La cultura economica (1850-1950)
Questi cento anni segnano l’ascesa e il declino della scuola economica italiana: una scuola che presenta caratteristiche proprie pur all’interno di un processo di progressiva apertura scientifica internazionale.
La cronologia è la seguente. Dopo il decennio di preparazione (1850-60), si apre il sessantennio dell’Italia liberale, che vide dapprima una prevalenza in economia del positivismo evoluzionistico, poi – dal 1890 al 1920 circa – i trent’anni d’oro del marginalismo, con i grandi nomi di Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Antonio De Viti De Marco, Enrico Barone. Il regime fascista (1922-43) cercò di imporsi anche nel campo della scienza economica con il corporativismo. Ciò non toglie che in quegli stessi anni si sia affermato il magistero liberale di Luigi Einaudi. Nel dopoguerra, il quinquennio della ricostruzione (1945-50) fu dominato dal dibattito sulla politica economica da adottare e implicitamente sull’applicabilità o meno degli insegnamenti di John Maynard Keynes per il nostro Paese.
Le carte d’archivio presenti nel sito ASE (Archivio storico degli economisti, http://ase.signum.sns.it/) possono gettare luce sulla partecipazione degli economisti italiani al processo di unificazione. Il bolognese Marco Minghetti (1818-1886) è autore di Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859), che risente della lezione di Pellegrino Rossi e distingue fra scienza e arte economica. Uomo d’affari, Minghetti tiene i contatti con possidenti ed economisti fiorentini, come Cosimo Ridolfi (1794-1865), presidente dell’Accademia dei Georgofili e fondatore a Pisa della prima facoltà di Agraria. Ridolfi lascia scritti economici che dimostrano la sua sensibilità per i problemi della modernizzazione dell’agricoltura vista in rapporto fecondo con l’industria (cfr. Scritti scelti, a cura di R. Faucci, 2008).
Nell’ambiente di Firenze capitale si forma l’economista Francesco Protonotari (1832-1888). Nel 1866 egli fonda la «Nuova antologia», con un ambizioso disegno di unificazione della cultura nazionale cui collaborano i principali scrittori economici del tempo, come Francesco Ferrara, Antonio Scialoja, Luigi Luzzatti, Alessandro Rossi e Agostino Magliani. Il modello è la francese «Revue des deux mondes».
Dal 1874 a Firenze esce «L’economista», ispirato all’omonima rivista inglese ed emanazione del gruppo liberista che, alleandosi con la Sinistra, contribuì alla rivoluzione parlamentare del 1876. Infine, la «Rassegna settimanale» (1878-1882), che apre il dibattito sulla questione meridionale, vede la collaborazione di Sidney Sonnino, Pasquale Villari e Giustino Fortunato (cfr. Le riviste di economia politica in Italia (1700-1900), 1996).
A Torino prende forma la grande iniziativa della Biblioteca dell’economista, diretta da Ferrara dal 1850 al 1868.
Rispetto alla collezione Custodi, l’intento non è quello di rivendicare primati nazionali, ma di presentare criticamente lo stato della scienza economica fornendo i testi in buone traduzioni e con ampie introduzioni del curatore. Ferrara boccia la tradizione sei-settecentesca italiana perché legata al mercantilismo e orientata verso lo Stato anziché verso il mercato. Lo spazio maggiore delle due serie – rispettivamente dedicate agli autori e ai problemi – è riservato, oltre che agli economisti classici in senso stretto (François Quesnay, Adam Smith, Thomas Robert Malthus, David Ricardo, Jean-Baptiste Say, Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, Robert Torrens, James e John Stuart Mill), agli economisti rappresentativi del mainstream del tempo di Ferrara (Charles Dunoyer, Antoine-Élisée Cherbuliez, Heinrich Friedrich Storch, Frédéric Bastiat, Pellegrino Rossi). Pur con taluni eccessi polemici, di cui fa le spese specialmente la teoria ricardiana del valore, Ferrara ci dà un modello di lettura rigorosa e approfondita, seguendo un approccio di tipo analitico, con limitati riferimenti al contesto storico e culturale.
Impostazione ben diversa presenta la III serie (1874-1892) diretta dal genovese Gerolamo Boccardo (1829-1904; cfr. Tra economia e impegno civile: Gerolamo Boccardo e il suo tempo (1829-1904), 2005). Siamo in pieno positivismo evoluzionista, nutrito di fede assoluta nel progresso all’insegna della diffusione delle conoscenze tecnico-scientifiche, nel contesto di una sempre maggiore complessità sociale. L’approccio sociologizzante, che dà risalto ai fenomeni istituzionali, è ricalcato sulle scuole tedesche e sul cosiddetto socialismo della cattedra, che in Italia ha non pochi seguaci. Anche la statistica, trascurata da Ferrara, è presente nella III serie. L’operazione più interessante compiuta dalla III serie è però quella di ospitare l’economia marginalista di William Stanley Jevons e Léon Walras. Boccardo elogia senza riserve l’impiego della matematica nell’economia politica, senza però distinguere fra teorizzazione e misurazione dei fenomeni, e quindi fra livello astrattivo-deduttivo e livello empirico-induttivo.
Un’altra peculiarità della III serie è la presenza di diversi scrittori eterodossi come Henry George, Robert Owen, Ferdinand Lassalle, Pierre-Joseph Proudhon, Nicolai Tcernicewski e perfino il I libro del Capitale di Karl Marx in una traduzione dal francese.
Nel pugliese Salvatore Cognetti de Martiis (1845-1901), chiamato a dirigere la IV serie (1894-1905), prevale la fede nel ‘metodo galileiano’ sperimentale, in cui egli fa rientrare il darwinismo sociale allora imperante, con aperture all’antropologia e all’etologia comparata. Dal punto di vista strettamente economico, il tratto più rilevante è l’esame delle relazioni economiche internazionali e specialmente dei trattati di commercio, e il tentativo di studiare gli effetti della divisione del lavoro sulle prestazioni lavorative.
Fra le opere che vi sono incluse, la perla è costituita dai Principles di Alfred Marshall, editi, dopo la prematura scomparsa del curatore, da Pasquale Jannaccone (1872-1959). A partire dal 1905 lo stesso Jannaccone dette il via alla V e ultima serie, ormai concepita secondo l’ortodossia marginalista, con autori come John Bates Clark, Irving Fisher, Francis Y. Edgeworth ed Edwin Robert Anderson Seligman, ma anche con testi fondamentali del pensiero riformatore britannico come la Industrial democracy dei coniugi Webb (sulle cinque serie cfr. vari saggi in L’economia divulgata. Stili e percorsi italiani (1840-1922), 3° vol., La “Biblioteca dell’economista” e la circolazione internazionale dei manuali, 2007).
Dopo l’Unità vi è una proliferazione di insegnamenti universitari di economia politica, attribuiti a un personale di estrazione soprattutto patriottica, chiamato su «un gran numero di cattedre mal retribuite» (Schumpeter 1954, trad. it. 1990, 3° vol., p. 1053; cfr. Le cattedre di economia politica in Italia, 1988).
Alla fine degli anni Settanta vi è una prima importante svolta. Nelle facoltà giuridiche viene introdotta la scienza delle finanze, allo scopo di formare i quadri dirigenti della pubblica amministrazione. Il modello è quello tedesco della Finanzwissenschaft: una introduzione standard sui compiti e le funzioni dello Stato moderno, con particolare riferimento alla «progressione dei bilanci pubblici»; l’illustrazione della normativa vigente; un quadro dei principali ordinamenti fiscali europei.
Diverso il percorso dell’economia politica. Ormai isolato Ferrara che, seppur anch’egli soggettivista, non aderisce al marginalismo rifiutando a priori l’impiego della matematica, gli economisti antiferrariani (Luigi Cossa, Alberto Errera ecc.) colgono l’opportunità di importare in Italia il marginalismo (cfr. Barucci, in Il pensiero economico italiano 1850-1950, 1980), presentandolo come il dernier cri della moda economica. Tuttavia toccò a Pantaleoni, soprattutto con i suoi Principii di economia pura (1889), di indicare la nuova strada: un’economia alla quale non serve la lezione della storia, perché l’homo oeconomicus massimizzante la propria utilità sotto vincolo è sempre esistito tale e quale. Con il libro di Pantaleoni si apre il secondo periodo della nostra vicenda.
Una prima apparizione del «Giornale degli economisti», in vesti stataliste e germanizzanti, si era avuta a Padova nel triennio 1875-78. Dopo un lungo silenzio, nel 1886 la testata ricompare sotto la direzione di Alberto Zorli (1854-1939) e con un programma eclettico. Nel 1890 si aggiungono tre esponenti del marginalismo: De Viti De Marco, Pantaleoni e Ugo Mazzola. Il programma del periodico – il cui sottotitolo era «rivista mensile degli interessi italiani» – era caratterizzato sul piano dell’antiprotezionismo e dell’antisocialismo, espresso soprattutto dalla rubrica di Cronache politiche, tenuta in successione da Pareto, Gaetano Mosca, De Viti De Marco, Mazzola e Francesco Papafava. Nella crisi di fine secolo, culminata nei tumulti di Milano del 1898, il «Giornale degli economisti» fu fermamente antigovernativo (cfr. V. Pareto, Lettere a Pantaleoni 1890-1923, a cura di G. de Rosa, 1960, 2° vol., pp. 143-45). Negli stessi anni esso patrocinò un’Associazione economica liberale che sposava liberalismo e liberismo.
Tutt’altra è la storia della «Riforma sociale», nata nel 1894 dalla fiorentina «Rassegna di scienze sociali e politiche» e trasformata nel nome e nei contenuti da Francesco Saverio Nitti, che ne fu il direttore. La nuova rivista era sensibile alla questione sociale e al modo in cui correnti culturali esterne al liberalismo classico la stavano affrontando (cfr. Una rivista all’avanguardia: la “Riforma sociale” 1894-1935, 2000; Faucci 2002; Bianchi 2007). A partire dal 1908, allorché la direzione della rivista fu assunta da Einaudi, essa abbandonò l’originaria impostazione di tipo sociologico-comparativo e assunse caratteri di foglio liberista, secondo una linea politica analoga a quella del «Giornale degli economisti», ma con attenzione prevalente per l’economia applicata (problemi di finanza locale, di economia del lavoro ecc.), e diventando di fatto complementare alla rivista leader.
Il sessantennio liberale vede la presenza di numerosi economisti in veste di ministri e parlamentari. Essi partecipano al dibattito su tutti i principali temi economici, dal regime delle ferrovie ai trattati di commercio, all’assetto bancario, alla contabilità di Stato, al Mezzogiorno (cfr. Gli economisti in Parlamento 1861-1922. Una storia dell’economia politica dell’Italia liberale, 2003).
Quanto, delle idee degli economisti, abbia inciso sulla vita delle istituzioni e della legislazione è difficile dire. Ci aspetteremmo che la Destra abbia dato spazio alle idee di ortodossia finanziaria liberale (bilancio in pareggio e controllo della spesa pubblica); ma anche qui dobbiamo rilevare che fra uno Scialoja e un Ferrara, in successione ministri delle Finanze fra il 1866 e il 1867, non vi è perfetta continuità, specie sulla delicata questione dei modi di uscire dal corso forzoso; e che la ‘finanza all’osso’ di Quintino Sella non escludeva una consistente spesa pubblica per l’istruzione e la cultura. E ci aspetteremmo che la Sinistra abbia lasciato traccia nella legislazione sociale, ma per quest’ultima si dovette attendere le riforme dell’età giolittiana.
Un solo economista svolse un ruolo rilevante come legislatore. È Nitti, a contatto con le correnti riformiste socialiste e cristiane europee di fine Ottocento e autore di volumi pionieristici su Il socialismo cattolico (1891), Nord e Sud (1900), La città di Napoli (1902), La conquista della forza (1904), che tracciano una strategia di interventi economici strutturali da effettuarsi nel corpo dello Stato liberale: aumento della spesa sociale, redistribuzione del carico fiscale fra Settentrione e Mezzogiorno, avocazione allo Stato della produzione di energia elettrica, creazione di un polo industriale nel Napoletano. A Nitti ministro dell’Agricoltura si deve anche, nel 1912, la creazione dell’Istituto nazionale delle assicurazioni. Nitti fu travolto dagli eventi del convulso dopoguerra e fallì da presidente del Consiglio. La sua eredità intellettuale resta nondimeno molto ricca (cfr. Francesco Saverio Nitti, 2011).
Nello scorcio di secolo, in concomitanza con l’inasprirsi della questione sociale, si fanno strada posizioni alternative. Dal punto di vista della teoria, notevole è l’impatto dei due volumi postumi del Capitale, il II e il III, che trattano dell’equilibrio del sistema capitalistico, della trasformazione dei valori in prezzi di produzione e della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il dibattito relativo dura per almeno un quinquennio (1895-1900) e conduce a un abbandono, da parte della maggioranza degli economisti socialisti, della teoria del valore-lavoro. Il leader di questo revisionismo è Antonio Graziadei che nella sua Produzione capitalistica (1899) dimostra l’incompatibilità fra teoria del valore e formazione di un saggio uniforme del profitto. Concludere, come fa Marx, che la teoria del valore-lavoro è confermata dal fatto che la somma dei valori è eguale alla somma dei prezzi è ‘suicida’, dato che la teoria del valore, se vuole servire a qualcosa, deve spiegare il fenomeno dello scambio e quindi riguardare i valori relativi, non quelli assoluti. Anche la teoria marxiana della caduta del saggio del profitto presenta debolezze, non essendo in grado di spiegare la tendenza dell’economia capitalista a intensificare l’introduzione delle macchine. Soltanto il concetto di sovrappiù – del resto condiviso da tutti gli economisti classici, e non prerogativa del solo Marx – può essere accettato, ma va sganciato dalla teoria del plusvalore e riformulato in termini fisici secondo la lezione fisiocratica.
Negli anni successivi, Graziadei abbandona il marxismo per svolgere le sue ricerche empiriche sui mercati imperfetti nel solco della lezione di Marshall (cfr. Gallegati, in Gli Italiani e Bentham. Dalla ‘felicità pubblica’ all’economia del benessere, 1982).
Altri economisti socialisti seguirono la strada del soggettivismo desunto dall’economia ‘edonistica’ austriaca (cfr. Santarelli e Perri, in Gli Italiani e Bentham, 1982; Faucci, Perri, in Socialism and marginalism in economics 1870-1920, 1995). Infine, Benedetto Croce apprezzò con riserve il materialismo storico di Marx, ma respinse nettamente l’«economia marxistica».
A sé stante è Achille Loria. Esordisce nel 1879 con una massiccia opera sulla Rendita fondiaria e la sua elisione naturale (cfr. Faucci, in Il pensiero economico italiano 1850-1950, 1980; Patalano 1999), in cui l’intera storia dell’umanità è vista come ruotante attorno al regime di proprietà della terra e alla distribuzione del suo prodotto fra le classi. Loria sostituisce alla tradizionale dialettica ricardiana fra salario e profitto un’ardita (e problematica) dialettica fra salario e rendita. Nelle opere successive Loria cercò di completare la sua teoria della distribuzione introducendo da una parte il saggio di profitto calcolato sul sovrappiù, dall’altra la legge malthusiana di popolazione. All’apparenza un montaggio di pezzi tratti da autori diversi, l’impianto teorico di Loria manifesta debolezze analitiche più volte rilevate (cfr. Perri 2004; Forges Davanzati 2007), ma il tutto non è privo di una certa grandiosità e non merita fino in fondo gli attacchi di Friedrich Engels e i sarcasmi di Croce e di Antonio Gramsci.
L’altra corrente esterna al marginalismo è quella del pensiero sociale cattolico che trovò il suo massimo esponente in Giuseppe Toniolo. Storico ed economista di ascendenza ‘germanistica’ (cfr. Contributi alla conoscenza del pensiero di Giuseppe Toniolo, 1984), Toniolo si legò al movimento cristiano-sociale della scuola di Lovanio (cfr. Spicciani 1990) e fu fra i consulenti di Leone XIII per la Rerum novarum (1891) che sancì l’irruzione in forze della Chiesa nel pensiero sociale moderno. Toniolo afferma che la scienza economica si occupa dei mezzi con cui procurarsi utilità, e non le compete la determinazione dei fini, che le sono sovraordinati. Per il resto il suo Trattato di economia sociale (1915) affronta temi come quello della determinazione del livello del salario, risolvendoli in termini compatibili con la scienza economica corrente, specie con Marshall. In fondo, più che proporsi di impartire agli economisti laici una lezione di dottrina cristiana, Toniolo intendeva educare i cattolici (specie i sacerdoti) all’economia politica moderna, che nelle loro mani sarebbe servita da strumento di penetrazione nelle mentalità e nelle coscienze (Faucci 2000, p. 208). Gli economisti e sociologi cattolici dettero vita alla «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» (1893), destinata ad affermarsi negli anni Trenta come importante periodico accademico, emanazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Pantaleoni fu «l’arcangelo con la spada fiammeggiante [che] proclamò sovrana l’economia pura» (U. Ricci, cit. in Faucci 2000, p. 226). Pantaleoni era già affermato quando Pareto iniziava il suo percorso di economista, e si adoperò per incoraggiarlo (cfr. V. Pareto, Lettere a Pantaleoni 1890-1923, 1° vol., cit.). In comune i due ebbero un’intima repulsione per le ideologie democratiche. Negli anni finali del secolo si accostarono alla Sinistra, perché temevano che l’ordine costituzionale liberale venisse rovesciato dalla reazione politica in corso. Ma già con il nuovo secolo, scampato questo pericolo, presero a combattere qualsiasi variante della democrazia e a maggior ragione del socialismo, che Pantaleoni e Pareto identificarono con la «plutocrazia demagogica». Nella crisi postbellica guardarono rispettivamente con simpatia (Pareto) e con appassionata adesione (Pantaleoni) al nascente fascismo, che nei loro auspici avrebbe dovuto ripristinare i corretti rapporti gerarchici fra le classi e garantire quella selezione delle élites che la democrazia di massa non sapeva o poteva assicurare.
Le differenze di pensiero fra i due autori sono però consistenti. Pantaleoni vagheggiò una società dotata di dinamismo spontaneo, effetto dell’ineguaglianza dei redditi e delle capacità (cfr. Bellanca, Giocoli 1998). Questo dinamismo antiegalitario non è in contrasto con una concezione del mercato come zona ‘contrattuale’, entro cui si stabiliscono rapporti economici basati su una sostanziale eguaglianza di posizioni, derivante da una sorta di velo di ignoranza reciproca. Questa zona viene contrapposta alle altre zone, dette «predatorie» o «parassitarie» rispettivamente quando una parte è più forte dell’altra e sa di esserlo, oppure una parte è più debole ma si serve di mezzi illeciti per sopravvivere a carico dell’intera collettività (cfr. M. Pantaleoni, Tentativo di analisi del concetto di “forte e debole” in economia [1898], poi in Id., Erotemi di economia, 1925).
La dinamica economica è una situazione in cui tutti i competitori si muovono liberamente alla ricerca della posizione migliore, in modo da raggiungere un equilibrio ottimale. Però esistono situazioni in cui l’equilibrio, invece di avvicinarsi, si allontana sempre più. Questo può essere il portato di irrigidimenti dovuti alla struttura produttiva (l’aumento delle spese fisse generali che gravano sulla produttività), ma soprattutto alla rigidità del sistema politico, non soltanto in termini di inefficienza, ma anche di favoritismo per l’una o l’altra classe sociale, come nel caso della formazione di prezzi politici (M. Pantaleoni, Considerazioni sulle proprietà di un sistema di prezzi politici [1911], in Id., La fine provvisoria di un’epopea, 1919). Tutto questo non può che ripercuotersi sui costi. Viceversa il sistema economico degli Stati Uniti, trovandosi a usare le tecniche produttive più perfezionate senza essersi dovuto accollare le spese delle prove e ricerche iniziali come è avvenuto per i Paesi europei, ha davanti a sé la prospettiva di costi stabilmente decrescenti (cfr. M. Pantaleoni, Di alcuni fenomeni di dinamica economica [1907-1909], poi in Id., Erotemi di economia, cit.).
Ciò che per Pantaleoni è competenza dell’economia – lo studio della dinamica – per Pareto è competenza della sociologia. La struttura del pensiero di Pareto è desunta dagli insegnamenti degli economisti liberisti francesi dell’Ottocento. Analogamente a questi autori, Pareto si domanda come mai le regole dell’efficienza economica attraverso cui si raggiunge una posizione di massima soddisfazione per tutti – il cosiddetto ottimo paretiano – sono sovente disattese nella pratica. Per gli economisti liberisti ciò avveniva per l’intervento di gruppi di pressione legati al protezionismo, e il giovane Pareto si distinse nelle battaglie liberiste e liberoscambiste fra il 1870 e il 1890. Ma il Pareto maturo alza il tiro. Scopre che accanto alle azioni logiche rispondenti alle leggi dell’economia vi sono (e prevalgono nella realtà) le azioni non-logiche, le cui leggi sono oggetto della sociologia. Il ‘trittico paretiano’ intende definire e approfondire i rapporti fra la scienza economica pura e quella applicata (Cours d’économie politique, 1896-1897), i rapporti fra economia e sociologia (Manuale di economia politica, 1906) e finalmente le leggi proprie della sociologia (Trattato di sociologia generale, 1916). La sociologia corre parallela all’economia, ma le risposte a problemi in apparenza comuni sono assai diverse. In economia per Pareto i confronti interpersonali non possono essere effettuati. Di conseguenza si ha una posizione di ottimo collettivo in economia solo allorché un ulteriore miglioramento delle posizioni di alcuni avviene a detrimento delle posizioni di altri, dato che non si può stabilire che il miglioramento di A sia maggiore del peggioramento di B. Invece può aversi un massimo collettivo in sociologia anche quando le posizioni di alcuni peggiorano e quelle di altri migliorano, perché il confronto fra le varie posizioni è deferito alla politica e vi è confrontabilità fra guadagni e perdite. Vincere una guerra seppure a prezzo di migliaia di caduti realizza un massimo collettivo in sociologia (la conseguita maggiore potenza della nazione), mentre non rappresenta certo un massimo collettivo in economia (cfr. V. Pareto, Il massimo di utilità per una collettività in sociologia, 1913).
In sociologia, inoltre, non vale il modello dell’homo oeconomicus massimizzante. Le azioni collettive sono fatte risalire a due tipi di attori sociali: quelli che sono mossi da «residui» irrazionali e atavici, i leoni di Machiavelli, e quelli che sono mossi da «derivazioni», le volpi dello stesso autore. Le derivazioni celano le ideologie, specie quelle umanitarie e demagogiche, verso le quali Pareto pronuncia giudizi beffardi e senza appello. I residui sono pulsioni elementari e istintive che richiedono per la loro comprensione un’indagine quasi psicoanalitica.
Ecco dunque una profonda differenza fra Pantaleoni e Pareto. Il primo vuole includere nell’economia l’elemento sociologico; anzi, per lui l’economia sarà tanto più efficace quanto più saprà dominare (interpretare) questo elemento, che per Pantaleoni consiste nel dinamismo di gruppi ostili al funzionamento di un mercato concorrenziale. Per Pareto, invece, la scienza economica è pura in quanto si occupa esclusivamente delle azioni logiche che purtroppo – riconosce Pareto – rappresentano un’irrisoria percentuale di azioni umane. L’economia pura si riduce a una mera logica matematica, ma insieme – inevitabilmente – a un’utopia, cui continuamente il Pareto degli ultimi anni guarda sconsolato paragonandola con le follie umane cui gli toccava di assistere.
Il terzo grande economista marginalista del tempo, Barone, trattò questioni parzialmente diverse dagli altri due. Interessato soprattutto alle verifiche delle teorie altrui tramite lo strumento matematico che egli padroneggiava altrettanto bene di Pareto e meglio di Pantaleoni, Barone dimostrò con il saggio del 1908 sul Ministro della produzione nello Stato collettivista che in un regime in cui i mezzi di produzione siano di proprietà collettiva, qualora l’allocazione delle risorse sia lasciata al funzionamento del mercato, si raggiungerà ugualmente il massimo di utilità. Questa conclusione, che dal punto di vista della teoria applicava il II teorema dell’economia del benessere (cfr. Petretto, in Gli Italiani e Bentham, 1982), a prima vista è politicamente sorprendente, provenendo da un colonnello dell’esercito dalle posizioni politiche vicine ai nazionalisti. Ma Barone intendeva ribadire che la teoria dell’equilibrio economico generale è indipendente da qualunque contesto istituzionale, e che, al contrario, qualunque sistema politico deve fare i conti con essa se vuole realizzare le proprie riforme.
Tuttavia questo importante filone di teoria aperto da Barone non fu proseguito nel nostro Paese. Maggiore fortuna invece ebbero i suoi studi sulle forme non concorrenziali (trust e cartelli), inseparabili dallo sviluppo dell’economia capitalistica che Barone rappresenta in termini non dissimili da quelli di Schumpeter (cfr. Gentilucci 2006).
Nel suo noto saggio sulla scienza delle finanze in Italia, James Buchanan (1960, in Il pensiero economico italiano 1850-1950, 1980, p. 215) afferma che la nostra tradizione di finanza pubblica è segnata da un eccesso di ‘filosofia’ e si discosta dall’approccio all’economia di stampo marshalliano, più attento agli aspetti empirici e riformatori. Ma si è visto sopra che la milizia politica degli economisti, ivi compresi gli scienziati delle finanze, non è un dato trascurabile. Il pensiero economico era da essi inteso come propedeutico all’azione e non come fine a se stesso.
Non è quindi questione di filosofia e non filosofia, ma di diverso ambito di indagine. Mentre la teoria finanziaria anglosassone ha al proprio centro lo studio del fenomeno della traslazione e dell’incidenza dell’imposta in un contesto di microeconomia, da noi l’oggetto dell’economia finanziaria è stato più ampio e interdisciplinare. In particolare la scienza politica ha un ruolo speciale, in quanto le decisioni di scelta pubblica presentano carattere più complesso (ma non eterogeneo) rispetto alle scelte private. In questo senso, la moderna teoria della public choice ha riconosciuto nella tradizione finanziaria italiana dell’Otto-Novecento un significativo antecedente (cfr. Wagner 2003).
Anche qui come per altri aspetti del pensiero economico italiano moderno il punto di partenza è Francesco Ferrara, al quale dobbiamo due distinte rappresentazioni:
a) la rappresentazione del fenomeno finanziario allo stato puro e ideale, come scambio di utilità fra individui consumatori e il governo produttore di utilità, sulla base dei principi di efficienza derivanti dalla divisione del lavoro: «L’ufficio del governare è una delle tante industrie, uno dei tanti mestieri che danno l’idea dell’utilità sociale» (Il problema ferroviario e le scuole economiche in Italia [1884], in Opere complete, a cura di R. Faucci, 8° vol., 1976, p. 358). La libertà economica consiste nella capacità dei consumatori delle utilità di valutarne la corrispondenza al sacrificio richiesto del pagamento del prezzo dei servizi. Si resta dentro la teoria del valore, che per Ferrara consiste nel costo di riproduzione o sostituzione.
b) la rappresentazione dell’operare concreto del soggetto Stato, tenuto conto che «nel mondo pratico lo Stato fu sempre e sarà il governo, il gruppo degli uomini che comandano» (Il germanismo economico in Italia [1874], in Opere complete, a cura di F. Caffè, 10° vol., 1976, p. 589).
Lo Stato per sua natura tende al monopolio, per cui lo scambio di valori (servizio offerto versus imposta versata) non è mai su un piede di parità. Il contribuente è soggetto a quella che Amilcare Puviani (1854-1907) chiama «illusione finanziaria»: un raggiro a cui non ci possiamo sottrarre (A. Puviani,Teoria della illusione finanziaria [1903], a cura di F. Volpi, 1973). Come mostra un importante studio critico (M. Fasiani, La teoria della finanza pubblica in Italia [1932], in Il pensiero economico italiano 1850-1950, 1980, pp. 117-202), la tradizione italiana di finanza pubblica ha sempre avuto una speciale attenzione ai difetti di informazione sui reali costi dei servizi pubblici: un deficit della democrazia.
I marginalisti si concentrano sulla definizione dei bisogni collettivi e dei modi di soddisfarli a seconda del tipo di Stato. Pantaleoni (Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche [1883], in Id., Studi di finanza e di statistica, 1938) applica i criteri di scelta razionale all’intero Parlamento, la cui «intelligenza media» è in grado di ordinare le varie spese secondo criteri edonistici (uguaglianza delle utilità marginali delle spese ponderate con il loro costo relativo).
Come osserva Buchanan, fin dal saggio giovanile di Pantaleoni appare un’importante caratteristica della tradizione italiana: la considerazione non solo del prelievo fiscale, ma della spesa conseguente. Solo introducendo la spesa si può parlare in termini di equilibrio di massima soddisfazione.
Sulla scorta di Pantaleoni, anche De Viti De Marco, nel libro d’esordio, Il carattere teorico dell’economia finanziaria (1888), è categorico: la scienza delle finanze, per essere trattata dal punto di vista dell’economia pura, deve assumere una perfetta corrispondenza con l’economia privata. La differenza sta nella differente percezione che il pubblico ha dei bisogni collettivi rispetto a quelli individuali. Una distinzione importante è quella fra bisogni generali (per es., il cibo) e bisogni collettivi (per es., la sicurezza). Entrambi sono sentiti da tutti, ma i primi in modo individuale, i secondi in modo sociale, nel senso che se l’uomo non fosse animale sociale non li percepirebbe. A questo punto entra in campo lo Stato, che alla soddisfazione di questi bisogni socialmente percepiti è deputato.
Qui comincia la discussione fra i due studiosi. L’autoritario Pantaleoni obietta che è necessaria la coattività come mezzo di soddisfacimento perché il bisogno sia considerato pubblico (o collettivo), mentre il liberale De Viti De Marco ritiene che la coattività sia intrinseca a un solo tipo ideale di Stato, quello monopolistico. L’errore di Pantaleoni è quello di aver generalizzato – per l’influenza delle teorie elitistiche del suo amico Pareto – l’elemento coattivo che si esercita preferibilmente con la manipolazione del consenso (rapporti parassitari, filantropici e non economici). Ma nella visione di Pantaleoni l’elemento selezionista e ‘darwiniano’ deve alla fine prevalere, perché la società industriale moderna ha gli anticorpi contro il parassitismo che distrugge ricchezza o la distribuisce da chi la crea a chi la consuma improduttivamente (al tempo di Francesco Crispi, i produttori protetti; al tempo di Giovanni Giolitti, i sindacati e le cooperative socialiste). A valutazioni opposte approda la visione di De Viti De Marco, che osserva amaramente che la disgregazione dello Stato liberale nel dopoguerra aveva condotto non già a una società più libera e insieme più efficiente, ma alla dittatura fascista (A. De Viti De Marco, Un trentennio di lotte politiche [1930], 1994, p. II). La concezione dello Stato di De Viti De Marco è di tipo binario: agli estremi sia logici sia storici stanno le due categorie dello Stato monopolistico e dello Stato cooperativo. Solo in quest’ultimo opera la legge del valore, come corrispondenza fra costi e benefici dell’azione pubblica.
Lo Stato cooperativo è la base per la teoria dello Stato come fattore di produzione. Sicurezza, giustizia ecc., sono altrettanti contributi alla produzione il cui costo, seppure non valutabile se non ex post, è un elemento che incide sulla produzione dei beni privati. Di conseguenza, ‘ogni particella di reddito nasce gravata dal relativo debito tributario’. Si parla di reddito netto, di valore aggiunto che va tassato una sola volta per evitare duplicazioni.
Gli scienziati delle finanze italiani hanno a lungo discusso se il reddito imponibile debba essere quello guadagnato (Benvenuto Griziotti), prodotto (De Viti De Marco) o consumato (Einaudi). Naturalmente le differenze definitorie sono gravide di implicazioni ai fini del sistema tributario da adottare. Einaudi, che pure accetta la nozione di Stato fattore di produzione, vuole esentare il risparmio, mentre De Viti De Marco lo include nel reddito imponibile perché esso è stato prodotto in un certo tempo (mentre i frutti del risparmio saranno prodotti in un tempo successivo e non si giustifica che siano esentati).
Da liberale coerente, De Viti De Marco sfuma la distinzione fra tassa e imposta. Le tasse sono pagate volontariamente al momento della richiesta del servizio pubblico. Sulla genesi dell’imposta, osserva che «il prezzo di abbonamento è la culla dell’imposta» (A. De Viti De Marco, Principi di economia finanziaria, [1934], 1961, p. 103). Chi è abbonato paga una certa quota dal proprio reddito per ottenere un servizio di cui si serve quando ne ha occasione (un viaggio in ferrovia). Idealmente l’abbonato si comporta come chi è comproprietario dell’impresa e ne sostiene volontariamente i costi. Così fa il contribuente quando paga i costi dello Stato sotto forma di imposte. L’elemento volontaristico nell’imposta «economica» – contrapposta all’imposta «taglia» e all’imposta «grandine», dove prevale la coattività – è esaltato anche da Einaudi.
De Viti De Marco è un marginalista anomalo, e forse neppure un marginalista in senso stretto. Neppure è attratto dall’applicazione dell’economia del benessere alla tassazione. In questo si discosta da Barone, cui dobbiamo il teorema della minore perdita di benessere per il contribuente delle imposte dirette rispetto alle indirette a parità del loro ammontare. Anche negli scritti di argomento non finanziario, come quelli sulla banca, De Viti De Marco non si allinea alle teorie prevalenti ai suoi tempi, rifiutandosi di assegnare alla banca il compito di mero «guardaroba» fra impieghi e depositi (cfr. Realfonzo 1995). Le sue principali (e dichiarate) fonti di ispirazione risultano essere, fra gli stranieri, David Ricardo (sul teorema dell’equivalenza fra debito e imposta) e, fra gli italiani, Angelo Messedaglia (sul metodo scientifico che non va basato su assunzioni psicologiche né su generalizzazioni affrettate: cfr. A. De Viti De Marco, Commemorazione di Angelo Messedaglia [1901], in Il pensiero economico italiano 1850-1950, 1980, pp. 285 e segg.).
Negli anni Venti si consuma la vicenda italiana di Piero Sraffa, l’allievo di Einaudi e amico di Gramsci a cui nel nostro Paese venne presto concessa una cattedra universitaria, ma il cui fondamentale contributo critico non venne adeguatamente riconosciuto. Sraffa aveva esordito con una tesi di laurea, poi pubblicata come breve monografia, in cui indicava l’obiettivo della stabilità dei prezzi come prioritario rispetto all’equilibrio dei cambi, in linea con quanto avrebbe sostenuto Keynes nel suo Tract on monetary reform (1923), non a caso tradotto dallo stesso Sraffa nel 1925. Sempre nel 1925 fece uscire negli «Annali» della Bocconi un saggio Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta in cui debellava l’ipotesi delle curve a U dell’impresa, mostrando l’eterogeneità fra l’assunzione di rendimenti crescenti e decrescenti nella formulazione marshalliana. L’anno seguente Edgeworth e Keynes gli pubblicarono sull’«Economic journal» un saggio, The laws of return under competitive conditions, che inaugurava la teoria della concorrenza imperfetta, in cui l’impresa non determina il proprio output sulla base dei costi, ma sulla base di una curva di domanda inclinata negativamente. Le recensioni italiane a questi lavori ne minimizzarono il significato (cfr. Faucci, 1986). Uno dei suoi docenti di Torino, Pasquale Jannaccone, rivendicò, rispetto alla letteratura anglosassone e quindi anche rispetto a Sraffa, la priorità nella critica alla teoria corrente (marshalliana) dei rendimenti e costi di impresa (Prezzi e mercati, 1936). Nel dopoguerra Einaudi sostenne le ragioni di Jannaccone, forzando però i termini della questione (La scienza economica. Reminiscenze. 1896-1946 [1950], in Il pensiero economico italiano 1850-1950, 1980, pp. 93-115). Ma ormai Sraffa si era trasferito a Cambridge e aveva praticamente reciso i legami con gli economisti italiani.
Grazie alla crescita dell’offerta di insegnamenti di materie economiche all’università e soprattutto di riviste e iniziative editoriali di economia, il periodo fra le due guerre segna una crescita quantitativa non indifferente. Le università si dotano di importanti periodici, come gli «Annali di economia» della Bocconi, «Studi economici» di Napoli, la «Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze» di Pavia. Dal canto loro le maggiori banche pubblicano periodici di buon livello, come la «Rassegna economica» del Banco di Napoli.
Gli anni Trenta sono segnati da un’impegnativa iniziativa editoriale della UTET, la Nuova collana di economisti stranieri e italiani (si noti la successione delle parole, contrastante con il nazionalismo dominante a quel tempo), che uscì in 12 volumi fra il 1932 e il 1937. I direttori della serie figurano essere il gerarca Giuseppe Bottai e l’economista Celestino Arena, ma in realtà il curatore-ombra fu Gustavo Del Vecchio. Anche se nella collana non rientrò The general theory of employment, interest and money di J.M. Keynes (cfr. Zanni 1985), lo sforzo dei curatori, che potevano contare su traduttori come Paolo Baffi, è molto apprezzabile. Economisti contemporanei come Ragnar Frisch, John Hicks e Paul Rosenstein Rodan vi figurano insieme a grandi figure da poco scomparse come Alfred Marshall, Allyn A. Young ed Eli F. Heckscher.
La crescita scientifica fu ostacolata dall’imposizione da parte del fascismo di una specie di dottrina economico-giuridico-politica ufficiale, il corporativismo, non su altro basata se non sulla necessità di conciliare gli interessi individuali con l’interesse collettivo, identificando però quest’ultimo con la «grandezza e potenza dello Stato» e impoverendo in tal modo le prospettive di un’economia del benessere che aveva avuto in Italia importanti pionieri. Si ritorna invece a una concezione sostanzialmente mercantilistica dell’economia, con aperture al mondo cattolico, solleticato dall’idea che con il corporativismo si potesse finalmente giungere a una realizzazione del «bene comune».
La genericità di simili dottrine favorì una vera e propria babilonia di intepretazioni del significato del corporativismo, con gli estremi rappresentati dal filosofo gentiliano Ugo Spirito (1896-1979), il quale parlò di «corporazione proprietaria» che avrebbe dovuto sostituire il regime delle imprese private (cfr. Spirito 1970); e dal paretiano Luigi Amoroso (1886-1965), che leggeva il corporativismo come un sano ritorno a ideali pre-Rivoluzione francese (L. Amoroso, A. De’ Stefani, La logica del sistema corporativo [1934], in Mancini, Perillo, Zagari 1982, 1° vol.). In mezzo a questi due estremi, la lettura di economisti non schierati, come Alberto Breglia (1900-1955), che – seguendo Einaudi – presenta l’economia corporativa come caso particolare di economia vincolata (per un quadro complessivo cfr. Faucci, 1990).
Nella letteratura non di regime, spicca la riflessione su moneta, credito e cicli economici, che la lezione paretiana non aveva coperto. In parte questa riflessione è provocata dall’eco che in Italia ha Keynes, testimoniata dalla sollecita traduzione delle principali opere, con l’eccezione della Teoria generale, che uscì in italiano soltanto nel 1947.
Pur molto attenti a Keynes, gli economisti italiani non lo seguono nelle sue proposte di stabilizzare i prezzi anziché i cambi attraverso politiche monetarie non basate sul ritorno all’oro, e di evitare la deflazione reflazionando l’economia (tesi questa condivisa da Fisher: cfr. Asso 1981-1982; Pavanelli 1993) e, soprattutto, di agire con politiche di rilancio dell’occupazione tramite i lavori pubblici. Sotto questo profilo il più fermo critico di Keynes è Costantino Bresciani Turroni, il cui punto principale, a parte l’osservazione circa le difficoltà statistiche di misurare l’effetto espansivo del moltiplicatore, è che Keynes astrae dalle variazioni nel livello dei prezzi che un’espansione della spesa pubblica avrebbe necessariamente provocato (critica che però non tiene conto del fatto che Keynes ipotizza una situazione di risorse disoccupate). Bresciani Turroni aveva studiato a lungo la grande inflazione tedesca del 1923, che aveva fatto seguito a una fase di sviluppo drogato, in quanto non basato sull’aumento del risparmio volontario, ma di un risparmio ‘forzato’ favorito dal ritardo dei salari rispetto ai prezzi. Una volta avvenuto l’allineamento, l’inflazione monetaria non aveva avuto più freni (su vari aspetti del suo pensiero cfr. Bini 1992). Ancora più severa è la posizione di Einaudi.
Accanto e contro Keynes si va affermando Friedrich von Hayek, con la sua teoria del ciclo basata sullo squilibrio fra tasso naturale e tasso corrente di interesse (teoria desunta da Wicksell), e sulla conseguente sovracapitalizzazione/sottocapitalizzazione dell’economia a seconda che il tasso corrente sia inferiore o superiore al tasso naturale. Seguace (o anticipatore?) della teoria di Hayek è Marco Fanno (1878-1965). L’economista veneto però, a differenza di Hayek (che è un fautore del free banking), è sostenitore di ampi poteri di governo della moneta da parte della banca centrale, e di interventi sui cambi per scoraggiare i «trasferimenti anormali di capitali», cioè i movimenti speculativi internazionali (I trasferimenti anormali di capitali e le crisi, 1935).
Il panorama non sarebbe completo se non si tenesse conto del fatto che molti economisti italiani furono attivi in campo internazionale, contribuendo a fondare la Econometric society e collaborando a riviste di prestigio come la «Review of economic studies». Fra questi spicca Gustavo Del Vecchio, padrone di una sterminata letteratura e attento ai fermenti di novità (Vecchie e nuove teorie economiche, 1932; Progressi della teoria economica, 1936). Insofferente alla costruzione walrasiano-paretiana dell’equilibrio economico generale di tipo statico, Del Vecchio cerca negli studi sulla dinamica economica la via d’uscita e fraternizza con Schumpeter, ma si preoccupa del fatto che così facendo ci si allontani dall’idea di un’economia pura che, essa sola, giustifica la caratterizzazione dell’economia come scienza.
Gli economisti liberali si arroccano in una difesa del sistema monetario aureo contro la moneta manovrata suggerita da Keynes. Sono gli «errori di uomini», non «la crisi del liberismo» ad aver reso l’uscita dalla Grande crisi così faticosa, sostiene l’economista della Scuola di Torino Attilio Cabiati (1872-1950; cfr. Marchionatti 2004).
La ripresa dopo la catastrofe della guerra trova in posizione preminente gli economisti liberali, capeggiati dal governatore della Banca d’Italia Einaudi e dal presidente della Commissione economica del ministero della Costituente Giovanni Demaria. La ricostruzione si sarebbe dovuta affidare a un mercato libero dagli impacci introdotti dallo statalismo fascista e bellico. La manovra monetaria del 1947 è di rigida impostazione quantitativista e prekeynesiana. L’inflazione è imputata esclusivamente all’eccessiva emissione di moneta per i bisogni dello Stato. Non mancano, però, voci dissenzienti, ospitate da «Critica economica» diretta da Antonio Pesenti (1910-1973), che pubblica un articolo di Giorgio Fuà contro la linea Einaudi, e da «Cronache sociali» di La Pira e Dossetti, a cui collabora Federico Caffè. Keynes incontra ancora difficoltà a penetrare nell’establishment accademico (cfr. Keynes in Italia, 1994), e si dovrà attendere il manuale di Ferdinando di Fenizio (1906-1974), uscito nel 1949, per vederlo finalmente in un testo universitario.
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