La crisi della politica in Italia
Il termine Parteiverdrossenheit in tedesco significa insoddisfazione per i partiti e spesso si accompagna alla più generale espressione Politikverdrossenheit, che indica lo stesso sentimento, esteso alla politica. Se ci inoltriamo nel terreno del rapporto degli italiani con la politica, non ci imbattiamo dunque in uno specifico italico. Non c’è nulla di peculiare al nostro carattere nazionale nell’atteggiamento, sprezzante o disincantato a seconda delle sensibilità, con cui gli italiani si rapportano al mondo della politica.
In tutta Europa, ma anche al di là dell’Atlantico, la diffidenza che suscitano le parole politica, partito e, quindi, uomini politici, arriva sempre più spesso a tingersi di rancore e ostilità. Senza tornare troppo indietro nel tempo e limitandoci agli anni a cavallo tra il 20° e il 21° sec., l’irruzione del miliardario Ross Perot nella campagna presidenziale americana del 1992, candidato indipendente contro i rappresentanti repubblicani e democratici, costituì uno dei fenomeni più vistosi di questo sentimento. Allo stesso modo, l’emergere impetuoso di movimenti di estrema destra populista in tutto il continente europeo, dal Front national francese di Jean-Marie Le Pen all’FPÖ (Freiheitliche Partei Österreichs) austriaco di Jörg Haider, fu alimentato dalla sfiducia montante nei confronti dei rispettivi sistemi politici e dei loro interpreti, collettivi (partiti) e individuali (uomini politici).
In Italia il sentimento antipolitico e antipartitico ha una lunga storia. Lo si può rintracciare fin dagli anni Venti del secolo scorso con Giuseppe Prezzolini come riferimento principe, nel suo rifiuto di ‘prender parte’ al momento dello scontro tra socialisti e fascisti e della successiva instaurazione del regime imposta da questi ultimi. Proseguì nella fase di smobilitazione del regime fascista, quando la mentalità benpensante borghese prese il posto dell’attivismo squadrista e marginalizzò le pulsioni totalitarie. E raggiunse l’apice dopo il 25 luglio 1943, quando il ‘prender parte’ divenne una scelta di vita in senso proprio e, di conseguenza, la maggioranza degli italiani si rifugiò nella zona grigia. In fondo il familismo (anche quello di tipo morale) rappresenta il cemento identificativo della nostra antropologia nazionale.
Con l’instaurazione del regime democratico non scomparve la tendenza a rifugiarsi nel particulare e all’estraniarsi dalla politica. La fiammata di consensi che ottenne, in quegli anni cruciali, il movimento dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, soprattutto nel Centro-Sud, in reazione al ‘vento del Nord’, rifletteva un tratto profondo delle sensibilità dell’opinione pubblica rispetto alla iperpoliticizzazione degli anni postbellici. Nonostante il coinvolgimento di un alto numero di persone nella vita politica negli anni Quaranta e Cinquanta, inevitabile frutto dell’euforia per la scoperta della democrazia, prosperarono sentimenti opposti di cui si fecero interpreti sia la destra nostalgica e monarchica, sia settori cattolico-moderati e laico-borghesi.
Fu un fenomeno sociale di portata ben più ampia come quello della società dei consumi a stemperare l’intensità ideologica, a far calare la tensione partecipatoria e l’impegno politico, e a creare un humus favorevole alla presa di distanza rispetto al mondo della politica. I favolosi anni Sessanta furono tali forse anche perché la politica, come denunciavano scandalizzati all’unisono comunisti e cattolici, venne progressivamente messa da parte. Le cronache di costume di quegli anni ridondavano di commenti sulla gioventù dai capelli lunghi e dalle minigonne, interessata solo alla liberazione edonistica e del tutto aliena dall’impegno politico. In realtà, alla fine del decennio, arrivò il Sessantotto, e fece piazza pulita di quella immagine di giovani distaccati e bighelloni.
Con effetti peraltro imprevisti. L’ubriacatura ideologica del post-Sessantotto provocò, infatti, dei contraccolpi: anche se diffuse un nuovo entusiasmo per la partecipazione e il coinvolgimento diretto, allo stesso tempo favorì un movimento di segno opposto che invocava il ritorno allo statu quo ante la ‘maggioranza silenziosa’. Questo inedito fenomeno di contromobilitazione agiva in nome di una società depoliticizzata, affinché venissero ristabiliti l’ordine e le gerarchie, e il principio di autorità si riaffermasse di fronte al panpartecipazionismo e alla presa di parola. Tuttavia, la sponsorship della destra neofascista a quel movimento ne provocò il rapido tramonto.
I semi dell’antipolitica erano stati però gettati, e fruttificarono altrove. È merito, o responsabilità, dei radicali di Marco Pannella aver (ri)dato voce, attraverso il referendum sul finanziamento pubblico ai partiti del 1978, alla Parteiverdrossenheit italiana. Il 43,6% di elettori che votò contro la legge invocata da tutti i partiti (liberali esclusi) come panacea contro la corruzione rappresentò l’apice dell’antipolitica pre-Tangentopoli. Questa esplosione di malcontento nei confronti della politica non trovò però interpreti credibili. Non poteva esserlo il minuscolo Partito radicale, figlio in realtà del più fine e pervasivo politicismo sia per le biografie dei suoi leader, sia per la sua impostazione ideologica che, includendo slogan quali ‘il privato è politico’, era tutto il contrario dell’antipolitica; non poteva esserlo, infine, il moderatismo cogitabondo e serioso dell’altrettanto minuscolo Partito liberale; non poteva esserlo l’estrema destra, marginalizzata dalla sua inossidabile nostalgia.
Solo dopo il cataclisma di Tangentopoli, con l’irruzione della Lega Nord e di Forza Italia, l’antipolitica trovò compiute espressioni partitiche che rappresentavano il lato plebeo e opulento dello stesso sentimento, ponendosi la Lega come vendicatrice dei torti subiti dagli operosi e onesti lavoratori (settentrionali, ovviamente) e Forza Italia come espressione diretta, non mediata, della società civile produttiva.
Ma se questo fu il passaggio decisivo, in quanto per la prima volta nella Repubblica italiana diventavano centrali partiti che non solo non facevano mistero della loro estraneità alla politique politicienne ma addirittura la esaltavano facendone una cifra identificativa, va ricordato che tutto ciò venne preparato da un fermento nella società civile, attivo tra gli anni Ottanta e Novanta. In quel periodo l’insoddisfazione nei confronti della politica, benché non trovasse interlocutori organizzati, era fortissima: già nel 1986, un’indagine Eurisko condotta da Gabriele Calvi rilevava che l’80,2% degli italiani era d’accordo nel ritenere che la gente avesse poca influenza sull’operato dei politici, mentre solo il 23,3% pensava che il governo fosse sensibile alla pubblica opinione.
Questo sentimento di disaffezione non ebbe però sbocchi: al di là del clamoroso risultato del già citato referendum del 1978, non emersero manifestazioni esplicite di tale sentimento. La ripresa economica degli anni Ottanta, la deradicalizzazione politica, la pace sociale, la stabilità governativa, sostanzialmente smobilitarono la società italiana. Né le proteste dei sindacati autonomi (Cobas e Gilda), né l’occasionale effervescenza studentesca della Pantera incresparono il mare mai così tranquillo della vita pubblica nazionale. In quegli anni si palesò quindi una contraddizione tra una società sottotraccia insoddisfatta e inquieta e un sistema politico che sembrava vivere i suoi giorni più placidi.
Il crollo dei partiti della prima Repubblica fu sì prodotto dall’inchiesta Mani pulite, ma ebbe la sua incubazione in una lunga, più che decennale, frustrazione dei cittadini nei confronti della politica e dei suoi interpreti. I partiti di governo collassarono perché svuotati da una perdita di legittimità che risaliva al decennio precedente. Prima della grande slavina furono però lanciati alcuni segnali del ‘ritiro della delega’, per usare l’espressione di Alessandro Pizzorno. Il più clamoroso venne dal referendum per la preferenza unica tenutosi nel giugno del 1991: nonostante l’invito all’astensione da parte di alcuni grandi partiti, il 62,5% degli aventi diritto si recò alle urne per esprimere a larghissima maggioranza, con oltre il 95% dei voti a favore, la sua volontà di abolire la preferenza plurima per la Camera dei deputati. Un gruppo di intellettuali e politici di secondo piano appartenenti a diversi partiti riuscì in questo modo a sfondare il muro dell’ostilità dei partiti maggiori e a intercettare quell’humus protestatario che serpeggiava nell’opinione pubblica. La loro iniziativa, all’apparenza minimalista, scosse l’albero della politica: rivelò una debolezza che il referendum del 1978 non aveva fatto trasparire. Mentre allora i partiti assorbirono il colpo e andarono dritti per la loro strada, questa volta accusarono pesantemente l’affondo. Ulteriori segnali di quanto sobbolliva nella società vennero dalla nascita di partiti nuovi, come La Rete, e dal successo della Lega lombarda che, in Lombardia, prima ottenne l’8,1% alle elezioni europee del 1989, poi sfondò alle elezioni regionali del 1990 con il 18,9%. Dopo poco arrivò il cataclisma di Mani pulite.
Tangentopoli e la crisi dei partiti della prima Repubblica
Com’è noto, iniziative giudiziarie contro la corruzione politica sono una costante dell’Italia repubblicana. Capitale corrotta=nazione infetta, così titolava «L’Espresso» del 22 gennaio 1956 la celebre inchiesta di Manlio Cancogni sulle speculazioni immobiliari truffaldine a Roma, all’ombra di politici e prelati. Ma le iniziative della magistratura non avevano mai raggiunto un livello sistemico, vale a dire non erano mai arrivate a connettere le varie tessere del puzzle corruttivo. Il celebre fascicolo virtuale di cui parlava il pubblico ministero Antonio Di Pietro raccontando la nascita dell’inchiesta consisteva in un dossier open source, nel senso che poteva aprirsi su uno qualsiasi dei tanti filoni d’inchiesta che si susseguivano a ritmo incalzante. Sarebbe stato il caso a indirizzare i magistrati sul presidente del Pio Albergo Trivulzio, storico ospizio per anziani di Milano, Mario Chiesa, un dirigente politico locale di medio calibro che però aveva nel proprio conto in banca alcuni miliardi di vecchie lire. Una somma considerevole per un semplice amministratore pubblico di case di riposo.
La peculiarità dell’inchiesta Mani pulite consistette nel non fermarsi al caso singolo, bensì nel tirare i fili che legavano un corrotto a un altro, e così via risalendo a scoprire tutto il sistema. Se i magistrati milanesi si fossero fatti intimidire dalle minacce dei potenti di allora, non sarebbero mai arrivati alle valigette che venivano recapitate nello studio milanese di Bettino Craxi, né a quelle distribuite dall’ex comunista Primo Greganti, e nemmeno alle girandole di assegni a tesorieri e leader politici di tutti i partiti della coalizione pentapartito allora al governo (compreso il tesoriere della Lega).
Solo una orwelliana riscrittura della storia può far passare per una torbida congiura di magistrati – per di più ‘rossi’, quando l’ideologo di Mani pulite era il nostalgico Piercamillo Davigo – quello che fu un intervento di pulizia invocato e applaudito. I quasi due anni tra inizio 1992 e fine 1993 sembrarono momenti liberatori per l’opinione pubblica italiana. A parte alcuni ipergarantisti, presenti quasi esclusivamente tra radicali ed estrema sinistra e comunque del tutto assenti a destra, il sostegno, l’entusiasmo quasi, con cui venivano seguite le varie inchieste testimonia una sorta di movimento collettivo nascosto, adagiato nelle poltrone davanti alla televisione che riportava quotidianamente i bollettini della guerra alla corruzione. E soltanto chi rimaneva rinserrato all’interno della classe dirigente, tremebonda come solo durante il terrorismo e i rapimenti degli anni Settanta, non avvertiva il diffondersi a macchia d’olio del sottile piacere di vedere sfilare i potenti verso il portone del carcere milanese di San Vittore.
In questo sentimento di rivalsa popolar-populista c’è molto di plebeo, di folla da tricoteuse di fronte ai palchi della ghigliottina; e quindi qualcosa di molto italico, cioè di una società civile debole e striminzita che non è stata in grado di trovare spazio e riconoscimento, stretta tra il vecchio establishment dei salotti buoni e dei poteri forti, e i nuovi arrampicatori sociali espressi dalla politica. Al fondo di questo sentimento, che si manifestò anche con cortei spontanei e adunate di fronte ai palazzi di giustizia, in primis a Milano, vi era la rivolta della società civile sconfitta e umiliata. Una rivolta contro l’emarginazione subita per decenni a causa della colonizzazione dello Stato da parte dei partiti politici e della loro pervasività in ogni ganglio della vita pubblica (basti ricordare i famigerati comitati di gestione delle USL, Unità Sanitarie Locali, vertice inarrivabile di occupazione partitica delle strutture pubbliche).
I movimenti sociali del ciclo delle lotte 1968-69 furono un momento di protesta anche nei confronti dei partiti, giudicati vecchi, burocratici, polverosi, incapaci di comprendere, e quindi di dare risposta alle domande dei baby-boomers. Ma, dal momento che i movimenti sociali non si istituzionalizzarono, finirono per perdere vigore senza peraltro riuscire a incidere sui partiti. Mentre ebbero invece un effetto incisivo sui costumi e sulla società.
I partiti che sorsero in quella stagione, la cosiddetta nuova sinistra, furono poca cosa e spesso sembravano ripercorrere atteggiamenti del vecchio Partito comunista italiano (PCI) nella sua intolleranza del dissenso interno. I radicali, spesso considerati anch’essi un prodotto diretto del Sessantotto, avevano invece un’altra storia: venivano da lontano e raccolsero i frutti del cambiamento del costume solo successivamente, con uno scarto temporale di vari anni. In sostanza, il sistema era impermeabile al vento di cambiamento. Le rigidità del sistema partitico, nel suo formato e nelle sue dinamiche, e dei singoli partiti, nella loro strutturazione interna e nella loro relazione con la società civile, non poterono che produrre un distacco dei cittadini verso la politica. Agli inizi degli anni Novanta gli italiani esibirono il più basso livello di gradimento del loro sistema politico di tutta l’Europa comunitaria. Anche l’interesse per la politica crollò, tanto che, tra il 1985 e il 1990, il numero delle persone che si dichiaravano molto o abbastanza interessate si dimezzò; inoltre, nel 1990, coloro i quali se ne interessavano poco erano il 36%, e addirittura il 47% coloro i quali non se ne interessavano per nulla. A questa diffusa sindrome di apatia se ne associò una di esclusione: la stragrande maggioranza (82%) percepiva la politica come qualcosa di lontano ed estraneo, come un’attività condotta da persone che non ‘si curano di quello che pensa uno come me’.
La lontananza dai partiti e la sfiducia nel sistema e nei suoi rappresentanti non si riflettevano però su tutto l’arco delle attività sociali. Nello stesso periodo si stima attorno al 40% la percentuale di cittadini che aderirono a un’associazione di carattere culturale, ricreativo, sindacale, di categoria o religioso: una ‘partecipazione sociale’ di dimensione non indifferente che evidenziava una certa diffusione di aspetti di cultura civica, di coinvolgimento nelle attività associative, di ‘capitale sociale’. In altri termini, la società civile mostrava segni di vitalità che non si tramutarono però in impegno politico.
I partiti, tuttavia, non avevano perso tutti gli ancoraggi: c’era ancora una larga quota di elettorato che riservava una fiducia incondizionata al proprio partito: nel 1990 il 53% si dichiarava disposto a confermargli sempre e comunque il voto sorvolando sugli eventuali errori commessi. Ma questa riserva di fedelissimi si infranse contro l’ondata di Tangentopoli. Di fronte alla gogna mediatica a cui vennero sottoposti, alcuni partiti crollarono. La loro legittimazione di fronte all’opinione pubblica svanì per via del disvelamento delle condotte illecite e corruttive; e allo stesso tempo caddero anche le ragioni dell’appartenenza al partito stesso. I partiti di governo vennero abbandonati in massa da iscritti e militanti perché si azzerarono le risorse materiali con le quali essi venivano, in larga parte, alimentati. I partiti avevano da tempo esaurito quel serbatoio di risorse simboliche, di identificazione forte, calda, emotivamente intensa con le quali mantenere avvinti i propri sostenitori. Anche a causa di un processo di laicizzazione della politica di portata ben più ampia, che coinvolse tutto l’Occidente, e nei confronti del quale ovviamente nessun partito poteva elevare un argine efficace, le formazioni partitiche di ogni colore dovettero sostituire questi fattori identificativi forti e universali con incentivi più concreti, con retribuzioni particolaristiche, e spesso materiali e di status. Gli interventi a favore della vita lavorativa – dal trovare un posto a favorire contatti per sviluppare la propria professione, fino a prebende nelle alte sfere dell’amministrazione e dell’economia pubblica –, l’offerta di candidature, la carriera interna al partito, furono alcuni degli incentivi con cui i partiti attrassero e allettarono iscritti, militanti e quadri. Nel momento in cui si chiusero gli accessi alle risorse esterne, e la percorribilità di quelle interne divenne sempre più aleatoria, i partiti che avevano fondato il loro appeal soprattutto su quelle risorse subirono un terribile contraccolpo.
Non è un caso che la Democrazia cristiana (DC), il maggior responsabile del sistema della corruzione nonostante la grande enfasi posta sul Partito socialista italiano (PSI) craxiano, resistette in qualche modo alla bufera. Mentre il PSI venne schiantato per le denunce di corruttela interna e per le lotte fratricide in cui precipitò (alle elezioni del 1994 arrivò appena al 2,2%), la DC, pur indebolita da molte fuoriuscite, soprattutto quella di Mario Segni e dei suoi Popolari per la riforma, riuscì a rinnovarsi sotto la guida di Mino Martinazzoli – al quale non a caso vennero affidati pieni poteri – e a evitare il tracollo. Il neonato Partito popolare italiano (PPI) di Martinazzoli sorto dalle ceneri della DC, pur non comprendendo la logica bipolare introdotta dal sistema elettorale maggioritario e presentandosi da solo, fuori dalle coalizioni contrapposte nate nel frattempo, raccolse l’11,1% dei voti (più il 4,7% dei Popolari per la riforma di Mario Segni). Certo, le illusioni di una rinascita immediata si infransero, tanto che Martinazzoli si dimise con un fax inviato alla direzione: ma questa reazione ignorava che gli ex democristiani erano comunque a ridosso dei due maggiori partiti. E questo risultato si doveva alla perdurante disponibilità di una riserva motivazionale: nonostante tutto, all’interno del partito alcune componenti rimasero legate in virtù di un convincimento ideale. In altri termini, la DC, trasformandosi nel gennaio 1994 nel PPI, mantenne, anzi recuperò grazie a uno sponsoring neanche tanto velato della Chiesa, un legame forte con i cattolici impegnati nel terzo settore, nel volontariato e nell’associazionismo d’ispirazione religiosa. Ed essi fornirono linfa vitale al partito perché attratti da incentivi di carattere simbolico, identitario e affettivo, mentre rimasero insensibili ad altri incentivi, quelli più materiali.
Ma la resistenza dell’erede diretto della DC venne messa in crisi dalla rinuncia di Martinazzoli. E come se non bastasse arrivarono le divisioni strategiche sulla coalizione da privilegiare, con la candidatura del cattolico Romano Prodi che fece precipitare lo scontro interno. Mentre i partiti della coalizione pentapartito si dissolsero, gli altri, sentendosi immuni dal morbo della corruzione (anche se il Partito democratico della sinistra, PDS, venne attaccato su vari fronti, a cominciare da quello milanese dove molti suoi dirigenti furono inquisiti), cercarono di approfittare della situazione. Altri ancora si profilarono all’orizzonte per sostituire i partiti crollati.
Il sistema partitico dell’era post-Tangentopoli ebbe pochi tratti comuni con quello precedente. Le elezioni del 1994 disegnarono un nuovo mondo politico. Basti pensare che nel 1994 nessuno dei partiti che ottenne rappresentanza parlamentare aveva partecipato con lo stesso nome e lo stesso simbolo alle elezioni del 1987. Erano tutti nuovi, o comunque diversi, alcuni mutati in profondità altri imbellettati con un superficiale maquillage. Anche in relazione alle elezioni precedenti, quelle del 1992, appena due anni prima solo Lega, Partito democratico della sinistra, Rifondazione comunista e Verdi si erano presentati all’elettorato con lo stesso simbolo e lo stesso nome. Cambiamenti di questa portata nell’offerta politica produssero la più alta volatilità elettorale della Repubblica (e una delle più alte nella storia delle democrazie europee dopo il 1945) con il 38% minimo di persone che cambiarono voto tra 1992 e 1994.
Tale rimescolamento delle identità partitiche discese in linea diretta dall’insofferenza per la vecchia offerta politica e, corrispettivamente, dal desiderio di novità. Ma si può dire che l’opinione pubblica fu soddisfatta dell’ecatombe dei vecchi partiti, e che la sua indignazione per la politica partitica (mal)interpretata fino ad allora dai partiti dell’arco costituzionale venne placata? Si può sostenere che dal 1994 inizi un periodo di armonioso rapporto tra cittadini e partiti? E che, di conseguenza, quell’antica, radicata insoddisfazione verso la politica e i partiti venne accantonata? In realtà, niente ci autorizza a dirlo.
Gli indicatori empirici della sfiducia e del distacco dalla politica erano tutti lì a dimostrare che il recupero era stato minimo. Certo, rispetto al precipizio del 1992, qualche punto fu guadagnato, ma non più di tanto. Il fatto è che sia i nuovi partiti, sia quelli rinnovati fecero assai poco per invertire la rotta. Analizziamo la situazione in dettaglio.
Forza Italia e Lega Nord
In principio fu Forza Italia: non si può che alludere così alla ‘creazione’ del partito nuovo per antonomasia, un vero alieno della politica non solo italiana ma europea. Alieno soprattutto per le caratteristiche del fondatore. Non tanto perché un magnate si fosse buttato nell’agone politico. Come si è detto in apertura, la partecipazione di R. Perot alle presidenziali americane del 1992 costituì l’esempio più clamoroso, per il dispendio di risorse finanziarie investite, di una candidatura personale. Ma Perot non pensò mai di costituire un partito. D’altro lato, i vari Rockefeller che tentarono l’avventura politica rimasero nell’alveo di un partito preesistente. E gli altri casi riguardano effimeri e minoritari flash parties nati e morti nello spazio di un mattino dopo una vita di stenti. Nel caso di Silvio Berlusconi si ebbe invece la formazione ex nihilo di un partito incardinato sulla struttura aziendale del fondatore e sull’accesso diretto ai canali comunicativi. L’immensa disponibilità finanziaria di Berlusconi varrebbe nulla senza la combinazione di queste due altre risorse: quella comunicativa, su cui si è appuntata tanta attenzione, ma anche e soprattutto quella logistica, di personale potenzialmente attivabile, distribuito su tutto il territorio nazionale. Non per nulla la presenza di dipendenti del gruppo Fininvest nelle strutture locali del partito e tra gli eletti è molto diffusa e raggiunge percentuali sempre più elevate quanto più si sale nella scala gerarchica.
La nascita di Forza Italia, proprio per le sue modalità così eccentriche, lanciò una sfida rispetto ai partiti tradizionali. Implicitamente tale nascita diceva all’opinione pubblica che non c’era bisogno di quei rituali fatti di congressi, di mozioni, di sedi e di iscritti: bastava riconoscersi e avere fiducia in un leader, tanto più se questi era ‘nuovo’, estraneo fino a ieri alla politica. Insomma, la nascita stessa di Forza Italia ebbe un carattere ontologicamente antipartito. L’abbandono di ogni modello organizzativo consolidato, eliminando la figura dell’iscritto (fino alla fine del 1997 non era infatti previsto il tesseramento) e svuotando le strutture interne di qualsiasi funzione, tutte assunte dal presidente del partito – nominato tale con atto notarile dall’associazione che presiede alla costituzione di Forza Italia –, rafforzava il connotato antipartitico del progetto berlusconiano.
Nel contesto del discredito generale della politica, seguito a Tangentopoli, dell’invocazione quasi decennale di una società civile che riprendesse in mano i destini del Paese, e dell’idealizzazione della figura faber dell’imprenditore, in questo contesto politico-culturale la ‘non-organizzazione non-partitica’ di Forza Italia ebbe un suo appeal. Si parlò in quel frangente di partito leggero, contrapponendolo alla pesantezza dei partiti tradizionali. Si esaltò l’assenza di tesseramenti e sezioni, vecchi rituali della politica otto-novecentesca, enfatizzando il rapporto diretto tra il cittadino e il leader, senza filtri e mediazioni oligarchiche. Si plaudì a un parlare schietto, spesso al limite dell’offensivo, lontano dai gergalismi del politichese. Si ammirò lo stagliarsi di una leadership autonoma e indiscussa, svincolata dagli impacci di correnti e fazioni, di aspiranti leader e militanti inquieti. Tutto questo portò all’esaltazione di un modello di partito e di leadership confliggente in ogni suo aspetto con la tradizione della politica partitica nazionale. Proprio per questa sua carica iconoclasta dei vecchi idola Forza Italia venne (e continua a essere) premiata dagli elettori, forse anche al di là dei contenuti politico-ideologici e dei programmi.
L’elettorato della fine degli anni Novanta si riconobbe quindi in un’offerta radicalmente diversa da tutte le altre. Le parole d’ordine berlusconiane furono certo suadenti, ma ad attrarre ancora di più fu quell’aura antipartitica che promanava da chi si dichiarava homo novus e aveva in dispetto quello che chiamava, attraverso una immagine di indubbia efficacia, il ‘teatrino della politica’.
Come in tutti i partiti con un penchant populista, anche Forza Italia, nonostante l’aura aziendal-efficientista da organizzazione moderna, è una grande macchina di produzione di immagini, una fucina di ‘proiezioni’ con le quali coinvolgere e catturare l’elettorato. La prima di queste punta all’identificazione con il leader attraverso la creazione mitica del suo percorso personale (per es., la biografia in fotocolor inviata a tutti gli italiani nel 2001, intitolata Una storia italiana) nonché la proposizione di una personalità proteiforme, arrivata fino a incarnarsi nella figura del ‘presidente operaio’ secondo quanto suggerivano i cartelloni pubblicitari per le elezioni del 2001 (una delle più indovinate campagne pubblicitarie in assoluto viste in Italia). La seconda proiezione punta all’identificazione e demonizzazione del nemico, tacciato con l’epiteto infamante più evocativo (e credibile) a disposizione: da comunista a statalista, da filoterrorista ad antitaliano e così via. La terza punta alto, a creare il sogno; fa entrare nel regno dell’utopia, dove si realizzano le speranze e le aspirazioni di ciascuno. E se per caso o sfortuna i sogni svaniscono, la colpa è di altri, dei nemici. Poiché il risveglio da una speranza delusa è dolorosissimo e indirizza un’enorme carica aggressiva sul responsabile di questo impietoso disvelamento della realtà, basta trovare un colpevole e il gioco è fatto: sollecitazione di speranze e sogni per affascinare, identificazione del creatore di tali speranze e, allo stesso tempo, individuazione del nemico sul quale riversare la frustrazione del sogno infranto. Il circolo della identificazione-demonizzazione è così chiuso. Questi meccanismi elementari della psicologia sono sempre stati usati dai movimenti politici. La differenza sta nel rigore con cui sono applicati, dopo averne testato l’efficacia grazie ai moderni metodi di verifica empirica (soprattutto con l’utilizzo estensivo di focus group). È proprio il livello di professionismo politico raggiunto da Forza Italia a marcare la distanza con tutti gli altri. Nulla è lasciato al caso; tutto è pensato, discusso, verificato e applicato attraverso una catena del comando tipicamente aziendalista.
Date queste premesse si potrebbe arguire che ben pochi potessero essere attratti da un tal tipo di partito, verticistico e personalistico. E invece la sua capacità di seduzione fu inversamente proporzionale alle possibilità di partecipare, di intervenire nel decision making, di contare, insomma. Nonostante l’assenza di strutture periferiche dove fare politica – le strutture di socializzazione e mobilitazione dei simpatizzanti erano infatti altrove, nei ‘club Forza Italia’, organizzazioni parallele che non avevano nessun contatto formale con il partito – non appena si aprì il reclutamento l’afflusso fu impetuoso e si superarono rapidamente i centomila iscritti. La membership in Forza Italia non assunse però le fattezze tipiche dei partiti tradizionali e non la si può quindi analizzare con lo stesso metro di giudizio. Mentre gli iscritti nei partiti tradizionali vogliono essere tenuti in conto e poter decidere sulle cariche interne, sui candidati alle elezioni e sulla linea politica – come è sempre stato da quando esistono i partiti –, in Forza Italia, così come in altri partiti carismatici, tutto ciò sfuma, svapora. Gli iscritti testimoniano sì l’adesione a un progetto, ma ancor di più a un leader; ma si fermano qui. L’identificazione con il leader satura il desiderio di partecipazione e coinvolgimento. Basta questo per soddisfare lo stimolo politico dei militanti di Forza Italia. In realtà le categorie standard adottate per analizzare il rapporto iscritti-dirigenti nei partiti contemporanei non valgono nel caso di una formazione dai tratti carismatici.
Peraltro, in alcune occasioni gli iscritti ‘azzurri’ dimostrarono altrettanta capacità di mobilitazione degli altri partiti. Magari in forme diverse e più episodicamente, ma sia in classiche manifestazioni di piazza (quelle dell’autunno 1997 e di dieci anni dopo contro le rispettive finanziarie dei governi Prodi sono l’esempio migliore), sia in raduni stile convention, non mancarono né l’adesione massiccia né l’entusiasmo. Lo stesso ‘referendum pubblico’ indetto per la scelta del nome del futuro partito comune tra Forza Italia e Alleanza nazionale, organizzato in gazebo improvvisati in tutta Italia a fine 2007, al di là delle cifre reclamizzate, coinvolse comunque molte migliaia di persone per l’organizzazione e molte centinaia di migliaia quanto alle adesioni.
Le improvvide definizioni di partito di plastica attribuite a Forza Italia nei primi anni non tenevano conto di un approccio alla politica radicalmente diverso offerto dal partito di Berlusconi. Forza Italia è l’unica formazione politica assolutamente inedita, sia sul piano organizzativo sia su quello progettuale, del sistema partitico dopo il 1994, in quanto tutti gli altri partiti o erano già nati, seppure da pochi anni, o erano il prodotto di trasformazioni più o meno radicali da ceppi preesistenti. Si potrà ironizzare sulla ‘discesa in campo’, sul ‘calice amaro’, sull’‘unto del Signore’, sul ‘mi consenta’ dei primi passi berlusconiani, ma tutto questo ha avuto anche una carica dirompente rispetto ai tradizionali, e consunti, stilemi della politica partitica.
La Lega invece, considerata, a giusto titolo, un altro partito nuovo perché nata da ispirazioni e aspirazioni mai politicizzate in precedenza e cresciuta esponenzialmente in pochi anni (benché già forte alle elezioni regionali del 1990 in cui, come ricordato, raggiunse il 18,9% in Lombardia), in realtà si è strutturata come il più tradizionale dei partiti di massa. Pur stimolando molto più vocalmente di tutti gli altri pulsioni antipolitiche e antipartitiche, anzi solitaria nel suo stile ruvido e gridato, in effetti ripiega su formule organizzative e principi ispiratori tipici del vecchio mass party: sezioni territoriali capillarmente diffuse anche nel più sperduto paesino, mobilitazione 24 ore su 24 degli iscritti, adesione fideistica e assoluta al partito, lealtà e dedizione alla causa (e alla sua guida). Il rapporto del Carroccio con la politica si rivela quindi ambivalente. Da un lato è identificato come il partito del malessere del Nord: un partito che interpreta le insoddisfazioni della società civile produttiva e laboriosa delle regioni settentrionali. Battendo il tasto dell’inefficienza e della corruttela, della rapacità e dello spreco, e additando in ‘Roma ladrona’ l’epicentro del vizio, la Lega veicola un fortissimo messaggio delegittimante nei confronti della classe politica nazionale. L’estraneità anche fisica rispetto al mondo politico della capitale consente quindi alla Lega di proporsi come un partito ‘antipartito’. Inserendosi nella migliore tradizione italiana di partecipare al gioco stando con un piede fuori, il Carroccio marca continuamente la sua alterità al sistema rivendicando una purezza e un’estraneità assolute alla ‘Babilonia capitolina’. Al suo successo contribuisce questa sua capacità di sgravare Milano (vale a dire il Nord) della responsabilità di essere stata il cuore della corruzione nazionale, riuscendo così ad addebitare alla Capitale tutti i peccati. Questa eccezionale manovra diversiva ha portato i suoi frutti: ha mondato di ogni senso di colpa gli elettori nordisti e ha reindirizzato la protesta verso il tradizionale target dell’ostilità antipolitica: Roma.
Dall’altro lato la Lega non si pone solo come rappresentante della parte sana dell’Italia produttiva, ma anche come il referente di settori spaventati e minacciati dalla globalizzazione – cioè dalla concorrenza internazionale, avvertita soprattutto dalle piccole industrie a bassa intensità di capitale –, dall’immigrazione e dall’apertura culturale al mondo. L’antipolitica leghista non è soltanto un efficace messaggio promozionale verso un elettorato composito e variegato, tanto composito e variegato che per molto tempo la Lega è sfuggita a una collocazione precisa sull’asse destra-sinistra proprio perché raccoglie consensi lungo tutto lo spettro politico: è anche un fattore di costruzione di una identità politica. Vale a dire, l’estraneità al resto del mondo vantata dal Carroccio diventa uno scudo protettivo contro l’esterno, un vallo di difesa da quello che c’è fuori, descritto appunto nei termini più inquietanti. Da qui l’invenzione di una tradizione al fine di costruire una appartenenza e cementare il popolo leghista. La cultura ‘verde’, con le sue colorite manifestazioni e iniziative, nasce come risposta all’incompatibilità nei confronti del mondo esterno. La continua riproposizione della dicotomia noi/loro, tipica del discorso populista, ha una precisa funzione: serve soprattutto per rafforzare il ‘noi’, attraverso la demonizzazione del ‘loro’. In questo percorso emergono anche accezioni diverse tra la componente veneta, che può a giusto titolo vantare una storia culturale secolare, anche alta, e che punta al recupero del proprio passato, e quella lombarda tutta proiettata alla ricerca di tradizioni autoctone.
La logica identitaria si connette perfettamente con la filosofia organizzativa old style del partito. Nel momento in cui esso vuole creare una comunità non può certo rivolgersi al suo potenziale uditorio dagli schermi televisivi: deve recuperare l’interazione personale, il rapporto faccia a faccia, la definizione e demarcazione di un territorio proprio, luoghi e simboli comuni. Il radicamento territoriale, peraltro ovvio per un partito regionalista, è quindi funzionale allo sviluppo tanto della militanza quanto di una comunità dai contorni ben marcati. E l’una e l’altra sono attivate dal rifiuto della politica dei partiti tradizionali e ‘romani’. Il messaggio antipolitico della Lega è perfettamente funzionale sia alla definizione – e al rafforzamento – della sua identità, sia all’estrazione di risorse militanti, perché è la contrapposizione, è l’essere contro, che accende la scintilla dell’adesione. Poi viene l’invenzione (o il recupero, nel caso veneto) della tradizione e la creazione della comunità ‘verde’.
Il partito di Umberto Bossi trova sì una sponda in Forza Italia nella sua denuncia delle malefatte della politica romana, ma solo a corrente alternata. Forza Italia, infatti, sia per la sua diffusione nazionale sia per le sue diverse responsabilità politiche e amministrative, non può seguire il furore leghista fino in fondo. Pur vibrando all’unisono con il Carroccio nelle sue più intime corde, Forza Italia si trattiene dallo scatenarsi contro il sistema, visto che ne fa ormai parte. E comunque riesce sempre a contenere senza danni le fughe in avanti secessioniste dei leghisti.
La comparsa di Forza Italia e quella della Lega non solo sono riuscite a introdurre nuove modalità organizzative presidenzial-carismatiche, nuove tematiche e nuovi stili politici: ha anche legittimato un discorso antipolitico e populista con una stupefacente inversione di ruoli. I protagonisti di tale discorso, infatti, sono tutt’altro che periferici e marginali, né rappresentano i settori più arretrati della società italiana. Per la prima volta l’antipolitica non promana né dalle plebi meridionali né dalle rabbie degli esclusi, bensì dal cuore economico della nazione.
Postcomunisti e postfascisti
La diffidenza e lontananza dalla politica hanno attraversato la storia italiana emergendo periodicamente con sbuffi di protesta sempre contenuti e delimitati. Ma con il 1994 si è rotta l’armatura che ingabbiava queste spinte. I movimenti del ciclo della protesta operaia e studentesca e della stagione di diritti civili si sono rivelati sfoghi fisiologici. Troppo minoritari o di nicchia e soprattutto senza interpreti politici di massa: la rappresentanza partitica tradizionale reggeva, aveva la forza per digerire quelle effervescenze. Solo il cataclisma di Mani pulite ha messo in moto attori inediti, che grazie alla loro estraneità hanno potuto esprimere il sottofondo antipolitico da cui essi provenivano e del quale si sono nutriti con abbondanza e con efficacia.
Per quei partiti che invece avevano testa e piedi nel sistema partitico postbellico era quasi impossibile adattarsi e interpretare lo spirito antipolitico dei tempi. Per forza d’inerzia, per tradizione, ma anche per cultura politica, i partiti eredi delle correnti politiche dominanti nel primo cinquantennio repubblicano continuano a rapportarsi in maniera tradizionale nei confronti della politica. In realtà, i percorsi di postdemocristiani, postcomunisti e postfascisti sono stati assai diversi, sia per il rapporto con il sistema negli anni precedenti al 1994, sia per le modalità di adeguamento al nuovo assetto dopo il 1994. Per es., benché il PCI e il Movimento sociale italiano (MSI) si collocassero sullo stesso versante antisistemico, essi si situavano ai poli opposti del continuum destra-sinistra. Al di là della rivendicata partecipazione del PCI alla redazione della Carta costituzionale e alla difesa delle istituzioni nel periodo più acuto dell’assalto terroristico, il partito ha veicolato fin quasi sulla soglia del crollo del muro di Berlino una visione del mondo antitetica alla democrazia liberal-capitalista e altresì ben lontana da quella socialdemocratica così come proposta dalla SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) dopo la svolta riformista decisa al congresso di Bad Godesberg (1959). Incapace di fare una sua Bad Godesberg prima che gliela imponessero gli eventi esterni del 1989, il PCI si è cullato a lungo sia in un senso di superiorità rispetto al ‘fallimento delle socialdemocrazie’, refrain del discorso comunista degli anni Ottanta, sia nella individuazione di una ‘terza via’ (third way), senza peraltro avere un Anthony Giddens che potesse indicarla.
L’epoca berlingueriana-nattiana nel decennio susseguente alla fine del compromesso storico ha messo in stand-by il partito: ne ha bloccato lo sviluppo impigliandolo in mille sterili dibattiti di nicchia, lontani dalle argomentazioni delle socialdemocrazie europee, e rimuovendo il ‘convitato di pietra’ moscovita (o perdendosi in dispute sulla ‘riformabilità’ gorbacioviana del sistema comunista). Allo stesso tempo, paradossalmente, lo ha anche messo nelle condizioni migliori per poter accettare il cambiamento dopo il crollo del muro di Berlino: vale a dire, pur di liberarsi da quell’impantanamento esiziale andava bene tutto, anche rovesciare la ‘vecchia casa’. Soprattutto tra i quadri e i dirigenti locali fu tale il senso di soffocamento provocato da quella prolungata stagnazione politico-ideologica che la proposta del nuovo partito lanciata da Achille Occhetto alla Bolognina (nov. 1989) venne accettata coralmente.
Con la nascita del Partito democratico della sinistra (PDS) nel gennaio 1991 iniziò un’acquisizione cosciente e una lenta ma profonda metabolizzazione dei valori fondanti del sistema. Grazie a questo processo il partito rivide con lenti diverse tutto il periodo precedente facendo quindi suoi anche tanti aspetti del sistema democristiano, un tempo ferocemente combattuto. Questa rivisitazione consentì al PDS di porsi come un partito difensore in toto della tradizione politica repubblicana e di rimanere insensibile al richiamo nuovista dei partiti nati negli anni Novanta. Paradossalmente, il più grande partito antisistema della prima Repubblica venne percepito, e additato, come baluardo della vecchia politica. E in effetti il rapporto del PDS, dal 1998 Democratici di sinistra (DS), con la politica era in linea di continuità con l’approccio razionale e riflessivo elaborato dalla cultura comunista a partire dagli anni Ottanta. Di fronte al cataclisma del 1994 il PDS scoprì infatti più tratti in comune con gli eredi delle altre tradizioni politiche che non con i nuovi attori (Forza Italia e Lega).
In realtà, anche il PDS-DS cercò un ammodernamento interno, in linea con le spinte innovatrici provenienti dall’ambiente esterno. Solo che cadeva in un eccesso di trasformazioni: su un corpo già squassato dal grande cambiamento del 1989-1991 con il passaggio da PCI a PDS, oltre alla metamorfosi da PDS a DS (rivelatasi alla fine poco più di un cambio di nome e un’irrilevante immissione di ceto politico negli organi dirigenti) vennero inflitte continue sperimentazioni. Passando attraverso sezioni tematiche al posto delle tradizionali sezioni territoriali, elezioni dirette poi indirette e poi di nuovo dirette della leadership, organismi centrali cangianti ed elastici nelle loro composizioni e dimensioni, introduzione di staff del leader, e una personalizzazione vertiginosa della leadership, il PDS-DS offrì un’organizzazione certo più aperta e fluida, più member-friendly del vecchio PCI. Ma non per questo rivitalizzò le adesioni: gli iscritti fluttuavano, con una tendenza alla contrazione, le sezioni si svuotavano e alcune chiudevano.
Il senso di crisi e di depressione che serpeggiava nel partito e che echeggiava nella comunicazione del e sul partito, non fu però congruente con il vissuto dei militanti: come dimostra la ricerca sugli iscritti diessini effettuata nel 2003 da Rosa Mulé (Dentro i DS) tra di essi non prevalevano sentimenti di disaffezione e scontentezza, anzi si rintracciavano segni di apprezzamento per il tasso di democrazia interna al partito e per il ruolo riconosciuto loro. Contrariamente alla maggior parte delle ricerche analoghe compiute sui partiti europei, i diessini esprimevano valori elevati nel tasso di partecipazione interna e nel grado di soddisfazione per la vita di partito e per la qualità della democrazia interna. E se in questo quadro si prende in considerazione il profilo degli elettori diessini, tendenzialmente più informati, interessati e attivi della media, abbiamo qui un serbatoio di ‘energie positive’ nei confronti del sistema politico e della politica tout-court. In sostanza, sia per vischiosità derivata dalle passate militanze, sia per l’acquisizione di riferimenti valoriali pro sistema nel periodo postcomunista nonché per opportunità di partecipazione diverse – o altrimenti detto per un ambiente maggiormente aperto e rispondente, come evidenziato dalla ricerca sopra citata –, il mondo pidiessino-diessino esprimeva un rapporto con la politica alquanto positivo e, pur non potendo fare una comparazione rigorosa, tendenzialmente più positivo di altri.
Un processo simile, solo a tratti, a quello compiuto dal PCI è stato attribuito all’MSI. A partire dal 1960, momento in cui il Movimento sociale venne rigidamente escluso dal perimetro della politica ufficiale (negli anni Cinquanta il clima era ben diverso), il partito della fiamma ha rinvigorito la sua originaria identità antisistemica. Per quarant’anni questa componente, i cui esponenti sono stati acutamente definiti come esuli in patria, si è autoalimentata di miti, leggende, rivisitazioni storiche, interpretazioni del mondo, tutte legate al fascismo. E di conseguenza si è posta in radicale contrapposizione con il sistema politico tout-court e con gli altri partiti antifascisti. Solo con la deradicalizzazione del conflitto politico e la storicizzazione del fascismo avviata a metà degli anni Ottanta, la ghettizzazione del partito si iniziò ad allentare, fino a scomparire del tutto nelle elezioni per il sindaco di Roma e di Napoli (nov. 1993). E anche il rapporto con il sistema politico e partitico poté cambiare di segno. Da componente minoritaria, antisistemica e antipartitica, grazie al crollo della prima Repubblica il Movimento sociale italiano diventò un partito ‘coalizionabile’, ‘governamentabile’. Proprio la sua estraneità al sistema nei decenni precedenti divenne titolo di merito, con conseguenti benefici politico-elettorali. Essendo ‘rinato alla politica’ grazie alla mutazione da Movimento sociale ad Alleanza nazionale (AN), il postfascismo ha poi assunto su di sé l’onere di rappresentare in forma compiuta il nuovo sistema emerso dopo il 1994: sono stati abbandonati i toni antipolitici e antipartitici e avviata una conversione pro sistema con atteggiamenti addirittura calmieranti e maieutici nei confronti dei compagni di strada novizi, Forza Italia e Lega.
Infine, rimane l’ultima componente ribelle della politica italiana, la sinistra radicale nelle sue varie componenti, da quelle comuniste a quelle ecologiste e libertarie. Per quanto assai diverse per ispirazioni e riferimenti, entrambe hanno agito negli ultimi anni come voci critiche del mainstream politico. Rifondazione comunista, benché attraversata da trotzkisti e quarto-internazionalisti, da sindacalisti arrabbiati e studenti protestatari, si ritrovò compatta nel denunciare una politica che non rispondeva più alle domande dei cittadini, che non offriva quelle occasioni di partecipazione e di mobilitazione intensa, che non suscitava più speranze. Nel discorso spesso a tinte utopiche del suo leader storico, Fausto Bertinotti (dal 1994 al 2006), si è prospettato un altrove della politica, dove esistono spazi di eguaglianza e rispondenza non attingibili qui e ora. In questo slancio oltre la (misera) realtà, la critica si affievolisce: non risuonano i toni rancorosi dell’antipolitica populista della destra bensì quelli palingenetici della ‘buona politica’. Rifondazione, così come Verdi e Radicali, non si pone il problema di ‘questo sistema’ perché aspira ad altro, e non viene quindi nemmeno toccata da quel senso di frustrazione che l’alienazione politica di tanta parte della destra, invece, produce in grande quantità per i propri seguaci.
In conclusione, alla fine del primo decennio del nuovo secolo il sistema politico italiano si trova nella peculiare condizione di essere insidiato dall’antipolitica dei nuovi attori partitici nati dopo il 1994, e difeso da quelli più vecchi. La difesa però è spesso poco convinta, parziale e tutto sommato neghittosa. Perché le virtù della politica, quelle che i populisti invocano invano, benché giustamente – onestà, responsabilità, efficienza e così via – vengono soffocate dai vizi. E quindi la disaffezione, il distacco, il cinismo e persino l’alienazione prendono piede con un atteggiamento negativo verso la politica. E può prendere direzioni impreviste, con interpreti nuovi. I clamorosi successi di un pamphlet come quello di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La casta (2007), o di un blog, con relative manifestazioni di piazza, come quello animato dal comico Beppe Grillo, sono due delle tante possibili espressioni di un sentimento profondo, alimentato da una democrazia astenica, non sorretta né da una cultura politica congrua, né da attori politico-istituzionali solidamente pro sistema.
Bibliografia
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