La cultura economica (1500-1750)
Nel periodo che va dal 16° alla metà del 18° sec. in Italia si assiste a una forte decadenza dell’economia, e anche della cultura economica e sociale. Si tratta di un processo lento e, per questo, poco avvertito dai contemporanei. Ancora nel 1581, Bernardo Davanzati scrive che in Europa le monete d’oro «d’intero peso», cioè non alterate e con le stampe migliori, sono quelle della Spagna, di Napoli, Venezia, Genova e Firenze (Notizia de’ cambj).Dunque, alla fine del 16° sec., quattro su cinque delle monete che regolano l’economia internazionale sono italiane. L’Italia centro-settentrionale gode ancora dell’immensa ricchezza accumulata nei secoli precedenti, quando aveva guidato lo sviluppo europeo per tutto il basso Medioevo. Nel Seicento, tuttavia, la decadenza comincia a farsi evidente. Secondo Carlo Maria Cipolla (1952, poi 1989, pp. 85-103), alla fine del 17° sec. l’Italia passa, da Paese esportatore di manufatti e importatore di materie prime, a Paese che importa manufatti ed esporta materie prime. Questo è l’indice più chiaro della decadenza economica. Firenze, che nei secc. 13° e 14° era egemone sul piano economico e culturale, è la prima a mostrare segni di stanchezza e delusione. Alla fine del 15° sec., ha inizio una tendenza che poi si diffonderà in tutta Italia: indirizzare i capitali verso la rendita; convertire le intraprendenti attività industriali e commerciali del passato nell’acquisto di terre, abbandonando la vita cittadina (Barbieri 1940). Nella fitta rete europea e mediterranea delle relazioni commerciali di Firenze, e nel suo enorme patrimonio professionale e intellettuale, le dinamiche rallentano gradualmente (Gualerni 2001, pp. 39-62). Dopo Firenze, comincia a decadere Milano, mentre Venezia resiste di più. La sua decadenza è dorata e lentissima, ma la trasformazione dei capitali commerciali in rendite terriere è evidente. Genova domina ancora il commercio e soprattutto la finanza del Mediterraneo fino alla metà del 17° sec.; ma dopo si avvia anch’essa a un rapido declino. Tuttavia il segno della decadenza italiana generale doveva essere già evidente alla fine del 15° sec., quando Carlo VIII di Francia capisce per primo che l’Italia è diventata ormai terra di conquista; e vi scende nel 1494. Le cause principali del declino sono le seguenti. La prima è l’emarginazione delle vie commerciali del Mediterraneo. Nel corso del 15° sec. i portoghesi avevano battuto le coste dell’Africa. Nell’ultimo decennio di quel secolo e nel primo del 16°, essi creano la rotta oceanica verso l’India e la Cina. La nuova via soppianta le vie della seta, in gran parte terrestri, che arrivavano fino ai porti del Mediterraneo orientale. Per Venezia e le altre città marinare mediterranee è un colpo mortale. Negli stessi anni si apre anche l’altra via commerciale oceanica, quella verso il Nuovo Mondo, a opera degli spagnoli. In pochi decenni l’asse del commercio internazionale si sposta sugli oceani. Protagoniste delle nuove rotte sono Spagna, Portogallo, Olanda, Inghilterra e Francia. L’Italia, chiusa nel bacino mediterraneo, ne resta esclusa. Ma le grandi città commerciali italiane erano ancora le più ricche, di denaro, di reti commerciali, di esperienza professionale. Perché non parteciparono anch’esse alla nuova gara? La spiegazione sta in un’altra causa della decadenza italiana: la mancata unificazione del Paese. Le città italiane si erano sviluppate per prime, e avevano dominato l’economia medievale, grazie alla debolezza del potere centrale a cui erano formalmente sottoposte, l’impero. Anzi, la lotta dei Comuni contro l’imperatore per l’autonomia aveva potenziato le capacità di sviluppo economico dal basso. Quella lotta era avvenuta con il forte sostegno del papato. Per difendere la propria autonomia dal potere politico, i papi avevano sempre perseguito, fin dal tempo dei goti, dei bizantini e dei longobardi, l’obiettivo di impedire l’unificazione dell’Italia sotto un unico potere. Questa politica ebbe successo per mille e cinquecento anni, fino al 1870. Nel 16° sec., dopo cinque secoli di sviluppo, l’Europa occidentale era ormai matura per il dominio dell’economia capitalistica. Ma a quel punto le Signorie e le Repubbliche italiane risultarono troppo piccole per attuare il decollo. Il loro mercato interno era insufficiente per alimentare la domanda dei prodotti delle manifatture. Inoltre, e questa è la terza causa del mancato decollo, sia le borghesie locali sia le loro espressioni politiche avevano perso l’abitudine di pensare allo sviluppo. Esse non avevano più progetti di crescita economica. Per due secoli (il 15° e il 16°) i governi dei maggiori Stati italiani impiegarono tutti i loro sforzi in una lotta accanitissima, sia tra di loro sia con le rispettive opposizioni interne; nei giochi di potere e nelle strategie di bilanciamento dei poteri, soprattutto tra Firenze, Milano, Venezia, Napoli e il papa, per impedire che qualcuno di questi Stati guadagnasse l’egemonia sugli altri.
La cultura italiana del 15° sec. è dominata dall’Umanesimo che, nato con una forte carica innovatrice anche nel campo economico, rivalutò la ricchezza, contro il disprezzo degli antichi e la diffidenza dei medievali. Nel 15° sec. Francesco Barbaro, Giannozzo Manetti e soprattutto Leonardo Bruni approvano il desiderio di arricchire e la ‘vita attiva’, cioè dedita alle attività commerciali e imprenditoriali. Lo stesso faranno più tardi gli altri grandi umanisti di quel secolo, come Lorenzo Valla, Matteo Palmieri, Giovanni Pontano, Marsilio Ficino e via dicendo (Perrotta 2004, cap. V). Nel 1428-29 Poggio Bracciolini, il grande scopritore di manoscritti degli autori antichi nei monasteri d’Europa, scrive il dialogo De avaritia, in cui un personaggio difende la morale tradizionale, ostile al godimento e alla ricchezza, ma un altro svolge una brillante difesa del desiderio di ricchezza e lancia una dura invettiva contro lo spirito di rinunzia degli ordini mendicanti. Questo dialogo si può considerare l’atto di nascita della nuova morale, riflesso della nuova economia. Esso fa pensare alle analisi che Pierre Bayle e Bernard de Mandeville svolgeranno molto più tardi, alla fine del 17° secolo. Tuttavia lo scritto di Bracciolini non ebbe seguito, anzi, fu attaccato pesantemente da Francesco Filelfo. Pochi anni dopo la pubblicazione del dialogo di Bracciolini, Leon Battista Alberti, nei Libri della famiglia (del 1432-1441), anticipa l’ambiguità culturale che si impadronirà degli umanisti di fine secolo. Da una parte, egli difende la ricchezza, il lavoro, la competenza professionale. Dall’altra, fa rinascere l’economica, a cui Senofonte e altri autori antichi avevano dedicato i loro trattati. L’economica è l’analisi della produzione, e in particolare della conservazione dei beni della casa, legati soprattutto all’agricoltura, alla pastorizia, al lavoro domestico. Essa è quindi l’economia della famiglia, che in Alberti torna a essere, come nell’antichità, il centro delle preoccupazioni sociali. Alberti – nato e vissuto in esilio, per l’espulsione da Firenze della sua famiglia – esprime anche, in Momus o del Principe, un vero disprezzo per chi si interessa della cosa pubblica. Egli vede nell’impegno per la politica un inevitabile interesse personale. Lo spirito civico dei grandi cancellieri fiorentini, Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, sembra già prossimo alla fine. Hans Baron esaltò lo spirito civico dei primi umanisti italiani e lo considerò il lascito più duraturo dell’Umanesimo consegnato alla civiltà moderna (Baron 1955, pp. 3-11). Eugenio Garin ne accolse le tesi, ma con più prudenza. In realtà Baron sottovalutava la crisi in cui cadde la cultura umanistica nella seconda metà del 15° sec., mentre Garin ha descritto in modo eccellente lo spirito di delusione e il ritrarsi nel privato di quella generazione. Ai problemi sociali del governo della città si sostituirono i problemi individuali del governo dell’anima. Alla fine del secolo l’umanista italiano, erede delle fiere battaglie civili di un tempo, è ormai diventato l’autore di freddi ed eleganti componimenti retorici e si dedica alla vita di corte. L’intellettuale italiano ormai è un cortigiano (Garin 1952, pp. 56, 81-88, 93, 119-23; Tenenti 1978, pp. 126-27, 133). Questa crisi culturale fu una diretta conseguenza della mancata unificazione. Nel 15° sec. tutte le esigenze dello sviluppo economico premevano nella direzione di un grande Stato, che organizzasse una grande comunità economica. La mancata unificazione impedì di passare dall’impegno civico nei Comuni a un senso civico più ampio, quello nazionale. Per questo Antonio Gramsci, con geniale intuizione, nei Quaderni del carcere (scritti nel 1929-35) definisce i Comuni come istituzioni economico-corporative. Il senso civico e la difesa delle libertà cittadine si trasformarono nell’ostilità verso ogni forma di aggregazione, e quindi di modernizzazione, del Paese. La difesa della propria libertà si trasformò nella difesa dei propri interessi particolari. Si trattava ancora di interessi comunitari, quelli della piccola comunità, ma di lì a poco essa diventerà difesa del mero interesse individuale, come teorizzerà Francesco Guicciardini.
Nel 16° sec., l’involuzione già in atto verso il formalismo e la retorica allontanò gli intellettuali italiani dai processi di sviluppo economico, che nel resto d’Europa crebbero impetuosi proprio in quel secolo. Innanzitutto molti autori riprendono l’antico canone secondo cui l’arricchimento di uno comporta necessariamente l’impoverimento di un altro. Il primo a esprimere questo principio era stato Aristotele, seguito da un gran numero di pensatori antichi e medievali. Tra di essi si distinguono san Girolamo e san Tommaso. E proprio all’uno o all’altro di questi autori si rifanno molti intellettuali italiani del 16° (per es., Ortensio Lando, Stefano Guazzo, Annibale Romei) e 17° sec. (come Pietro Andrea Canoniero e Sigismondo Scaccia). Il canone di Aristotele esprimeva la logica dell’economia statica, nella quale l’investimento produttivo non è contemplato. In questa economia, la ricchezza prodotta e consumata rimane uguale di ciclo in ciclo. Persino l’idea positiva di ricchezza viene rimessa in questione. Il letterato Claudio Tolomei nelle Lettere (1547) fa un elogio della povertà smaccatamente retorico e falso. È importante notare che le sue Lettere furono ristampate una dozzina di volte in solo mezzo secolo. Ma Tolomei non è certo il solo. La critica delle ricchezze fatta da altri autori è altrettanto stucchevole (per es., Girolamo Muzio, Orazio Rinaldi, Gerolamo Vida, Francesco Sansovino, Filippo Cavriana). D’altra parte l’ostilità verso la ricchezza espressa dagli utopisti, come Anton Francesco Doni e Mambrino Roseo, sebbene meno retorica, non è meno netta. In generale vi è un vero e proprio ritorno all’egemonia degli aristocratici. La borghesia, ritiratasi dai grandi commerci, ne mutua gli stili di vita, a cominciare dall’ozio e dal lusso di ostentazione. Il reddito fondamentale torna a essere la rendita agraria, e ciò determina la mentalità, non solo dei grandi proprietari, ma anche degli intellettuali, diventati loro clienti. Il conformismo porta gli intellettuali a usare la conoscenza dei classici per difendere nel presente i valori premoderni, ostili allo sviluppo. Riemerge, fra gli umanisti, il disprezzo verso il lavoro, che era proprio della cultura antica (Barbieri 1940; Fanfani 1943, pp. 23-27, 30-31; Cipolla 1973, poi 1989, pp. 263, 276). L’economica, già anticipata da Alberti, rifiorisce. Essa riceve nuovo impulso dopo l’Economica, traduzione dell’Oikonomikós di Senofonte realizzata da Alessandro Piccolomini nel 1540. Gli scritti di questo genere (che peraltro continuano ad apparire fino all’Ottocento inoltrato; cfr. Frigo 1985, pp. 34, 46-47) esprimono una mentalità ristretta e apatica, lontanissima dalla mentalità imprenditoriale dei mercantilisti. Con Marco Della Fratta, che scrive nel 1551 i Discorsi de principii della nobiltà et del governo che ha da tenere il nobile et il principe nel reggere se medesimo, la famiglia, e la republica, nasce anche l’idea (di cui oggi abbiamo nuove versioni) che la ricchezza va spontaneamente verso le persone virtuose, mentre la povertà si attacca agli spiriti meschini. In pratica questi autori pensano che i ricchi siano tali per merito e i poveri siano tali per loro colpa.
I trattati politici dell’epoca seguono Aristotele pedissequamente su tutti gli argomenti; anche sulla ricchezza. Tutti ripetono che la ricchezza deve essere moderata, perché, in quanto mezzo, deve avere un limite. Tutti criticano la sete insaziabile di ricchezza (cioè l’investimento e la ricerca del profitto); dichiarano che l’attività diretta al guadagno è innaturale; aborrono l’‘usura’, cioè l’interesse. Essi affermano che sia i ricchi sia i poveri sono un pericolo per lo Stato: i primi perché sono arroganti, gli altri perché sono avidi. In questi trattati vi è anche una falsa difesa della ricchezza, che in realtà difende i privilegi dell’aristocrazia; senza nessuna attenzione ai ceti produttivi. Se Aristotele aveva preso le distanze dall’economia in crescita dell’Atene del suo tempo, adesso i suoi seguaci nemmeno si accorgono dello sviluppo del capitalismo. In generale la letteratura politica dell’epoca è tanto piatta e ripetitiva che impressionò per il suo grigiore anche Ludovico Antonio Muratori, e più recentemente studiosi come Luigi Firpo (1950, p. 178), Alberto Tenenti (1978),Daniela Frigo (1985) e molti altri. Esempi di questo conformismo totale sono Agostino Nifo, che ebbe grande successo (anche copiando Niccolò Machiavelli), e che nella vita reale fu accanito cacciatore di ricchezze; o Francesco Tommasi, il quale spiega nel 1580 che il denaro non dà la felicità perché non è ricchezza (la ricchezza è data solo dai beni); mentre i beni non danno felicità perché questa deriva solo dalla virtù. Tutti gli autori ripetono che il lusso è consentito al principe; il quale però non si deve arricchire a spese dei sudditi. Alessandro Piccolomini, traduttore di Aristotele, nel 1542 scrive un libro di grande successo, ma insignificante, con lunghissime casistiche di tipo aristotelico, De la institutione di tutta la vita de l’homo nato nobile et in città libera. Jason Denores (che scrive nel 1578 la Breve istituzione dell’ottima repubblica) e Antonio Brucioli (Della repubblica, 1526) ritengono che l’aumento della ricchezza sia un grave pericolo. Anche Torquato Tasso, che fu chiamato «il moralista ufficiale della restaurazione», in Il padre di famiglia (del 1580) dette il suo contributo al grigio conservatorismo aristotelico.
Sempre seguendo Aristotele (ma anche Platone), questi autori disprezzano i lavori legati al commercio e all’artigianato, in quanto sono indegni dei nobili, e chi li esercita non merita la piena cittadinanza. Girolamo Garimberti nel 1544 (De regimenti publici de la città) esprime il pensiero di tutti questi autori quando scrive che i lavori si dividono in nobili (quelli degli artisti), vili (quelli comuni), e ignobili (quelli femminili, che non richiedono nemmeno forza fisica). Felice Figliucci ha il non facile primato dell’argomento più retrivo.Nel 1558 egli scrive (Della politica) che il lavoro dei domestici viene da natura. Il lavoro degli artigiani invece è innaturale, perché essi non hanno un padrone. Francesco Patrizi da Cherso non è da meno. Nel 1553 (in La città felice) egli afferma che i contadini devono avere un fisico forte e un animo vile. Così possono obbedire. Non ci può essere virtù nei contadini, negli artigiani e nei mercanti; perciò essi possono stare nello Stato solo come dipendenti di un padrone. Invece soldati, magistrati, politici e preti devono avere ogni agio e lasciare la vita dura agli altri. Sembra che il vero ideale di questi autori sia una società che si regge sulla schiavitù.
Questo tipo di letteratura domina per tutto il 16° sec., ma continua implacabile anche nel 17°, sempre composta di letterati vacui, di teorici politici che ripetono meccanicamente Aristotele, di autori di economica, e di utopisti. Tutti costoro sono ostili allo spirito mercantilista che sostiene lo sviluppo e l’imprenditorialità. Quanto più si inoltrano nel Seicento, tanto più questi scritti diventano vuoti e inutilmente eruditi. Per misurare il degrado a cui era arrivata la cultura economica italiana in poco più di un secolo, conviene ricordare Pietro Andrea Canoniero (che in altre pubblicazioni appare come Canonerio). Nel 1609 in Questiones [sic] ac discursus in duos primos libros Annalium C. Cornelii Taciti, egli espose una lunga lista di argomenti per dimostrare che la ricchezza è preferibile alla povertà. Sembrava che la cultura umanistica italiana si fosse finalmente svegliata dal lungo sonno premoderno, e si fosse accorta che l’Europa correva verso la ricchezza. Ma non era così. Pochi anni dopo, nel pieno fiorire del mercantilismo, Canoniero continua a ripetere che lo Stato deve essere piccolo, come voleva Aristotele, sì che i cittadini si possano conoscere tutti e impedire che qualcuno sopravanzi gli altri. E ancora, nel 1618 pubblica un trattato dello scibile universale (si tratta di In septem aphorismorum Hippocratis libros, medicae, politicae, morales, ac theologicae interpretationes), che vuole unire microcosmo e macrocosmo, secondo la tradizionale impostazione umanistica. In esso afferma che, per il corpo politico, ogni cambiamento è dannoso, come per il corpo fisico; e copre di insulti i mercanti. Fra l’altro, scrive, i mercanti usano il denaro contro natura, non per comprare beni ma per produrre altro denaro (altra tesi aristotelica). E conclude – sempre ripetendo Aristotele – che è infame ottenere profitto dalla perdita di ricchezza di un altro. Dunque la cultura umanistica italiana, che aveva anticipato il resto dell’Europa nella difesa della ricchezza, del lavoro e del profitto, si conclude con il disprezzo di questi valori, proprio quando essi stavano trionfando in Europa. Non c’è segno più drammatico della decadenza dell’Italia.
Lungo tutto il basso Medioevo gli italiani sono il volano, non solo della nuova economia, ma anche della cultura che da essa si genera. Nascono in Italia i primi trattati di mercatura, di calcolo dei cambi e di contabilità: dal Liber abaci di Leonardo Fibonacci, del 1202, fino al Tractatus de computis et scripturis del frate Luca Pacioli, del 1494, che illustra per primo la contabilità della partita doppia. L’Italia crea la lingua del commercio e la esporta in tutta Europa. Nel periodo che corre fra i due autori citati vi è una lunga serie di lavori, scritti da mercanti che mettono a frutto la loro esperienza pratica per gli altri mercanti. Essi sono stati oggetto degli studi approfonditi di Armando Sapori, Federigo Melis e altri. Tra questi scritti, Christian Bec (1967, pp. 53-130) ricorda il Libro dei buoni costumi, del 1360, di Paolo da Certaldo; i Ricordi (1393-1421) di Giovanni Morelli; la Cronica di Bonaccorso Pitti, scritta intorno al 1420; e la corrispondenza tra Francesco Datini e Lapo Mazzei (databile all’incirca tra il 1360 e il 1420). In genere si tratta di veri e propri manuali che spiegano le tecniche del commercio, del pagamento dilazionato, dell’interesse e del cambio monetario, della contabilità; e indicano le varie strategie commerciali. Essi inoltre danno consigli sulla maniera di comportarsi del mercante. In tal modo creano le premesse per un’etica mercantile. Ma la maggior parte dei letterati ignorò questo sforzo. In realtà Bec e altri storici (come John McGovern e Oscar Nuccio) sopravvalutano l’influenza di tali scritti sugli umanisti. In questa letteratura emergono alcune personalità notevoli, che cercano di costruire un’etica mercantile. Innanzitutto, Benedetto Cotrugli, dalmata di Ragusa, che nel 1458 scrive un trattato sui doveri morali e sulla professionalità del mercante (Della mercatura et del mercante perfetto), delineando un professionista esperto, onesto e sobrio, attento ai bisogni altrui. Nel 1553 l’anconetano Benvenuto Stracca pubblica un trattato in latino con gli stessi intenti (De mercatura). Egli enuncia molte regole morali, con lo scopo di legittimare l’attività mercantile; e afferma che i mercanti sono utili allo Stato perché «scrutano i misteri di regni lontani» (II, 16), ricordando, in questo, l’entusiasmo diUgo di San Vittore. Stracca richiama l’impostazione del De officiis di Cicerone, opera molto diffusa al suo tempo, in cui si contrappone il commercio al dettaglio, che sarebbe vile, a quello in grande, che invece è nobile (II, 9). Stracca non si lascia impressionare dall’autorità della fonte, e risponde che quella distinzione non gli interessa, e che comunque ai mercanti si deve rispetto (II, 17). Il suo atteggiamento prepara la fine della subordinazione umanistica alla cultura antica e l’ingresso nella cultura economica moderna. Nel 1564 anche il medico Leonardo Fioravanti (Specchio di scientia universale) cerca di costruire un’etica mercantile. Nel 17° sec. il genovese Gian Domenico Peri, nel suo manuale Il negoziante (1638), esprime il concetto di capitale, forse per la prima volta in modo definitivamente chiaro. Molto probabilmente Peri non conosceva l’inglese Thomas Culpeper (il Vecchio) che nel 1621, in A tract against usurie, aveva distinto tra interesse di livello normale, che è necessario per il commercio, e usura, cioè un saggio d’interesse eccessivo. Forse per la prima volta in Italia, Peri propone questa distinzione fondamentale, che fa giustizia delle condanne generiche fatte per duemila anni contro l’‘usura’. Come già aveva fatto Charles Dumoulin nel 1546 (Tractatus contractuum et usurarum), Peri contesta direttamente la millenaria teoria aristotelica sulla sterilità del denaro. Egli scrive che il denaro è sterile «da solo». Ma è fecondo se viene usato nel lavoro della produzione o del commercio; esattamente come la terra viene fecondata dal lavoro del contadino. Peri ripete anche la metafora di Pietro di Giovanni Olivi, tramandata in Italia da san Bernardino, del capitale monetario che agisce come le sementi. Anche in altri Paesi, sebbene più tardi rispetto all’Italia, fiorì una cultura pratica mercantile che poi confluì nei dibattiti economici dei mercantilisti (tra questi, il caso di Gerard de Malynes, in Inghilterra, è esemplare). In Italia invece, questa ricca pubblicistica rimase isolata e abbastanza sterile sul piano culturale. Come osserva Roman Sosnowski (2006) la mercatura e la descrizione delle sue pratiche si basavano sull’interesse individuale, quello del mercante. I mercantilisti invece, anche se partono dalle azioni concrete del commercio, degli investimenti e della produzione, «assumono il punto di vista della comunità, del bene comune» (p. 98). Assumono, cioè, il punto di vista nazionale; che in Italia non esisteva. Per questo una vera letteratura mercantilista, in Italia, non fiorì mai.
Nella seconda metà del 16° sec. si manifesta finalmente qualche crepa nell’immobilismo della cultura sociale italiana. Alcuni autori tornano a elogiare la ricerca della ricchezza. Tra questi vanno ricordati Stefano Guazzo (che usa toni simili a quelli di Bracciolini), Paolo Paruta, Gianfrancesco Lottini, il dalmata Niccolò Vito de Gozze, e persino l’utopista Ludovico Agostini. Altri autori difendono il lavoro e l’attività del commercio. Alcuni, anzi, attaccano l’ozio e i privilegi della nobiltà. Giacomo Lanteri (che nel 1560 scrive Della economica) e Agostini (nel 1585-1590 scrive L’Infinito) criticano il divieto fatto ai nobili di esercitare il commercio e le attività produttive. Per Agostini i nobili sono viziosi e arroganti, e passano il tempo nei bagordi. Nel 1559 Uberto Foglietta, in Delle cose della repubblica di Genova, attacca i privilegi dei nobili, che soffocano il desiderio di migliorare. Ancora prima, nel 1538, in Della Repubblica Fiorentina, Donato Giannotti difende i ‘mediocri’, ma non per condannare l’arricchimento, come fanno gli aristotelici osservanti, bensì per sostenere i ceti medi. Giannotti, Giovanni Maria Memmo e Antonio Venusti (che scrive nel 1561 il Compendio utilissimo di quelle cose, le quali a nobili e christiani mercanti appartengono) difendono il commercio. Venusti ricorre a molti autori classici e cristiani per sostenere la sua tesi. Il commercio, scrive, crea ricchezza, e l’ozio è la fonte di ogni male. Egli riprende anche un’antica tesi che appare in Esiodo, in san Giovanni Crisostomo e in Ugo di San Vittore: il commercio porta la pace tra i popoli. Niccolò Vito de Gozze nel 1589, nel Governo della famiglia, difende il lavoro salariato, e quello di artigiani e professionisti. Prima di Peri, egli usa la metafora del denaro che dà frutti come la terra, se si impiega in modo appropriato.
A parte queste poche eccezioni, abbiamo visto che dalla fine del 15° sec. fino a tutto il 17° la cultura umanistica e quella politica in Italia sono dominate da un conformismo oppressivo. Esso è frutto non solo della decadenza economica e della rassegnazione politica, ma anche dell’attiva persecuzione di ogni pensiero sospetto di eresia o di anticonformismo. Nel clima della Controriforma gli intellettuali sono spiati, processati, perseguitati, prima ancora che abbiano il tempo di divulgare le loro idee. Non c’è luce di cultura moderna diffusa in Italia. Esistono solo alcune grandi personalità; autori che per la forza del loro pensiero riescono a rompere il grigiore circostante, almeno finché non vengono tacitati. In genere essi non creano un seguito riconoscibile, anche se lasciano un’eredità di pensiero universale. Non parleremo qui di uomini come Galileo Galilei o Giulio Cesare Vanini. Ci limitiamo ad accennare a quelli tra loro che hanno detto qualcosa di significativo sul piano economico. Il 15° sec. si chiude con il rogo di Girolamo Savonarola – effettuato nella patria dell’Umanesimo, Firenze – come il 16° si chiuderà con il rogo di Giordano Bruno. Savonarola fu mandato a morte come «eretico, scismatico e per aver predicato cose nuove». Pur nella sua ossessione per la vita austera, egli non era un elogiatore della povertà e dell’egualitarismo, come gli utopisti. Nel suo efficacissimo libretto contro la tirannia, Contra tyrannum est procedendum publica auctoritate, del 1493, egli scrive che lo Stato cristiano può assicurare il benessere, perché evita le spese superflue. Grazie alle ricchezze risparmiate, lo Stato potrà attrarre i mercanti facoltosi, far fiorire le arti e le scienze, e dar lavoro ai poveri (II, 3; III, 3). Savonarola legittima le ricchezze, grazie al fatto che egli le vuole regolare con criteri morali. Egli esprime quell’attesa di un nuovo mondo che si percepiva nel clima millenaristico della Firenze di fine Quattrocento. In effetti il decollo del capitalismo cambiò il mondo di lì a poco, e le potenti anticipazioni del Savonarola diventarono idee correnti fra gli economisti. Mentre Savonarola ebbe un grande seguito in vita ma l’oblio dopo morto, Machiavelli fu poco apprezzato in vita, ma lasciò un’influenza profondissima nei posteri. I gesuiti e i pensatori politici controriformisti del Cinquecento e del Seicento erano ossessionati da lui. Essi cercavano di contestarlo in tutti i modi, senza nominarlo; anche se spesso ne mutuavano i concetti. Sul piano economico Il Principe (1513) non dice molto, ma anche in questo campo si distacca dal conformismo imperante. Contro le piatte ripetizioni aristoteliche che il principe deve essere liberale, Machiavelli scrive che al principe non conviene la liberalità, perché la dovrebbe finanziare con le tasse, e si farebbe odiare. Gli si addice di più la parsimonia; magari lo fa apparire meschino, ma non sarà odiato (cap.XVI). Inoltre il principe deve onorare e premiare chi eccelle nel proprio lavoro; proteggere i produttori, i contadini e i mercanti; e far sì che chi ha successo nel proprio campo non debba temere che le ricchezze gli siano tolte, né di investire per le imposte eccessive (cap. XXI). A fine secolo, i due grandi domenicani, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, filosofi perseguitati, coinvolti nella magia, esprimono un modo di sentire moderno sui problemi economici. Molto prima di Francesco Bacone, Bruno mostra un forte senso del progresso economico. Egli contesta audacemente il mito dell’età dell’oro. Secondo tale mito, nell’età originaria l’uomo era felice perché innocente; e dopo diventa misero, infelice e bisognoso, perché decaduto. Ebbene, afferma Bruno, è proprio il bisogno che spinge l’uomo alle scoperte e alle invenzioni che formano la civiltà (in ciò egli riprende le tesi di Origene e di Ugo di San Vittore). Grazie al lavoro, l’uomo è superiore alle bestie. Nell’età dell’oro egli era ozioso, al pari degli animali. È vero che non aveva vizi, ma solo perché era un bruto. Non era quindi superiore agli uomini di oggi (Spaccio de la bestia trionfante, 1584, III). Anche Campanella esalta il lavoro e condanna l’ozio degli aristocratici. Egli scrive (La città del Sole, 1602) che gli abitanti della città del Sole deridono la società del suo tempo, perché essa disprezza il lavoro degli artigiani, e chiama nobili quei ricchi oziosi che mantengono tanti servi inutili. Questi invece mandano lo Stato in rovina con i loro sprechi. Campanella così fa giustizia di tutte le inutili discussioni degli aristotelici e degli umanisti sul problema se la nobiltà sia frutto della ricchezza o della virtù. Per lui ciò che è veramente nobile è il lavoro produttivo, non gli aristocratici.
Per quanto riguarda il pensiero economico propriamente detto, in questo lungo periodo di decadenza in Italia, esso appare solo in alcune grandi personalità isolate. In questa fase solo tre italiani sono importanti nella storia internazionale del pensiero, ossia Davanzati, Botero e Serra. Questi non si conoscono fra loro, anche se sono quasi contemporanei. Davanzati nasce nel 1529; Botero, quindici anni dopo, nel 1544; Serra nasce probabilmente 15-20 anni dopo Botero. I loro scritti sono pubblicati tra il 1581 e il 1613. Nonostante la vicinanza nel tempo, questi autori sono molto diversi tra loro. Davanzati riflette ancora la tradizionale economia mercantile. Botero esprime i principi della nuova economia, quella del mercantilismo. Serra fornisce la prima analisi compiuta della dipendenza economica. Una tale diversità può far pensare a un rapido cambiamento in quel periodo dell’economia italiana, o almeno della sua cultura economica. Ma non è così. Era l’Europa che stava cambiando con grande rapidità, e la grandezza di questi tre autori consiste nel fatto di aver saputo cogliere alcuni aspetti fondamentali delle trasformazioni europee, pur vivendo in un contesto, quello italiano, statico e tutto volto al passato.
Insieme con Jean Bodin (1530 ca.-1596), che scrive venti anni prima di lui, Davanzati si può considerare il fondatore dell’economia monetaria moderna (anche se il fiorentino offre un’analisi più complessa e più vasta di quella del francese).Davanzati è anche il fondatore della teoria del valore utilità. Il decollo capitalistico dell’Europa in quel periodo si basa, fra l’altro, sull’affinamento delle tecniche di pagamento e di cambio a distanza; e sul definitivo superamento della condanna dell’usura. Davanzati descrive con grande efficacia i meccanismi del pagamento dilazionato e a distanza, e del cambio tra monete che questo comporta. Inoltre, egli supera definitivamente la condanna dell’interesse monetario, appoggiandosi sull’autorità di sant’Antonino da Firenze e del cardinal Gaetano (questi sono gli unici riferimenti non letterari che egli fa). Davanzati dunque non è il primo a difendere l’interesse monetario, ma è probabilmente il primo a riconoscere – un po’ come la ‘mano invisibile’ di Adam Smith – gli effetti sociali benefici di una finalità egoistica. Egli, infatti, ammette che l’interesse sul denaro, nato per facilitare i movimenti del commercio e i suoi pagamenti, in seguito si è esteso per soddisfare ‘l’ingordigia’ di chi vuole lucrare sui prestiti, indipendentemente dallo scambio di beni, ma sostiene che è proprio questa ingordigia a far crescere la ricchezza e a rendere prospera la società. Come abbiamo visto, una tesi simile si trova nel dialogo, scritto un secolo e mezzo prima da Bracciolini, anche lui fiorentino, anche se non sappiamo se Davanzati si sia ispirato a esso. Davanzati ritiene che la moneta sia in origine una merce importante, alla quale vengono attribuite funzioni particolari. Essa deve quindi mantenere integro il suo valore di merce. Perciò la moneta deve avere una quantità di oro o di argento esattamente uguale (o quasi) a quella dichiarata. Per questo, nella Lezione delle monete (1588) critica duramente l’alterazione delle monete (cioè la pratica di coniare le monete con una quantità di metallo pregiato inferiore al valore ufficiale dichiarato). Egli sembra dunque un metallista convinto, come afferma Joseph A. Schumpeter. Ma in realtà Davanzati apre anche, con grande forza, l’altra prospettiva: quella della moneta vista soprattutto come simbolo, non come merce. Infatti, in uno dei suoi passi più suggestivi, egli scrive che il valore delle merci è determinato dal confronto tra la massa di tutti i beni presenti sul mercato e la quantità di oro e d’argento che si ha a disposizione. Ogni bene rappresenta una certa percentuale del valore complessivo della massa dei beni, e questa percentuale corrisponde a (è espressa da) una uguale percentuale della massa di oro; la quale esprime quindi il suo prezzo. Il valore della moneta, dunque, viene espresso in prezzi diversi a seconda della quantità di moneta disponibile. Tanto che, scrive, se continuano ad arrivare queste enormi quantità di oro dall’America (portate dagli spagnoli) alla fine la moneta d’oro non varrà niente, e dovremo cercarci un altro materiale perché funga da moneta. Questo argomento è collegato con un altro, considerato l’archetipo della teoria soggettiva del valore. Secondo questa teoria, il valore di un bene, o della moneta, è determinato dalla sua utilità (e dalla sua rarità). A loro volta, utilità e rarità dipendono dalle circostanze. È famoso l’esempio, fatto da Davanzati, del topo morto che nell’assedio di Casilino costava 200 fiorini d’oro. E costava poco, aggiunge, perché chi lo comprò sopravvisse alla fame, e chi lo vendette perì. Sulla concezione soggettiva del valore, come anche sulle analisi circa l’alterazione della moneta, Davanzati trovò, un secolo più tardi, un importante seguace: l’illustre astronomo e fisico Geminiano Montanari, che scrisse fra l’altro due trattati sulla moneta: il Breve trattato del valore delle monete in tutti gli Stati (1680) e La Zecca in Consulta di Stato (1683).
Per la teoria mercantilista propriamente detta, in Italia abbiamo soltanto due grandi personalità, ovverosia Botero e Serra. Botero esprime perfettamente la cultura della Controriforma (che dominava l’Italia dell’epoca) con i suoi pregi e i suoi difetti. Tale cultura è rappresentata soprattutto dalla Compagnia di Gesù, a cui Botero – dopo averne fatto parte – resterà sempre vicino. Tra i difetti di questa cultura vi sono il forte conservatorismo politico e sociale; il rifiuto dell’autonomia dello Stato e delle sue istituzioni; l’ignorare i diritti individuali; l’ostilità conclamata verso Machiavelli, accompagnata dalla pratica imitazione dei suoi realistici precetti. Tra i pregi, vi sono l’approccio empirico e realistico; l’entusiasmo per le scoperte scientifiche; l’interesse per la psicologia delle masse e per quella degli individui. Questi elementi positivi rendono la cultura dei gesuiti del tutto estranea al conformismo aristotelico dell’epoca. Inoltre, il forte spirito missionario della Controriforma aveva sviluppato una curiosità per i costumi e le culture non occidentali, e per la dimensione internazionale in genere. Ebbene le idee economiche di Botero derivano direttamente da questi aspetti innovativi della cultura controriformistica. Botero infatti – a differenza dei mercantilisti degli altri Paesi – non esprime istanze e analisi derivate dall’esperienza diretta, e legate a un progetto di sviluppo nazionale. Egli individua nelle sue innumerevoli letture i principi base della nuova economia. Innanzitutto, si libera definitivamente del dibattito aristotelico se sia bene o male avere ricchezze, e quale debba essere il loro limite. Gli Stati, afferma Botero, devono cercare l’aumento della ricchezza e del benessere dei sudditi. Le sue politiche devono mirare a quello che oggi chiamiamo sviluppo. Unico mercantilista senza nazione di riferimento, Botero svolge la critica più esplicita al bullionismo (ossia la credenza che si dovesse impedire l’esportazione del denaro pregiato, perché ciò avrebbe impoverito lo Stato). È pericoloso, afferma, conservare il tesoro lasciandolo inoperoso. Il denaro deve circolare per rendere ricco lo Stato. La vera ricchezza è data dalla produzione, non dal denaro. Nessuno Stato, infatti, è mai fallito per mancanza di denaro. Oltre che nella polemica contro i bullionisti, in questo scorcio finale del 16° sec. I mercantilisti erano impegnati ad affermare la superiorità dei prodotti delle manifatture sui beni agricoli, a incoraggiare l’estendersi della produzione manifatturiera e ad accrescere le esportazioni e l’occupazione. Anche su questo piano Botero appare il più lucido. Egli afferma che i prodotti industriali hanno più valore, sono più durevoli e sfuggono alle incertezze del clima. Egli scrive che bisogna incoraggiare le manifatture; attrarre i bravi artigiani dall’estero facendo loro condizioni di favore; trattare bene i mercanti stranieri, perché accrescono il commercio e con esso la ricchezza.
L’altro grande mercantilista italiano è Antonio Serra, giurista napoletano, nato a Cosenza. Serra rivela il carattere dualistico dell’economia italiana che, almeno fino all’Illuminismo, rimane ignoto agli intellettuali italiani. Serra descrive i meccanismi della dipendenza economica del Sud, che era già radicata da secoli. I meccanismi della dipendenza arricchivano il Nord e rinsaldavano l’arretratezza e la povertà del Sud. Egli avvia la sua analisi criticando Marcantonio De Santis. Nel 1605 questi, nel Discorso intorno alli effetti che fa il cambio in Regno, aveva lamentato che la moneta napoletana, nelle transazioni commerciali con l’estero, era ingiustamente valutata al di sotto del suo valore ufficiale. Ciò avveniva perché i mercanti stranieri avevano interesse a tale sottovalutazione, grazie alla quale potevano acquistare i prodotti del Regno a un costo più basso. De Santis chiedeva al governo di intervenire con una norma che vietasse di scambiare al di sotto del cambio ufficiale. Serra, nel Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non son miniere con l’applicazione al Regno di Napoli (1613), spiegò che il cambio sfavorevole non dipendeva da un’insufficiente regolazione giuridica, né si poteva risolvere con un intervento amministrativo. Esso dipendeva dalla povertà economica del Regno di Napoli (che invece De Santis riteneva lo Stato più ricco d’Europa). Il Regno, dice Serra, non produce quasi nessuno dei prodotti manufatti che usa. Esso li importa da Venezia, da Genova e da tante altre città del Centro-Nord. L’autore fa un elenco impressionante delle innumerevoli importazioni, per mostrare come il Regno dipendesse dall’industria del Nord. Il Regno ha necessità dei manufatti del Nord, perché non ne produce, ed è costretto a dare in cambio i propri prodotti agricoli al prezzo che le città del Nord stabiliscono. Il commercio di queste invece non dipende necessariamente dal Regno di Napoli; poiché possono esportare altrove le loro merci e acquistare i beni agricoli da altri Paesi. Per la nostra debolezza economica, prosegue Serra, e per l’indolenza della nostra gente, i mercanti del Nord controllano tutto il commercio del Regno. Le importazioni, le poche manifatture interne, l’esportazione dei prodotti agricoli, le banche. Serra indica nella sostituzione delle importazioni manifatturiere il fattore fondamentale dello sviluppo del Regno (essa è anche il pilastro della politica mercantilista europea). Bisogna, scrive, impiantare qui le manifatture e produrre ciò che adesso importiamo. E porta a esempio proprio le città del Centro-Nord. Esse hanno governi stabili, che incoraggiano i commerci, e gente industriosa. Per avere un’analisi altrettanto consapevole dei meccanismi della dipendenza economica bisognerà aspettare secoli. Serra è un potente anticipatore delle analisi sul sottosviluppo e sulla dominazione economica.
L’analisi di Serra si inseriva in un acceso dibattito sui cambi delle monete a Napoli nei primi decenni del Seicento. Tale dibattito era suscitato dalla cronica mancanza di monete nel Regno, che De Santis aveva appunto cercato di spiegare. Ma gli altri partecipanti al dibattito ignorano del tutto il contributo di Serra, e non riescono ad andare alle cause economiche della crisi monetaria (per gli autori di questo periodo è ancora utile, fra gli altri, Gobbi 1884; v. anche Colapietra 1973. Molti degli autori di questo e del prossimo paragrafo sono stati pubblicati nella raccolta di Pietro Custodi, del 1803-1816, Scrittori classici italiani di economia politica, ristampato a Roma, da Bizzarri, nel 1965-1969, a cura di Oscar Nuccio). Bisognerà aspettare il trattato Della moneta di Ferdinando Galiani, apparso nel 1751, perché l’analisi monetaria torni a collegarsi con l’analisi economica generale, come era avvenuto in Davanzati e in Serra. Fabrizio Biblia (che scrive nel 1621 il Discorso sopra l’aggiustamento delle monete e cambii del Regno di Napoli) sostanzialmente condivide l’analisi di De Santis e propone lo stesso rimedio (nello stesso anno Romeo Bocchi, un tardo bullionista, pubblica un libro, Della giusta universale misura et suo typo, dedicato alla penuria di moneta e alla sua esportazione che, secondo lui, rovina le economie e andrebbe vietata). Invece Gian Donato Turbolo, responsabile della zecca, in numerosi scritti e discorsi pubblicati tra il 1616 e il 1629, è scettico sul rimedio di De Santis. Innanzitutto, egli afferma, la debolezza della moneta napoletana dipende dal «grosso debito del Regno». Inoltre una rivalutazione della moneta danneggerebbe gli esportatori di prodotti agricoli. Dunque, se De Santis e Biblia accusano gli acquirenti stranieri di premere per avere quel cambio a loro favorevole, Turbolo rivela l’interesse per quel tipo di cambio presente all’interno del Regno (che converge con quello degli stranieri). Sono gli esportatori a essere interessati a una moneta svalutata. Si noti che gli unici esportatori interni erano i latifondisti, oltre ai mercanti stranieri stessi, i quali monopolizzavano la compravendita, non solo delle importazioni del Regno, ma anche delle esportazioni. La posizione di Turbolo inconsapevolmente conferma le tesi di Serra e degli altri mercantilisti. La società del Regno di Napoli (come quella spagnola) è dominata dagli interessi retrivi dei grandi proprietari. Questi, oltre a volere una moneta debole, sono ostili alla creazione di manifatture interne, perché il loro dominio economico ne verrebbe indebolito. Qualche accento che ricorda lontanamente Serra si trova in Vettorio Lunetti (Politica mercantile, 1630). Egli critica l’alto corso del cambio delle monete estere. Esso, dice, è nell’interesse degli stranieri, che si sono comprati tutto il Regno con lettere di cambio. Lunetti chiede, come De Santis, una rivalutazione per legge della moneta. Ma invoca anche una politica per incoraggiare la nascita di mercanti locali che possano sostituire quelli stranieri. Inoltre chiede di abolire tutti i diritti doganali e daziari sulle attività commerciali. Questo, dice, farà rifiorire il commercio a Napoli; renderà ricchi i suoi produttori e commercianti, e permetterà loro di ripagare ad abundantiam, attraverso il pagamento delle imposte, i diritti che lo Stato perde.
Nel Settecento si avverte sin dall’inizio un nuovo clima. Gli autori della prima metà del secolo mostrano già un approccio in cui torna l’analisi economica, e dove questa è strettamente intrecciata con l’analisi sociale. Essi esprimono anche un forte desiderio di cambiamento, di svecchiamento e di riforma della società. Nel Sud due grandi personalità preparano la nuova cultura. Il giurista Pietro Giannone afferma le sue teorie ‘regaliste’, cioè la visione laica di uno Stato che sia indipendente dalla Chiesa. Viene perseguitato per questo motivo, anche quando va in esilio. L’altro grande innovatore è il filosofo Giambattista Vico. Pur all’interno di una cultura formalistica, erudita, provinciale, Vico trova la strada per una potente visione evoluzionistica e progressiva dell’umanità. A questi due autori si ispirò Antonio Genovesi, che nella seconda metà del secolo fu il maestro della prima generazione di intellettuali riformatori del Sud. Il nobile genovese Paolo Mattia Doria, trapiantato a Napoli, insieme a tanti lavori filosofici e letterari, realizza tre testi in cui tratta di problemi economici (pubblicati, con altri manoscritti, dall’Università di Lecce nel 1981). Il primo (Relazione dello stato politico, economico e civile del Regno di Napoli, 1709), è scritto poco dopo la fine del dominio spagnolo e l’inizio della dinastia austriaca (1707). Incoraggiato dalla speranza di un governo meno dispotico, Doria muove una critica impietosa all’amministrazione economica degli spagnoli, famelica, corrottissima, pronta a mortificare il commercio sano con intollerabili arbitri e oppressive gabelle, connivente con i mercanti fraudolenti, con cui spartiva gli utili illeciti. In un altro scritto (Del commercio del Regno di Napoli) Doria esordisce allo stesso modo di De Santis (il Regno è ricchissimo per natura e non ha bisogno dei beni stranieri), ma subito recupera l’istanza di Serra, chiedendo di introdurre manifatture che possano sostituire le importazioni dall’estero. Nel lungo trattato Il commercio mercantile (1742)Doria elogia le nazioni che hanno sviluppato il commercio e perseguito l’arricchimento; sebbene lo faccia con le tradizionali riserve: condanna del lusso e critica dell’eccesso del ‘commercio ideale’, cioè finanziario. Ma critica anche i monopoli commerciali di spagnoli e inglesi. E prevede che un giorno il commercio con le Americhe sarà libero e beneficerà tutti. Il canonico Sallustio Bandini, senese, proprietario in Maremma, scrive nel 1737 il Discorso sopra la Maremma di Siena che anticipa con forza il riformismo illuminista (cfr. la presentazione di Franco Venturi nel suo Illuministi italiani, t. 3, 1965; per questo e per gli autori successivi, v. anche Faucci 2000). Egli chiede l’abolizione degli infiniti vincoli e gabelle che opprimono la produzione e il commercio dei beni agricoli, incluso il divieto di esportazione del grano. Chiede anche una semplificazione della normativa, che sia ridotta a poche e chiare regole: sicurezza nei trasporti; tributi che gravino sui proprietari, soprattutto se assenteisti, e non sui lavoratori. Chiede anche che i grandi proprietari siano obbligati a suddividere le terre in lotti, e a darle in enfiteusi o in affitto perpetuo. Illuminista e riformatore si può considerare il napoletano Carlantonio Broggia, che pubblica nel 1743 il Trattato dei tributi, delle monete e del governo politico della sanità, e un’altra memoria su questioni economiche nel 1754. Broggia critica il sistema tributario farraginoso e arbitrario. Egli chiede che tale sistema diventi semplice e con pochi tributi; che i tributi siano statali e non locali, sicché siano il più possibile trasparenti e oggettivi. Ritiene inoltre urgente che si formi un catasto; che si tassino gli immobili; e che non si tassino le attività commerciali e imprenditoriali, né i redditi dei lavoratori salariati. Broggia fu esiliato a Palermo perché chiedeva anche la fine degli appalti per l’esazione dei tributi; appalti che erano dati come compenso ai creditori dello Stato. Essi, scrive con grande lucidità, sono fonte di arbitri e abusi, e permettono arricchimenti a spese della gente vessata. Lo stesso forte spirito riformatore si trova nel grande erudito Ludovico Antonio Muratori, che scrive le Riflessioni sulla pubblica felicità (1749). Per lui i beni privati devono armonizzarsi con il supremo interesse del bene pubblico. Chiede una riforma articolata dell’istruzione che miri a preparare alle professioni pratiche. L’alta istruzione deve puntare più sulla matematica e meno sulla metafisica. Come tutti gli illuministi, ritiene necessario creare scuole agrarie e istituti tecnici. Muratori, secondo l’approccio mercantilista, vuole che la produzione interna sia protetta; che venga incoraggiata la sostituzione delle importazioni; e che venga scoraggiata invece l’importazione di beni di lusso. Da segnalare, infine, l’abate Lione Pascoli e il banchiere Girolamo Belloni. Il primo chiede libertà di esportare il grano in eccesso rispetto al fabbisogno, e sgravi fiscali per gli agricoltori. Il secondo chiede di alleggerire i dazi sull’esportazione di manufatti e sull’importazione di materie prime.
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