La critica cinematografica
Il cinema, sin dalla sua nascita, ha sempre prodotto discorsi. La sua apparizione, la sua trasformazione e la sua penetrazione all’interno della coscienza e dell’immaginario di generazioni e generazioni di spettatori lungo l’arco del 20° sec. sono state sempre accompagnate da una pratica critica, anzitutto da una pratica di scrittura. Il tentativo costante è stato quello di riempire quello spazio di senso che si apre di fronte a ogni visione, a ogni nuovo film, rinnovandosi nelle forme e nelle metodologie. La critica cinematografica è stata, nel corso della sua storia, un luogo dai contorni disciplinari mai definiti una volta per tutte, in cui i saperi e le tecniche di lettura, le analisi e le interpretazioni dei film si sono ibridati tra loro in forme diverse, dando vita, volta per volta, a scuole e correnti, a modalità di lettura e di analisi che hanno contribuito allo sviluppo e alla costruzione di una pluralità di teorie sul cinema e a partire dal cinema. La mancanza di confini disciplinari definiti può far pensare che la critica cinematografica sia una sorta di genere minore della letteratura, genere parassitario e privo di un suo statuto disciplinare. Tuttavia, come afferma Claudio Bisoni: «Nel dire che la critica cinematografica non ha i confini e la stabilità di una disciplina, si sottolinea il fatto che essa è una formazione discorsiva che funziona come un sistema di dispersione di saperi differenti. La critica si ritaglia uno spazio nelle pratiche culturali, si lascia influenzare da differenti forme di sapere, accoglie e riutilizza svariate informazioni. È una zona di passaggio dei saperi più diversi» (2006, p. 6).
Proprio questa autonomia di forme e linguaggi, questa apertura ai saperi più disparati hanno costituito, in fondo, la particolarità della scrittura critica, sia quella specializzata, diffusa nelle riviste di settore e caratterizzata da un maggiore livello di approfondimento, sia quella presente negli organi a stampa come quotidiani o settimanali. Entrambe le tipologie si basano comunque sulla centralità della scrittura come ‘luogo’ privilegiato della critica, forma espressiva che ne ha costituito l’esito naturale. Ma, se è vero che la critica cinematografica si è sviluppata sostanzialmente come una forma di scrittura peculiare e autonoma, è anche vero che nello scenario che si è aperto attualmente essa sta vivendo (come d’altronde, anche se in modi diversi, tutte le pratiche discorsive e l’organizzazione dei saperi così come si sono configurate nel corso del 20° sec.) una fase di profondo cambiamento, le cui origini risalgono agli ultimi decenni del secolo passato. Proprio analizzando brevemente i fattori che caratterizzano questo processo, sarà possibile iniziare a disegnare lo scenario contemporaneo, individuando le linee di mutamento e di sviluppo di tale pratica, attraverso le forme e i luoghi della sua scrittura.
In linea generale, la trasformazione della critica si configura prima di tutto come una delegittimazione culturale ed economica, segno anche di una crisi strettamente legata a quella del discorso teorico sul cinema. Delegittimazione che ha avuto inizio anzitutto nell’ambito della critica quotidianista nell’ultimo quarto del secolo scorso, e che ha visto ridursi progressivamente lo spazio dedicato alla recensione e all’articolo critico sui principali quotidiani e sulle testate di informazione politica e culturale. Lo spazio dedicato al cinema, che era inizialmente un momento d’informazione, si è infatti trasformato in occasione di promozione e intrattenimento: l’articolo di ‘costume’ ha preso il posto della recensione; le pagine dedicate alla critica cinematografica sono diventate in parte pagine di marketing e pubblicità per il film stesso.
Il ridimensionamento del valore del discorso critico è testimoniato anche dal fatto che negli ultimi anni l’editoria dedicata al cinema ha subito – in Italia come nel resto del mondo – una flessione. Le riviste specializzate, che per decenni hanno costituito il terreno dove si sono combattute le battaglie critiche legate ai movimenti teorici o poetici delle avanguardie o del cinema moderno, hanno visto calare le vendite negli ultimi trent’anni. In Italia, molte riviste storiche hanno cessato le pubblicazioni (come «Cinema nuovo» nel 1992, dopo quarant’anni di esistenza) o hanno più volte cambiato veste grafica, editore e struttura editoriale, nel tentativo di reagire alla crisi incombente (come, per es., il mensile «Duel», nato nel 1993 – dal 2003 «Duellanti» –, e «FilmTV», fondato nel 1992, settimanale che si propone come incrocio originale tra rivista d’informazione cinematografico-televisiva e rivista di critica).
La crisi della critica ‘specializzata’, cioè nata e sviluppatasi all’interno dei suoi luoghi ‘storici’, come la rivista o il cineclub, si è delineata e quindi si è aggravata in parallelo a un profondo mutamento nelle forme della fruizione del cinema e delle sue immagini. La sala cinematografica e il cineclub hanno perso ormai da tempo la loro funzione centrale di diffusione del mito e dei rituali del cinema; i festival cinematografici hanno profondamente mutato il loro ruolo e i loro spazi di diffusione delle nuove proposte di stili, linguaggi e correnti. La moltiplicazione dell’offerta cinematografica in televisione, attraverso home video, DVD e tutti i nuovi supporti e formati di decodifica digitale dell’immagine, ha contribuito alla nascita di un nuovo consumatore di cinema, il cui luogo di aggregazione e di costruzione di una coscienza critica si sposta dalle pagine delle riviste e dai cineclub agli schermi casalinghi e individuali e alle pagine web dei forum, dei blog e dei siti dedicati all’informazione e alla discussione. In questi nuovi contesti si sta facendo progressivamente strada una sorta di ‘neocritica’, diffusa e non professionale, che si rivela sempre più capace di rinnovare (in forme qualitativamente diverse) quella comunità volta alla valutazione critica del cinema che ha sempre accompagnato la sua storia: «Con i blog si assiste a una ripresa di forme discorsive in parte accantonate, come per esempio la polemica, il dibattito tra voci contrastanti, la conversazione. In rete si ricrea quell’effetto di comunità, di discorso condiviso e di attivazione di una memoria sociale [...]. Nella logica del blog, l’estetica del gusto non fa più parte di un’estetica politica» (Bisoni 2006, p. 54).
Oltre allo spostamento dei luoghi e delle forme del discorso critico (tutti elementi che verranno analizzati più avanti), lo scenario contemporaneo che si sviluppa attraverso i new media si caratterizza anche per una moltiplicazione dei paradigmi interpretativi (non esistono tanto conflitti riconoscibili tra ‘scuole’, tra modelli teorici differenti e articolati al loro interno, quanto una diffusione capillare di forme ibride, insieme di soggettivismo del gusto e recupero di vari modelli teorici); nonché per l’attenzione che la nuova cinefilia dedica alle forme apparentemente ‘marginali’ di cinema, agli autori dimenticati o poco considerati nella storiografia tradizionale, ai generi e alla produzione meno trattata dall’accademia istituzionale.
La riduzione dello spazio critico a favore dell’informazione e del marketing relativo al ‘prodotto’ cinema, la crisi delle riviste di settore, la diffusione di una ‘neocinefilia’ legata a nuove modalità di consumo, diffusione e condivisione della cultura cinematografica sono solo alcuni degli elementi ‘esterni’ che caratterizzano il mutamento dello scenario all’interno del quale si muove la critica. Da un’altra prospettiva, che potremmo definire ‘interna’, il mutamento delle forme e del ruolo della critica cinematografica degli ultimi anni può essere visto come il segno di una profonda crisi strutturale di questo tipo di discorso, che sembra aver perso in larga parte la sua legittimità di contributo produttivo e necessario.
Nelle analisi di alcuni studiosi, italiani e stranieri – nonché nelle riflessioni di molti critici professionisti, chiamati a riflettere sul senso del loro lavoro nella contemporaneità –, la trasformazione in atto deve essere vista anzitutto come un esaurimento della funzione appunto ‘critica’, cioè di quell’operazione capace di individuare le tendenze attuali dell’immagine cinematografica e postcinematografica, di sottolinearne gli elementi teorici, di intraprendere un percorso di ricerca basato volta per volta su un rapporto con quegli oggetti particolari che sono i film. Il discorso critico, infatti, si è sviluppato nel corso del tempo grazie alla sua capacità di rinnovarsi, di individuare, analizzare e trasformare in un discorso teorico le mutazioni estetiche, politiche e linguistiche del cinema e delle sue forme. Si tratta di comprendere allora se nel panorama attuale questa funzione rimane attiva o se si è, in un certo qual modo, interrotta, condannando il discorso critico a ripetere strutture retoriche e forme dell’argomentazione che di fatto rischiano di trasformare in routine le varie letture, svuotandole della forza teorica che dovrebbe sostenerle – come afferma, per es., David Bordwell, che di fatto mette in questione il rapporto tra discorso critico e ricerca teorica: «Nonostante le recenti elaborazioni di termini come ‘istituzione’ e ‘discorso’ richiedano che i critici abbiano coscienza dei propri presupposti teorici e lancino attacchi severi nei confronti delle vecchie tradizioni critiche, in realtà un insieme di pratiche rimane quasi totalmente dato per scontato» (1989, p. XI). Le analisi elaborate da Bordwell in uno dei pochi testi dedicati al problema teorico della critica cinematografica si riflettono in quelle di uno dei rappresentanti più importanti della giovane critica italiana, Alberto Pezzotta, che in un suo saggio dedicato proprio agli sviluppi attuali di questo discorso, sottolinea i rischi (gli «usi impropri» come li definisce l’autore) della sclerotizzazione dell’analisi in formule e modelli interpretativi ricorrenti: il concetto di ‘autore’ utilizzato in modo schematico e non ragionato; l’autoreferenzialità dei discorsi che rischiano di circolare soltanto all’interno della ristretta comunità dei critici; la ripetizione di formule analitiche e interpretative che risalgono ormai alla formazione della critica moderna negli anni Cinquanta e Sessanta. Tutto ciò finisce per negare alla critica la sua funzione positiva, di luogo di produzione di saperi relativi all’immagine e al suo rapporto con la vita e con l’immaginario degli spettatori, La critica cinematografica (2007).
Una mappa dei saperi critici
In questo scenario, in cui la mutazione del ruolo e della forma stessa del discorso critico è un fenomeno complesso, legato, come si è visto, sia a cause esterne sia a cause interne, diventa necessario costruire una mappa all’interno della quale evidenziare le linee di sviluppo odierno di questo discorso, a partire dai luoghi in cui si svolge il dibattito della critica specializzata, ossia connessa tradizionalmente all’evoluzione della teoria. In questi ambiti l’analisi del film esula (o dovrebbe esulare) dalla promozione e dalla presentazione ‘pubblicitaria’ del film stesso, e diventa (o dovrebbe diventare) il laboratorio di un pensiero critico, vale a dire di un pensiero che tenta, ogni volta, di fare del film o del prodotto audiovisivo un momento particolare di un processo di elaborazione dell’immagine, in cui, piuttosto che applicare categorie interpretative preformate, si vuole creare l’occasione per perfezionare gli strumenti teorici e per mettere alla prova ipotesi di lettura e di analisi.
Se, tradizionalmente, è nelle riviste critico-teoriche che il discorso critico si è formato e sviluppato, si tratta di analizzare il panorama da queste attualmente costituito, mostrandone le strategie e le prospettive caratterizzanti, gli obiettivi e i saperi cui fanno riferimento, le forme e le modalità di diffusione, le retoriche mediante le quali costruiscono discorsi. In questo senso, parlare di rivista significa in realtà abbattere il confine tra riviste cartacee e siti web. Questi ultimi in particolare costituiscono oggi le forme attraverso le quali la neocritica convive (e a volte confligge) con le pratiche della critica tradizionale. Internet ormai è un ‘luogo’, più che uno strumento, in cui vengono rilanciate in modo nuovo (e necessariamente trasformate) le tradizionali modalità di comunicazione, ivi compreso il discorso critico.
I modelli della critica militante
Molti dei luoghi attuali della critica sono di fatto eredi dei modelli teorici nati tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del Novecento. Modelli che si sono sviluppati a partire dal riconoscimento del cinema come sguardo particolare e peculiare sulla realtà, sul linguaggio, sullo stile. Criticare un film con questa impostazione significa riconoscere questo valore di sguardo, a prescindere dal contesto produttivo (che sia un film indipendente o mainstream), dalla sua tipologia o dalla sua struttura narrativa (che sia un film di genere oppure no, che sia esplicitamente ‘d’autore’ oppure no). La critica è in questo senso ‘militante’ perché lavora in funzione di una scoperta e di una difesa del film e del suo autore, riconosciuto come l’elemento unificante in quanto conferisce all’opera il suo ‘stile’, la sua peculiare visione del mondo. È questo il modello critico che si è imposto parallelamente alla nascita del cinema moderno, tra riprese e trasformazioni, modifiche e aggiustamenti, in riviste come le francesi «Cahiers du cinéma» (fondata nel 1951), «Positif» (1952), le italiane «Filmcritica» (1950), «Cinema nuovo» (1952), «SegnoCinema» (1981), la spagnola «Dirigido por» (1972), la statunitense «Film comment» (1969), l’inglese «Sight and sound» (1932), tutte ancora in attività a eccezione di «Cinema nuovo». È attraverso i dibattiti interni ed esterni a queste riviste, le prese di posizione radicali, la sperimentazione di linguaggi e forme che il rapporto tra pratica critica e ricerca teorica prende corpo e attraversa tutta la seconda parte del Novecento.
Al di là di tutte le differenze strutturali, di scuola, di impostazione, la critica militante si caratterizza, dal punto di vista delle sue modalità di intervento, per il ricorso a un tipo particolare di scrittura, in cui la soggettività dell’autore entra in gioco attraverso la difesa appassionata di un film (e dell’idea di cinema in esso presente), o l’attacco altrettanto appassionato al cinema considerato come negazione dello sguardo. Le forme dominanti sono il saggio e la recensione, la conversazione con l’autore (vista come momento di elaborazione dialogica di una poetica, di uno stile e di un’idea di cinema), sulla falsariga di testi considerati ormai classici come, per es., il famoso libro-intervista di François Truffaut su Alfred Hitchcock oppure le conversazioni di Peter Bogdanovich con autori come Howard Hawks e Orson Welles.
Il modello della critica militante non è comunque monolitico: nel corso della seconda metà del Novecento esso ha subito trasformazioni, si è arricchito di nuovi strumenti operativi e analitici, si è ampliato dal punto di vista del campo di indagine e di applicazione. Ma è negli ultimi anni che l’idea militante della critica è entrata in crisi, una crisi strutturale, riconducibile a diversi fattori. In primo luogo la già accennata trasformazione del sistema dei media che, da una parte, ha moltiplicato gli ambiti di elaborazione del discorso sul cinema (innanzitutto televisione e Internet) e, dall’altra, ha di fatto ridimensionato la rivista come spazio privilegiato del discorso critico.
In secondo luogo, la critica militante ha subito la messa in discussione dei suoi principi teorici come il concetto di ‘autore’, la centralità del film come oggetto di analisi e la difesa del principio secondo il quale la disamina critica è sempre sostenuta da una prospettiva teorica. Elementi questi che sono ormai da diverso tempo al centro di attacchi da parte di diversi settori degli studi sul cinema – vedi, per es., l’attacco radicale che, soprattutto in ambito anglosassone, viene effettuato contro i pilastri, dal punto di vista della teoria, della critica militante moderna, da André Bazin a Béla Balázs, da Jean Epstein a Gilles Deleuze, visti come autori di pseudo-teorie del cinema, considerate vaghe dal punto di vista del rigore scientifico e dell’argomentazione (Turvey 2008) – e che hanno scatenato anche accesi dibattiti interni tra gli addetti ai lavori. Nel 2005, nell’editoriale del numero di aprile della rivista «Ciak» (pubblicazione nata nel 1985 e dedicata alla promozione del cinema commerciale), il critico Paolo Mereghetti ha lanciato un’accusa generalizzata alla critica specializzata delle riviste di cinema italiane – da «SegnoCinema» a «Cineforum» (fondata nel 1961), da «Filmcritica» a «Duellanti» – accusate di adottare un atteggiamento narcisistico, di assumere posizioni velleitarie e di portare avanti una pratica della scrittura autoreferenziale, poco attenta al ‘vero’ giudice del film, vale a dire il pubblico. L’accusa ha suscitato una serie di risposte, come quella di Gianni Canova, direttore di «Duellanti», di Ezio Alberione di «FilmTV» e di Andrea Bruni di «Nocturno». Risposte che, nonostante la differenza di impostazione e di argomentazione, respingono di fatto le accuse, negando che la critica cinematografica (pur in crisi) debba essere considerata, come fa Mereghetti, uno strumento al servizio del lettore, il cui compito consisterebbe nel giudicare il film e indicare al lettore i suoi elementi principali.
È proprio questa immagine della critica cinematografica (la scrittura al servizio del lettore) per molti alla base della crisi contemporanea. Pensare alla scrittura critica come a una scrittura doppiamente parassitaria (nei confronti del film e nei confronti dello spettatore) significa svalutarne il senso, diminuirne l’autonomia e la portata creativa.
Una delle più lucide disamine del fenomeno si deve a Serge Daney, probabilmente uno degli ultimi rappresentanti di un’idea di critica che ha fortemente caratterizzato il secondo Novecento: «Il critico è un traghettatore fra due sponde, quella di colui che fa e quella di colui che vede ciò che è stato fatto. Ciò che occorre sapere è l’ordine delle priorità. Per me, il critico invia all’autore una lettera aperta che in seguito viene letta dagli eventuali spettatori del film. Il critico rappresenta dunque gli interessi di chi ‘fa’ presso coloro che non fanno. Una specie di avvocato. Questo mi sembra normale e morale. Ma secondo altri vale il contrario: rappresenta gli interessi del pubblico presso colui che crea. È piuttosto un giudice. Qualcuno che agisce sul modello dei critici della moda, che distinguono ‘ciò che è da portare’ o ‘ciò che non lo è’. È la guida del consumatore, anche illuminata o che finge illuminazione, anche irriverente o che finge irriverenza» (Daney 1993; trad. it. 1997, p. 225).
Il cambiamento di senso della critica è qui evidente: l’immagine dell’avvocato e quella del giudice riassumono efficacemente la metamorfosi in atto, la trasformazione del ruolo stesso del critico – da sostenitore di un’idea forte di critica che si realizza film dopo film, a indicatore del gusto, catalizzatore delle tendenze e della moda –; trasformazione che sembra quasi rovesciare, in una sorta di bizzarro cortocircuito, proprio quel concetto di critica nato all’interno del dibattito del Romanticismo tedesco, in cui il termine Kunstkritiker (critico d’arte) si sostituì a quello di Kunstrichter (giudice dell’arte), e in cui prese forma e si sviluppò l’idea, poi rielaborata nel corso del Novecento da autori come Charles Baudelaire, Marcel Proust, Walter Benjamin che la critica sia un’attività, un esperimento condotto sull’opera d’arte, capace di elaborarne la forza teorica ed espressiva e non semplicemente di giudicarne il ‘valore’ estetico.
Dalla cinefilia alla ‘cinefagia’
Quello della critica militante è dunque un modello che continua a esistere, ma che si è inevitabilmente trasformato, confrontato e scontrato con la realtà contemporanea, con l’attuale sistema di diffusione e moltiplicazione dei supporti di riproduzione dell’immagine audiovisiva, con i processi di formazione di un sapere critico e di una cultura cinematografica non più basati sulla centralità della sala o del cineclub, ma sull’offerta molteplice e dispersiva del sistema dei media, capace di offrire sul mercato una serie infinita di prodotti diversi, in grado di riscoprire e far riscoprire autori e film dimenticati, forme condannate all’oblio e, allo stesso tempo, capace di offrire un modello di cinema ‘orizzontale’, in cui non esistono più distinzioni tra ‘alto’ e ‘basso’, tra chi è ‘autore’ e chi non lo è, e in cui il film si trasmette anzitutto come merce di consumo, con il rischio di essere rapidamente assimilabile in un circuito di fruizione senza fine. La cinefilia, attitudine per la quale l’amore nei confronti del cinema viene riconosciuto come legittimo e culturalmente rilevante, nel quadro attuale si amplifica fino a mutarsi in ‘cinefagia’, in atteggiamento onnivoro in cui l’amore per il cinema si trasforma in godimento spettatoriale, in amore per l’immagine, per un cinema a 360°, senza distinzioni di genere, di forma, di sistema di produzione.
Specchio di questa mutazione è il fenomeno delle nuove riviste critiche, nate tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec.; riviste settoriali, dedicate esplicitamente e programmaticamente al recupero e alla valorizzazione del cinema di genere oppure di quel cinema (popolare, estremo, fuori dagli schemi) spesso penalizzato dalle tendenze della critica ‘ufficiale’. Riviste appassionate che hanno senz’altro contribuito a una ridefinizione della mappa dei saperi critici e al recupero di autori, forme e modelli a volte ingiustamente caduti nell’oblio dell’immaginario collettivo. Riviste come la statunitense «Asian cult cinema» (nata nel 1980, dedicata al cinema asiatico), la francese «Mad movies» (nata nel 1991, sui generi fantastico e horror) o l’inglese «Is it... uncut?» (nata nel 1994, interamente sul cinema horror) sono i segni di una tendenza internazionale che ha avuto comunque in Italia uno dei suoi luoghi di origine. È in Italia che hanno infatti visto la luce il bimestrale «Amarcord», nato nel 1996 e dedito alla riscoperta e alla valorizzazione dei generi più estremi del cinema internazionale, o il mensile «Nocturno», nato come fanzine nel 1994, ma diventato nel giro di pochi anni rivista e gruppo editoriale di richiamo per tutta la produzione e la riscoperta del cinema di genere. Sono queste le riviste di punta di una nuova generazione, settoriale, informata e attenta agli elementi marginali della produzione e di conseguenza decisa a ritagliarsi uno spazio proprio all’interno della tradizione ponendosi come alternativa alla critica esistente, sia nel linguaggio, sia negli oggetti e negli scopi della sua scrittura.
Al di là delle contrapposizioni e delle differenze di impostazione, l’affermarsi di una nuova generazione critica ha semplicemente reso più articolato il panorama. Il confronto tra gli sguardi e i modelli derivanti da questo ampliamento (quando c’è stato e non si è tradotto in una banale e limitante contrapposizione aprioristica) ha avuto conseguenze feconde: anzitutto ha offerto nuovi stimoli alla critica militante, che ha dovuto inevitabilmente confrontarsi con il problema del cinema più estremo e del suo ripensamento e, in secondo luogo, ha permesso a una nuova generazione (spesso costituita da appassionati cultori del cinema di genere) di smussare un atteggiamento sin troppo acritico e a volte fazioso e di ripensare una serie di strumenti teorici spesso mancanti nelle scritture attuali.
Il rapporto tra generazioni non si è, infatti, necessariamente sviluppato lungo una linea di contrapposizione tra pensieri e impostazioni teorico-pratiche divergenti, ma ha consentito l’introduzione nelle riviste storiche di nuovi linguaggi e scritture e la possibilità di entrare in contatto in tal modo con teorie e sguardi non esclusivamente centrati sul cinema e sulla sua storia. È questo il caso di «Filmcritica», la cui longevità deve molto al suo coraggio «di accettare le sfide poste da discipline, contributi e ricerche diverse, al contrario di altre riviste spesso bloccate da un’ideologia o da un metodo critico ‘sposato’ una volta per sempre» (Segatori 1996, p. 11).
Due esempi emblematici della trasformazione della mappa dei saperi critici vengono da riviste italiane che hanno attraversato diverse fasi, la prima – «Sentieri selvaggi» – consentendo fondamentalmente di seguire nelle diverse fasi la trasformazione delle modalità di scrittura dalla carta stampata al web, dalla rivista al sito Internet; la seconda, «FilmTV», che invece rappresenta il tentativo di ibridare il prodotto d’informazione cinematografica e televisiva con la tradizione di scrittura della critica militante. «Sentieri selvaggi» è nata nel 1988, su iniziativa di due giovani critici cinematografici, Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi, come allegato della rivista «Philosophema» prima e di «Cineforum» poi. Lo spirito della rivista-allegato è connesso alla nascita di una nuova tendenza, pronta a ripensare le categorie della critica militante attraverso uno sguardo attento a quei registi e a quei film tradizionalmente ignorati dalla critica più istituzionale. Nata come ibrido tra la fanzine e la rivista, «Sentieri selvaggi» ha lo spirito provocatorio e marginale della prima e l’ambizione, l’attitudine alla ricerca e all’approfondimento della seconda. Passata attraverso varie fasi e trasformazioni, dal luglio del 2000 è approdata definitivamente su Internet, sperimentando ancora una volta una forma ibrida, che coniuga la volontà informativa del portale sul web con una linea di ricerca critica capace di tener conto dei mutamenti del sistema dei media.
Sull’ibridazione tra informazione e critica è nato anche il progetto del settimanale «FilmTV», che ha costruito la sua formula ampliando la struttura del settimanale di informazione televisiva tradizionale e inserendo al suo interno spazi sempre maggiori di critica cinematografica dedicata ai film in sala e in televisione. In questo senso, ha contribuito alla valorizzazione della nuova offerta cinematografica, quella che passa attraverso la televisione, luogo di formazione di quei nuovi ‘saperi’ del cinema, intercettando quelle generazioni che hanno costruito la propria cultura cinematografica dopo la crisi e la trasformazione dei cineclub e dei festival, negli ultimi decenni del Novecento.
Il rapporto tra critica e teoria
Oltre alla trasformazione dei modelli di scrittura che hanno caratterizzato e accompagnato il mutare dell’intero panorama dei media in questo inizio di 21° sec., la critica cinematografica ha dovuto fare i conti con la rottura (o perlomeno la crisi) di un rapporto che ne ha sempre, in un certo senso, fondato la legittimità come discorso non parassitario: quello tra analisi critica e ricerca teorica.
La perdita di legittimità della critica come momento di elaborazione o di applicazione sul campo delle teorie del cinema si riflette anche sulla crisi e sulla trasformazione della teoria, testimoniate, tra l’altro, da un testo che ha avuto molta influenza sul dibattito contemporaneo, come Post-theory. Reconstructing film studies (1996), a cura di David Bordwell e Noël Carroll, in cui si nega proprio l’idea che la teoria costituisca il necessario paradigma di riferimento dell’operazione critica, il presupposto nel quale ritrovare gli strumenti interpretativi applicabili all’oggetto di volta in volta sotto analisi (cioè il film). Oltre a negare la validità del paradigma teorico (visto come un ostacolo più che come una garanzia di rigore e di approfondimento dell’analisi), una tale impostazione sottolinea i limiti di un discorso (quello critico) proprio evidenziando la tendenza alla ripetizione di strategie retoriche e di modelli interpretativi che non utilizzano il film come luogo di creazione concettuale o di produzione di un senso, ma come spazio dove ritrovare modelli preesistenti, applicare griglie ermeneutiche preconfezionate. In questa prospettiva, la critica si rivela sostanzialmente incapace di rinnovare il proprio discorso, di attivare un circuito virtuoso tra analisi e teoria, e appare, al contrario, bloccata in discorsi che appesantiscono lo sguardo, lo rendono incapace di aggiungere qualcosa alla visione del film, di aprirne il senso a una visione ulteriore.
Parallelamente all’attacco proveniente dall’ala più radicale degli studi sul cinema, anche all’interno della critica il rapporto tra quest’ultima e la teoria è stato messo sotto accusa, proprio per la sua incapacità di uscire dalle ripetizioni di formule sempre uguali, o per il pericolo di una scrittura che si fa sempre più asettica e densa di specialismi fini a sé stessi, come sottolinea Gianni Canova in un articolo del 1990 che ha come oggetto lo stato della critica: «Forse, davvero, avremmo un po’ tutti bisogno di tornare a quella pratica della visione come atto anarchico di cui parlava Hans M. Enzensberger qualche anno fa. Contro il sopruso dei sacerdoti dell’immagine e degli esperti della visione, contro i controlli e i supervisori, gli scienziati del metodo e gli anestesisti del testo» (Contro la cinefilia. Liberi dalla critica, «SegnoCinema», 1990, 46, p. 3).
Al di là di queste affermazioni – o forse anche grazie a esse – una delle tendenze dell’attuale panorama della critica cinematografica è la nascita di una serie di riviste che uniscono alla ricerca di nuovi stimoli e di nuovi percorsi analitici un sostrato fortemente teorico. Questa tendenza si può far risalire all’inverno del 1992, quando Daney, dopo la sua esperienza come caporedattore dei «Cahiers du cinéma» e critico del quotidiano «Libération», fondò «Trafic», trimestrale dall’impostazione austera in cui è il cinema tout-court a essere oggetto di analisi e critica, mentre la rivista non si pone necessariamente come luogo di discussione della produzione contemporanea. Non si tratta di un ritrarsi all’interno di posizioni di retroguardia o di valorizzazione e recupero del passato, quanto di fare della critica uno strumento capace di rileggere e ripensare il cinema e la sua storia, proprio per comprenderne il presente. È su questa linea che sia in forma cartacea sia sul web sono nate e si sono diffuse nuove testate, come la francese «L’art du cinéma», fondata nel 1993 dal filosofo Alain Badiou e dal critico Denis Lévy, con l’intento di ripensare il cinema e i film che costituiscono la sua storia come opere d’arte, vale a dire come forme di pensiero autonome e singolari, al di là della loro collocazione temporale. Come in «Trafic», anche in «L’art du cinéma» (bimestrale) ciò che viene messo in evidenza è la necessità di affrontare il cinema con strumenti nuovi piuttosto che quella di individuare le tendenze dell’attualità. Sulla stessa linea si colloca il quadrimestrale inglese «Film-Philosophy», nato nel 1997 e dedito allo studio del cinema da una prospettiva filosofica, tesa a cogliere, nel cinema contemporaneo, l’incrocio di temi e forme del dibattito filosofico attuale. Filosofi (soprattutto di area anglosassone) e studiosi di cinema sono quindi chiamati a interrogarsi sulla potenzialità concettuale del cinema, dalla produzione mainstream hollywoodiana a quella indipendente e invisibile delle cinematografie più marginali. Il fatto di presentarsi al tempo stesso come rivista e come portale sul web ha permesso a «Film-Philosophy» di costruire una rete di connessioni tra studiosi e ricercatori, critici e appassionati, riviste e forum, tutti accomunati da un interesse crescente nei confronti del cinema come momento di elaborazione concettuale.
Tra le riviste nate negli ultimi anni che più lavorano per una ridefinizione dei rapporti tra teoria e pratica critica, bisogna ricordare l’italiana «Fata Morgana», nata nel 2006 come spazio di discussione e ripensamento teorico della contemporaneità. «Fata Morgana», a cadenza quadrimestrale, è totalmente monografica e in ogni numero focalizza l’attenzione su un tema contemporaneo (da Bios a Mondo, da Trasparenza ad Archivio, da Esperienza a Limite), discusso e pensato a partire dalle forme del cinema. La critica è dunque chiamata a ripensarsi come strumento in grado non solo e non tanto di analizzare il film, ma di spingere alle estreme conseguenze le sue potenzialità di sguardo sulla realtà. L’immagine non è vista in relazione al cinema, alla sua storia e alla sua mitologia (atteggiamento questo che è la conseguenza estrema della ‘cinefagia’), ma è indagata in rapporto alla sua capacità di entrare in relazione con il dibattito filosofico e politico contemporaneo.
Legata all’esperienza di «Trafic», ma con più forti richiami alle forme del cinema contemporaneo è anche l’argentina «Kilometro 111», rivista semestrale fondata nel 2000 che tenta di ripensare il ruolo della critica militante proprio a partire dagli stimoli provenienti dalla teoria contemporanea. Di struttura monografica, affronta di volta in volta i temi forti del rapporto tra cinema e contemporaneità, comprese le trasformazioni del cinema politico. Su questa linea si colloca anche l’australiana «Rouge», semestrale nato nel 2003 che riunisce alcune delle firme internazionali più importanti della critica attuale, da Jonathan Rosenbaum a Bill Krohn, da Adrian Martin a Yvette Bíró.
Elemento comune, dunque, di quelle che si presentano in questo ambito tra le esperienze più innovative degli ultimi anni è la messa in questione del dogma della critica come analisi dell’attualità. La rivista non può e non deve, secondo questa impostazione, rimanere vincolata alla produzione (spesso debordante ed eccessiva) del presente, ma fare lo sforzo di ripensare i propri strumenti anche riaffrontando il cinema lungo tutta la sua storia, una storia che viene necessariamente rimessa in gioco, non con un atteggiamento filologico o, appunto, da storico del cinema, ma con l’obiettivo di rifondare il lessico della critica cinematografica, nonché con l’intento (non meno importante) di riattivarne il senso e la funzione.
Esperienze diverse, dunque, ma connesse tra loro dalla volontà di pensare ancora una volta la scrittura critica come forma necessariamente legata al discorso teorico, moltiplicando – come si è già notato a proposito di alcune riviste come «Film-Philosophy» o «Sentieri selvaggi» – le possibilità di diffusione e di scambio. La rete, il nuovo luogo di circolazione e visibilità dei saperi, ha permesso infatti a molte riviste di guadagnare nuovi lettori e al tempo stesso a molti critici, autori e studiosi di far circolare i propri contributi in diversi siti e luoghi del web. Una rivista storica come i «Cahiers du cinéma» ha lanciato sul mercato un’edizione cartacea in lingua spagnola che non è una semplice traduzione della rivista francese, ma un vero e proprio nuovo progetto, dove critici di diverse nazionalità (al suo interno scrivono francesi provenienti dalla rivista parigina, spagnoli e latinoamericani) si confrontano e mettono in gioco un’impostazione della loro attività meno legata alla dimensione nazionale del cinema e più interessata all’apertura di nuovi spazi, di nuove possibilità di scrittura. Internet si presenta allora come luogo mobile, caratterizzato dalla circolazione delle forme di scrittura (un articolo scritto per una rivista può essere ripubblicato in un blog, in un sito amatoriale, o in un’altra rivista; può essere citato o commentato, entrando di fatto in un circuito di fruizione le cui caratteristiche sono differenti da quelle tradizionali della comunità dei critici).
Ecco allora che il panorama dei nuovi saperi critici si riconfigura a partire da una serie di tendenze che ne attraversano i territori. La crisi della rivista tradizionale ha portato alla circolazione tra differenti ‘luoghi’ della critica, innanzitutto Internet, dove istanze soggettivistiche e amatoriali convivono e si intersecano con nuove e meno nuove generazioni di critici, capaci a volte di sperimentare supporti e modalità di scrittura inediti o di rielaborare modelli precedenti all’interno di nuovi circuiti di fruizione. L’indebolimento del rapporto tra teoria e critica – che ha caratterizzato la storia della critica cinematografica moderna – ha favorito, al di là dello sviluppo deleterio della critica come informazione cinematografica (derivazione del marketing al momento dell’uscita di un film), la nascita di una serie di nuove riviste, capaci di ripensare il cinema e le sue forme in una continua dialettica tra presente e passato, tra tendenze attuali e immagini appartenenti alla sua storia. Se è senz’altro vero che una certa modalità di fare critica è irrimediabilmente entrata in crisi, ciò che non è scomparso (semmai si è modificato e si è trasformato) è quel processo che ha sempre accompagnato la diffusione e la visione delle immagini in movimento, vale a dire la produzione di discorsi che sono la più evidente testimonianza di come tali immagini continuino a essere occasione di domande, richieste di senso e opportunità di uno sguardo ‘in più’ sul mondo.
Bibliografia
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