La cultura politica e i modelli istituzionali
È un luogo comune, nella nostra tradizione storico-politica, ricordare il ruolo della Francia rivoluzionaria nella genesi dell’Italia moderna: durante gli anni del predominio d’Oltralpe in Italia – dapprima nel quadro delle repubbliche cosiddette sorelle (1796-1799), poi sotto il segno di Napoleone primo console e quindi imperatore (1800-1815) – mai mancarono le richieste di procedere prontamente all’unificazione della penisola nelle proposte di rinnovamento della società italiana. E tuttavia, qualora si ponga mente alla lettura che delle origini del Risorgimento farà l’Italia ormai unita, la stagione francese non viene affatto valorizzata e la vicina d’Oltralpe è addirittura proposta come un soggetto politico non solo diverso e distante, ma addirittura ostile nei confronti della causa nazionale. Già a far data dal 1870, dopo che la sconfitta di Napoleone III a Sedan aveva permesso alle truppe di Vittorio Emanuele II di fare ingresso a Roma, la cultura politica italiana, con l’orgoglio (e la sufficienza) di chi vuole liberarsi d’una imbarazzante tutela, prese le distanze dal debito contratto nei confronti della rivoluzione francese e della successiva stagione napoleonica e molto si impegnò per rinvenire altrove le origini del Risorgimento.
I moderati, riuniti sotto le insegne della monarchia sabauda, preferirono indicare negli esiti del 1848, ossia nel cosiddetto «decennio di preparazione» (1849-1859), il solo ambito dove avesse trovato forma una prospettiva rigorosamente nazionale al rinnovamento politico d’Italia; e questo polemico rifiuto degli anni francesi accompagnò la pretesa che le origini del Risorgimento risalissero al XVIII secolo, quando i Savoia assicurarono al Piemonte un ampio rinnovamento civile e amministrativo. Curiosamente, questa prospettiva, dai chiari tratti conservatori, non venne messa in grave difficoltà neppure dai repubblicani, i quali, pur ascrivendo agli anni di Bonaparte la genesi dell’idea italiana, sempre rifiutarono il primato politico francese in nome della specificità rivoluzionaria italiana e in tal modo, spesso inconsapevolmente, portarono acqua al mulino del discorso di parte moderata.
Questa preclusione nei riguardi della stagione rivoluzionaria e napoleonica sarebbe stata esaltata, negli anni a venire, dall’ingresso nella Triplice Alleanza, alimentando una sorta di gallofobia destinata a dominare il quadro culturale italiano e a molto segnare, sul versante delle prospettive politiche, gli sviluppi dello Stato liberale. Non a caso, l’animosità nei riguardi della Francia, presto intesa quale principale avversario sulla scena internazionale, a lungo accompagnò le vicende dell’Italia unita e trovò soluzione, per altro momentanea, soltanto in occasione della prima guerra mondiale. Già all’indomani del conflitto, infatti, proprio la vittoria, «mutilata» dagli esiti della conferenza di Versailles, avrebbe nuovamente allontanato l’Italia dalla Francia, consegnando al fascismo il testimone della polemica contro il vicino d’Oltralpe ed esasperando un atteggiamento aggressivo e rivendicativo che solo l’ingloriosa sorte del regime avrebbe, al termine della seconda guerra mondiale, definitivamente affossato.
Nel frattempo, la storiografia italiana aveva molto posto in opera per rivendicare l’originalità del percorso politico nazionale rispetto al modello francese: nel caso di Benedetto Croce, sottolineando come il Risorgimento fosse opera di un’altra generazione patriottica rispetto a quella «partitante» dei francesi, generazione la cui comparsa sulla scena solo negli anni Trenta legittimava a una dimensione pienamente liberale; nel caso di Gioacchino Volpe, ugualmente datando all’indomani della caduta di Napoleone il progetto italiano e tuttavia dipingendo gli anni francesi come una ondata distruttiva che poi ritraendosi avrebbe consentito ai patrioti della penisola di raccogliere tra i detriti dell’antico regime quanto serviva loro per impostare un discorso nazionale affatto distante dal verticismo e dal radicalismo francese.
La valenza storiografica delle loro proposte, che spostavano agli anni della Restaurazione la genesi autentica del Risorgimento, non deve far scordare come quella scelta di campo fosse anche la brillante ricomposizione del discorso politico ossessivamente messo in circolo dalla generazione patriottica del 1848, la quale sempre accreditò a se stessa soltanto il merito di aver posto (e al tempo stesso risolto) la questione nazionale. E tuttavia, l’ostentazione del risultato – ossia il Risorgimento quale conquista d’un personale patriottico animato da nuovi modelli culturali – non autorizza di per sé a certificare che un profondo ricambio generazionale avesse davvero avuto luogo.
Non a caso, infatti, nei lunghi anni della Restaurazione – dove ufficialmente si condannava la stagione rivoluzionaria e napoleonica, ma al tempo stesso se ne conservavano forme e istituti di governo – furono molteplici, da parte dei più giovani, le note polemiche verso quanti, pur avviatisi alla politica negli ormai lontani anni francesi, pronti a giocare la carta della modernità a ogni tavolo lo consentisse loro, ancora dominavano la scena pubblica e neppure mancavano di affollare il campo patriottico. L’esempio più conosciuto di questa dura polemica riguarda proprio la mazziniana Giovine Italia, il cui statuto, all’atto della fondazione nel 1831, escludeva quanti avessero compiuto i quaranta anni ed esplicitamente dichiarava come una nuova generazione, in accordo ad altra sensibilità culturale e a rinnovate prospettive politiche, si dovesse fare carico di cambiare i destini della penisola.
Tuttavia, sotto questo profilo, i risultati furono modesti, perché la pretesa di pensionare politicamente chi non fosse nato nel XIX secolo incontrò notevoli resistenze. I giovani del 1830 si ritroveranno infatti, per molto tempo ancora, in malagevole compagnia con i più anziani e nella sostanza non riusciranno, in termini politico-ideologici, a prevalere: la partita risorgimentale non sarà dei mazziniani, l’unico vero nuovo partito comparso sulla scena italiana del primo Ottocento, bensì di quell’indistinto grumo moderato, dove, talvolta l’anagrafe, ma quasi sempre le suggestioni di tempi lontani finiranno sovente per prevalere. Perché, a ben vedere, in Italia, proprio la generazione degli anni francesi, quella che aveva fatto il battesimo del fuoco al tempo dell’eversione dell’antico regime, ed era stata con funzioni di governo dapprima al servizio di Napoleone e poi addirittura aveva collaborato spesso con la Restaurazione, costituisce una parte di grande rilievo nel movimento nazionale: questi uomini, che mai si definirono (et pour cause) una generazione, che mai apertamente reclamarono di aver dato un contributo decisivo alla modernizzazione della penisola, che avranno anzi cura di ripulire il loro passato dalla grave macchia di esser stati partitanti dei Francesi, giocheranno invece un ruolo decisivo negli sviluppi risorgimentali, perché detteranno le principali coordinate politiche all’interno delle quali la causa italiana troverà conclusione nei termini di uno Stato unitario.
La circostanza che taluni fossero a loro volta travolti dal crollo di Napoleone (si pensi a Ugo Foscolo, che fugge in Inghilterra o a Vincenzo Cuoco che si rinchiude nella pazzia) non deve nascondere come, nel grigiore e nel silenzio della Restaurazione, molti continuassero a giocare invece la loro partita, assicurando la concreta costruzione di quel modello liberale – dove la scelta costituzionale si accompagnava alla prudenza in materia di equilibri sociali – destinato a largamente prevalere sul partito della democrazia. E al riguardo sia sufficiente un nome su tutti: quello, straordinario invero, di Alessandro Manzoni, formatosi nella stagione napoleonica e tuttavia partecipe del movimento nazionale sino alla costituzione dello Stato unitario.
Le pagine che seguono tengono fermo su questo aspetto e tornano di conseguenza sulla genesi dell’Italia unita, avendo cura di restituire agli anni francesi il rilievo che la risorgimentistica, puntualmente avviando il movimento nazionale con l’età della Restaurazione, ha invece spesso negato loro. In questo ambito, non si distinguerà neppure fra un triennio 1796-1799, nel quale la penisola avrebbe incontrato la libertà e la democrazia, e una successiva stagione napoleonica, nel corso della quale le grandi novità giunte di Francia sarebbero state ricondotte a una dimensione amministrativa che escludeva ogni autonoma vita politica.
Piuttosto, tenendo assieme i due momenti, si suggerisce come una profonda linea di continuità contrassegni l’intero corso degli anni francesi: all’indomani del 1796, grazie all’invasione militare e per diretta iniziativa delle truppe d’Oltralpe, l’Italia tutta scopre la politica rivoluzionaria, che è fatta della diffusione di una stampa patriottica, dell’apertura di circoli costituzionali destinati a formare lo spirito pubblico, della creazione di un sistema culturale chiamato a sostenere con la forza delle idee le ragioni del nuovo ordine in Italia. Da nord a sud, grazie alla nascita prima delle repubbliche cisalpina e ligure, quindi di quella romana e napoletana, tra il 1796 e il 1799, la sociabilità rivoluzionaria si traduce in un originale spazio politico, fondato sull’esercizio di carte costituzionali esemplate su quella francese del 1795, che assicurano una nuova organizzazione del territorio, sanciscono le libertà del cittadino e ne promuovono la partecipazione alla vita pubblica. Sembra il trionfo dei principi egualitari, la cui definizione si legge infatti nelle lezioni di diritto costituzionale dettate, sul finire del 1797, da Giuseppe Compagnoni: l’inventore del tricolore italiano (e l’abbinamento non è casuale) tesse in quelle pagine il convinto elogio di un sistema fondato sulla democrazia rappresentativa, che egli reputa la sola forma di governo in grado di garantire la difesa delle inalienabili prerogative del popolo sovrano.
La causa dell’unità italiana, sia nei termini di una sola repubblica lungo tutta la penisola, sia nella forma di una federazione di soggetti plurimi quale stadio intermedio verso la nascita di uno Stato nazionale, origina in questo specifico contesto e sembra trovare accelerazione grazie alla situazione internazionale, dove la resa dei conti tra la Francia rivoluzionaria e l’Austria che ha sì perduto il Milanese, ma ancora minaccia la penisola grazie all’annessione di Venezia, vien data per imminente. Per questo motivo, tutti i circoli patriottici della penisola molto insisteranno sulle ragioni della guerra rivoluzionaria, sino a sfidare lo stesso governo di Parigi, che sembra non a torto preoccupato delle ripercussioni che lo scontro in armi avrebbe potuto comportare sui complessivi equilibri d’Italia.
È noto come la ripresa delle ostilità si risolverà in un disastro, perché il 1799, anziché portare alla libertà d’Italia, avrebbe ricondotto la penisola tutta sotto le insegne dell’antico regime: a nord gli austro-russi posero fine alla Repubblica cisalpina e assediarono Genova, a sud il cardinale Ruffo, alla guida delle masse sanfediste, rovesciò la Repubblica napoletana prima e quella romana subito dopo. Soprattutto i trionfi del prelato in armi, avvenuti in nome della tradizione sociale e a difesa dell’identità religiosa, avrebbero drammaticamente riassunto la mancanza di un largo consenso alla causa rivoluzionaria e squarciato il velo sul baratro che separava i sostenitori del nuovo ordine dalle collettività della penisola.
In un quadro siffatto prendeva forma la riflessione del già rammentato Vincenzo Cuoco, un giovane molisano che, esiliato in Francia per la partecipazione ai fatti del 1799, vi avviò la stesura del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, un’opera dove si sottolineava come il nuovo ordine rivoluzionario fosse sorto a Napoli (ed estensivamente nell’Italia tutta) per volontà di pochi e con l’ostilità dei più. Al momento di pubblicarlo a Milano, nel 1801, dove era giunto al seguito delle truppe francesi trionfatrici degli austriaci a Marengo, egli si proponeva però un intento diverso da quello a lungo accreditatogli di suggerire una prudente politica di moderazione: dolorosamente ricordando come il 1799 napoletano fosse stato una «rivoluzione passiva», perché aveva mancato di un diffuso consenso, egli suggeriva che la nuova stagione di libertà dischiusa in Italia dal ritorno di Bonaparte dovesse ricercare il più ampio sostegno sociale e molto differenziarsi, quindi, dai modelli politico-istituzionali di Francia che solo pochi mesi prima avevano fatto un drammatico fallimento.
Cuoco auspicava che tutto questo nascesse dall’iniziativa dei patrioti italiani, i quali avrebbero dovuto fondare l’unità della penisola mediante un diverso articolato rivoluzionario, che consentisse loro di guadagnare i favori popolari, sino ad allora mancati, che soli potevano permettere di stabilizzare il nuovo ordine. Sarà invece Bonaparte, ovviamente in modo molto diverso, a dare seguito concreto al suo suggerimento, procedendo nel corso degli anni alla conquista militare della penisola. Intorno al 1808, con l’esclusione delle due isole maggiori, l’Italia tutta era ormai in suo potere e ripartita in tre parti rette dal medesimo sistema di governo: a nord-est, con capitale Milano, era il Regno d’Italia, diretta trasformazione di quella Repubblica cisalpina che agli inizi del 1802 aveva mutato il nome in italiana, del quale Napoleone stesso cingerà la corona; a sud egli confermava il Regno di Napoli, dove in luogo del Borbone farà regnare dapprima il fratello Giuseppe e poi il cognato Murat; il resto del territorio, che comprendeva il Piemonte, la Liguria, la Toscana, il Lazio e l’Umbria, era invece direttamente annesso all’Impero dei francesi.
Una disponibilità di Napoleone nei confronti dell’unità italiana, che in seguito, sullo scoglio di Sant’Elena, avrebbe egli stesso trovato il modo di accreditare, è senz’altro da escludere: il suo interesse al riguardo rimase sempre inscritto nel sistema di potere di Francia e solo il convincimento che la penisola potesse concorrere alla sua politica imperiale lo indusse a uniformarla al sistema di governo nel frattempo messo a punto Oltralpe.
Questo si fondava sulla scelta di disciplinare, mediante opportuna codificazione, le conseguenze dell’eversione della feudalità e dell’uguaglianza di fronte alla legge, e si riprometteva largo appoggio mediante l’apertura delle carriere ai talenti e l’introduzione del mero censo quale criterio di classificazione gerarchica. Il medesimo approccio Bonaparte ripropose in tutta la penisola, convinto che lo strumento di ricomposizione sociale impiegato in Francia facilitasse, anche da questo lato delle Alpi, la sua politica della mano tesa nei confronti dei gruppi di potere locali. Da qui, in tutta la penisola, sia l’attenzione verso taluni settori della nobiltà – per i quali la partecipazione al nuovo ordine doveva costituire una forma d’indennizzo per i perduti privilegi di ceto – sia la preferenza accordata al merito nella formazione e nella selezione dei quadri burocratici e militari. L’obiettivo era quello di plasmare una nuova classe dirigente, cooptando, sotto il segno della modernizzazione, nobiltà e talenti: in tal modo, molto insistendo nella ricerca del consenso nobiliare, Napoleone dava piena forma a quel concetto di Italia che aveva alla mente, ossia un luogo d’incontro, indipendentemente dall’entità statuale, di quanti, in condizione sociale comunque di vantaggio, intravedessero nel suo sistema di governo un’opportunità per mantenere e rilanciare (oppure solo acquisire) una identità di potere.
La risposta non mancò, perché nella classe dirigente della penisola si fece presto strada la volontà di costruire, usando i materiali messi a disposizione dalle stagioni passate, una tradizione nazionale, che fosse di basamento all’identità culturale del nuovo ordine: di questo programma, ben visibile sullo stesso terreno della giurisprudenza, fanno prova molteplici progetti, nel campo delle lettere come in quello delle scienze, tutti animati dal desiderio di dimostrare l’esistenza di una scuola italiana alla quale tornare per acquisire un profilo originale rispetto all’esempio di Francia. L’ampiezza del fenomeno è tale da escludere che una prospettiva siffatta potesse incontrare la risoluta opposizione di Napoleone, il quale guardò invece al processo di nazionalizzazione con largo interesse, sicuro che nella ricerca di siffatte, specifiche vie alla modernità stesse una concreta possibilità di stabilizzazione del nuovo Stato e quindi anche un’occasione di rafforzamento del proprio progetto egemonico.
Da qui, nonostante il luogo comune circa una stagione napoleonica affossatrice delle libertà, la nascita di una molteplicità di ordini costituzionali, a Milano come a Napoli, che fanno prova della volontà di ridurre la distanza tra il nuovo ordine e la società e al tempo stesso riflettono la preoccupazione di definire un ruolo, anche politico, per la nuova classe dirigente. Sin dal 1802, nel caso della Repubblica italiana, la costituzione non solo riconosceva il cattolicesimo quale religione di Stato, ma divideva la rappresentanza in tre collegi (dei possidenti, dei dotti e dei commercianti), eletti a base censitaria, chiamati a comporre le liste dei candidati agli incarichi di governo. La natura elitaria di questi organi, successivamente confermati anche nel terzo statuto del Regno d’Italia, non deve tuttavia nascondere l’intento primo del legislatore: promuovere il consenso dei ceti più significativi d’una società ancora pervasa dal discrimine dell’antico regime e in tal guisa favorire la partecipazione alla vita politica dei soggetti reputati socialmente ancora dominanti. Uguale preoccupazione di lì a qualche anno avrebbe mosso Giuseppe Bonaparte al momento di lasciare il trono napoletano al cognato Murat: lo statuto concesso da Baiona addirittura aggiungeva ai tre collegi già sperimentati a Milano le classi del clero e dell’aristocrazia, e confermava pertanto l’auspicio di riannodare antiche e nuove istituzioni rappresentative procedendo a una fusione del modello di rappresentanza napoleonico con quello d’origine cetuale.
È ancor oggi difficile dire quanto del complessivo progetto di Bonaparte riguardo alla penisola sia andato a buon fine. Sembra infatti che al decisivo superamento dei vincoli di solidarietà verticale propri dell’antico regime non tenesse dietro una piena adesione dell’antica aristocrazia al nuovo ordine, col risultato che la ricerca dell’amalgama tra nobiltà e borghesia in una omogenea classe dirigente di formazione postrivoluzionaria trovò sì forma nell’ambito della possidenza, ma si rivelò di assai più difficile realizzazione sul terreno del nuovo ordine amministrativo. Sul versante degli antichi patriziati mai venne del tutto meno la nostalgia per l’autogoverno locale che l’antico regime aveva puntualmente consentito, e di cui Napoleone nulla intese conservare, col risultato che il sostegno nei suoi confronti si mantenne solo fin quando i successi militari permisero la crescita delle onorificenze. Di contro, negli ambienti dei talenti, le scelte furono per certi versi di tipo contrario: le resistenze nei confronti di una politica che troppo sacrificava gli interessi d’Italia a quelli di Francia si mantennero sempre vive, trovando occasione di manifestarsi nelle forme dell’associazionismo latomico e nelle ripetute allusioni contro lo strapotere d’Oltralpe.
E tuttavia, al momento del crollo napoleonico, da destra come da sinistra, dai settori più conservatori come da quelli più radicali, non mancarono le voci volte a salvaguardare l’indipendenza dei regni: nel caso napoletano, Murat si vide addirittura costretto a tradire il cognato sotto la pressione di un partito nazionale, che lo avrebbe in breve tempo obbligato a concedere un’altra carta costituzionale e a muover addirittura guerra all’Austria in quello sfortunato tentativo di unificare politicamente la penisola tutta che appassionò in pari misura Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni; nel caso del Regno d’Italia, è noto come, in occasione dei drammatici avvenimenti milanesi dell’aprile 1814 che portarono al ritorno dell’Austria, non mancarono le voci a favore dell’indipendenza, di cui il trattato di Gian Domenico Romagnosi, Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa, scritto in quel frangente, costituisce un segnale importante, perché si proponeva la salvaguardia dell’ordinamento statuale di impronta napoleonica mediante la sua declinazione in una chiave di pieno riconoscimento delle libertà politiche.
Diverse le ragioni che suggerivano il mantenimento del Regno d’Italia: per l’aristocrazia esso avrebbe significato la grande occasione di recuperare un primato politico locale che Napoleone aveva troppo limitato; per i nuovi venuti, molto avvantaggiatisi negli anni francesi, era il solo modo di salvaguardare una rendita di posizione altrimenti destinata ad esser travolta dalla reazione austriaca. Tutti, non di meno, consideravano improponibile un semplice ritorno all’antico regime e ritenevano che la centralità di quanti avevano governato la stagione napoleonica, seppur destinata ad essere diversamente declinata, non potesse in alcun modo essere contestata.
Proprio questo convincimento avrebbe inevitabilmente indirizzato i governi della Restaurazione sui binari della continuità: la mancanza di un personale di governo che potesse ricondurre al 1796 gli equilibri sociali e politici d’Italia obbligò subito le corone restaurate ad amalgamare aristocrazia legittimista e ceti di governo d’età napoleonica nel quadro di una alleanza che ufficialmente dannasse la memoria di Bonaparte, ma concretamente si giovasse del suo grande lavoro. L’Italia della Restaurazione prendeva così le mosse esecrando la memoria della rivoluzione francese e del despota Bonaparte, rifiutando in pari misura la libertà politica e il potere verticistico per restituire la responsabilità del governo alla società cetuale: non di meno, questo ritorno al passato era un mero argomento polemico, che a stento celava la soddisfazione dei sovrani tornati sul trono di poter governare liberi dai tanti strumenti di controllo d’antico regime che proprio il tiranno giunto di Corsica aveva provveduto a sciogliere.
La Restaurazione fu altro, rispetto a quanto suggerisce il termine, anche sotto il profilo della geografia politica: al Congresso di Vienna, l’Italia venne profondamente ridisegnata e, fatta salva la restituzione del potere temporale al pontefice, fu sancito il predominio austriaco sia mediante la nascita del Regno del Lombardo-Veneto, sia per la via del controllo dinastico nei confronti della Toscana e di Modena. In funzione subordinata a Vienna, venivano poi premiati, con allargamenti territoriali, il re sabaudo e il Borbone di Napoli: il primo ebbe la Liguria, il secondo fondò, nel 1816, il Regno delle Due Sicilie, come conseguenza della sua decisione di unire l’isola al regno meridionale.
Quest’ultima concessione nasceva dalla volontà delle grandi potenze di spegnere anche l’ultima esperienza costituzionale ancora presente in Italia: in Sicilia, infatti, dove Ferdinando di Borbone aveva trovato rifugio da Napoleone nel 1806, il ministro plenipotenziario inglese lord Bentinck gli aveva imposto, nel 1812, di concedere una costituzione esemplata sul modello britannico. Lo scontro in armi con i francesi veniva in tal modo proposto quale una battaglia di libertà contro il dispotismo di Bonaparte: in prima battuta, non di meno, quella scelta mise fine all’antico regime nell’isola e assicurò l’eversione della feudalità, che ebbe tuttavia luogo mediante un largo rafforzamento dell’aristocrazia stessa, alla quale venne riconosciuto qual proprietà privata quanto sino ad allora deteneva come una mera concessione feudale. Non di meno, l’esercizio della costituzione comportò anche una stagione di grande libertà, all’interno della quale il Parlamento divenne il centro di un dibattito politico presto articolato da partiti contrapposti e dominato, sulla sinistra dello schieramento, da un nuovo ceto politico in precedenza molto sensibile alle novità di Francia.
All’indomani del 1815, la vicenda costituzionale della Sicilia era tuttavia condannata dalla pretesa austriaca di tutto ricondurre sotto il segno, almeno formale, dell’assolutismo. Ferdinando di Borbone ebbe pertanto via libera all’abrogazione della carta e nessuno obiettò che per l’occasione estendesse all’isola quell’ordinamento di governo ereditato dalla stagione francese, puntualmente mantenuto, dopo la caduta di Murat, nella parte peninsulare del Regno. Nell’isola, l’operazione suscitò consensi presso quanti intravedevano nel modello amministrativo modi di coinvolgimento diretto nella gestione del potere locale, ma suscitò risentite riserve presso chi aveva fatto dell’esperimento costituzionale del 1812 l’occasione per ribadire una specificità politico-istituzionale isolana che il nuovo ordine di governo sembrava molto inficiare.
In tal modo, si apriva una frattura tra la dinastia borbonica e la Sicilia, che avrebbe finito per molto influire sugli sviluppi del Risorgimento: per il momento, non di meno, la nascita delle Due Sicilie sanciva, anche nell’isola, l’evoluzione in senso amministrativo della Restaurazione e confermava una profonda linea di continuità con la precedente stagione napoleonica. Questa peculiarità si traduceva, però, anche in una grave impasse per l’assolutismo, che del modello napoleonico non ereditava solo la complessità delle strutture di governo, ma anche l’esiguità della base sociale. Non a caso, la Restaurazione si ritrovò presto sotto il tiro di opposte contestazioni: d’un lato era chi, formatosi negli anni napoleonici, reclamava che i nuovi sovrani, in linea con la scelta di continuità compiuta, si orientassero verso una dimensione costituzionale delle nuove statualità per trovarvi l’antidoto alla debolezza dei consensi; dall’altro sarebbero state molte le critiche di parte legittimista, che lamentavano come i sovrani assoluti a parole sostenessero il ritorno all’ordine tradizionale, ma nei fatti proseguissero addirittura l’opera di Bonaparte.
A fronte di queste plurime sfide, l’ordine imposto dall’Austria immediatamente crollò: nell’estate del 1820, la notizia che in Spagna un pronunciamento di militari aveva riportato in esercizio la costituzione di Cadice del 1812, fece sì che a Napoli alcuni ufficiali, forzando la mano a re Ferdinando, ottenessero l’immediata applicazione della medesima carta anche alle Due Sicilie. La decisione di emulare la Spagna non era priva di acume politico: la sua costituzione sanciva il primato di un legislativo monocamerale, eletto a suffragio universale maschile, nei confronti della Corona, ma fondava anche l’identità politica della nazione sulla fede cattolica. Essa sembrava insomma confermare l’istanza costituzionale che aveva attraversato tutta l’Italia di età napoleonica e al tempo stesso prevenire ogni dissenso chiamando addirittura la Chiesa a farsi promotrice di quella svolta politica.
Nel Mezzogiorno d’Italia, dove era ancora forte il ricordo del sanfedismo, quell’ordinamento sembrava pertanto il più adatto ad assicurare un ampio consenso, né sotto questo profilo il calcolo si dimostrò poi sbagliato, perché le province appoggiarono pienamente quella scelta e la messa in esercizio della carta spagnola aprì una stagione di libertà, giusto offuscata dalla rivolta di Palermo, dove, pur inalberando il vessillo di Spagna, si reclamò con la forza delle armi il ritorno dell’isola all’indipendenza. Tuttavia, l’ondata separatista, che venne subito frenata dal lealismo di cui dettero prova Messina e Catania e poi sedata da un intervento militare, non riuscì a frenare gli sviluppi in senso democratico della vita politica, che in pochi mesi dimostrò come il modello amministrativo di ascendenza napoleonica fosse pienamente compatibile con un concreto esercizio costituzionale. Questo successo spiega perché, nella primavera del 1821, nella cittadella di Alessandria, una rivolta militare, che mutò il nome del Piemonte in Regno d’Italia e reclamò la pronta guerra all’Austria, dichiarasse che anche Torino dovesse seguire l’esempio di Spagna. L’abdicazione del re Vittorio Emanuele I in favore del fratello Carlo Felice, al momento assente, fece sì che ad assumere la guida dello Stato fosse il nipote Carlo Alberto, già in odor di liberalismo, il quale immediatamente accettò di promulgare la costituzione di Cadice.
Si trattò di un esperimento di breve durata, perché già l’Austria aveva deciso l’intervento in armi contro le Due Sicilie, che mise presto termine a entrambi i tentativi costituzionali. Tuttavia, nel frattempo, non erano mancati i segnali di un forte consenso sociale alla svolta politica. Ne son prova, soprattutto nel Mezzogiorno, i trionfi della carboneria, la società segreta sorta in età napoleonica e inutilmente contrastata da Murat, che proprio in occasione del 1820 si diffuse a macchia d’olio in tutto il Mezzogiorno. Gli elenchi degli iscritti, divenuti pubblici nel corso della stagione costituzionale, suggeriscono una forte partecipazione e indicano come sulle modalità di aggregazione facesse premio la sociabilità di antico regime: non di meno, la mancanza della tradizionale guida aristocratica e religiosa suggerisce pure come la possidenza avesse sostituito la nascita come criterio regolatore della gerarchia sociale, senza per questo ledere l’ordine corporato su cui fondavano le società tradizionali. Da qui la sostanziale adesione di massa al nuovo ordine, che avviava, attorno a un «accordo de’ lumi coll’unico culto», un chiaro processo di nazionalizzazione del Regno meridionale.
Così, benché mai siano mancate in storiografia le note di sufficienza su quella stagione politica – e il declassamento terminologico da rivoluzioni costituzionali a moti del 1820-21 bene riflette l’opera di svalutazione puntualmente condotta – merita sempre ricordare come solo la sconfitta militare a fronte dell’intervento austriaco ne segnasse il tracollo e la riducesse, soprattutto in Piemonte, all’implausibile conato rivoluzionario di pochi illusi. Invece, quelle vicende costituiscono uno snodo decisivo nella lettura del Risorgimento, perché dai loro esiti si dipartirono differenti prospettive politiche, tutte destinate a molto pesare sul movimento nazionale. In primo luogo, non bisogna sottovalutare come il crollo degli esperimenti costituzionali restituisse rilievo alle ragioni dei legittimisti. Questi rilanceranno le accuse alle monarchie amministrative di essere inevitabilmente portate alla deriva costituzionale, proprio perché rifiutavano la presenza politica di quei corpi intermedi, dove si affollava l’aristocrazia, che nell’ordine di antico regime direttamente partecipavano alle funzioni di governo. Da qui, nelle penne di parte reazionaria, originavano la riproposizione del particolarismo locale quale cellula di ogni ordine tradizionale (e dunque solo antidoto al liberalismo) nonché gli struggenti richiami al paternalismo quale strumento di governo capace di proteggere le comunità locali dai devastanti effetti della modernità. L’immagine di un sovrano attento ai bisogni della collettività – e pronto a sacrificare ogni cambiamento pur di non alterare i valori tradizionali della società di antico regime – costituisce non a caso un argomento polemico sempre in circolo nelle argomentazioni dei legittimisti: lungo tutto l’Ottocento, i presupposti e i rimedi ora ricordati torneranno negli scritti, fra gli altri, di un principe di Canosa a sud, di un conte Monaldo Leopardi nelle Marche papaline, nonché del conte Solaro della Margarita nel Piemonte ormai costituzionale. E le loro considerazioni, tutte improntate alla nostalgia per un buon ordine antico, avrebbero agevolmente superato la boa del 1861, quando soprattutto il brigantaggio nell’Italia meridionale, mostrando una preoccupante analogia con il 1799 sanfedista, sembrò confermare le ragioni dei legittimisti circa l’estraneità o, peggio, l’ostilità della maggioranza degli abitanti della penisola verso la cultura politica del Risorgimento.
Su altro versante, segnatamente meridionale, la sconfitta della rivoluzione costituzionale del 1820-21 sortirà due effetti ugualmente di grande rilievo per gli sviluppi futuri del movimento nazionale. D’un lato, esalterà le ragioni del separatismo siciliano, che tornerà ad inalberare il vessillo dell’indipendenza in nome di quella costituzione siciliana del 1812 che la dinastia «napoletana» dei Borbone aveva proditoriamente abrogato; la cultura politica isolana faceva così divorzio da quella del Mezzogiorno peninsulare e questa contrapposizione avrà un ruolo determinante, nel 1848 prima e nel 1860 poi, perché la soluzione dello Stato unitario potesse, in qualche modo imprevedibilmente, prevalere. La dissidenza siciliana avrebbe inoltre indebolito quel processo di nazionalizzazione del Regno meridionale, che il ritorno all’assolutismo poteva solo frenare e la cui vivacità proprio la svolta del 1848, tradottasi in un regolamento di conti tra i gruppi più pronunciatamente democratici e altri rimasti invece legati al mero portato regolatore della costituzione del 1820, avrebbe illuminato.
Sotto altro angolo ancora, poi, lo snodo del 1820-21 restò a lungo un punto di riferimento anche per i circoli patriottici dell’Italia centro-settentrionale: nel Piemonte, che aveva conosciuto la breve parentesi costituzionale, quell’istanza continuerà ad alimentare i circoli politici nella discrezione delle vendite carbonare, mentre nelle altre aree sempre il latomismo sarà occasione per ribadire, sotto il segno della richiesta delle libertà politiche, un momento d’incontro tra forze sociali e aspirazioni ideali comunque contrapposte all’assolutismo.
Come nel 1796, la svolta arriverà ancora una volta d’Oltralpe: altra rivoluzione, nel 1830, scuote la Francia in nome di quella carta costituzionale benevolmente concessa nel 1814 da Luigi XVIII e molto limitata dal suo successore Carlo X. La prima conseguenza delle gloriose giornate del Luglio parigino fu il cambio di dinastia: Luigi Filippo d’Orléans venne acclamato dal vecchio La Fayette come colui che, tutto fondando sulla Charte, restituiva la Francia a quel destino di libertà irreversibilmente dischiusole dal 1789. Da questo lato delle Alpi, quelle vicende si tradussero in una immediata ripresa del movimento nazionale, di cui son prova le trame insurrezionali che in Emilia e nella Romagna la carboneria pose in atto nel corso del 1831.
Tuttavia, sono altre le conseguenze più durature che il Luglio parigino assicurò alla cultura politica italiana: in primo luogo, l’archiviazione del tradizionale interesse per il costituzionalismo di Spagna e la scelta di guardare con rinnovata attenzione alla Charte. Si tratta di uno spostamento di preferenze che, se non stravolse l’universo ideologico di quanti facevano del costituzionalismo la ragion d’essere della loro militanza patriottica, implicò, non di meno, un allargamento della base dei consensi al riguardo: l’interesse per l’esempio di Francia comportò infatti l’opzione in favore di un bicameralismo la cui seconda assemblea fosse di nomina regia e questa prospettiva rappresentò, per le tante aristocrazie della penisola rimaste deluse dal concreto esercizio della Restaurazione, un’offerta di gran lunga più allettante del monocameralismo di Spagna. Alla causa della libertà presero allora a volgere nuovi gruppi nobiliari, che nel liberalismo mediato dalle scelte sovrane intravidero l’occasione per rientrare nel gioco politico da specifiche posizioni di forza: si trattò di una svolta significativa, perché questi nuovi venuti al campo patriottico, in linea con gli sviluppi del liberalismo d’Oltralpe, puntarono a loro volta a dominare, anche in termini culturali, il movimento nazionale per rafforzarne la declinazione in chiave moderata.
Questa prospettiva venne tuttavia subito bilanciata dalla circostanza che non solo i consensi, ma anche i dissensi nei riguardi di Luigi Filippo trovarono il modo di riversarsi nel contesto del patriottismo italiano: se in Francia la Monarchia di Luglio venne presto sfidata da un repubblicanesimo profondamente rinnovato e da un mondo cattolico che reclamava la libertà della Chiesa dalle ingerenze della statualità, non diversamente, sul versante italiano, presero a muovere le cose nel campo patriottico, con la nascita per un verso del mazzinianesimo e per altro con il dissenso di molti credenti verso una Restaurazione che molto mortificava la Chiesa, riducendola al perno ideologico dell’assolutismo.
In Francia queste due opposizioni avrebbero finito per fare anche incontro, come nel caso di Lamennais, il quale motivò il passaggio al campo della democrazia, ricordando come ogni buon cristiano dovesse prender posizione contro un liberalismo che era la mera traduzione politica dell’egoismo sociale seguito al crollo della società d’antico regime. In Italia, questa prospettiva si fece una più stentata strada (anche se le accuse mosse dalla Restaurazione a molti religiosi, quorum Gioberti, di esser mazziniani proprio questo nesso stavano a denunciare): tuttavia la rinnovata religiosità e l’istanza repubblicana si rovesciarono entrambe nel contesto italiano e finirono per molto ridefinire il profilo politico e ideologico del movimento nazionale. Negli anni che precedono il 1848, il mondo cattolico iniziò infatti la propria progressiva campagna di avvicinamento alla causa nazionale, prendendo le distanze dalla Restaurazione (accusata di mortificare la libertà della Chiesa) e accostandosi all’istanza costituzionale in un quadro di riferimento che, tutto centrando sui valori della solidarietà cristiana, si voleva ancora pienamente contrapposto al 1789. Lungo questa direttrice, non furono pochi, in seno alla Chiesa, a intravedere nell’istanza nazionale una grande speranza di palingenesi, che liberasse la società dalla violenza di una statualità d’ascendenza comunque napoleonica e la restituisse a un nuovo (e più giusto) ordine civile.
Per questa via, larga parte del cattolicesimo lasciava il campo della Restaurazione e faceva ingresso in quello patriottico, senza però transitare da una convinta adesione al liberalismo: sulla difesa della Chiesa dalle invadenze regalistiche nasceva, ad esempio, l’impegno politico di Antonio Rosmini, alla cui scelta patriottica, fondata sulla denuncia del carattere dispotico delle statualità uscite dal 1789, la cultura controrivoluzionaria, ovviamente collocata in altro quadro storico e animata da ben altra sensibilità, sembra tuttavia fornire importanti materiali.
Nelle proposte di superare l’ordine della Restaurazione, il mondo cattolico era però destinato a presto dividersi: d’un lato, come si è detto, sarebbe stato un costituzionalismo venato di suggestioni passatiste, che rifletteva il distacco dal modello politico liberale; dall’altro, non sarebbero mancate le fughe in avanti (proprio sull’esempio di Francia) alla ricerca di un quadro democratico che si volesse alternativa concreta all’individualismo del 1789; da altro ancora si sarebbe aperto il confronto con quanti suggerivano una soluzione del problema nazionale nella chiave di un prudente liberalismo, che tutto fondasse sulle sicurezze offerte dal profondo conservatorismo della società italiana.
Dove il dialogo si rivelò tuttavia impossibile fu con la Giovine Italia, il movimento repubblicano fondato nel 1831 da Giuseppe Mazzini nell’esilio di Marsiglia. A quella data, l’uomo aveva già trascorsi carbonari e costituzionali: tuttavia l’incontro con il nuovo repubblicanesimo di Francia lo indusse a subito entrare in concorrenza con gli altri esuli italiani, che tenevano invece fermo sulla dimensione segreta dell’impegno politico. Le linee guida del suo programma erano da subito chiare: la nazione era la sola depositaria della sovranità, che per il tramite dell’insurrezione di popolo avrebbe fondato una repubblica unitaria nella penisola, il cui modello costituzionale sarebbe stato definito da una assemblea eletta a suffragio universale. Indicazioni siffatte rendevano inevitabile lo scontro con il latomismo carbonaro, che giunse alle estreme conseguenze nel 1834, quando il fallito tentativo insurrezionale mazziniano in Savoia, permise a Filippo Buonarroti – l’anziano robespierrista compagno d’avventura di Babeuf, ancora punto di riferimento per molti esuli italiani – di denunciare l’insensatezza del suo giovane rivale, il quale, rifiutando la discrezione del latomismo, poneva tutti i patrioti nel mirino delle tante polizie della Restaurazione. A questa sfida, Mazzini reagì però con pari durezza, lamentando come a parlare fosse un vecchio che aveva puntualmente fallito e condannandone la logica autoritaria e verticistica: questo scontro generazionale si risolse presto a tutto vantaggio del più giovane dei contendenti, che già attorno al 1835 aveva ormai partita vinta e poteva orientare il repubblicanesimo italiano lungo le medesime coordinate di quello di Francia. Della linea politica dei democratici francesi egli faceva suoi il rifiuto della dittatura rivoluzionaria, le critiche ai precedenti autoritari della grande rivoluzione, le rassicurazioni ai ceti medi circa il rispetto della proprietà, l’incoraggiamento all’associazionismo operaio per risolvere una questione sociale che proprio il liberalismo aveva ingigantito.
La forza rivoluzionaria del messaggio di Mazzini stava proprio nella scelta di legare la causa italiana a quella dei repubblicani di Francia. Questo aspetto è spesso passato inosservato, perché, nella competizione con le altre componenti risorgimentali, egli dovette presto difendersi dalle facili accuse di voler trasportare sul versante italiano programmi e sensibilità che non appartenevano al modello culturale nazionale. Anche per questo motivo, Mazzini, pur senza mai sconfessare il significato della rivoluzione francese, suggerì come quella stagione fosse ormai esaurita e spettasse all’Italia la guida del rinnovamento rivoluzionario dell’Europa intera, mentre, su altro versante, mai mancò di insistere sul sentimento cristiano della nuova generazione romantica. In questo quadro si colloca (e trova spiegazione) il formulario mazziniano, perché l’idea mistica della nazione, la rivendicazione del primato civilizzatore italiano, la stessa endiadi «Dio e popolo», anziché derive spiritualistiche, si prefigurano quali utili strumenti per collocare nell’alveo della democrazia le molte tensioni ideali che attraversavano l’Italia della Restaurazione.
In tal modo, il politico nettamente prevaleva sul sociale: nel senso che, secondo Mazzini, solo la soluzione del problema nazionale avrebbe consentito di affrontare con successo la grave crisi morale, di cui era prova la rinascita del sentimento religioso, nonché quella sociale, ravvisabile, come in Francia, nelle gravi difficoltà conosciute dal mondo del lavoro. Su quest’ultimo punto, Mazzini suggeriva, sull’esempio dei repubblicani di Francia, la via dell’associazionismo e questo messaggio conseguì presto brillanti risultati: sin dagli anni Trenta, il suo movimento si diramò per tutta l’Italia centro-settentrionale, vantando larghe adesioni nelle principali città e confondendo al proprio interno, sempre in analogia con il repubblicanesimo di Francia, il mondo del lavoro e del piccolo commercio con la borghesia dei talenti.
Proprio questo indubitabile incontro sociale sotto le insegne dell’unità italiana consentì a Mazzini di accreditare la Giovine Italia come il solo soggetto politico rivoluzionario presente in tutta la penisola. Certo, nella rivendicazione vi era più d’una esagerazione, non fosse altro perché già a sinistra, sin nello stesso campo repubblicano, egli non mancava di oppositori: il milanese Giuseppe Ferrari, anch’egli esule in Francia, prese le distanze sul tema dell’unità e dell’indivisibilità della futura repubblica, guardando con interesse alle prospettive dischiuse da Pierre-Joseph Proudhon; mentre il toscano Giuseppe Montanelli, portato dal sansimonismo a guardare con interesse alla questione sociale, pur vicino a Mazzini nella sensibilità religiosa, mai volle accettare l’ipotesi di un deciso statalismo nel riequilibrio delle sperequazioni sociali. E tuttavia, solo la Giovine Italia dispose di un modulo organizzativo capace di lanciare una sfida significativa, in nome della democrazia repubblicana, a quel variegato fronte risorgimentale la cui cultura politica sembrava invece declinare per la via di un prudente liberalismo e di un convinto conservatorismo sociale.
Va da sé che molti erano gli ostacoli da superare perché il mazzinianesimo divenisse egemone nel campo risorgimentale: l’impossibilità di un libero apostolato frenava i consensi nel mondo urbano, mentre ancor più grave appariva la mancanza di uno specifico programma per le plebi rurali, che pure definivano l’identità sociale della penisola e rimanevano sotto il pesante tallone del patronage. Questi elementi di fragilità della proposta politica mazziniana si appalesavano soprattutto nel Mezzogiorno, dove si manteneva salda la guida dei tradizionali gruppi di potere e dove lo stesso movimento patriottico, ancora fondato sul latomismo carbonaro, sembrava avere assunto una declinazione affatto specifica, che sul costituzionalismo (di parte siciliana o napoletana poco importa) tutto sembrava puntare.
A queste difficoltà Mazzini rispose con una specifica attenzione nei riguardi del Sud, di cui fanno prova i contatti con Nicola Fabrizi (che da Malta fomentava disordini in Sicilia e a Napoli) e l’attenzione sempre portata verso il popolo meridionale, reputato in possesso d’un amor di patria che lo rendeva dotato di grandi potenzialità rivoluzionarie. Lungo questa direttrice – scontrandosi con quanti, in Sicilia nel 1837 e in Calabria nel 1844 tenevano fermo sulla mera declinazione costituzionale delle proteste – egli avrebbe tentato addirittura di scavalcarli, guardando con interesse all’iniziativa dei fratelli Bandiera di sbarcare in Calabria per avviarvi una rivolta repubblicana. La loro fucilazione (luglio 1844) segnò una grave battuta di arresto per il mazzinianesimo, perché le polemiche nei riguardi del suo avventurismo si unirono alle denunce circa l’implausibilità dell’opzione unitaria e parvero favorire l’ascesa di un moderatismo pronto a sostenere, in accordo alle diverse sensibilità locali, una soluzione federativa del problema italiano.
Questa prospettiva accompagnò il distacco dal modello di potere bonapartista che, pur tra molteplici resistenze e in modo niente affatto uniforme, prese forma soprattutto nell’Italia centro-settentrionale. Era la rivolta dei singoli gruppi di potere locali contro una Restaurazione che aveva confermato il sistema di governo napoleonico: da questo rifiuto originava l’interesse per altri modelli costituzionali e il convincimento che le differenze all’interno della penisola potessero trovare una soluzione solo mediante il pieno riconoscimento di tante diversità. Ne fa prova la riscoperta, sin dal 1823, della leopoldina costituzione toscana di fine Settecento operata da Gino Capponi, collaboratore di Giovan Pietro Vieusseux nella redazione di quella Antologia che nell’Italia della Restaurazione d’un lato contribuì al rinnovamento culturale e dall’altro fu tribuna di rilievo delle correnti moderate. Ma la ricerca di una liberalizzazione della vita politica non si limitò a rintracciare nel passato possibili esempi di ordinamento costituzionale: nella Lombardia austriaca, il rifiuto dell’accentramento di governo suggerì un forte ritorno allo studio e alla valorizzazione delle specificità locali, che a sua volta avrebbe favorito la nascita di programmi culturali chiamati a raccogliere le componenti più vive della società lombarda. In questo quadro, dove l’attenzione al dato socio-economico costituiva argomento imprescindibile, presero forma le considerazioni politiche di Carlo Cattaneo, il cui repubblicanesimo, senza mai aderire al modello mazziniano, ugualmente si terrà sempre distante dalla proposta moderata. Il suo federalismo, fondato sulla valorizzazione dei poteri locali e sulla delega agli organi centrali di governo delle sole funzioni di utilità generale, non aveva infatti nulla a che dividere con il municipalismo dei conservatori, perché dove questi ultimi coglievano il bastione della tradizione sociale (e di governo), Cattaneo poggiava invece un progetto democratico, in cui la difesa delle particolarità locali fosse a sostegno di una politica di superamento delle troppe differenze ancora intercorrenti fra le varie parti d’Italia.
Tuttavia, queste sue riflessioni nascevano dalla originale lettura di una realtà socio-economica molto avanzata rispetto al resto della penisola e non potevano pertanto costituire un programma culturale sul quale, negli anni della Restaurazione, fondare un’ampia convergenza a carattere nazionale. Non è casuale che Cattaneo rimanesse infatti in posizione isolata e che a riscuotere un largo consenso fossero i moderati toscani, i quali tutti facevano dell’interesse per le realtà locali l’occasione per prospettare nell’intera Italia un movimento nazionale sotto le rassicuranti insegne di un conservatorismo economico ancor prima che politico. Prendevano forma da qui sia il rifiuto degli esempi politici stranieri, sia l’appassionata ricerca di modelli costituzionali che apparissero in linea con il portato delle specifiche tradizioni politiche: sulla traccia di Niccolò Tommaseo, che dalla Firenze del Vieusseux ammoniva a metter da parte ogni ammirazione per il modello di Francia, in Piemonte Cesare Balbo, che pure nel 1820 era stato vicino ai costituzionali, aveva parole assai dure nei confronti della carta di Cadice, mentre Massimo d’Azeglio, nello stesso torno di tempo, si scagliava contro il modello politico della carboneria.
Queste note polemiche, sviluppate in nome di una tradizione politica italiana che datava al lontano XVIII secolo e sulla quale si era abbattuta l’ondata distruttrice del napoleonismo, erano ovviamente strumentali, perché riflettevano lo scoperto intento di portare al campo nazionale forze altrimenti tentate dalla tradizionale lusinga passatista. Esse erano non di meno di scarso fondamento, perché la denuncia degli anni francesi solo in parte era il frutto di una nuova generazione, e per un segmento niente affatto inconsistente erano invece il portato di uomini ormai assai maturi, che proprio alla stagione napoleonica dovevano le posizioni di rilievo che neppure la Restaurazione era stata in grado di strappare loro. Anzi, saranno soprattutto questi uomini a recuperare, nell’indistinto grande fiume del moderatismo, sia il tema religioso, sia l’attenzione verso il municipalismo, sia la diffidenza nei confronti dell’articolazione diffusa dei poteri dello Stato.
La scelta dei temi suggerisce come il proposito fosse quello di togliere proseliti al campo dell’ultraconservatorismo, dimostrando come il movimento nazionale, tagliate le ali a ogni radicalismo di matrice carbonara e mazziniana, fosse un brillante interprete della società italiana così come era articolata nella penisola. Così, nelle parole del toscano Raffaello Lambruschini, abate e al tempo stesso possidente, la religione si confermava «garanzia dell’ordine pubblico» e costituiva il presupposto perché il movimento nazionale dirigesse la propria azione nei termini della filantropia e del paternalismo. Sul medesimo terreno, ancora Niccolò Tommaseo prendeva la parola per esaltare le libertà locali, sottolineando come fossero la culla delle classi dirigenti e spettasse conseguentemente al movimento nazionale (e in futuro alla nuova Italia) di molto promuoverle. L’ideale comunale, che veniva proposto in alternativa all’accentramento di governo, nasceva pertanto dalla certezza che soprattutto nei piccoli centri fosse quel notabilato di possidenti sul cui solo concorso era possibile imbastire mirate forme di governo del territorio.
Cultura, sentimento religioso e paternalismo di governo – tutti fortemente radicati nei rapporti sociali che reggevano la vita contadina – divenivano così altrettanti requisiti per assicurare, nel quadro del pieno credito al movimento nazionale, un ordinato cambiamento di governo, cui non a caso era chiamata a concorrere l’aristocrazia, atteso che il suo riconosciuto primato sociale molto poteva per avviare al progresso un mondo ancora largamente arretrato.
Era una chiara equiparazione tra aristocrazia e nazione, che molto dice circa l’identità sociale del moderatismo e suggerisce come per questi uomini il rinnovamento d’Italia fosse un affare di pochi nell’interesse neppur di tutti, ma di taluni soltanto. All’interno del mondo risorgimentale, questa corrente concorreva pertanto a fornire un quadro politico-culturale di sicuro riferimento per i ceti abbienti, dove la ricerca di un passato di progresso rispetto al bonapartismo, l’attenzione per il rinnovamento spirituale e il richiamo ai valori del municipalismo valevano tutti a comporre un originale modello politico. Non di meno, proprio in questo ambito si palesavano anche le fragilità della proposta moderata: il valore sociale della religione, il rispetto delle gerarchie, l’impegno politico e di governo dei ceti abbienti nulla arrivavano a dire circa i modi concreti mediante i quali superare l’esperienza storica della Restaurazione.
Al dilemma di come raccordare molteplici forme di statualità in una complessiva proposta istituzionale pose però mano l’abate Vincenzo Gioberti, il cui Primato civile e morale degli Italiani (1843) costituì il testo base del moderatismo alla vigilia della rivoluzione del 1848. L’opera di per sé non brillava per originalità, perché recuperava tutte le principali coordinate del discorso politico messo a punto da toscani e piemontesi negli anni precedenti. L’abate ribadiva, infatti, profonda diffidenza verso una diffusa articolazione della statualità, insisteva sull’imprescindibilità di liberi poteri locali (per i quali suggeriva anche un deciso ampliamento di competenze), rifiutava il repubblicanesimo in nome di una monarchia consultiva, dove i re, d’intesa con i ceti privilegiati, individuassero linee di governo condivise e assegnava alla sfera religiosa una funzione di pedagogia sociale. Nel Primato non era dunque niente di nuovo, ma il déjà vu prese contorni rivoluzionari quando l’ascesa al soglio, nel 1846, di Pio IX, un papa che si diceva attento alla questione nazionale, parve d’improvviso confermare l’intuizione che solo il pontefice avrebbe potuto promuovere l’indipendenza nazionale. Il neoguelfismo – come venne presto chiamata questa specifica proposta politica di Gioberti – non era a sua volta un elemento nuovo nell’Ottocento culturale, perché i trionfi del Romanticismo e la rinascita religiosa non avevano mancato di rilanciare le ragioni dell’identità cristiana della penisola; tuttavia, quel che molto appassionava gli ambienti moderati era la possibilità di rimuovere completamente, con un progetto culturale reputato al tempo stesso affascinante e percorribile, il retaggio ideologico degli anni napoleonici.
In breve, le tesi di Gioberti sembravano dare soluzione al problema risorgimentale, perché offrivano la risposta all’aspirazione del moderatismo di rileggere la recente storia italiana nei termini di una profonda unità culturale. Il rigetto del portato napoleonico a tutto vantaggio di rinnovate statualità idealmente collegate alla tradizione riformatrice del XVIII secolo prendeva forma compiuta nel rifiuto di ogni soluzione unitaria a vantaggio di una mera federazione di Stati impreziosita dal primato morale riservato al papa. Nell’insieme la proposta era generica e fondata sull’improbabile accostamento di realtà statuali che dalla vicinanza molto avrebbero anche potuto temere: tuttavia, la semplicità faceva anche la forza del messaggio, perché raccogliendo tutti ed escludendo solo gli unitari, Gioberti, quasi per incanto, poteva suggerire come rimuovere i molti ostacoli che ancora frenavano il movimento nazionale.
Non stupisce pertanto che solo la guerra all’Austria, nella primavera del 1848, mettesse in chiaro quanto fragile fosse la sua proposta e si incaricasse di mostrare le molte resistenze, nello stesso campo patriottico, a quelle sue tesi in precedenza tanto acclamate.
Primavera del 1848: in tutta Italia la mobilitazione politica contro l’assolutismo assume dimensioni di massa e nel nome d’Italia molti corrono alle armi. Per i gruppi subalterni, soprattutto nelle città del nord, le proteste sono la cornice dove collocare la questione sociale, perché gli artigiani, pur proprietari dei mezzi di produzione, sono alla mercé del mondo del commercio che regola la vendita dei loro prodotti. Per ampi settori del ceto medio e della stessa aristocrazia, la rivolta è invece contro una Restaurazione che aveva disatteso le loro aspettative, al punto che, per il tanto atteso riconoscimento di un ruolo politico, la causa italiana sembra loro ormai di miglior auspicio.
Le tensioni ideali cui si è fatto sopra cenno erano il carburante che dava velocità alle mobilitazioni: per i democratici, la protesta di piazza rilanciava l’iniziativa rivoluzionaria alla quale tutta l’Europa, dal 1789, doveva il proprio auspicio di eguaglianza; per i cattolici la discesa in campo del popolo era il segnale di una cristianità a tutto disposta per liberare la Chiesa da una mortificante minorità; per i tanti moderatismi essa era un passaggio doloroso e tuttavia inevitabile, perché le monarchie comprendessero che senza un rinnovato patto tra sovrani e amministrati non era possibile alcuna stabilità politica.
Per questo motivo, sempre nell’alveo della causa italiana e in coincidenza con la guerra all’Austria, si sviluppò presto un duro confronto tra i gruppi democratici e quelli moderati circa il risultato istituzionale cui condurre le tante proteste. Come è noto, la sconfitta militare, nonché il disimpegno (e poi l’ostilità in armi) della Francia pure tornata repubblicana, segnarono la sconfitta dell’intero movimento nazionale, ma a fare naufragio fu in primo luogo la proposta federativa di Gioberti, che non sopravvisse alla spregiudicatezza del Piemonte (deciso a fondare un Regno dell’Alta Italia mediante l’annessione del Lombardo-Veneto), alla conseguente ostilità di Napoli a fronte di un simile progetto e – soprattutto – alle molte resistenze di Pio IX al riguardo.
L’impraticabilità della sua proposta era d’altronde apparsa chiara sin dal modo mediante il quale, agli inizi del 1848, i sovrani della penisola si erano piegati alla soluzione costituzionale. Quella scelta nasceva infatti come un mero contraccolpo degli sviluppi rivoluzionari del Mezzogiorno, dove la Sicilia, ribellatasi a Ferdinando II, aveva ristabilito la costituzione isolana del 1812 e obbligato il re Borbone a concedere a sua volta uno statuto, sia per impedire il contagio nel Mezzogiorno peninsulare, sia per recuperare terreno presso i ribelli: da qui la decisione degli altri sovrani di imitare subito Ferdinando II per resistere alle pressioni della piazza entusiasmatasi alle nuove dal Sud.
Tuttavia, il crollo dell’assolutismo nei domini del Borbone non poteva essere d’auspicio alla causa italiana e solo gli ingenui entusiasmi del momento vi potevano far leggere segnali incoraggianti per il neoguelfismo: le vicende delle Due Sicilie riflettevano infatti una crisi tutta interna al Regno meridionale, perché segnava il punto di arrivo di una tensione tra Napoli e la Sicilia che risaliva addirittura al fallimento della rivoluzione del 1820-21. Quella sconfitta aveva rilanciato le ragioni di chi, nell’isola, reclamava, mediante la secessione da Napoli, un pronto ritorno alle consuetudini del tramontato Regnum Siciliae. Era una prospettiva politica, inizialmente ristretta al mero ambito baronale, che nel volgere del tempo prese dimensioni clamorose, tanto da orientare, alla vigilia del 1848, tutta la società politica isolana, che nelle sue componenti di destra come di sinistra fece un’aperta scelta secessionista. Il remoto precedente del vespro del 1282, quando l’isola aveva fatto divorzio dalla Napoli angioina, divenne un argomento ricorrente nel discorso politico isolano, cui dette però una straordinaria voce «italiana» Michele Amari, il quale, pubblicando nel 1843 la sua Guerra del Vespro, assicurò l’attenzione dell’Italia tutta alle ragioni della Sicilia.
Nella fortuna dell’opera si rifletteva anche quella di una nuova generazione politica, che si dichiarava ostile in modo uguale al latomismo degli anni Venti e al conservatorismo di tanta polemica di parte sicilianista. Niente, d’altronde, poteva correlare la lettura del Vespro da parte di Amari con quella precedentemente proposta dalla baronale storia patria: perché mentre quest’ultima faceva perno sulla rivolta contro gli angioini per sacralizzare l’indipendenza isolana, l’altro leggeva quell’antico episodio di storia siciliana in ossequio a una nuova cultura politica, che innalzando il vessillo delle libertà locali, trasformava il vecchio municipalismo nel principio informatore della rivoluzione. Erano due posizioni, distanti e contrapposte, destinate a scontrarsi, dopo la rivolta, in occasione del dibattito sulle modifiche da apportare alla costituzione siciliana del 1812 appena reintrodotta: le posizioni democratiche di Pasquale Calvi vennero presto travolte da un composito fronte moderato, che si accordò sull’abolizione della natura ereditaria della parìa e su un limitato allargamento del suffragio nella direzione dei gruppi mercantili e delle professioni liberali. Le modifiche costituzionali puntavano insomma a costruire una classe di governo mediante la fusione di nuove forze borghesi con i tradizionali gruppi di potere: e questa preoccupazione trova conferma nella consegna del primato politico ai comuni, che venivano affrancati dall’ingerenza della statualità nella vita locale, ma al tempo stesso erano, con una specifica legge elettorale, consegnati alle cure della nuova alleanza sociale sopra individuata.
Proprio l’abbraccio politico tra questi gruppi sociali, rivelatisi presto capaci di reggere il confronto col Borbone, suggerì a Ferdinando II, nell’intento di recuperare consensi, l’adozione di uno statuto diverso da quello del 1820, che era da tutti reputato inconciliabile con la carta siciliana del 1812: per questo motivo, il lavoro approntato da Francesco Paolo Bozzelli – che pure era stato un protagonista della rivoluzione carbonara – si indirizzò subito verso l’esempio della Charte. Non a caso, nel testo approntato, erano presenti la scelta del bicameralismo e il rilievo accordato all’aristocrazia, il mantenimento del cattolicesimo quale religione di Stato, nonché una pluralità di disposti volti a impedire la deriva in senso democratico del processo politico, argomenti questi che intendevano tutti riannodare i fili di una possibile intesa con la Sicilia.
Invece, nell’isola la svolta secessionista era ormai irreversibile e avrebbe condotto di lì a breve alla destituzione del sovrano, col risultato che la concessione di uno statuto dai tratti tanto conservatori ebbe giusto l’effetto di aprire una stagione di drammatica conflittualità a Napoli, dove i gruppi più radicali reclamarono l’abolizione del bicameralismo, l’introduzione del suffragio universale e la concessione dei poteri costituenti al primo parlamento eletto. Queste iniziative, che prospettavano una soluzione rivoluzionaria del processo politico innescato dalla concessione dello statuto, vennero travolte nella giornata napoletana del 15 maggio 1848, quando Ferdinando II approfittò dell’insurrezione antigovernativa per avviare il giro di vite contro i radicali. E se le proteste contro la repressione presto divamparono nelle province (e in modo particolare nella Calabria, sostenuta in armi anche dalla vicina Sicilia), l’opposizione democratica era ormai vinta. La vita parlamentare, non di meno, proseguì sino al marzo del 1849, quando Ferdinando II pose davvero fine all’esperimento costituzionale: e in quel lasso di tempo, la classe dirigente napoletana, priva del controllo di parte democratica, rilanciò sul terreno di una cultura politica d’ascendenza bonapartista, che ponesse al centro della vita civile, contro le lusinghe di un municipalismo foriero di pericolose derive particolaristiche, una forma di statualità diffusa.
Nel 1848 meridionale, pertanto, a Napoli come in Sicilia, la radicalizzazione del processo politico venne rapidamente contenuta, seppur da angolazioni opposte: nell’isola mediante il rifiuto dell’ingerenza statuale, nel Mezzogiorno peninsulare per il tramite di un suo pronto rilancio. Era una differenza destinata a molto pesare ben oltre il 1848, ma sulle prime il rifiuto della democrazia, sintetizzato dalla comune insistenza sulla natura censitaria del diritto di voto, sembrava addirittura accostare i due processi politici nella presa di distanze dagli sviluppi di Francia, dove, in parallelo, la rivoluzione del febbraio 1848 aveva portato ad una nuova repubblica fondata sul suffragio universale maschile.
L’incubo di una deriva francese è d’altronde alla base della rapidità con cui i ceti dirigenti dei principali Stati italiani – dotatisi d’una carta costituzionale simile a quella che in parallelo era clamorosamente rigettata in Francia – orientarono presto la loro politica verso il conflitto con l’Austria. Nella guerra di indipendenza sembrava infatti possibile raccogliere una dimensione nazionale del rivoluzionamento d’Italia, che deviasse da ogni pernicioso accostamento con quanto stava nel frattempo accadendo Oltralpe.
In taluni casi la mossa si rivelò giusta: a Torino la scelta della guerra parve prospettare la conquista del Lombardo-Veneto e assicurò a casa Savoia un primato morale presso i gruppi moderati di tutta Italia di cui fa prova l’elezione (poi rifiutata) del secondogenito di Carlo Alberto al trono di Sicilia. La guerra all’Austria impedì poi che l’esercizio dello Statuto albertino – a sua volta articolato attorno a un bicameralismo dove la nomina regia al Senato era accompagnata dal suffragio censitario per la camera elettiva – potesse conoscere, come a Napoli, una contestazione di parte democratica. Così, nonostante la sconfitta, la guerra all’Austria consentì al Piemonte di assorbire senza gravi danni le conseguenze dell’apprendistato alla politica costituzionale e di proporsi sulla scena nazionale come la statualità che meglio aveva saputo interpretare lo spirito del tempo: tutto questo spiega a sufficienza perché, anche dopo la sconfitta, lo Statuto venisse puntualmente conservato.
Non fu così, invece, per gli altri Stati italiani: Ferdinando II, proprio grazie alla fine del sogno italiano, non appena ebbe riconquistato la Sicilia, subito tornò all’assolutismo e lo stesso indirizzo seguirono il granduca di Toscana e papa Pio IX. In questi ultimi due casi, giocarono, contro la stabilità in senso costituzionale, e la sostanziale impreparazione delle classi dirigenti e la fragilità dell’architettura degli specifici statuti: nel caso toscano la consegna della guida del processo politico ai moderati – tra i quali lo stesso Capponi – confermò una declinazione municipalistica di scarso respiro, destinata ad essere duramente contestata e presto travolta dai democratici; nello Stato pontificio, la circostanza che il collegio cardinalizio dovesse addirittura autorizzare i disposti di legge approvati nelle due camere finì per molto favorire lo scontro con i gruppi patriottici, che ebbero poi facile gioco a denunciare la natura retriva della politica apparentemente nazionale di Pio IX.
La diversità degli esperimenti costituzionali neppure giovò al tentativo di risolvere la questione italiana mediante l’accordo tra i vari Stati: se sulla guerra all’Austria si era trovata un’intesa che permise, durante le operazioni militari, di tenere a bada l’opposizione democratica, sulle modalità della pur necessaria alleanza politica i nodi vennero presto al pettine. Ferdinando II denunciò nella mossa siciliana di affidare il trono a un Savoia l’indebita ingerenza del Piemonte e subito ritirò i propri volontari dal terreno delle operazioni militari, mentre la pretesa di Torino di partecipare ad una lega italiana solo dopo il formale riconoscimento della conquista del Lombardo-Veneto indispose tutti gli altri. Insomma, il primato politico del Piemonte, che guidava la guerra all’Austria, generò subito gelosie e rancori, per altro ben motivati, che facilitarono la ripresa delle fortune politiche del particolarismo e segnarono la fine di ogni ipotesi federativa.
La crisi del neoguelfismo, e l’atteggiamento del Piemonte, che sembrava volere gli accordi propri del lupo con l’agnello, permise inoltre ai gruppi democratici di risollevare la testa. Nel Mezzogiorno la partita si era per loro presto chiusa e la stessa cosa aveva avuto luogo a Milano, le cui Cinque giornate, massima espressione di mobilitazione popolare, non avevano comunque realizzato il sogno mazziniano d’una guerra di popolo, perché il fronte moderato, chiamando in soccorso Carlo Alberto e facendo votare la fusione con il Piemonte, aveva presto liquidato i repubblicani. Tuttavia, quando la guerra volse al peggio, i democratici riuscirono a risollevare altrove la testa: tale è il caso di Venezia, che sotto la guida di Daniele Manin resistette a lungo al ritorno in armi degli austriaci, e soprattutto della Toscana, dove l’ascesa al potere di Giuseppe Montanelli rilanciò le ragioni di una Costituente, eletta a suffragio universale maschile, incaricata di gestire la guerra all’Austria e di definire la forma istituzionale dell’unità italiana. Per questa via – che faceva della sovranità popolare lo strumento regolatore del processo politico – la resa dei conti tra moderati e radicali appariva però inevitabile: agli uni, che puntavano sulla pluralità di monarchie censitarie giusto collegate da un legame federativo si opponevano gli altri, che facevano leva sulla sovranità popolare per dissolvere un municipalismo che troppo ostacolava la rivoluzione italiana.
A inasprire i termini di questo confronto era poi l’esempio della Francia repubblicana, dove i democratici, forti del sostegno del mondo del lavoro, proprio tramite l’associazionismo sembravano in grado di resistere al ritorno in forze dei conservatori. In Toscana e nello Stato pontificio non si mancò di emularli: sul finire del 1848, quando venne resa nota la decisione di Pio IX di lasciare Roma, i mazziniani passarono all’azione convocando un’Assemblea costituente eletta a suffragio universale chiamata a fondare la repubblica. Il 9 febbraio 1849 questa vedeva la luce e dalla Toscana, dove il granduca si era dato alla fuga, Montanelli prontamente interveniva per chiedere non solo l’annessione, ma anche una iniziativa in armi contro Ferdinando II.
Tuttavia, la Repubblica romana fu un esperimento di breve respiro, travolta dal corpo di spedizione che proprio la Francia repubblicana, sotto la guida del presidente Luigi Napoleone Bonaparte, trionfalmente eletto a suffragio universale nel mese di dicembre, su iniziativa dei circoli cattolici d’Oltralpe aveva provveduto a inviare. Prima di sciogliersi, l’assemblea romana, a mo’ di testamento politico, diffuse non di meno la nuova costituzione: fondato sulla natura unitaria del modello statuale, ispirato ai valori di libertà ed eguaglianza propri della tradizione rivoluzionaria francese, articolato nei termini di una forte attenzione alla questione sociale, rispettoso della libertà di ogni culto e di una libera vita municipale, il testo approntato costituiva un esempio di democrazia politica quale mai in precedenza si era avuto nella penisola. Esso aveva anche il merito di dichiarare esaurito ogni implausibile percorso localistico alla costruzione di uno spazio politico nazionale e di sottolineare l’importanza dell’unità statuale quale luogo di raccolta (e di articolazione) di una vita politica democratica.
Era un tema sul quale ci si stava d’altronde interrogando anche in campo liberale: sin dal febbraio del 1848 – dalle colonne del «Risorgimento» – il conte di Cavour, pur tra lodi di maniera verso Gioberti e Pio IX, non aveva mancato di ricordare come «i principii d’eguaglianza civile, base degli ordini nuovi, sono stati consacrati nei tempi della dominazione francese» e questo recupero della tradizione napoleonica gli veniva utile per suggerire come l’ordinamento ereditato dal tempo di Bonaparte potesse puntualmente conoscere una declinazione costituzionale fondata sulla rappresentanza parlamentare.
Il suo sostegno allo Statuto albertino nasceva infatti dalla volontà di inserirlo nel più ampio contesto del costituzionalismo europeo: per questo motivo Cavour guardava con sufficienza al municipalismo, che gli pareva dottrina politica retriva e al tempo stesso d’ostacolo a una puntuale articolazione dei poteri dello Stato; e sempre muovendo da questa preoccupazione egli giudicava perniciosa la subalternità del deputato rispetto al municipio di elezione. Il suo rifiuto di ogni modello costituzionale in senso organicistico toccava però l’acme nella critica allo stesso Statuto albertino, perché a suo avviso il bicameralismo, pure lodevole, non poteva tradursi nella riserva di posti per un ordine d’antico regime quale l’aristocrazia e doveva invece fondare su una logica comunque elettiva, da cui avrebbe tratto virtuosamente origine un bicameralismo perfetto, perché il nuovo Senato, forte dell’investitura popolare, avrebbe avuto una funzione di stimolo (e non di mero controllo) rispetto all’indirizzo di governo del Parlamento.
Erano qui riassunte le basi di una cultura politica ormai originale, che dal riconoscimento della tradizione napoleonica coglieva occasione per annodare la vicenda piemontese a quella di Francia e di Inghilterra sui binari di un liberalismo politico che Cavour mai avrebbe mancato di additare come naturale soluzione del problema italiano.
Con la sola eccezione del Piemonte costituzionale, la sconfitta della rivoluzione nazionale sembrò porre fine al sogno dell’unità e dell’indipendenza italiana: e invece tutto trovò, in modo inaspettato, improvvisa soluzione. Alle origini della svolta fu, ancora una volta, la Francia: il 2 dicembre del 1851, il presidente della repubblica, Luigi Napoleone Bonaparte, con un colpo di Stato scioglieva l’assemblea legislativa e mediante un plebiscito promuoveva l’anno successivo la nascita del II Impero.
Sulle prime, il ritorno del bonapartismo molto preoccupò il Piemonte costituzionale, divenuto nel frattempo il luogo di raccolta di molti esuli dalla penisola, nonché il laboratorio di sperimentazione della nuova politica italiana. Al momento del colpo di Stato parigino, a Torino le posizioni si erano infatti chiarite: tutti, nel campo moderato, compresi Balbo e Gioberti, avevano da tempo rinunciato a ogni ipotesi municipalista, escludevano ormai la prospettiva di un’Italia federata e riconoscevano negli ordinamenti statuali di Francia e d’Inghilterra un sicuro punto di riferimento. Non solo, la scelta risolutamente italiana della dinastia sabauda, che aveva accostato al Piemonte molti esuli, sia dalla destra moderata che dalla sinistra repubblicana, sembrava fare di Torino il solo punto di riferimento per il futuro della causa nazionale. La svolta autoritaria d’Oltralpe, col ritorno sulla scena di un altro Bonaparte, che niente e nessuno escludeva volesse emulare la politica italiana dello zio, molto preoccupava l’ancora fragile identità politica del Piemonte.
Non di meno, quanto sembrava un grave motivo di preoccupazione si trasformò, in breve, in una grande occasione di rilancio della causa italiana: grazie al connubio parlamentare del 1852, il conte di Cavour, alla guida dello Stato sabaudo, coinvolse al governo la sinistra di Urbano Rattazzi e tagliò l’estrema municipalista, definitivamente ancorando a un progetto liberale la prospettiva italiana del Piemonte. Al tempo stesso non mancò di accostarsi a Francia e Inghilterra, suggerendo a Napoleone III come il Piemonte, ingrandito in alta Italia, costituisse un terrapieno nei confronti dell’Austria e una testa di ponte per la politica francese nella penisola tutta.
L’operazione diplomatica riuscì, anche perché l’imperatore, pur interessato all’Italia, guardava comunque altrove, e segnatamente al Mezzogiorno, dove auspicava che il cugino Luciano Murat potesse rivendicare con successo il trono di un ormai screditato re Borbone: in tal modo, nei piani di Napoleone III, l’egemonia francese nella penisola sarebbe stata completa, perché l’intesa tra Torino e Napoli avrebbe garantito l’indipendenza italiana dall’Austria sotto l’interessata tutela d’Oltralpe. La strada così tracciata sembrava poi percorribile, perché l’opposizione era ridotta a poca cosa: il municipalismo dai forti tratti antifrancesi era in rotta, mentre la sconfitta del repubblicanesimo a Roma aveva aperto pure una grave crisi in seno al mazzinianesimo, il cui tentativo di tenere in vita l’iniziativa rivoluzionaria nella penisola andò incontro a gravi contestazioni dal suo stesso interno. Sulla destra dello schieramento repubblicano, il richiamo comunque unitario del Piemonte ormai sinceramente italiano costituì una lusinga alla quale non pochi cedettero, mentre il tentativo mazziniano di metter da parte la questione sociale (e istituzionale) in nome dell’unità italiana non solo non gli fece recuperare consensi, ma gli alienò pure quelli delle componenti di sinistra. Giuseppe Ferrari obiettò che si dovesse tener fermo sulle prospettive democratiche e sociali dischiuse dalla vicenda rivoluzionaria del 1848 in Francia; Giuseppe Montanelli contestò l’impostazione verticistica della Giovine Italia che impediva ogni significativo dibattito al proprio interno; Carlo Pisacane accentuò i tratti socialistici del proprio pensiero e contestò la svolta moderata di Mazzini; dall’esilio elvetico Carlo Cattaneo ribadì come per la libertà d’Italia prima dell’unità venisse l’autonomia dei municipi.
Tuttavia, più delle tensioni all’interno, contro le prospettive del repubblicanesimo molto poté proprio il colpo di Stato del presidente Bonaparte: mentre Mazzini non ebbe dubbi sulle conseguenze di quel traumatico passaggio e denunciò la natura autoritaria del progetto del nuovo Napoleone, la sinistra repubblicana, anche perché memore di come l’assemblea sciolta dal presidente fosse la stessa che aveva voluto la spedizione contro la Repubblica romana, in larga parte invece plaudì. Curiosamente, proprio come ai tempi del colpo di Stato dello zio, anche il brumaio del nipote incontrò il consenso della sinistra italiana: Daniele Manin, Enrico Cernuschi, Giuseppe Montanelli, Aurelio Saliceti, Giuseppe Ferrari, Carlo Pisacane e lo stesso Cattaneo, ancora una volta contro Mazzini, non mancarono di dare credito al nuovo Bonaparte, nel convincimento che la Francia avrebbe presto fatto la guerra all’Austria e dunque riaperto una prospettiva rivoluzionaria nella penisola. L’entusiasmo di alcuni repubblicani fu tale che alcuni di loro – come Saliceti, Montanelli e Giuseppe Sirtori – non mancarono, di lì a poco, di sostenere le pretese di Luciano Murat sul trono di Napoli e non poco si adoperarono, anche a Torino, presso gli esuli meridionali, perché le ragioni del pretendente vi trovassero appoggio.
Il murattismo – sia che venisse sostenuto sia che fosse invece paventato – molto contribuì a rimettere in moto la questione italiana. In primo luogo costrinse Mazzini a forzare la mano, per impedire che, a nord come a sud, il progetto di Napoleone III, che egli riteneva secondato dal Piemonte, potesse prendere forma: da qui la cospirazione mantovana del 1852, la fallita insurrezione milanese del 1853 a Milano e soprattutto la tragedia del 1857 a Sapri, quando Pisacane, riavvicinatosi a Mazzini proprio per impedire un colpo di mano murattiano che sembrava loro ormai imminente, andò incontro a disgraziata sorte. Fu quello il canto del cigno dell’iniziativa repubblicana, perché la morte di Pisacane dimostrò come il modello insurrezionale potesse avere successo solo mediante una concertata azione diplomatica che al mazzinianesimo tuttavia sempre mancò.
In parallelo, l’incubo del murattismo era però destinato a turbare anche i sonni di molti patrioti siciliani, perché qualora avesse avuto luogo a Napoli il cambio di dinastia, la più che probabile intesa federativa con il Piemonte avrebbe impedito di difendere la specificità isolana al tavolo delle trattative circa le forme dell’unità italiana. Questo il motivo per il quale la componente isolana in esilio a Torino rafforzò i legami con la classe dirigente piemontese e gli altri esuli della penisola: il risultato fu la nascita, nel 1857, della Società nazionale italiana, inizialmente presieduta da Daniele Manin e di lì a breve, alla sua morte, guidata dal siciliano Giuseppe La Farina. La sua direzione assicurò al movimento nazionale di tenere alta la guardia nei confronti di Napoli, continuando ad accusarla di esser d’ostacolo, per l’impronta nettamente autoritaria della sua statualità, alla causa dell’Italia tutta. In tal modo, la Società nazionale arrivò presto a raccogliere attorno alla politica cavouriana quanti puntassero risolutamente all’unità italiana, ma fossero ormai delusi dalle scelte politiche di Mazzini.
Questa prospettiva spiega perché la partita si risolvesse, come è noto, d’improvviso, tra il 1859 e il 1860, quando Cavour ottenne l’appoggio di Napoleone III nella guerra all’Austria, i cui sviluppi valsero al Piemonte la conquista militare della Lombardia e l’annessione delle regioni centro-settentrionali grazie alle sollevazioni popolari seguite agli sviluppi delle ostilità. In parallelo, tuttavia, sempre Cavour, abilmente giocando di sponda con l’Inghilterra, dette via libera all’ennesima iniziativa insurrezionale dei democratici, incapsulandola in una manovra diplomatica volta a separare la Sicilia da Napoli per liquidare, mediante il rivoluzionamento dell’intero Mezzogiorno, ogni ipotesi di successione murattiana.
Così, quasi per paradosso, la nascita di un solo Stato italiano, monarchico e liberale, ebbe luogo per l’iniziativa di chi più avrebbe dovuto avversarlo, ossia d’un lato i democratici che vi misero l’impegno militare e dall’altro quella classe politica siciliana che sino ad allora aveva sempre respinto ogni soluzione di stampo unitario al problema italiano. Si misurano su questo terreno la grande fragilità del democratismo italiano, ma anche la pari lucidità della politica siciliana che, prospettando nei termini italiani e non più isolani soltanto, la volontà di fare divorzio da Napoli seppe farsi protagonista della nascita di una nuova Italia.
Nell’estate del 1860, infatti, la secessione isolana diveniva ben altro rispetto al proposito passatista di restituire spazio alla vecchia Sicilia e assumeva invece i contorni di una meritoria adesione alla causa dell’Unità contro le ragioni di una Napoli che, giusto attendendo Garibaldi e nulla facendo per rovesciare il Borbone, sembrava invece restia ad abbandonare la propria specificità meridionale. In tal modo, la Sicilia, formalmente rinunciando a un passato di indipendenza e di libertà, collocava sotto il segno di una straordinaria generosità la decisione di sciogliere i propri storici privilegi nel gran mare dell’unità italiana. Era una strategia destinata a riassumere esemplarmente la parabola politico-culturale dell’intero movimento nazionale: originato dall’aperto rifiuto dell’accentramento amministrativo introdotto in Italia a seguito dell’esperienza napoleonica, dettato dalla ricerca di un modello di differente articolazione dei poteri dello Stato, il processo risorgimentale, all’indomani del fallimento della rivoluzione del 1848, sarebbe infatti a sua volta tornato sulla forma di statualità ereditata dalla stagione francese provandosi – presto sotto le sole insegne di casa Savoia – non più a respingerla, bensì a trasformarla profondamente. Il cambio di prospettiva si fondava sulla piena disponibilità del nuovo Stato unitario a riconoscere piena libertà di manovra a livello locale ai singoli gruppi di potere che avessero abbracciato la causa italiana. Sul punto, tra non poche difficoltà, l’accordo si sarebbe infine trovato e le molteplici élites regionali avrebbero tutte ricondotto le loro differenti esperienze politiche e i loro diversi modelli istituzionali di riferimento sotto un angolo siffatto. Era quella la strada che avrebbe portato i tanti moderatismi della penisola a dare pieno sostegno al nuovo Stato unitario e che avrebbe favorito, nei primi decenni dell’Unità, il graduale inserimento nella nuova compagine statuale di altre élites e di altri gruppi politici, pure inizialmente diffidenti verso il trionfo del Piemonte. Questo allargamento della base sociale nasceva dal fatto che lo Stato unitario appariva come altra cosa rispetto al portato dell’autoritarismo bonapartista: restituito a una mera dimensione modernizzatrice, che escludeva ogni concreta prevaricazione del centro nei riguardi della libertà di manovra dei potentati locali, il nuovo ordine costituzionale sembrava così, agli occhi dei tanti notabilati d’Italia, un virtuoso punto d’equilibrio tra libertà politica e conservazione sociale. Su questa contraddizione nasceva e si sarebbe sviluppato il nuovo Stato unitario ed era limite di non poco conto, destinato a molto pesare sugli sviluppi futuri e a molto limitare, per la mancanza di un diffuso consenso sociale, il ruolo della statualità nell’organizzazione della vita civile.
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