni dell’organizzazione, infatti, stanno svolgendo un ruolo fondamentale nello sforzo di pacificazione e di nation-building promosso dalla comunità internazionale sia in ῾Irāq sia in Afghānistān. La crisi che le Nazioni Unite hanno vissuto non è però rientrata, né sono venuti meno alcuni fattori – in parte strutturali e in parte contingenti – che hanno concorso a catalizzarla. In primo luogo, la rinnovata centralità dell’ONU deriva in larga misura dalle difficoltà che gli Stati Uniti hanno incontrato (e stanno incontrando) in ῾Irāq e dalla conseguente necessità di ripristinare forme consensuali di gestione delle relazioni internazionali. È in altre parole una centralità indotta e forzosa, che poggia su un livello d’istituzionalizzazione che rimane precario e che dipende dalla disponibilità degli altri soggetti del sistema internazionale, a partire dagli Stati Uniti, a riconoscere all’ONU un qualche ruolo. Ed è una centralità che continua a stridere sia con l’incapacità delle Nazioni Unite di promuovere una seria autoriforma che aggiorni le sue strutture e il suo modus operandi (in particolare del Consiglio di sicurezza), sia con l’immagine negativa di cui l’organizzazione sembra soffrire presso l’opinione pubblica internazionale.
Questa immagine deriva non solo dalla sostanziale impotenza espressa durante la crisi del 2002-2004 e dalla convinzione di molti che sotto la direzione prima di Annan (1996-2006) e poi del sudcoreano Ban Ki-moon, dal gennaio 2007, l’ONU sia rimasta subordinata alle decisioni prese altrove e in particolare a Washington. Ma anche da una serie di scandali che hanno colpito l’organizzazione, relativi alla gestione del programma Oil-for-food (attraverso il quale si permetteva all’Irāq, soggetto a embargo, di esportare petrolio per l’acquisto di generi alimentari), e a varie missioni di peacekeeping. Le inchieste interne alla stessa organizzazione hanno evidenziato la corruzione di alcuni funzionari, colpevoli di aver accettato tangenti dal governo iracheno, e il coinvolgimento dei caschi blu in abusi e violenze sessuali su minori (nella Repubblica Democratica del Congo, ad Haiti, in Liberia, in Congo e nella Costa d’Avorio). Sia Annan sia Ban Ki-moon hanno cercato di fronteggiare questi scandali promovendo indagini interne, punendo i responsabili e, più in generale, lavorando per aumentare la trasparenza e la correttezza dell’operato dell’organizzazione. L’insuccesso delle proposte di riforma dell’ONU, dove permangono regole che risalgono all’immediato secondo dopoguerra e dove il Consiglio di sicurezza riflette gerarchie di potenza e logiche (come, per es., il diritto di veto dei suoi cinque membri permanenti) assolutamente datate, non ha però aiutato a migliorarne l’immagine, né tantomeno ha contribuito a rafforzarne la credibilità presso l’opinione pubblica internazionale.
L’indebolimento delle organizzazioni internazionali
La crisi di credibilità di cui soffre l’ONU ha colpito più in generale altre grandi organizzazioni internazionali e riflette la debole capacità di governance di un sistema politico ed economico internazionale che appare sempre meno gestibile e disciplinabile. Oltre che sulla centralità delle Nazioni Unite, il multilateralismo e il primato del diritto internazionale, l’idea cioè di ‘nuovo ordine internazionale’ che si era affermata negli anni Novanta del secolo scorso, poggiavano sulla fiducia nelle virtù della globalizzazione e nella convinzione che fosse in atto un’ineluttabile estensione della rete globale di interdipendenze commerciali e finanziarie che avrebbe progressivamente abbattuto le rimanenti barriere protezionistiche ed esteso su scala mondiale il libero mercato.
Negli ultimi anni questa fiducia è largamente scomparsa e con essa si sono molto indebolite l’autorità e la legittimità delle organizzazioni che avrebbero dovuto gestire tale processo: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione mondiale per il commercio (comunemente nota con il suo acronimo inglese WTO, World Trade Organization). Nell’ultimo ventennio, il sostegno del FMI a politiche d’austerità e rigore finanziario ha generato resistenze e opposizioni sempre più vaste. Necessarie secondo i suoi sostenitori per attrarre i capitali necessari allo sviluppo dei Paesi più arretrati e per porre sotto monitoraggio forme di spesa pubblica incontrollate, queste politiche sono state presentate da molti critici come funzionali a soddisfare gli interessi finanziari dei Paesi più ricchi e di quei capitali che si muovevano senza vincoli alla ricerca di maggiori occasioni di profitto. Si trattava di critiche espresse talvolta in forma radicale da settori del variegato movimento antiglobalizzazione che trovavano però ricezione anche tra alcuni famosi economisti e commentatori, come l’ex vicepresidente della Banca mondiale Joseph Stiglitz e il premio Nobel per l’economia Paul Krugman. Stiglitz, Krugman e altri hanno denunciato con toni sempre più severi le politiche di aggiustamento strutturale – caratterizzate da liberalizzazione, privatizzazione, deregulation, contenimento di spesa e bassi deficit – imposte ai Paesi meno sviluppati per poter avere accesso ai crediti necessari per lo sviluppo e la crescita delle loro economie. Spesso rilanciando un’agenda neokeynesiana, questi critici hanno sottolineato come le carenze d’informazione e di conoscenza limitino il perfetto operare dei meccanismi di mercato, hanno invocato un maggior ruolo regolamentatore dello Stato e hanno evidenziato la funzione antirecessiva di politiche monetarie e fiscali interventiste ed espansive. Krugman, in particolare, ha posto l’accento con forza sulla natura politica del problema, rigettando l’idea che le crescenti disuguaglianze di reddito presenti anche nei Paesi più ricchi fossero conseguenze di fattori oggettivi e ineludibili, legati alla transizione da una società industriale e fordista a una postindustriale centrata sui servizi. Nel sottolineare la matrice politica di queste disuguaglianze, Krugman ha rilanciato l’idea che la politica disponga degli strumenti e delle conoscenze per modificare tale stato di cose.
L’attacco mosso da più fronti alle forme assunte dalla globalizzazione e all’evoluzione del sistema economico internazionale ha finito per indebolire ancor più le istituzioni custodi e, in teoria, regolamentatrici di tale sistema. Un passaggio fondamentale in tal senso è rappresentato dalla crisi di cui fu vittima l’Argentina nel 2001, dove una serie di fattori interrelati – la pesante recessione economica, l’alto debito pubblico e l’ancoraggio della valuta nazionale (il peso) al dollaro – hanno concorso a provocare una drammatica crisi. L’Argentina è riuscita non senza fatica a uscire dalla recessione, ponendo termine alla parità tra peso e dollaro, procedendo a una ristrutturazione del debito e beneficiando di un quadro economico internazionale che si rivelò favorevole per alcuni suoi prodotti. La crisi argentina ha contribuito però a delegittimare ulteriormente quelle istituzioni che avevano promosso la filosofia liberalizzatrice del cosiddetto Washington consensus e, di converso, a rilegittimare politiche protezionistiche e vie nazionali allo sviluppo.
Tutto ciò lo si è visto anche in ambito più propriamente commerciale. La liberalizzazione degli scambi e l’apertura dei mercati avrebbero dovuto costituire un altro dei pilastri del ‘nuovo ordine mondiale’ post guerra fredda. La WTO è stata istituita nel 1995, dopo quasi un decennio di negoziati. Il suo scopo è quello di dare veste organizzata e istituzionale al forum ove si negoziano multilateralmente accordi in materia di scambi di beni commerciali e di servizi, riducendo le barriere tariffarie e promuovendo la liberalizzazione. Il numero di Paesi membri della WTO è cresciuto esponenzialmente nel corso degli anni, passando dagli originali 76 ai 152 nel luglio 2008 (che rappresentano tra il 97 e il 98% del commercio mondiale di beni e servizi). Un passaggio cruciale è stato rappresentato dall’adesione della Repubblica popolare cinese all’organizzazione, avvenuto nel dicembre del 2001. A oggi non fanno però parte dell’organizzazione Paesi molto importanti come la Russia e l’Irān.
A dispetto delle speranze iniziali, la WTO ha raggiunto solo in minima parte i suoi obiettivi e alcuni suoi vertici sono stati caratterizzati da eclatanti fallimenti, laddove i più importanti membri dell’organizzazione non sono riusciti ad accordarsi per dare corso alla sua missione e procedere a un’ulteriore liberalizzazione degli scambi. Gli insuccessi hanno infatti segnato la nuova fase di negoziati WTO iniziata nel 2001 e nota come Doha round.
Il Doha round ha evidenziato la presenza di varie linee di frattura all’interno della WTO, che contrappongono i suoi principali membri o alcune alleanze formatesi tra di essi: quella tra Paesi più ricchi e Paesi in via di sviluppo; quella all’interno del mondo economicamente più avanzato, che vede fronteggiarsi principalmente Stati Uniti e Unione Europea (UE); quella che contrappone la Cina a molti Stati del cosiddetto primo mondo. La contrapposizione tra Stati più ricchi e Paesi in via di sviluppo si concentra principalmente sull’agricoltura. La richiesta fondamentale dei Paesi in via di sviluppo è che le economie più avanzate – statunitense ed europea su tutte – procedano a una ulteriore limitazione delle politiche di protezione e sussidio dei propri settori agricoli, che di fatto impediscono l’accesso ai mercati di prodotti provenienti dalle aree più povere, penalizzando le ultime e limitandone le potenzialità di crescita. Gli Stati più avanzati chiedono in cambio una maggiore apertura dei mercati dei Paesi in via di sviluppo ai servizi e ai propri prodotti manifatturieri. Durante i vertici tenutisi tra il 2003 e il 2005 a Cancún, Ginevra, Parigi e Hong Kong sono stati trovati compromessi e accordi parziali. Nuove polemiche hanno caratterizzato però i successivi vertici di Ginevra (2006) e Potsdam (2007) e al 2008 la contrapposizione sulla ridefinizione delle politiche di sostegno e protezione del sistema agricolo dei Paesi più sviluppati rimane uno dei grandi nodi irrisolti all’interno della WTO.
Gli Stati economicamente più avanzati sono a loro volta divisi su questioni commerciali e tariffarie. Dal 2000 al 2008, gli Stati Uniti e l’Europa si sono spesso accusati reciprocamente di non rispettare gli accordi della WTO e la filosofia che vi sottostà. Un esempio eclatante di questa contrapposizione lo si ebbe nel 2002-03, quando l’Unione Europea decise di portare davanti alla WTO la questione dei dazi (in taluni casi superiori al 30%) posti dall’amministrazione Bush sull’importazione di acciaio. I dazi servivano per proteggere l’industria siderurgica statunitense e avevano una precisa funzione elettorale: quella di garantire a Bush e al partito repubblicano il sostegno di alcuni Stati cruciali della cintura postindustriale del Midwest (Ohio, Pennsylvania, Michigan), pesantemente colpita dalla deindustrializzazione e dalla crisi del settore siderurgico. I dazi costituivano però una chiara violazione dello spirito e della lettera della WTO, che proclamò illegali le tariffe e autorizzò l’Unione Europea ad adottare misure ritorsive contro gli Stati Uniti. Di fronte a questa possibilità, gli Stati Uniti decisero, nel dicembre 2003, di accogliere la decisione della WTO e di abrogare le tariffe.
La vicenda è stata particolarmente rilevante perché ha evidenziato le divisioni presenti all’interno del mondo più ricco, perché si è aggiunta ad altri fattori che laceravano le relazioni euro-americane (la spaccatura sull’Irāq su tutti) e perché ha mostrato la persistenza di una tensione – quella tra dimensione politica nazionale e istituzioni sovranazionali, tra obiettivi politico-elettorali interni e rispetto delle regole internazionali – che ha segnato la storia del sistema internazionale e della sua progressiva, ma ancora parziale, normazione. Tra gli Stati Uniti e l’UE permangono ancor oggi ragioni di contenzioso su tariffe, quote e sussidi. La WTO ha offerto un forum ove superare questi contenziosi, raggiungere dei compromessi o, come nel caso dell’acciaio, ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Ma una WTO dalla legittimità contestata, anche da importanti esponenti dei governi dei suoi membri, e incapace di risolvere una serie di dispute aperte è diventata non di rado il luogo ove lo scontro si è fatto pubblico e più intenso.
La controversia più aspra coinvolge però la Repubblica popolare cinese, la cui straordinaria crescita economica si lega principalmente alle esportazioni verso i mercati dei Paesi più ricchi, alla capacità di attrarre investimenti e alla decisione di molti gruppi industriali di delocalizzare la propria produzione in questo Paese, approfittando di condizioni favorevoli, in particolare il basso costo della manodopera. Ciò ha finito per estendere e consolidare l’interdipendenza tra la Cina e il resto del mondo, a partire dagli Stati Uniti. Nel periodo 1990-2005, le importazioni statunitensi dalla Cina sono passate dal 3% al 14% di quelle complessive, mentre quelle dal Giappone e dagli altri Paesi dell’Estremo Oriente sono scese dal 36% al 19%. Le esportazioni statunitensi verso la Cina sono a loro volta cresciute, ma a ritmi assai meno sostenuti e comunque inferiori rispetto ad altri Paesi. Nel solo 2005 il passivo degli Stati Uniti negli scambi bilaterali con la Cina è stato di quasi 200 miliardi di dollari (circa 1/4 del loro deficit commerciale complessivo). La Cina ha sostenuto a sua volta i consumi statunitensi contribuendo a finanziarie il debito attraverso l’acquisto di titoli, pubblici e privati. A questa interdipendenza sempre più stretta è però corrisposta un’intensificazione delle accuse reciproche. In particolare, la difficile situazione economica vissuta dagli Stati Uniti nel 2007-08 ha rilanciato parole d’ordine protezionistiche e ha indotto molti commentatori, politici e sindacalisti a puntare il dito contro le supposte pratiche commerciali sleali della Cina. La spregiudicata politica valutaria, l’assenza di forme di controllo sulla qualità (e la sicurezza) dei prodotti, i bassi standard della legislazione sul lavoro e i frequenti abusi di cui sono vittime i lavoratori sono stati ripetutamente invocati per chiedere maggiori restrizioni e controlli sulle importazioni dalla Cina e per sollecitare piena reciprocità nelle relazioni commerciali. L’amministrazione Bush ha cercato di contenere queste pressioni per evitare un deterioramento dei rapporti con il partner cinese e l’apertura di un fronte ulteriore di tensione, ma in taluni casi ha chiesto l’intervento della WTO che ha recentemente sanzionato Pechino per le sue pratiche protezionistiche sul commercio di parti di autoveicoli. La WTO sarà chiamata in futuro a valutare altri reclami statunitensi contro le violazioni cinesi del diritto di copyright.
La polemica contro le pratiche commerciali cinesi ha coinvolto anche molti Stati europei e la stessa Unione Europea. Nonostante ciò gli scambi commerciali tra quest’ultima e la Cina sono cresciuti consistentemente negli ultimi anni, raddoppiando tra il 2000 e il 2005. L’Unione è diventata il primo partner commerciale della Cina, davanti al Giappone e agli stessi Stati Uniti. Da parte europea si è chiesto che la Cina adempia alle regole della WTO, rispetti la proprietà intellettuale e proceda alla liberalizzazione del suo mercato, ponendo termine a pratiche discriminatorie che penalizzano i produttori non cinesi. Soprattutto, si sono fatte forti le pressioni di chi invoca maggiore protezione dai prodotti cinesi venduti in Europa a basso costo (con effetti peraltro positivi per l’inflazione) grazie – affermano i critici – a pratiche produttive impraticabili altrove e a politiche commerciali che non rispettano le regole della concorrenza. Se la Commissione europea ha spesso concentrato le sue pressioni sulla questione valutaria, sollecitando Pechino a rivalutare lo yuan nei confronti dell’euro, forti sono state anche le richieste di attivare misure di natura protezionistica per limitare l’accesso di merci cinesi sul mercato europeo.
Le organizzazioni internazionali regionali
Rivendicate spesso da forze politiche nazionali, queste misure sarebbero praticabili solo a livello europeo. La crisi degli organismi internazionali post 2000 sembra però colpire anche organizzazioni regionali soprannazionali, quali appunto l’Unione Europea. Il nuovo secolo si era in realtà aperto con grandi speranze per l’Unione, prossima a promuovere uno storico allargamento a Est, verso parte dei Paesi dell’ex blocco comunista, e intenzionata a dotarsi di una propria politica estera e di sicurezza (PESC, Politica Estera e di Sicurezza Comune; PESD, Politica Europea di Sicurezza e di Difesa). I risultati sono però stati ambivalenti con alcuni eclatanti insuccessi. L’Unione, dal 1999, ha un suo Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, lo spagnolo Javier Solana (che dal 2004 ricopre anche la carica di segretario generale del Consiglio dell’Unione Europea), e quindi può formalmente esprimersi con una sola voce anche su queste tematiche. Ma la disponibilità dei membri dell’Unione Europea a cedere parte della propria sovranità negli ambiti fondamentali della politica estera e di sicurezza si è rivelata assai limitata, mentre le tensioni apertesi con gli Stati Uniti tra il 2002 e il 2004 hanno finito per dividere la stessa compagine europea.
Durante lo scontro diplomatico che precedette l’intervento in ῾Irāq, l’Europa si trovò divisa tra quei governi che appoggiavano la linea statunitense, quelli che invitavano ad adoperarsi per contenerne le asprezze e quelli che vi si opponevano apertamente. Si venne quindi a formare un’asse tra Francia e Germania, contrarie a un rovesciamento con la forza del regime di Saddam Hussein, contrapposto a quello dei governi filostatunitensi, quali la Gran Bretagna di Tony Blair, la Spagna di José María Aznar e l’Italia di Silvio Berlusconi. A questa divisione se ne aggiunse un’altra, laddove gran parte dei Paesi dell’Europa centro-orientale ex comunista, da poco membri dell’Alleanza atlantica (o prossimi ad aderirvi) e in procinto di entrare a far parte dell’Unione Europea, si schierarono con gli Stati Uniti. A queste divisioni interstatuali non corrispondeva un’analoga frattura tra le diverse opinioni pubbliche nazionali che, con rare eccezioni, si opponevano in maggioranza all’intervento militare in ῾Irāq. Nondimeno, le divisioni politiche ebbero effetti laceranti anche in Europa. Il presidente francese Jacques Chirac prospettò addirittura la possibilità di bloccare il processo di allargamento a Est dell’Unione. L’allargamento in realtà proseguì come previsto, ma fu inquinato da questi scontri e dalle tensioni che ne conseguirono. Nel 2004, dieci nuovi Paesi entrarono a far parte dell’Unione Europea (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria). Altri due Stati, Bulgaria e Romania, divennero membri nel 2007. Il baricentro dell’Unione si spostò così verso Est e si assistette a una significativa ridefinizione degli equilibri politici nell’organizzazione. Una Unione a 27 membri si rivelò tuttavia ancor più difficile da guidare e amministrare. Gli sforzi di far accompagnare il processo di espansione e allargamento dell’Unione con la definizione di una nuova cornice di regole sono finora falliti. Tra il 2002 e il 2003 si tennero i lavori di un’apposita Convenzione sul futuro dell’Europa, presieduta dall’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Il suo compito era di elaborare un testo unico, impropriamente definito Costituzione, che fissasse con maggior chiarezza le competenze e le modalità decisionali dell’Unione Europea, le conferisse un assetto istituzionale più preciso e netto, definisse la distribuzione di competenze con gli Stati membri sulla base del principio di sussidiarietà e permettesse all’Unione di promuovere un’effettiva politica estera e di sicurezza. Dopo interminabili negoziati e vari compromessi, la nuova carta costituzionale dell’Unione Europea fu sottoscritta dai rappresentanti dei 25 Stati che allora ne facevano parte. Il documento sarebbe dovuto entrare in vigore nel novembre del 2006 dopo la ratifica dei Paesi membri. Questo processo non fu però mai completato. Il documento fu soggetto a critiche diverse: non sufficientemente coraggioso per i federalisti europei; troppo liberista per una parte della sinistra; troppo europeista per molte forze politiche di ispirazione nazionalista. Si vennero quindi a formare coalizioni trasversali e politicamente eterogenee contrarie alla ratifica dell’accordo. I referendum popolari tenutisi in Francia e nei Paesi Bassi nella primavera del 2005 bocciarono pesantemente il trattato. Si aprì allora un periodo di riflessione e di ripensamento chiuso nel dicembre 2007 con la firma del più modesto e snello Trattato di Lisbona, i cui principi però ricalcano significativamente quelli del testo bocciato in precedenza dall’elettorato francese e olandese. L’iter di ratifica del Trattato sembrava più facile di quello che seguì l’accordo del 2004, ma è subito incappato nel voto negativo del referendum di ratifica tenutosi in Irlanda nel giugno del 2008.
Il presidente della Commissione europea, il portoghese José Manuel Barroso, e molti leader europei hanno sottolineato la necessità di proseguire sulla strada della ratifica, già completata nella quasi totalità dei Paesi membri, e di evitare la paralisi istituzionale che conseguirebbe all’affondamento anche di questo secondo testo. Resta però il fatto che l’unico tentativo di ratifica per via referendaria è fallito e che la popolarità dell’Unione è scesa anche in molti Paesi di recente adesione, dove il sostegno alle istituzioni europee è solitamente molto alto. Secondo un sondaggio dell’Eurobarometro del maggio 2006, una maggioranza dei cittadini dell’Unione si è dichiarata non interessata agli affari europei (il 52% contro il 36% che si dichiara non interessata alle vicende del proprio Paese), mentre la fiducia nelle istituzioni europee è diminuita negli ultimi anni in concomitanza con l’allargamento e il fallimento del testo approvato nel 2004. Il passaggio a un’Europa assai più ampia e diversa di quella precedente all’allargamento ha posto l’Unione Europea di fronte a difficoltà senza precedenti e a dilemmi che essa fatica a sciogliere. A monte agisce però una crisi più generale delle organizzazioni internazionali (e dell’internazionalismo in genere), alla quale concorrono la difficile situazione economica, la fragilità del sistema di regole internazionali costruito negli anni precedenti e la forte richiesta di erigere muri nazionali o regionali per fronteggiare, o quanto meno disciplinare, gli effetti della globalizzazione e dell’interdipendenza.
Si tratta di problemi con i quali altre organizzazioni internazionali regionali, oltre all’Unione Europea, si trovano a fare i conti. È questo, per es., il caso del NAFTA (North American Free Trade Agreement), l’area di libero scambio dell’America Settentrionale nata nel 1994 e che include il Canada, gli Stati Uniti e il Messico. Gli oppositori dell’accordo, soprattutto negli Stati Uniti, hanno concentrato inizialmente le loro critiche sul possibile trasferimento della produzione in Messico (con la conseguente perdita di posti di lavoro) e sulla mancata uniformazione delle tre legislazioni nazionali sul lavoro che rendeva il costo della manodopera decisamente minore in quest’ultimo Paese. A oggi è arduo dire se queste critiche siano fondate: i dati macroeconomici offrono indicazioni diverse così come le interpretazioni di politici ed economisti. Il dato rilevante, però, è che l’iniziale entusiasmo liberoscambista che ha accompagnato la ratifica del trattato è andato progressivamente affievolendosi e che anche figure politiche che in passato lo hanno sostenuto apertamente oggi criticano il NAFTA e sollecitano una sua revisione. Negli Stati Uniti il dibattito si concentra principalmente sulla perdita di posti di lavoro nel settore industriale alla quale, sostengono i critici, il NAFTA in parte contribuirebbe, e sulla maggiore porosità del confine tra Stati Uniti e Messico, che ha facilitato l’afflusso d’immigrati illegali, dal Messico stesso e dall’America Centrale, verso gli Stati Uniti. Da parte messicana, le critiche si sono concentrate principalmente sulle politiche di sussidio e di sostegno all’agricoltura promosse dal governo degli Stati Uniti che hanno reso meno competitivi i prodotti agricoli locali. Il governo di Città di Messico ha inoltre ripetutamente sollecitato una revisione, e una maggiore flessibilità, delle politiche statunitensi in materia d’immigrazione, chiedendo che alla liberalizzazione commerciale corrisponda quella dei movimenti di persone.
Anche per quanto riguarda il NAFTA, e più in generale per le relazioni interamericane, gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno rappresentato un importante spartiacque. Da un lato hanno distolto l’attenzione dell’amministrazione Bush dai rapporti con il Messico e con gli altri Paesi dell’emisfero occidentale. Dall’altro, hanno posto il tema della sicurezza al centro dell’interesse e della sensibilità dell’opinione pubblica statunitense e indotto molti a chiedere maggiori controlli nella frontiera meridionale con il Messico. Alle parole d’ordine integrazioniste e fiduciose degli anni Novanta sono subentrate quelle spaventate e di chiusura post 2001. Le richieste messicane di facilitare il movimento di persone nell’area del NAFTA sono state rigettate dagli Stati Uniti. L’intrecciarsi della questione sicurezza con le crescenti difficoltà economiche di cui gli Stati Uniti hanno sofferto nel periodo 2006-2008 ha stimolato la richiesta di adottare politiche più rigide in materia d’immigrazione. Il dibattito politico statunitense è stato quindi caratterizzato dalle frequenti sollecitazioni ad assumere posizioni più ferme nei confronti del partner messicano, accusato di non impegnarsi a sufficienza nel controllare i flussi migratori e di non combattere con la dovuta efficacia le organizzazioni criminali che operano nel suo territorio e che spesso gestiscono traffici illegali verso gli stessi Stati Uniti. Nell’ottobre del 2006, Bush firmò la legge che prevedeva la costruzione di una barriera costituita da più di mille chilometri di recinzioni e filo spinato lungo la parte più permeabile del confine tra Stati Uniti e Messico, in Texas e in California. Secondo alcuni sondaggi, una maggioranza degli americani era favorevole alla barriera, mentre i suoi effetti sull’immigrazione illegale dal Messico agli Stati Uniti sono a oggi difficili da accertare. Che una parte maggioritaria dell’opinione pubblica e del mondo politico statunitense sia favorevole a politiche più restrittive in materia d’immigrazione, e che ciò abbia un impatto negativo sulle relazioni interamericane, lo si è visto anche nel dibattito che ha portato al fallimento della proposta di riforma avanzata dall’amministrazione Bush che prevedeva un programma di permessi temporanei di lavoro e facilitava la regolarizzazione della posizione degli immigrati clandestini che già lavorano negli Stati Uniti. Fortemente avversata da una parte del mondo conservatore e, anche, da alcuni sindacati, la proposta è stata infine rigettata dal Senato, ponendo termine alla possibilità di approvare una riforma della legislazione entro il secondo mandato di Bush. Una decisione, questa, che ha concorso a provocare un ulteriore inasprimento dei rapporti, già molto difficili, con il governo messicano.
I rapporti con il Messico e le difficoltà del NAFTA sono alcuni esempi paradigmatici dei problemi più generali che gli Stati Uniti stanno incontrando nelle relazioni con molti Paesi dell’America Latina. Anche in questo caso, le difficoltà nelle relazioni interamericane riflettono e al tempo stesso causano la crisi di alcune organizzazioni regionali e degli ambiziosi programmi d’integrazione regionale avviati negli anni Novanta. Un caso emblematico è rappresentato dall’ALCA (Área de Libre Comercio de las Américas) che sarebbe dovuta nascere in seguito alla riduzione e al progressivo abbattimento delle barriere commerciali, permettendo una piena liberalizzazione nell’emisfero occidentale e ponendo le premesse di una maggiore integrazione economica regionale. Nelle intenzioni l’ALCA avrebbe dovuto rappresentare il prosieguo e la naturale estensione del NAFTA. Nei fatti, però, l’ALCA si è trovata a fronteggiare gli stessi problemi di altri recenti progetti d’integrazione economica e commerciale. Nelle discussioni gli oggetti del contendere sono stati i sussidi all’agricoltura, la tutela della proprietà intellettuale e l’apertura dei mercati nazionali ai servizi e non solo alle merci. Dopo la fase preparatoria del 1994-2000, si sono tenuti tre vertici tra il 2001 e il 2005 a Québec City, Miami e Mar del Plata. Pesantemente osteggiata da importanti settori delle opinioni pubbliche latino-americane, che la presentano come espressione di un disegno egemonico statunitense nella regione, l’ALCA non è di fatto mai decollata e ha sofferto grandemente della crisi nelle relazioni tra Stati Uniti e Paesi latino-americani seguita all’11 settembre 2001. Il progetto è considerato ormai fallito e l’auspicio di poter creare un singolo mercato nelle Americhe appare quanto mai futuribile.
Risultati maggiori li ha ottenuti il MERCOSUR (Mercado Común del Sur), l’accordo regionale che coinvolge il Brasile, l’Argentina, l’Uruguay e il Paraguay con l’obiettivo di creare un mercato comune. La crisi argentina del 2001 sembrava destinata a travolgere anche il MERCOSUR, il quale si è però progressivamente risollevato anche in conseguenza delle difficoltà nei rapporti tra gli Stati Uniti e i Paesi dell’America Latina. Una delle conseguenze è stata infatti la sollecitazione a una maggiore unità latino-americana, che ha stimolato iniziative e azioni in tal senso. Bolivia, Cile, Colombia, Perù ed Ecuador hanno ottenuto lo status di Paesi associati del MERCOSUR. All’integrazione economica si è cercato di abbinare un maggiore coordinamento politico con l’istituzione di un Parlamento del MERCOSUR, che ha inaugurato i suoi lavori a Montevideo nel maggio del 2007. Si tratta però di un processo d’integrazione spesso catalizzato da dinamiche negative e dalla volontà di resistere a forme d’interdipendenza economica e regionale guidate e dominate dagli Stati Uniti. In tal senso è in parte spiegabile sia la richiesta del Venezuela di Hugo Chávez Frías di essere ammesso nell’organizzazione, accolta nel 2005, sia le resistenze manifestate dal Parlamento brasiliano a ratificare l’accordo di ammissione del Venezuela e ad accettare il regime di Chávez nel MERCOSUR.
In altri contesti, l’intensificazione di processi d’interdipendenza economica non ha generato un’automatica crescita del livello di istituzionalizzazione dei forum e delle organizzazioni create per gestire e pilotare tale interdipendenza. È questo il caso, per es., dell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), il forum a cui partecipano 21 Paesi che si affacciano sul Pacifico, in Asia e nelle Americhe. L’APEC organizza meeting annuali per discutere come promuovere la liberalizzazione degli scambi, gli investimenti, lo sviluppo e la cooperazione economica. Di fatto, però, tale organismo si è limitato a offrire poco più di un ulteriore forum di discussione.
La regione ove maggiori progressi sono stati compiuti sul fronte della collaborazione internazionale e della sua istituzionalizzazione è probabilmente quella africana, dove permangono peraltro drammatici problemi strutturali. Nel 2002 è nata l’Unione africana (UA), che ha sostituito l’Organizzazione dell’unità africana (OUA). L’obiettivo dell’UA – alla quale aderiscono tutti gli Stati africani con l’eccezione del Marocco – è sia promuovere una maggiore integrazione economica e politica sia permettere agli Stati africani una gestione autonoma e indipendente delle crisi presenti nel continente. Tra i progetti più ambiziosi intrapresi dall’UA vi sono il programma di sviluppo e lotta alla povertà NEPAD (New Partnership for Africa’s Development), appoggiato dal G8 e dall’Unione Europea, e la promozione di vari interventi di contingenti multinazionali africani per risolvere alcuni dei tanti conflitti che lacerano il continente africano. Le crisi in Dārfūr e in Zimbabwe rivelano però molti dei limiti dell’UA e la sua incapacità di agire come effettivo mediatore di posizioni che rimangono assai lontane. Sulla questione dello Zimbabwe non si è trovato un accordo e le richieste di alcuni Stati, a partire dal Kenya, di espellere lo Zimbabwe dall’organizzazione non sono state accolte. In Dārfūr, l’UA ha promosso tra il 2004 e il 2007 un’operazione di peacekeeping che ha coinvolto circa 7000 soldati. L’operazione, come del resto i tentativi di mediazione dell’organizzazione, non ha sortito gli effetti auspicati. Con la risoluzione 1769 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, approvata con voto unanime il 31 luglio 2007, la missione ha cessato di essere un’operazione esclusivamente africana. La nuova missione (denominata, United Nations African Union Mission in Darfur, UNAMID) è quindi un’operazione ONU/UA che vede la partecipazione di militari africani e non africani e che è comandata dal generale nigeriano Martin Luther Agwai.
Dal 2000 a oggi sono mancate molte delle condizioni fondamentali per il funzionamento e il consolidamento delle organizzazioni internazionali. Ma è venuto meno anche il fideistico ottimismo che aveva indotto a dare per scontata l’estensione dei processi d’interdipendenza e, con essi, quelli di normazione e istituzionalizzazione delle relazioni internazionali. Proprio l’acclarata incapacità di molte organizzazioni internazionali di svolgere i compiti a esse assegnati ha stimolato una rinnovata richiesta di riformare queste istituzioni e, se possibile, di creare nuovi meccanismi attraverso cui regolamentare e disciplinare l’ordine internazionale. Le frequenti crisi finanziarie internazionali hanno indotto autorevoli studiosi e statisti a chiedere il varo di una ‘nuova Bretton Woods’, ossia una nuova architettura di regole capaci di contenere le turbolenze finanziarie e di garantire la stabilità del sistema internazionale. La debolezza dell’ONU ha riportato al centro del dibattito l’esigenza di una significativa riforma delle sue strutture, a partire dal Consiglio di sicurezza. L’atteggiamento unilaterale degli Stati Uniti sembra inoltre essere giunto a un punto di arrivo e già negli ultimi anni della seconda amministrazione Bush si è assistito a un significativo cambio di rotta e a un maggiore sforzo di collaborazione multilaterale. Gli inviti a riformare le principali organizzazioni mondiali rappresentano oggi la principale risposta alla crisi vissuta dagli organismi internazionali nel nuovo secolo.
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