La cultura scientifica
Il periodo del Risorgimento e dell’unificazione italiana è anche quello in cui si registrano grandi incrementi e grandi trasformazioni scientifiche e tecniche. Nuove linee di indagine vanno sempre più differenziandosi all’interno delle principali aree del sapere, acquisendo lo status di discipline autonome e distinte, con esiti capaci di modificare la concezione dell’uomo e dell’universo. A loro volta le contemporanee trasformazioni economiche ampliano moltissimo il ruolo sociale del lavoro scientifico. Per effetto della rivoluzione industriale e del commercio internazionale aumentano le richieste rivolte dalla produzione e dalla società alle scienze, così come si estendono le ripercussioni del lavoro scientifico sulla società e sulla produzione. Cresce l’intreccio fra algoritmi e ricerca empirica, fra teoria e pratica, fra scienza e tecnica, e così pure la collaborazione fra cultori di discipline diverse lungo traiettorie internazionali.
I maggiori centri di osservazione e di analisi, in cui si conducono le ricerche diventano i principali luoghi della conoscenza e dell’innovazione. Per completare la loro formazione i giovani scienziati frequentano gli osservatori astronomici, le collezioni naturalistiche, i laboratori di Jean-Baptiste-André Dumas, di Joseph-Louis Gay-Lussac, di Charles-Frédéric Gerhardt, di Pierre-Eugène-Marcellin Berthelot, di Alexander von Liebig. Qui l’attività scientifica è un lavoro di specialisti impegnati a tempo pieno, la cui produttività non è più legata solo alle capacità dei singoli ricercatori ma alle condizioni complessive della ricerca sempre più istituzionalizzata. E se dall’esigenza di ampliare lo spazio di osservazione, di analisi e di comparazione dei materiali osservati nasce la pratica dei viaggi e delle esplorazioni naturalistiche ad ampio raggio – che tanto contribuisce alle grandi elaborazioni scientifiche di Alexander von Humboldt o di Charles Darwin – dall’altra crescente esigenza di organizzare ricerche generatrici di nuove conoscenze e insieme di applicazioni tecnico-produttive derivano le numerose nuove istituzioni, fra cui i politecnici, i musei industriali, le scuole speciali di vario indirizzo e grado, dotate tutte di strumenti di precisione e di raccolte tecnologiche atte a formare ricercatori, ingegneri, imprenditori.
Per la rilevanza sociale dei suoi esiti e l’entità dei finanziamenti richiesti, l’impresa scientifica chiama in causa sempre più lo Stato, che in vari modi si trova a promuovere il progresso scientifico, tecnico e industriale. Già nella Francia rivoluzionaria erano nate, insieme al nuovo ordinamento politico e al nuovo assetto sociale, diverse grandi istituzioni scientifiche e tecniche: il Museo di storia naturale, la celebre École Polytechnique, le altre grandes écoles, il Conservatoire des Arts et Métiers, tutto un insieme di organismi culturali nuovi che durante il periodo napoleonico influenzarono gli altri paesi europei. Nel continente, d’altra parte, comincia presto a imporsi anche l’altro grande tema che attraverserà tutto l’Ottocento: l’inseguimento sul piano economico e tecnologico della Gran Bretagna, le cui capacità produttive sollecitano nei paesi inseguitori la nascita di nuove istituzioni formative a tutti i livelli della scala sociale.
A diffondere le tendenze in crescita contribuiscono gli strumenti più diversi di comunicazione, dalle riviste specializzate alle pubblicazioni divulgative, dalle società promotrici di studi, di esperienze e di riunioni periodiche come la Società Elvetica dei Naturalisti (1815), la Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Aertze (1822), la British Association for the Advancement of Science (1831), la Association française pour l’avancement des sciences (1833), alle esposizioni di macchine e di prodotti, che a metà del secolo diventano internazionali con la celebre Esposizione di Londra del 1851, da cui ha inizio la serie delle grandi manifestazioni del secondo Ottocento, destinate a influire sull’orientamento e l’immaginario di grandi masse.
Pur restando ancora alla periferia del movimento tecnico-scientifico, come dei fenomeni socio-economici connessi, anche gli Stati italiani cominciano a essere coinvolti dalle tendenze testé richiamate. A partire dagli anni Trenta specialmente, accanto al fermento dei ceti colti e dinamici, si fa palese la preoccupazione dei governanti più avveduti di non restare inerti di fronte a cambiamenti capaci di modificare i rapporti di forza sia in campo economico che in campo militare. I viaggi all’estero di funzionari e di esperti incaricati di aggiornarsi e di riferire, la compilazione di nuovi testi per le scuole, la creazione di gabinetti tecnologici sia pure ridotti, l’organizzazione di esposizioni con premi d’industria, la nascita di organismi associativi per la diffusione di conoscenze e di innovazioni tecnico-produttive, sono chiari segni di un processo imitativo in atto e della volontà di partecipare alle trasformazioni d’Oltralpe. Altrettanto eloquenti sono i nove congressi degli scienziati italiani che, sull’esempio di altri paesi europei, sono organizzati in Italia dal 1839 al 1847 in altrettante città della penisola (Pisa, Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli, Genova, Venezia), con una partecipazione ampia di «dotti», docenti universitari, professionisti, esponenti di accademie e di varie istituzioni pubbliche, nonché di apparati tecnici, amministrativi e militari degli Stati ospitanti (Pancaldi 1983; Levra 1994). Nel corso delle due settimane di incontri i partecipanti, che raggiunsero la punta massima di 1.613 a Napoli, discussero i problemi più diversi nelle sei, e poi nove, sezioni dei congressi, dalla legge di Ohm a quella di Avogadro, dalla riforma carceraria ai miglioramenti agricoli.
Ma ciò che l’opinione pubblica apprese innanzi tutto dalle cronache sulle annuali riunioni furono le nuove dimensioni della ricerca induttiva e sperimentale, il ruolo dell’organizzazione e dei mezzi strumentali, i nessi esistenti fra lo sviluppo scientifico e il progresso economico: tutti aspetti dell’impresa scientifica moderna, che vedeva la penisola in posizione arretrata. Lo rilevava con forza il fisico Giovanni Alessandro Majocchi, assiduo frequentatore dei congressi, affermando nel 1846 che fra l’Italia e i paesi più sviluppati in campo scientifico, tecnico e industriale, non c’era confronto possibile in merito al «numero di sagaci sperimentatori», ai laboratori adeguatamente attrezzati e alle indagini sperimentali pubblicate («Annali di fisica, chimica e matematiche», 1846, p. 16).
Durante le riunioni e nelle numerose pubblicazioni collaterali, si parlava non solo di osservazioni e di esperimenti, ma anche di grandi centri di raccolta di materiali scientifici, di coordinamento fra cultori delle più diverse parti d’Italia, di applicazione ad ampio raggio del metodo comparativo, di superamento delle aride compilazioni e dei lavori descrittivi limitati a zone troppo circoscritte. E, ovviamente, discutendo di flora italiana, di carta geologica dell’Italia tutta, con relativa «nomenclatura geologico-mineralogica», di statistica dei fiumi e dei torrenti italiani, di sistema metrologico «uniforme», di dizionario tecnologico italiano, di osservazioni meteorologiche coordinate, e di altro ancora, si rafforzava la convinzione che, se per sviluppare l’economia occorreva procedere alla creazione di un sistema comune e integrato in materia di pesi e misure, di comunicazioni, di trasporti e di dogane (la Germania insegnava con il suo Zollverein), per realizzare un movimento scientifico all’altezza dei tempi erano necessarie esplorazioni sistematiche su tutto il territorio della «grande patria» italiana, della «nostra Italia», come sempre più spesso si diceva in pubblico oltre che nelle private conversazioni.
Certo, lo scibile umano è di per sé cosmopolitico, affermava ancora Majocchi, «una scoperta, un’invenzione, un nuovo metodo, un nuovo processo, frutto di un ingegno di qualsiasi nazione, diventa patrimonio di tutti i colti popoli». È anche vero, però, aggiungeva, che «un tale cosmopolitismo si compone [...] di parecchie unità, di parecchi carati, di cui ogni civile popolazione vi somministra il suo proprio; più o meno grande, di maggiore o minor valore» («Annali di fisica, chimica e matematiche», 1843, pp. 3-4). Dopo aver dato contributi di primo piano con Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Evangelista Torricelli, Giambattista Morgagni, Alessandro Volta, l’Italia aveva il diritto-dovere di entrare nella gran gara sorta fra le nazioni più evolute sul terreno del progresso scientifico e dell’«umano incivilimento». Ma per poterlo fare doveva raggiungere i popoli più evoluti nelle «indagini sperimentali» superando la frammentazione che la danneggiava.
In tal modo le esigenze proprie della ricerca scientifica si univano con quelle dello sviluppo economico e si intrecciavano con le istanze nazionali nella metafora risorgimentale che le schiere di «patrioti» declinavano in vario modo e sempre più di frequente. Naturalmente di sviluppo scientifico italiano (come di «riforme» comuni alle diverse parti della penisola) si parlava con maggiore intensità dove i sovrani mostravano di volersi aprire alle istanze degli studiosi e delle forze sociali più dinamiche.
In testa al movimento scientifico e riformatore fu per molti versi la Toscana di Leopoldo II. Amico di scienziati e appassionato di collezioni scientifiche, il granduca accolse a Pisa scienziati di valore, come Ottaviano Fabrizio Mossotti, Carlo Matteucci, Raffaele Piria, Leopoldo Pilla, ammodernò gli ordinamenti universitari, ospitò il primo e il terzo dei congressi e accolse anche l’idea di costituire un Erbario generale italiano avanzata dal botanico siciliano Filippo Parlatore e fatta propria dal congresso di Firenze.
Più oltre però non si poté andare e il caso di Piria è eloquente in tal senso. Calabrese di origine e napoletano di formazione, Piria era giunto in Toscana nel 1842 dopo essersi perfezionato a Parigi presso il laboratorio di Dumas, dove aveva realizzato le ricerche sulla salicina, che lo resero subito noto presso la comunità scientifica europea. Qui a Pisa poté sì disporre «di un discreto anfiteatro per l’insegnamento orale e di camere sufficienti per il lavoro personale del Professore», ma non poté coinvolgere molti allievi nella realizzazione di progetti organici, come dal 1824 faceva Liebig a Giessen, disponendo di «larghi mezzi per aiuti governativi e per contribuzioni di allievi» (Piria 1932, pp. 50-51).
Se poi da Pisa volgiamo lo sguardo all’università di Palermo, cogliamo immediatamente la stagnazione che caratterizzava per lo più gli atenei italiani. Per esercitarsi nelle manipolazioni chimiche il giovane Stanislao Cannizzaro doveva arrangiarsi a fare tutto in casa per proprio conto, non avendo l’università un «qualsiasi Laboratorio chimico per gli allievi e non essendovi altro che l’occorrente per le elementari dimostrazioni» didattiche (Cannizzaro 1992, p. 9). Né diversa era la situazione in fisiologia, mentre in altri settori, come in quello di igiene e farmacologia (lo annotava Parlatore nelle sue memorie) era possibile anche ascoltare «sciocchezze» ed «errori», tanto scarsa era la preparazione di chi reggeva l’insegnamento (Parlatore 1992, p. 47).
Nella più grande delle capitali italiane, Napoli, c’erano numerose strutture formative e organismi scientifici, capaci di attrarre dalle province del Regno o da altri Stati uomini di qualità come l’ingegnere Carlo Afan de Rivera, il naturalista Michele Tenore, l’astronomo Carlo Brioschi, il fisico Macedonio Melloni, il geologo Arcangelo Scacchi. Ma la stasi delle istituzioni e il conformismo imposto con la pressione poliziesca e censoria, erano tali da spingere molti a lasciare il Regno o a vivere isolati (Torrini 1989). Una scienza in rapida evoluzione come la chimica era affidata a docenti che si limitavano a tradurre qualche libro straniero, a compilare testi per studenti e a preparare dimostrazioni didattiche. Era più che naturale quindi che un giovane di talento come Piria dovesse andare altrove al pari del geologo Pilla e di altri scienziati meridionali. Dopo l’esperienza parigina e le ricerche presso Dumas, il chimico calabrese rientrò prima a Napoli verso la fine del 1839 e insieme al pugliese Scacchi, studioso di mineralogia vesuviana, aprì anche una scuola di scienze sperimentali e avviò una pubblicazione periodica, l’«Antologia di scienze naturali». Ebbe come allievo Sebastiano De Luca, che seguì le orme del maestro, partendo dalla Calabria, studiando a Napoli, perfezionandosi a Parigi e approdando a Pisa, dove intanto Piria era giunto nel 1842 con l’aiuto di Melloni, e dove si trovò in buona compagnia con Mossotti, Matteucci, Enrico Betti e gli altri, che nel 1848 avrebbero preso parte, insieme agli studenti universitari toscani, alla prima guerra d’indipendenza.
Ancora più stagnante era la situazione dello Stato pontificio per la generale subordinazione dei laici al clero e i controlli sull’ortodossia di ogni affermazione. Non solo nessuno dei nove congressi degli scienziati poté essere ospitato, ma anche la partecipazione alle riunioni organizzate altrove fu vietata ai sudditi dello Stato della Chiesa. Soltanto con l’elezione di Pio IX e l’avvio delle riforme si sperò in una maggiore disponibilità di libri e in un ampliamento degli insegnamenti universitari, il cui numero era ancora tanto ristretto da spingere gli studenti romani a presentare nel 1847 una supplica perché i «nuovi saperi» e i più fecondi «metodi scientifici» potessero finalmente entrare anche nel loro ateneo (Belardinelli 2002, p. 178).
Il conservatorismo di fondo connotava però anche i maggiori atenei settentrionali. Se a Torino, ad esempio, la chimica continuava a essere insegnata da un medico, Gian Lorenzo Cantù, come disciplina ausiliaria della medicina, a Padova, Francesco Ragazzini manteneva in uso un testo di chimica pubblicato nel 1828 da Girolamo Melandri suo maestro.
Qualche novità si registrava a Milano, dove, nella neonata Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, uno studioso di formazione europea, Antonio Kramer, allievo e amico di Arthur-Auguste De La Rive, Alphonse-Louis-Pierre-Pyramus De Candolle, Louis-Jacques Thénard, aveva creato con il suo attrezzato laboratorio personale una scuola di chimica applicata, che divenne presto un centro di attrazione per giovani tecnici, imprenditori e ricercatori, al quale si aggiunsero via via le scuole di fisica tecnica, di geometria e di disegno meccanico, di setificio, istituite dallo stesso sodalizio (Lacaita 1990).
L’idea di un Ateneo politecnico era stata già proposta a Milano subito dopo la Restaurazione dal gruppo di nobili e di borghesi liberali milanesi che si era raccolto attorno a Federico Confalonieri, ma non si era potuta realizzare per l’opposizione delle autorità viennesi. Sorte migliore ebbe all’inizio degli anni Trenta l’idea di due naturalisti, Giuseppe De Cristoforis, appassionato collezionista, e Giorgio Jan, docente a Parma, che decisero di affidare le loro raccolte alla città perché servissero a costituire un Museo civico di storia naturale e contribuissero al pubblico «decoro», al progresso degli «studi» e allo sviluppo dell’«industria patria» anche mediante corsi di lezioni. Intendevano per «industria» (secondo l’accezione allora corrente) ogni genere di attività produttiva, a partire dalle attività agricole, che molti benefici potevano trarre dagli studi naturalistici, riguardanti la composizione dei terreni, la flora e la fauna dei vari luoghi.
L’agricoltura, in effetti, dato il ruolo che svolgeva nell’economia del tempo, era al centro di molti studi naturalistici, variamente ripresi e divulgati dalla stampa coeva, e di numerosi esperimenti innovativi (si pensi a Cosimo Ridolfi, a Bettino Ricasoli, a Giovanni Battista Jacini, a Camillo Benso di Cavour, per fare solo qualche nome), nonché di ampi dibattiti che si svilupparono nelle sedi più diverse, dalle accademie di più antica origine, come quella dei Georgofili di Firenze, alle più recenti come l’Associazione agraria subalpina istituita a Torino nel 1842, o alla menzionata Società d’incoraggiamento di Milano, che si applicava anche alla promozione dei miglioramenti agricoli, pur dedicandosi soprattutto alle attività manifatturiere, che stavano aprendo nuove prospettive di sviluppo e sembravano già in fermento in Lombardia e altrove.
Proprio dagli anni Trenta la stampa va registrando un sempre maggiore interesse per argomenti non agricoli: la lavorazione dei metalli, i combustibili fossili, l’illuminazione a gas, le costruzioni ferroviarie, le nuove turbine idrauliche, i sistemi per tingere e imprimere i tessuti, le procedure per costruire candele steariche e altri prodotti di largo consumo. Nascono nuovi periodici per la diffusione delle tecnologie più moderne, si sviluppano le discussioni sulle prospettive economiche, cresce la considerazione del ruolo della cultura «positiva» nelle trasformazioni del periodo e nel superamento delle distanze fra i paesi avanzati e quelli in ritardo sulla via dello sviluppo.
È del 1832 il saggio in cui il fisico Majocchi, rivolgendosi ai ceti produttivi italiani, li sollecita ad adeguarsi ai nuovi sistemi, perché soltanto con «l’applicazione delle scienze alle arti», scriveva, è possibile mettersi «in concorrenza coi popoli più colti» sia «nella fabbricazione e nell’esportazione dei prodotti e delle manifatture», sia «nel far prosperare ed estendere il commercio» (Majocchi 1832, pp. xxiv-xxv).
In termini ancora più netti, l’autore di un articolo anonimo (in realtà Carlo Cattaneo) apparso nel 1837 su «L’Eco della Borsa» con il titolo L’industria di Birmingham, dopo aver illustrato le capacità produttive inglesi, concludeva in questi termini: «Non si può né gareggiare né resistere a quella forza industriale se non coll’imitarla; il volerle far fronte per altre vie è un prepararsi una sicura ruina» (Cattaneo 1969, p. 72). Di lì a poco, nel 1839, lo stesso Cattaneo avviava le pubblicazioni della nuova rivista, «Il Politecnico», col dichiarato proposito di incrementare gli studi applicati in ogni direzione. A sua volta, il docente di meccanica a Torino, Carlo Ignazio Giulio, asseriva nel 1844 che «nelle presenti condizioni della civiltà l’industria di ogni paese non ha altra alternativa che questa: abbracciare i moderni perfezionamenti, oppure languire e perire» (Giulio 1844, p. 117).
Voci non comuni, certamente, ma non del tutto isolate, come si è più volte affermato. Se a sostenere le iniziative della Società d’incoraggiamento furono oltre 500 soci milanesi, a salutare l’inaugurazione delle nuove Scuole di meccanica e di chimica istituite a Torino e a Genova con l’intervento in qualità di docenti di Carlo Ignazio Giulio e di Ascanio Sobrero (scopritore nel 1846 della nitroglicerina) a Torino, e di Giovanni Ansaldo (il futuro creatore dell’omonima industria meccanica, allora docente di geometria descrittiva all’ateneo ligure) e di Michele Peyrone (formatosi a Giessen con Liebig, come Sobrero) nel capoluogo ligure, furono nutrite rappresentanze di ceti colti, com’ebbe modo di riferire il giovane Quintino Sella nelle sue lettere ai parenti biellesi. Gli stessi ceti seguivano i nuovi periodici che lavoravano per il «risveglio scientifico italiano» e non diversamente da Antonio Scialoja (proprio allora chiamato a Torino a tenere un corso di Economia politica) definivano i «prodigi della meccanica» un «vanto della moderna civiltà» (cit. in Oldrini 1973, p. 125).
Più cresceva il desiderio di cambiamento, più risaltavano però le carenze strutturali esistenti e più si allargava anche il distacco fra i regimi assoluti e i settori più avanzati della società. Emblematica a riguardo è la sorte del progetto di riforma del pubblico insegnamento predisposto all’inizio del 1848 dall’Istituto lombardo di scienze, lettere ed arti. Elaborato da una speciale commissione sulla base delle riflessioni accumulatesi negli anni Quaranta, il documento presentò una serie di proposte organiche, che mise in imbarazzo le autorità di governo con la richiesta di un generale ampliamento degli studi. Per i medici e gli ingegneri in particolare furono sollecitati «studi pratici o di perfezionamento» opportunamente differenziati dopo la preparazione universitaria generale e comune. Il sopraggiungere della tempesta quarantottesca consentì al governo di accantonare il documento, e anche quando si tornò a pensare a qualche possibile modifica degli studi universitari, si continuò a ignorare quel progetto organico. I pochi provvedimenti che furono presi nei secondi anni Cinquanta restarono infatti sempre parziali e isolati, e anche quando si permise la creazione della Società geognostica di Milano (1855), poi denominata Società di geologia e di altre scienze naturali, la si mise in condizione di funzionare solo alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza.
Anche nel resto della penisola il dopo 1848 fu un periodo di repressione e di disimpegno dalle riforme. Se nello Stato della Chiesa fu ancor più rafforzato il potere di sorveglianza e di influenza della Compagnia di Gesù, nella Toscana leopoldina fu abbandonata l’azione di bonifica che nel ventennio precedente era stata condotta in Maremma, mentre le difficoltà economiche del periodo, aggravate dalla presenza austriaca su suolo toscano, riducevano le risorse destinate alle attività scientifiche. Quanto al Regno delle Due Sicilie, la persecuzione dell’intellighenzia liberale e l’ormai cronica debolezza delle istituzioni aggravarono la situazione degli studi insieme a quella dell’economia meridionale.
Diversa l’evoluzione del Piemonte liberale, stimolato dalle riforme cavouriane. Perseguendo lo sviluppo economico accanto alla trasformazione in senso parlamentare e laico dello Stato, Cavour incentivò l’innovazione con una nuova legge sui brevetti e avviò un audace programma di lavori pubblici, che prevedeva il potenziamento del porto di Genova, la canalizzazione del basso Vercellese e Novarese, la costruzione di importanti linee ferroviarie e telegrafiche, la realizzazione di collegamenti transalpini e la nascita di officine meccaniche e cantieristiche necessarie alle stesse nuove infrastrutture. Programmi tutti di grande impegno tecnico oltre che economico, perché comprendevano ferrovie con forti pendenze, lavori idraulici complessi, trafori prima mai tentati come quello alpino del Fréjus, che nel suo genere di tunnel a foro cieco (privo cioè di pozzi verticali, irrealizzabili nei trafori di montagna) costituiva un primato assoluto. Anche i progetti politico-militari, del resto, non facevano che sollecitare l’ammodernamento delle strutture tecniche dello Stato, dall’Arsenale alla Fonderia, alla Reale fabbrica d’armi.
Al dinamismo progettuale e realizzativo della politica cavouriana si accompagnarono non a caso esperimenti, invenzioni, studi, a cui parteciparono gli intellettuali provenienti da ogni parte d’Italia. Se un tecnico di lungo corso e di solida fama come Pietro Paleocapa, giunto dopo il 1849 dal Veneto, fu chiamato a dirigere il ministero dei Lavori pubblici, e un ingegnere come il siciliano Luigi Orlando, che con i suoi tre fratelli aveva impiantato un’officina meccanica presso Genova, poté assumere la direzione dello stabilimento Ansaldo di Sampierdarena, i cultori di varie discipline come Piria, Cannizzaro, Genocchi, Tardy, Majocchi, Tommasi furono tutti accolti e valorizzati in vario modo.
Al tempo stesso, mentre cresceva fra i ceti colti degli altri Stati l’ammirazione per il Piemonte liberale e riformatore, furono riprese le iniziative individuali e di gruppo del decennio precedente per la promozione del rinnovamento scientifico italiano. Non solo aumentarono i soggiorni in Europa per conoscere le realtà più avanzate, ma si intensificarono i rapporti con studiosi stranieri e italiani della medesima disciplina o di discipline affini in vista di programmi comuni. Un ruolo significativo in tal senso lo svolsero i periodici che cercarono anche di favorire il «perfezionamento» mediante una maggiore specializzazione. Pur mantenendo un sottotitolo molto ampio, «Giornale di Fisica, di Chimica e delle loro applicazioni alla Medicina, alla Farmacia ed alle Arti Industriali», come il mercato imponeva, «Il Nuovo Cimento» dedicò dal 1855 in poi uno spazio sempre maggiore alla fisica e alla chimica, che erano i campi più praticati dai due direttori Matteucci e Piria. A stimolare le ricerche dei matematici che costituivano una massa più omogenea di lettori si impegnò l’iniziativa assunta nel 1858 da Betti, professore di algebra superiore a Pisa dopo essere stato allievo di Mossotti, e da Francesco Brioschi, titolare di matematica pratica a Pavia. Rilevati gli «Annali di Scienze matematiche e fisiche», in vita dal 1850 sotto la direzione del romano Barnaba Tortolini, li rilanciarono su nuove basi con il titolo di «Annali di matematica pura e applicata», coinvolgendo nell’impresa altri due valenti matematici, il piacentino Angelo Genocchi e il siciliano Placido Tardy, rispettivamente professori a Torino e a Genova (Bottazzini 2000). Per stabilire, inoltre, gli opportuni collegamenti con la cultura scientifica europea Betti e Brioschi compirono nel 1858 un lungo viaggio in compagnia del giovane Felice Casorati. Passando da Zurigo a Berlino, da Karlsruhe a Parigi, per dieci città europee, il gruppo incontrò i maggiori matematici del tempo (fra cui Bernhard Riemann, che stabilì con Betti un rapporto ricco di stimoli) e conobbe il funzionamento di molte istituzioni, a cui Brioschi si sarebbe ispirato nella sua attività postunitaria in tema di organizzazione degli studi tecnici superiori.
La guerra del 1859 segnò non solo l’accelerazione del movimento unitario, ma anche il passaggio dai precedenti parziali interventi in materia di pubblico insegnamento alla prima legge quadro, nota come legge Casati, che accolse le esigenze maturate nel corso degli anni Cinquanta, innestandole sul tronco della tradizione piemontese. Continuità e innovazione furono quindi i tratti principali della legge, subito rilevati dai contemporanei.
Tra le novità di maggior rilievo la prima è certo la nascita, accanto alla Scuola secondaria classica confermata nel ruolo di scuola preliminare per il «conseguimento dei gradi accademici nelle Università dello Stato» (art. 188), del secondo canale formativo, costituito dalle Scuole tecniche di primo grado e dagli Istituti tecnici secondari, per i cittadini orientati «a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci ed alla condotta delle cose agrarie» (art. 272). Nella fascia degli studi superiori, inoltre, mentre già si prospettava una semplificazione del vecchio apparato universitario, annunciando la fine dell’ateneo sassarese a vantaggio degli «stabilimenti inferiori e superiori di istruzione secondaria e tecnica» (art. 177), si dava vita a due scuole politecniche per ingegneri: la Scuola di applicazione di Torino e l’Istituto tecnico superiore di Milano, sull’esempio di analoghe istituzioni europee.
Iniziava in tal modo con la Casati la serie di interventi istitutivi, che via via si ebbero nelle regioni coinvolte dall’unificazione, diventandone uno degli esiti più rilevanti. È sufficiente mettere insieme anche solo una parte di tali interventi compiuti dal 1859 in poi nel campo dell’istruzione per constatare che si trattò di una linea seguita con decisione e ad ampio raggio. Linea da tempo voluta da Cavour, che ancora poco prima di morire ebbe modo di ribadirla. Scrivendo a Stefano Jacini il 5 gennaio 1861, così si esprimeva in merito al progetto di una nuova «scuola veramente tecnica»:
Glielo raccomando caldamente. Questa scuola sarà il primo passo nella via della riforma dell’insegnamento: prima necessità sociale. Non badi alla burocrazia e ordini che si eseguisca quanto viene proposto; in quindici giorni sarà aperta. [...] Farò altrettanto all’arsenale di Genova. Spero che altri mi imiteranno. A poco a poco ritrarremo l’insegnamento del fatale indirizzo che si dà; e ciò sarà per lei un vero titolo alla benemerenza dell’Italia da rigenerarsi (Cavour 2008, pp. 54-55).
Già nell’agosto del 1859 a Milano si decise di rafforzare la Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, mettendole a disposizione un ampio edificio demaniale e, mentre a Torino e a Milano si lavorava per dare attuazione alle disposizioni della Casati, altrove si istituivano altre scuole di carattere tecnico, come la Scuola per il corpo del Genio civile a Ferrara, decisa da Farini nel febbraio del 1860 e poi trasformata in Scuola di applicazione per gli ingegneri idraulici (1863), o come la Scuola per ingegneri di Palermo, istituita appena si ebbe il controllo della Sicilia (ma aperta nel 1866), seguita in varie città dell’isola da altre strutture «speciali», come l’Istituto d’arti e mestieri creato a Fermo dal commissario per le Marche Lorenzo Valerio con decreto 8 gennaio 1861. Sempre nel gennaio del 1861 si dava vita al Reale istituto d’incoraggiamento di agricoltura, arti e manifatture per la Sicilia (presidente Emerico Amari) col compito di promuovere lo sviluppo delle attività produttive.
E non meno significativo è che, quando nella Toscana, ormai prossima all’unione col Piemonte, si pensò di rimarcare il ruolo culturale di Firenze nella nuova compagine statuale, il 22 dicembre 1859 fu deliberata da Ricasoli e Ridolfi la creazione di un Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento (inaugurato all’inizio del 1860) sia per le scienze umane, che per le scienze naturali considerate sotto il duplice riguardo del loro perfezionamento e del loro pratico esercizio.
Di lì a poco, nel 1862, accanto alla Scuola di applicazione di Torino, veniva istituito il Museo industriale italiano, sull’esempio del Kensington Museum di Londra e di altre analoghe strutture, come il famoso Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi. E mentre si dava attuazione all’Istituto tecnico superiore di Milano, si provvedeva a riordinare la Scuola per gli ingegneri di Napoli per adeguarla alle nuove esigenze. Analogamente si fece con le Scuole d’ingegneria di Padova e di Roma, dopo che furono acquisite nel 1866 e nel 1870.
Contemporaneamente si costruiva la rete di scuole tecniche inferiori previste dalla Casati, e quella degli istituti tecnici secondari, che a una prima rilevazione statistica effettuata nel 1868, contava già 84 istituti, di cui 45 governativi, 19 pareggiati e 18 liberi.
Si ampliava ulteriormente anche il complesso di istituzioni superiori, che dovevano completare il nuovo settore dell’istruzione nazionale. Se a Venezia si aprì la Scuola superiore di commercio (1867), a Genova si avviò la Scuola superiore navale (1870) e a Palermo si attivò nel 1872 la scuola postlaurea a indirizzo minerario, per gli studi agrari si crearono le due Scuole superiori di agricoltura di Milano (1870) e di Portici (1872), attorno alle quali sorsero la Stazione sperimentale di Lodi per il settore lattiero-caseario (1871), l’Istituto forestale nell’ex Badia di Vallombrosa (1869), e varie stazioni e scuole pratico-sperimentali finalizzate alla gelsibachicoltura, alla viticoltura, alle attività nautiche e di pesca, alle miniere – fra cui quelle di Caltanissetta (1862) e Iglesias (1871) – per la preparazione di periti e capi operai minerari.
Si trattò, come si vede, di un intero sistema di scuole a carattere tecnico-scientifico ed economico, che sorse insieme all’unificazione e nell’ambito dello Stato unitario, sulla base del convincimento, maturato dagli anni Trenta in poi, secondo cui spostando l’asse culturale in senso tecnico e scientifico si sarebbero irrobustite le forze intellettuali e produttive necessarie alla rigenerazione dell’Italia e alla sua partecipazione piena ai processi di modernizzazione in atto.
Fu proprio di ritorno dall’Esposizione londinese del 1862 che la delegazione italiana chiese l’istituzione del Museo industriale, dianzi ricordato. A motivare la proposta era la volontà di mettersi al passo per colmare il ritardo tecnologico che si era registrato in occasione della prima Esposizione nazionale organizzata a Firenze all’indomani della proclamazione del Regno, e che agli esperti non era certo sfuggito.
Nell’illustrare il settore della meccanica, principale indicatore delle produzioni moderne, Giuseppe Colombo affermava sulla «Perseveranza» che, a parte la fabbrica di Pietrarsa e lo stabilimento Ansaldo, sostenuti sin dall’inizio dai rispettivi governi preunitari, l’industria meccanica in Italia era ancora lontana dal poter fornire le locomotive alle ferrovie nazionali o le macchine operatrici alle nascenti industrie. Ciò che più colpiva era il fatto che accanto alle poche macchine moderne era stato dato ampio spazio ai «motori impossibili» presentati da dilettanti e aspiranti inventori, segno evidente della «scarsa ed imperfetta coltura» degli espositori e degli stessi organizzatori della mostra. Per colmare le molte carenze, concludeva Colombo, occorreva puntare soprattutto alla diffusione delle conoscenze scientifiche tanto tra «i fabbricanti» quanto tra gli «operai» (Colombo 1985, pp. 154, 160).
Cattaneo, che già più volte aveva indicato nel sapere uno dei principali fattori dello sviluppo economico moderno, tornò a porre l’accento sulla preparazione scientifico-tecnica e affermò la centralità dell’intelligenza nella nuova vita economica, sostenendo nel saggio Del pensiero come principio di economia publica del 1861, che «prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza» (Cattaneo 1956, p. 341).
Sella, a sua volta, sollecitava il governo a dotare gli organi dello Stato, la classe dirigente e le forze sociali attive, della carta geologica d’Italia, già reclamata nei congressi scientifici preunitari. E si diede anche subito inizio alle operazioni preparatorie di una carta rigorosa a grande scala (1:50.000), quando nel marzo del 1862, «per riguardo alle imperiose strettezze finanziarie» del paese, lo stesso Sella si trovò a dover sospendere lo stanziamento prima chiesto e ottenuto (Sella 1864, p. 17). Cominciava in tal modo la serie di interruzioni, che avrebbe differito il raggiungimento di questo obiettivo individuato per tempo.
Senza citare Cattaneo, ne utilizzava la prosa il deputato abruzzese Giuseppe De Vincenzi, segretario del comitato dell’Esposizione internazionale del 1862 e tenace promotore del Museo industriale di Torino, quando sosteneva che «fra tutti i mezzi della produzione» il primo è «l’uomo, che, colla sua intelligenza, operosità ed energia, ne è la causa prima, come la condizione essenziale» (De Vincenzi 1878, p. 5). Convergeva su questo convincimento anche il ministro Filippo Cordova che, in merito all’insegnamento superiore affermava:
Il sapere nel campo economico è il più attivo strumento della produzione, e quindi il primo fattore della pubblica ricchezza. Nell’assiduo progresso delle scienze, e nello studio delle loro applicazioni alle arti utili, dobbiam cercare le condizioni della prosperità del popolo italiano; e quindi sorge il bisogno di una buona e larga istruzione scientifica ed industriale, che agevoli i modi di raggiungere quello scopo (ivi, p. 7).
Accenti analoghi si trovano in numerosi altri esponenti dei gruppi dirigenti risorgimentali, fossero ministri come Gioacchino Pepoli e Matteucci, o deputati e pubblicisti come Gabriele Rosa e Mauro Macchi, che, al di là delle diverse posizioni politiche, convenivano sulla necessità e l’urgenza di potenziare la cultura tecnico-scientifica. Macchi, in particolare, sottolineava sul «Politecnico» di Cattaneo che la legge del 1859 aveva di fatto riservato una posizione privilegiata all’istruzione classica tradizionale, stabilendo che i ginnasi fossero più numerosi delle scuole tecniche e che i licei fossero «obbligatori» almeno in ogni capoluogo di provincia, mentre gli istituti tecnici erano «permessi» solo nei centri più popolosi.
In sintonia con questo giudizio critico si mostrava sul «Corriere mercantile» di Genova Cannizzaro quando criticava la Casati per la mancanza di chiarezza circa il difficile passaggio dalle scuole tecniche alle facoltà di scienze fisiche e matematiche. «Noi domandiamo – sosteneva il chimico siciliano – che la licenza del corso tecnico valga quanto quella dei licei ad essere ammessi almeno alla facoltà di scienze fisico-matematiche» (Cannizzaro 1992, p. 310). E sempre a favore degli studi tecnici si dichiarava anche Gerolamo Boccardo, sia nel 1860 che dieci anni dopo, quando, a nome di una commissione ministeriale chiamata nel 1870 a occuparsi delle scuole professionali, ribadiva la necessità di un’«educazione più direttamente operosa», richiesta dal «moltiplicarsi delle ricchezze mobiliari», dalla crescita dei ceti borghesi «commerciali ed industriali», come dal «possente svolgimento assunto dalle grandi opere di pubblica utilità» del periodo (Boccardo 1870, p. 5).
Non si coglie il senso delle precedenti prese di posizione se non le si considera in rapporto ai motivi oggettivi che premevano negli anni dell’unificazione sui protagonisti del dibattito culturale e dell’azione di governo. È opportuno perciò richiamare i termini di alcune questioni affrontate dopo il 1861, a partire dalle infrastrutture, necessarie a collegare una all’altra le diverse parti del paese e a inserirle unite nel circuito degli scambi internazionali. Tornato a guidare il ministero dei Lavori pubblici, Stefano Jacini affermava che per realizzare unità e sviluppo occorreva
aprire nuove vie, escavare o proteggere con nuove opere i porti malsicuri od interrati, estendere e fortificare le difese contro i fiumi, condurre le acque a raddoppiare la fecondità di vasti terreni, far giungere fino alle più remote parti della penisola quel mirabile istrumento di civiltà, di progresso e di potenza che è la vaporiera, far sparire le distanze congiungendo coi fili telegrafici le mille città d’Italia, perfezionare, ampliare e rendere più rapido e ad un tempo più semplice il servizio delle poste, creare una marina a vapore nazionale (Jacini 1867, p. 1).
Non è difficile immaginare quanto queste opere pubbliche programmate dopo l’Unità sollecitarono la cultura tecnico-scientifica, le istituzioni formative che si stavano creando e gli stessi apparati tecnici e gestionali dello Stato. Le esperienze e gli strumenti dei governi preesistenti, anche dei più efficienti (Piemonte, Lombardo-Veneto, Toscana), non erano più adeguati alle esigenze di un grande Stato e alla complessità dei problemi nazionali. La questione transalpina era una di questi ed è opportuno qui richiamarne i termini essenziali e le procedure che si seguirono nella fase conclusiva.
Mentre procedevano i lavori del Fréjus, assunti ormai congiuntamente da Italia e Francia, il dibattito sulla seconda trasversale alpina entrava finalmente nella fase decisiva. I progetti si erano accumulati numerosi da quando nel 1838 era stata avanzata una prima proposta e tutte le soluzioni possibili erano state sostenute nel corso del quarto di secolo successivo. Dopo tante discussioni e iniziative, all’indomani dell’Unità si era ormai fatto chiaro, per il rifiuto del capitale privato di sottoscrivere impegni giudicati troppo aleatori, che per un’impresa tanto difficile occorresse l’intervento degli Stati interessati (Italia, Svizzera e Germania), e che per giungere a una scelta conclusiva bisognasse passare a una comparazione rigorosa sia dei dati raccolti sia dei progetti fino allora elaborati.
Un decisivo contributo in tal senso fu dato proprio da Jacini, tornato nel 1864 ai Lavori pubblici, dove Cavour lo aveva voluto nel 1860. Si trattava a suo giudizio di mettere ormai fine «alle deduzioni precipitate, alle nozioni vaghe e puramente intuitive» che avevano generato «grandissima confusione» ed eccitato «lo spirito di parte», per giungere a una scelta finale saldamente ancorata a criteri obiettivi e a dati scientifici incontrovertibili.
Una commissione di tecnici ebbe il compito di studiare i problemi delle tre principali linee concorrenti, Spluga, Lucomagno e San Gottardo, sulla base della letteratura esistente e di oltre trenta progetti, rilevando gli elementi essenziali di ciascuno (chilometraggio, pendenze, punto culminante, gallerie, loro lunghezza e relativo numero di pozzi). Un’altra commissione di esperti si occupò dei sistemi disponibili per vincere le forti pendenze e quindi della possibilità eventuale di adottare gallerie elevate al posto di gallerie di base. Sempre in merito alla questione delle lunghe gallerie furono interpellati tre dei maggiori geologi del tempo, Angelo Sismonda, Felice Giordano e Antonio Stoppani, che appurarono la fattibilità delle gallerie. Intervenne quindi l’ingegner Severino Grattoni, direttore dei lavori del Fréjus, per dire, alla luce delle esperienze fatte sulle Alpi Cozie, quale dei tre tunnel poteva considerarsi più agevole. L’ingegnere Giovanni Battista Rombaux a sua volta si pronunciò in merito al reale obiettivo geografico del commercio estero italiano. Tutto il materiale così raccolto e vagliato fu infine affidato a una commissione commerciale di competenti e parlamentari, che, ascoltate ancora le ragioni sostenute dalle parti, concluse il 10 febbraio 1866 con un verdetto finale, che indicava come preferibile il San Gottardo per collegare l’Italia unita all’Europa del Nord (Caizzi 2007).
Se le opere infrastrutturali furono un volano di cultura tecnico-scientifica per la quantità di esperti che mobilitarono, i problemi che posero e i nuovi studi che stimolarono (si pensi a quelli di Valentino Cerruti e di Carlo Alberto Castigliano sui sistemi elastici), lo furono anche per gli strumenti che sollecitarono, come ad esempio la carta topografica, per la cui realizzazione, che richiedeva lavori sistematici e regolari di inquadramento geometrico e di rilevamento cartografico, si giunse nel 1872 alla nascita dell’Istituto topografico militare con sede a Firenze, dal 1882 denominato Istituto geografico militare (Igm).
Motivi di riflessione collettiva furono offerti dalla guerra del 1866 contro l’Austria, che mise in evidenza le insufficienze ereditate e le presenti. La classe dirigente unitaria si interrogò sulle ragioni della deludente prova militare del neonato Stato italiano, e si convinse ancor più della necessità dei cambiamenti appena avviati. Intervenendo nel dibattito col saggio Di chi la colpa? Pasquale Villari richiamò l’attenzione anche sugli aspetti tecnici e operativi. Alle masse combattenti – scriveva – gli ordini oggi «si danno col telegrafo e si eseguono colle strade ferrate, il piano di battaglia è diventato un lavoro di scienza, e la direzione di queste grandi masse richiede […] grande impegno e grande coltura in tutti coloro che comandano». L’approvvigionamento, a sua volta, esige «una grande capacità amministrativa, e i mezzi d’offesa e di difesa sono divenuti così complicati, che tutte le operazioni militari suppongono nell’esercito e nella flotta una grandissima forza industriale». Occorrevano quindi – concludeva Villari – un apparato organizzativo e una base produttiva comparabili con quelli degli altri maggiori Stati europei. Un paese costretto a «chiedere allo straniero rotaie, cannoni, fucili, navi e qualche volta anche macchinisti delle navi», non poteva dirsi neppure indipendente, sosteneva l’intellettuale napoletano (Villari 1995, pp. 147-149).
A sua volta Colombo, sottolineando il rapporto fra statualità nazionale moderna e strutture industriali avanzate, affermava:
Qualunque opinione si porti nelle questioni di libero scambio o di protezionismo, non bisogna dimenticare che ci sono talune industrie che son necessarie allo Stato, che fanno parte in certa guisa del suo stesso organismo; non bisogna dimenticare che le grandi officine meccaniche e ferroviarie sono altrettanti arsenali in tempo di guerra, e al pari dei grandi cantieri di costruzioni marittime concorrono a formare l’armamento della nazione. Quando il paese fosse chiuso da tutte le parti, deve trovare in sé stesso i mezzi per rifornire le sue ferrovie, il suo materiale da guerra e riparare la sua marina (Colombo 1985, p. 255).
Già nel 1862 il tecnologo milanese aveva posto il raggiungimento stabile degli obiettivi risorgimentali in diretto rapporto con lo sviluppo delle capacità industriali. «La prosperità industriale di un popolo – aveva affermato – è al pari della libertà, che la sviluppa e la feconda, uno dei primi elementi della sua indipendenza» e della sua stessa coesione nazionale. Ma per realizzarla occorrono lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e la loro diffusione «fra i fabbricanti e gli operaj» (ivi, pp. 154, 160).
Da tutti i punti di vista, quindi, lo sviluppo tecnico-scientifico appariva necessario insieme a ciò che doveva renderlo possibile: lo spostamento del baricentro culturale dai saperi tradizionali verso quelli nuovi, mediante un’ampia trasformazione del sistema formativo esistente. Una trasformazione che, come già osservato, fu sì subito avviata con la creazione delle nuove strutture formative e di ricerca, ma che di fatto si realizzò più lentamente di quanto, nell’entusiasmo iniziale, molti avevano pensato e sperato. Ciò per diverse ragioni, su cui dovremo tornare più oltre, che andavano dalle «imperiose strettezze finanziarie» del nuovo Stato, gravato dopo l’Unità da un deficit di bilancio assai pesante, alle resistenze delle forze legate ai vecchi assetti culturali e sociali, dalle incertezze derivanti dalla novità stessa dei problemi agli antagonismi interni al mondo accademico e ai conflitti di competenze fra i ministeri preposti al governo delle vecchie e delle nuove istituzioni culturali e formative.
Per molti modernizzatori la nascita delle nuove scuole tecnico-scientifiche doveva essere accompagnata da una parallela riduzione numerica delle tradizionali, peraltro da modificare sia nei contenuti che nei metodi di insegnamento. E tentativi in tal senso furono anche fatti, secondo le indicazioni di Matteucci, di Sella e di altri esponenti dei primi governi. La difesa però dell’esistente da parte di numerose ed estese consorterie, fu tale da impedire anche la soppressione degli organismi più esangui ereditati dal passato.
Né fu possibile seguire (se non in parte) la via indicata da Cattaneo, che, sollecitato da Matteucci, ministro della Pubblica istruzione dal 1862 al 1864, prospettò per gli studi superiori un sistema organico di centri specializzati e saldamente ancorati alle diverse realtà del paese, in una linea di radicale rinnovamento culturale.
Il principio che abbisogna alle facultà italiane – sostenne allora Cattaneo – è adunque ciò che in economia si chiama divisione del lavoro; è ciò che in psicologia si chiama analisi. La sintesi sarà l’Italia. La sintesi non è la ripetizione, non è l’uniformità; ma è la più semplice espressione della massima varietà (Cattaneo 1963, pp. 207-208).
Ai contrasti emergenti si rispose con una serie di compromessi volti a conciliare e tenere insieme i gruppi dirigenti nazionali. E ciò non mancò di riflettersi sul cambiamento, che risultò oscillante, ora accelerato ora frenato, complessivamente inferiore ai propositi e alle aspettative iniziali. Non a caso Brioschi esclamava sin dal 1863:
Possiamo noi dire che una rivoluzione sia avvenuta in Italia in fatto di pubblico insegnamento? Troviamo noi in questi anni attuato in Italia un solo di quei grandi concetti, i quali [...] accompagnano le grandi rivoluzioni politiche, e diedero alla Francia la Scuola politecnica, la Scuola normale, l’Istituto nazionale, e furono in Germania la principal causa del movimento scientifico delle sue Università? (Brioschi 2003, pp. 48-49).
Per anni si proseguì sì in direzione del rinnovamento, ma senza un piano definito. La stessa legge Casati, che era vaga su tanti aspetti, convisse a lungo con i vecchi ordinamenti, e sull’azione dei governi influirono negativamente i contrasti fra il ministero dell’Istruzione e quello di Agricoltura, industria e commercio, orientati spesso in direzioni diverse. La classe dirigente, inoltre, per il suo carattere composito aveva al suo interno diversità di visioni e di interessi e gran parte delle famiglie che mandavano i figli a scuola restava legata ai modelli culturali e sociali del passato, rafforzati dalla sovrabbondanza di strutture formative tradizionali.
E tuttavia va riconosciuto che il rinnovamento continuò ad affermarsi per l’intero periodo della Destra e oltre, grazie al progressivo radicamento delle nuove istituzioni, al cambiamento dei vecchi organismi, al nuovo modo dei docenti sperimentatori di fare scienza e di insegnarla.
Emblematica la trasformazione dell’ateneo napoletano, voluta da Francesco De Sanctis e realizzata con la sostituzione di 34 professori, e la creazione o l’ampliamento di istituti, gabinetti e musei nei settori più diversi, dall’anatomia alla fisiologia comparata, dalla fisica alla chimica, dalla geologia alla farmacologia. Fra gli uomini di scienza costretti a lasciare Napoli c’era anche Salvatore Tommasi che, staccatosi dall’«hegelianismo» iniziale, dopo l’esperienza pavese e la lettura della Patologia cellulare di Rudolf Virchow, propugnò quell’indirizzo positivo e sperimentale, da lui considerato ormai superiore non solo in ambito medico, ma in ogni attività conoscitiva e pratica. «L’avvenire del mondo – scriveva nel 1865 – è la scienza» e c’è da sperare «che trionfi da per tutto: nella vita pubblica e nella privata, nell’officina del fabbro come sul letto dell’infermo!» (Tommasi 1883, p. 202).
Inquadrando storicamente il cambiamento avvenuto, Tommasi affermava che il nuovo indirizzo della medicina era nato «poco per volta in questi ultimi trent’anni», per opera di medici che, stanchi dei sistemi e delle fantasmagorie, avevano ricominciato a studiare l’anatomia alla luce della fisiologia e in modo sperimentale. «Oggi – aggiungeva nella celebre prolusione del 1866 Il naturalismo moderno – ci vivifichiamo ogni giorno alla sorgente purissima della realtà studiata con l’osservazione e l’esperienza; e il presente movimento delle scuole e de’ gabinetti, trae origine appunto dai diversi orizzonti scientifici, che si affacciano e succedonsi a brevi intervalli» (Tommasi 1913, p. 108).
Sostenitori dei nuovi metodi di ricerca fisiologica furono pure Arnaldo Cantani, direttore della seconda clinica medica napoletana dal 1868 e Giuseppe Albini, che nella prolusione Il positivismo nella medicina ribadì la necessità di abbandonare le astratte speculazioni, per sviluppare l’osservazione clinica e sperimentale nell’analisi dei processi morbosi. Milanese di origine e partecipe delle vicende risorgimentali (combatté nelle Cinque giornate e nella successiva battaglia di Novara) Albini si formò, come quasi tutti i nuovi docenti, in Europa, lavorando con Ernst Wilhelm von Brücke a Vienna e con Émil Du Bois-Reymond a Berlino, quindi insegnò fisiologia all’università di Cracovia fino al 1859, quando rientrò in Italia a seguito della mutata situazione italiana. Chiamato a Napoli nel 1861 divenne direttore dell’Istituto di fisiologia nel quale organizzò un moderno laboratorio finalizzato a un ampio programma di ricerche riguardante il diabete e le malattie infettive.
Ugualmente incisivo fu il rinnovamento degli altri settori scientifici napoletani. Se Luigi Palmieri, professore di Fisica terrestre, sviluppò presso l’Osservatorio vesuviano un’intensa attività con il suo sismografo elettromagnetico che gli procurò numerosi riconoscimenti internazionali, il chimico De Luca (allievo di Piria come sappiamo) portò a Napoli i moduli appresi dopo il 1848 a Parigi con Dominique-François Arago, Antoine-Jérôme Balard, Théophile-Jules Pelouze e Dumas, e applicati a Pisa, dove, oltre che insegnare, aveva coordinato la redazione del «Nuovo Cimento». Rientrato a Napoli continuò dal 1862 a svolgere accanto all’attività di docente quella di organizzatore culturale, animando l’Associazione delle conferenze chimiche e pubblicando «L’Incoraggiamento».
Anche per Palermo il dopo-Unità fu l’inizio di un cambio di fase per l’arrivo di nuovi ordinamenti, nuovi docenti e nuove attrezzature. Il friulano Pietro Blaserna, giunto in Sicilia dopo che si era formato a Vienna e perfezionato a Parigi sotto la direzione di Henri-Victor Regnault, provvide a organizzare su nuove basi l’insegnamento e il laboratorio di Fisica, nel quale poté completare i lavori poi apparsi sotto il titolo Sullo sviluppo e la durata delle correnti di induzione e delle extracorrenti e Sulla polarizzazione della corona solare. Il toscano Corrado Tommasi-Crudeli, a sua volta, portò con sé le idee maturate a Parigi presso la scuola del fisiologo Claude Bernard e del neurologo Guillaume-Benjamin Duchènne, nonché a Berlino accanto al patologo Virchow, ma anche un forte impegno civile. E mentre in ambito medico sostenne la correlazione tra l’istopatologia e i reperti macroscopici, non esitò a entrare nella Guardia nazionale di fronte alla rivolta palermitana del 1866, durante la quale, così come durante il colera scoppiato subito dopo a Palermo, si espresse pubblicamente sui problemi dell’isola e del nuovo Stato unitario.
Con Cannizzaro, poi, Palermo riacquistò uno dei suoi figli migliori, emigrato per ragioni politiche e giunto alla ribalta mondiale nel 1860 grazie al riconoscimento del primo Congresso internazionale di chimica, a Karlsruhe, della teoria atomica e molecolare basata sul principio di Avogadro e della regola, detta legge degli atomi, che rendeva possibile la classificazione periodica degli elementi.
Non diversamente da altri scienziati del periodo, Cannizzaro intese esplicitare i cardini del suo magistero. Nell’Orazione inaugurale per l’apertura degli studi dell’anno scolastico 1864 richiamò la linea del pensiero moderno che aveva dimostrato, contro «il principio dell’autorità», l’efficacia del «metodo induttivo coadjuvato dalla deduzione matematica» e che, in quanto finalmente autonoma dalla teologia, aveva ampliato «il campo della libertà intellettuale». Il metodo scientifico che ormai guida la mente al libero esame delle cose naturali e umane – affermava Cannizzaro – consente di scoprire sempre meglio «il nesso fra tutti i fenomeni fisici e morali dell’universo» e di realizzare l’integrazione e il reciproco aiuto fra le varie scienze. Di qui anche la tendenza, sempre più presente nei corpi legislativi e nei governi, «ad incoraggiare e promuovere egualmente gli studi diversi» e a considerare «la coltura e lo accrescimento di tutte le scienze come uno dei pubblici doveri da esser soddisfatto, immediatamente dopo quello della difesa nazionale» (Cannizzaro 1995, pp. 22, 34).
Famoso ormai a livello internazionale, Cannizzaro attrasse a Palermo studiosi italiani e stranieri, fra cui l’austriaco Adolf Lieben, il francese Alfred-Joseph Naquet e il tedesco Wilhelm Körner. Proprio a Palermo Körner pubblicò sul «Giornale di scienze naturali ed economiche» il suo contributo maggiore alla fondazione della chimica dei derivati aromatici. Chiamato poco dopo a Milano, insegnò dal 1870 nella Scuola superiore di agricoltura e dal 1875 anche al Politecnico, contribuendo a formare agronomi, ingegneri, ricercatori e docenti, come il lombardo Angelo Contardi o l’emiliano Angelo Menozzi.
All’inizio degli anni Settanta, Cannizzaro, Blaserna e Tommasi-Crudeli passarono a Roma per contribuire alla costruzione del volto scientifico della nuova e definitiva capitale d’Italia. Subito dopo la breccia di Porta Pia Francesco Brioschi era stato incaricato di esaminare la situazione degli studi in vista degli interventi riformatori. E il rapporto del matematico-ingegnere non mancò di evidenziare le maggiori carenze indicate nella diffusa insufficienza delle attrezzature sperimentali e nella generale considerazione delle scienze, che erano insegnate a ogni livello in modo parziale, circoscritto, strumentale, «non come cosa che avesse un valore per sé e potesse dar lume a scientifiche conseguenze e aiuto al progresso degli studi in generale». Insomma, concludeva Brioschi, «queste scienze, tanto importanti per tutto lo scibile umano, vi erano impartite a spizzico e con tale parsimonia che appare il sospetto col quale si guardavano» (Brioschi 2003, p. 112).
Nella trasformazione di Roma in un centro di alta e libera cultura scientifica doveva culminare per il ceto dirigente risorgimentale la già avviata «rigenerazione» scientifica italiana. A Theodor Mommsen che chiedeva cosa intendessero fare i governanti italiani in una città così ricca di storia («a Roma non si stà senza avere dei propositi cosmopoliti», diceva), Sella rispondeva risoluto: «Sì, un proposito cosmopolita non possiamo non averlo a Roma: quello della scienza» (Sella 1887, p. 292). Il che voleva dire innanzi tutto introdurre nell’università di Roma «la grande scuola italiana, la scuola galileiana, la scuola degli esperimenti» e quindi realizzare pienamente la libertà di pensiero e di ricerca.
È importantissimo – affermava Sella in Parlamento – che vi sia qui la discussione delle idee moderne, anche le più ardite, che avvenga qui il cozzo di teorie, delle opinioni scientifiche, onde da questo urto emerga la luce. E niuno vorrà negare, io credo, che siano appunto le scienze sperimentali quelle che danno luogo a criteri scientifici, che meglio giova sviluppare in Roma (ivi, 229).
La riforma degli studi romani passò attraverso l’istituzione del corso di filosofia, la soppressione della facoltà di teologia, la creazione della nuova facoltà fisico-matematica, dal 1874 chiamata facoltà di scienze matematiche fisiche e naturali, l’attivazione di nuovi insegnamenti e l’inserimento di personalità di spicco. Nel settore dell’ingegneria si passò dall’esistente Scuola pontificia alla nuova Scuola di applicazione, affidandone la direzione a uno scienziato di valore come Luigi Cremona, già vanto dell’università di Bologna. Un altro matematico eminente, Eugenio Beltrami, formatosi come Cremona alla scuola pavese di Brioschi, fu chiamato a Roma per insegnare meccanica razionale e analisi superiore e qui sviluppò le ricerche già iniziate a Bologna sulla cinematica dei fluidi e sulla teoria del potenziale, della propagazione del calore, dell’elettricità e del magnetismo.
Per fare di Roma un polo avanzato di ricerche si puntò, ovviamente, alla creazione di nuove strutture sperimentali e in particolare di tre grandi laboratori, dove, per usare le parole di Giovanni Cantoni, docente di fisica a Pavia e membro del Parlamento nazionale come tanti altri scienziati di quel periodo, «il professore, più che un insegnante cattedratico, è il direttore di una officina», e «dove ciascuno studente ha i suoi materiali per eseguire esperienze ed osservazioni» (Atti Parlamentari, Camera, sessione del 1871-72, pp. 3014).
Nel laboratorio di chimica, sorto nell’area scientifica di via Panisperna, Cannizzaro poté dare vita a un centro di eccellenza, a cui si legarono studiosi di ogni parte d’Italia: il senese Raffaello Nasini, il triestino Giacomo Ciamician, il palermitano Emanuele Paternò, l’alessandrino Gerolamo Vittorio Villavecchia, e altri ancora che divennero protagonisti della ricerca chimica italiana di fine Ottocento e contribuirono allo sviluppo degli studi lavorando in diversi atenei della penisola (Di Meo 2003).
Blaserna a sua volta poté fondare l’Istituto fisico e organizzare insieme a Filippo Keller (fino al 1870 non inserito nell’organico della «Sapienza» perché protestante) la Scuola pratica di fisica, destinata a emergere nel panorama italiano, come l’altro centro di ricerche sorto presso il nosocomio di Santo Spirito in Sassia, dove Tommasi-Crudeli organizzò l’istituto di anatomia patologica, inizialmente denominato istituto fisiopatologico. In campo medico-biologico si segnalarono Ettore Marchiafava e Angelo Celli con le loro ricerche sulla malaria e i notevoli contributi che diedero dopo Alphonse Laveran e prima di Camillo Golgi e di Giovanni Battista Grassi.
A completamento della ristrutturazione universitaria e del riordinamento degli studi superiori si passò anche a fare dell’Accademia dei Lincei la massima istituzione culturale italiana, affidandone la presidenza prima a Sella, poi a Francesco Brioschi, che della rigenerazione scientifica postunitaria erano stati propugnatori e protagonisti.
Dai riferimenti fin qui fatti a titolo esemplificativo, è abbastanza evidente che gli anni dell’unificazione furono di vera svolta per le attività scientifiche perché cambiò il ruolo degli scienziati, cambiò la prospettiva del loro lavoro, cambiarono gli intenti, il metodo, le condizioni e il modo stesso di fare scienza, secondo i parametri più avanzati e le grandi priorità del paese. Abbiamo però avuto anche occasione di osservare che, se il rinnovamento fu perseguito su tutto il territorio nazionale, la sua realizzazione fu nondimeno laboriosa e diseguale per numerose ragioni che andavano dalla pesante eredità del passato alle difficoltà finanziarie del nuovo Stato, dallo sviluppo limitato delle forze produttive agli orientamenti culturali dei ceti istruiti e ai contrasti interni alla stessa classe dirigente (Maiocchi 1980).
Si è già accennato alla carta geologica d’Italia e alle difficoltà che subito incontrò la sua attuazione. Significativo è anche il ridimensionamento del primo progetto di Museo industriale italiano a Torino e ancor più il complicato intreccio di Museo, scuola di applicazione e università nello stesso percorso formativo degli ingegneri torinesi. Non meno eloquenti sono le vicende del Politecnico di Milano (inizialmente Istituto tecnico superiore) che pure ebbe modo di emergere nel panorama nazionale. Come si è già accennato, per ragioni finanziarie, ma anche per influenza delle facoltà universitarie, la formazione dei nuovi ingegneri italiani fu affidata sia alle scuole di applicazione (di due o di tre anni: quella milanese era di tre), sia alle facoltà scientifiche, che per l’indirizzo dei loro studi prevedevano un biennio preparatorio non pienamente rispondente al profilo culturale e professionale degli ingegneri. Rifacendosi ai politecnici d’Oltralpe, pienamente autonomi dalle università e articolati in sezioni specializzate, l’istituzione milanese puntò alla realizzazione di un percorso formativo articolato al proprio interno (con una distinzione finale fra ingegneria civile e ingegneria industriale, una scuola per architetti civili e un corso, attivo solo nel primo periodo, per la preparazione degli insegnanti secondari di materie tecniche) e insieme dotato del biennio propedeutico interno. Per la resistenza nell’Ateneo pavese e del mondo universitario in genere, questo secondo obiettivo però non poté essere raggiunto che nel 1875 (primo e unico caso per molto tempo in Italia) grazie al contributo determinante degli enti locali. «Da ogni parte – affermava Brioschi – sentivo intorno a me che una tradizione per quanto nobile mi impediva il passo, [ed] ero pur costretto per non dubitare di me stesso di ricorrere agli esempi stranieri» (Brioschi 2003, p. 330).
All’esiguità dei finanziamenti, che ostacolava la rapida creazione di strutture tecnologiche avanzate, il Politecnico reagì anche coordinandosi con le altre istituzioni scientifiche milanesi e intensificando i rapporti con la società civile, che nel Politecnico trovò il perno di una strategia industrialista di largo respiro. Da un lato, infatti, diversi docenti intervennero nella fondazione di nuove imprese: si pensi alla Filotecnica, industria meccanica di precisione e di strumenti ottici creata nel 1865 da Ignazio Porro titolare di celerimensura, poi affidata ad Angelo Salmoiraghi uno dei primi laureati del Politecnico, oppure alla Pirelli e C. per la lavorazione della guttaperca, avviata nel 1872 con la partecipazione di Brioschi e di Colombo. Dall’altro lato le forze imprenditoriali emergenti si strinsero attorno all’istituzione politecnica. Così l’imprenditore tessile Eugenio Cantoni finanziò nel 1871 un corso di economia industriale volto a integrare la formazione dei nuovi ingegneri, dando un esempio che fu replicato in grande da Carlo Erba, con la donazione a metà degli anni Ottanta di un ampio capitale finalizzato a incrementare gli studi elettrotecnici e a fare di Milano un centro avanzato di ricerca.
Ben più difficile fu la vita dell’Istituto di studi superiori e di perfezionamento di Firenze, una delle istituzioni postunitarie. Concepito inizialmente come istituto postuniversitario sia per le scienze umane che per quelle naturali, esso avrebbe dovuto articolarsi in quattro sezioni. Ma mentre la sezione giuridica cadeva presto del tutto e quella di filosofia e filologia restava molto debole, priva di sede e di studenti regolarmente iscritti (era seguita però da un consistente numero di uditori), la sezione di Scienze naturali trovava sede sino al 1875 presso il Museo di fisica e di storia naturale e quella di medicina e chirurgia, presso lo Spedale di Santa Maria Nuova, dove già c’erano le cliniche generali e quelle speciali. Per evitare l’estinzione dell’intero Istituto furono previste borse di studio e fu data l’autorizzazione a conferire l’abilitazione all’insegnamento e soprattutto si procedette alla progressiva equiparazione alle facoltà universitarie. In discussione era il fine stesso dell’istituzione: se avesse dovuto puntare al culto della scienza per la scienza, o anche a una cultura finalizzata alle esigenze pratico-applicative. Una questione che si ripresentò più volte dopo l’Unità nelle strutture formative chiamate in modi diversi a coniugare la duplice esigenza di incrementare il sapere con la ricerca «libera» e fornire, mediante corsi orientati a specifici obiettivi, conoscenze e competenze richieste dalla modernizzazione e dallo sviluppo economico.
A condizionare ogni scelta, in una prima fase, stava soprattutto l’arretratezza complessiva del paese, rispetto alla quale l’insieme delle istituzioni culturali risultò per molti versi sovradimensionato e pletorico. Gli esiti della specializzazione, inizialmente perseguita, sono al riguardo più che eloquenti. Le nove sezioni, create negli istituti tecnici secondari col proposito di favorire i diversi settori produttivi, risultarono alla prova dei fatti in gran parte prive di allievi. Si dovette perciò riorganizzare l’iter formativo lasciando solo quattro sezioni: la fisico-matematica, l’industriale, l’agronomica (poi sdoppiatasi in agronomia e agrimensura) e la commerciale. La formazione degli ingegneri rimase a lungo «generalista» in tutte le scuole di applicazione, e lo stesso Politecnico di Milano, che sin dall’inizio cercò la differenziazione in sezioni, la realizzò progressivamente e solo nella parte finale del percorso, seguendo per un verso il progresso tecnico-scientifico e per l’altro l’evoluzione del tessuto produttivo nazionale.
Di fronte alla debolezza istituzionale di tante scuole e alla disparità di livello rispetto a quelle d’Oltralpe, non mancò chi, riprendendo la linea indicata più di dieci anni prima da Matteucci, propose a metà degli anni Settanta una drastica riduzione di numero. Con riferimento agli studi politecnici in particolare, Dino Padelletti sostenne che le risorse disponibili dovessero concentrarsi sulle tre principali scuole di applicazione (Milano, Torino e Napoli) per poterle portare ai massimi livelli (Padelletti 1874, pp. 679-680). Parallelamente, in campo universitario, si discusse sulla necessità di contrarre il numero degli atenei. Ma al punto in cui si era giunti per l’opposizione delle forze locali, la tesi del taglio drastico risultava più un artificio retorico, per sollecitare i finanziamenti necessari, che una proposta realmente praticabile. Tanto più che ormai, mediante l’istituto dei consorzi, a metà degli anni Settanta fu data la possibilità agli enti locali (comuni, province, camere di commercio) di intervenire a sostegno degli atenei. Di lì a poco, infatti, nel 1875-77 veniva aperta un’altra scuola di applicazione per ingegneri, quella richiesta da Bologna, nella linea del policentrismo e della «luce diffusa», anche se tenue, che si era ormai affermata nel paese delle tante città.
A rendere definitivo il sistema nato con l’unificazione intervenne anche il miglioramento della situazione finanziaria legato alle maggiori entrate e alla congiuntura economica, di cui erano segni la nascita di nuove industrie e di nuove banche, la maggiore quantità di costruzioni e di opere pubbliche, con conseguente aumento della richiesta di personale tecnico qualificato. Non a caso, mentre attraverso i consorzi gli enti locali cominciarono a sostenere università e scuole politecniche, il nuovo ordinamento generale degli studi superiori varato nel 1876 aumentava a venticinque le materie obbligatorie e a tre anni l’iter formativo degli ingegneri, rendendo in tal modo possibile un più elevato livello e una maggiore omogeneità di preparazione su tutto il territorio nazionale.
Il notevole aumento delle pubblicazioni a indirizzo tecnico-scientifico registrato dalle statistiche è un’ulteriore testimonianza dei cambiamenti postunitari, essendo il maggior numero di titoli tanto in relazione con quello degli autori quanto con quello dei lettori dei testi messi in circolazione dagli editori o dagli enti che ne promuovevano la pubblicazione. Con l’unità e la libertà politica sorsero, infatti, accanto a editori di nuovo tipo, numerosi organismi associativi impegnati a dibattere i problemi di determinate categorie professionali e la diffusione di conoscenze specifiche fra gli associati. La Società italiana di scienze naturali nata nel 1860, l’Associazione medica italiana nel 1862, la Società italiana di antropologia ed etnologia nel 1870, ma anche i collegi degli ingegneri, che operavano nelle principali città italiane (Genova e Firenze già a metà degli anni Cinquanta, Milano nel 1865, Torino nel 1866, Roma nel 1871, Napoli nel 1875, Palermo e Bologna nel 1876, quindi via via gli altri), sono tutte espressioni di un fenomeno in crescita.
All’aumento progressivo dei lettori è legata anche la vicenda delle riviste di aree disciplinari e professionali diverse, come, per citarne alcune, «Il Morgagni» di Tommasi per le scienze mediche; gli «Annali di matematica pura e applicata» rilanciati dopo l’Unità da Brioschi e da Cremona e il «Giornale di Matematiche» di Giuseppe Battaglini per le varie scienze matematiche; «Il Politecnico» tutto dedito ai problemi degli ingegneri, dal 1869 sotto la direzione dello stesso Brioschi e del suo gruppo; e «Il Nuovo Cimento», che, specializzandosi al pari delle altre testate, si concentrò sulla fisica, seguendo l’indirizzo generale che si stava affermando ovunque. Di questo stesso orientamento erano espressione il «Nuovo Giornale Botanico Italiano», le «Memorie della Società Italiana di Scienze Naturali», e la «Gazzetta chimica italiana», la cui origine merita un cenno perché mostra chiaramente, accanto alla volontà di associarsi per meglio incidere collettivamente, le difficoltà che ostacolavano le iniziative dei gruppi più avanzati.
Promotore della riunione che a Firenze varò nel 1870 il progetto della «Gazzetta chimica», fu il giovane Luigi Gabba, garibaldino nel 1866 e frequentatore del laboratorio della Società d’incoraggiamento di Milano. Nelle intenzioni dei partecipanti, la riunione avrebbe dovuto fondare anche la Società chimica italiana. Ma il numero ridotto dei convenuti consigliò di dar vita solo al nuovo foglio scientifico, che sotto la gestione di Cannizzaro e il coordinamento redazionale di Paternò divenne presto la più autorevole rivista della disciplina.
Nel campo della comunicazione scientifica un ruolo di primo piano fu svolto anche dall’editoria imprenditoriale, che cercò di utilizzare sia l’unificazione del mercato che l’evoluzione tecnologica per diffondere la produzione italiana ed estera. Dal 1865 in poi l’«Annuario scientifico-industriale italiano» di Emilio Treves fornì agli interessati un’agile rassegna di ciò che di rilevante e di innovativo andava verificandosi nei settori più diversi. La fortunata iniziativa rafforzò il successo della «Biblioteca utile», della quale faceva parte l’«Annuario» e nella quale comparvero libri come le Conversazioni scientifiche di Michele Lessona, le Escursioni nel Cielo di Paolo Lioy, Il Regno Animale di Filippo De Filippi, l’autore della celebre conferenza su «l’uomo e le scimmie» del 1864, che tanto contribuì a far discutere in Italia di Darwin e di evoluzionismo. Sempre Treves lanciò un’altra collana di successo, «La Scienza del Popolo», nei cui testi (oltre cento in pochi anni) la divulgazione scientifica si intrecciò sovente con la diffusione dell’etica borghese, attiva, razionale, laica, e con i cardini del positivismo pedagogico.
A inaugurare la nuova collana fu la conferenza su La Pila di Volta, tenuta da Carlo Matteucci al Museo di fisica e storia naturale di Firenze nel 1867, nella quale l’approccio sperimentale era indicato come il più valido in ogni ambito. Capace di nutrire l’educazione intellettuale e insieme l’educazione morale, il metodo sperimentale – affermava Matteucci – è «scuola perenne di sincerità, di pazienza, di precisione, di amore alla verità»; indispensabile in campo naturale, aggiungeva, esso è scuola di ricerca anche per le verità «sociali e morali» (Matteucci 1868, p. 7).
In sintonia con i nuovi indirizzi positivi fu anche l’editore Hoepli che, giunto in Italia nel 1870, già nel 1872 firmava la «Guida per le Arti e i Mestieri», quindi le «Pubblicazioni dell’Osservatorio di Brera», e nel 1874, con i Principi fondamentali di una teoria generale delle macchine di Franz Reuleaux, nella traduzione di Colombo, inaugurava la «Biblioteca tecnica» per i cultori di scienze applicate. L’anno successivo lanciava la più popolare collana di «Manuali», destinata a una diffusione straordinaria. Il solo Manuale dell’ingegnere civile e industriale di Colombo (1877), vademecum dei nuovi ingegneri, in poco più di vent’anni ebbe 14 edizioni con una tiratura complessiva di 30.000 copie.
Con la «Biblioteca Scientifica Internazionale» dei fratelli Dumolard, inoltre, Milano divenne la sede italiana della «International Scientific Series», nata per incrementare il «libero scambio intellettuale fra paese e paese» mediante la circolazione dei progressi scientifici. Dalla metà degli anni Settanta, accanto a numerosi libri di autori stranieri, la collana fece circolare quelli di autori italiani: La teoria dei suoni di Blaserna, Le stelle di Angelo Secchi, La meteorologia endogena di Michele Stefano De Rossi, La legge fondamentale dell’intelligenza nel regno animale di Tito Vignoli, cui seguirono altri volumi di Enrico Morselli, Giovanni Canestrini, Lombroso e Stoppani.
Anche Torino occupò un posto di rilievo nel panorama postunitario. Non più capitale del regno, ma sempre più decisa a emergere in campo scientifico-tecnico ed economico, Torino divenne il secondo polo della produzione libraria, trovando in Pomba (poi Utet) un protagonista impegnato a far conoscere la produzione straniera, fra cui le opere di Darwin, e a costruire grandi repertori scientifico-tecnici: inizialmente l’Enciclopedia di chimica scientifica e industriale, realizzata in undici volumi dal 1868 al 1878 sotto la direzione di Francesco Selmi; poi l’Enciclopedia delle arti e delle industrie a cura di Raffaele Pareto e di Giovanni Girolamo Sacheri; quindi l’Enciclopedia agraria italiana diretta da Gaetano Cantoni, autore del Trattato completo teorico-pratico di agricoltura. Fautore dell’agricoltura scientifica, razionale e ad alta redditività, Cantoni si rivolse sin dall’inizio ai ceti borghesi in grado di acquisire i risultati innovativi degli studi e delle sperimentazioni e quindi di applicarli direttamente nella conduzione delle aziende agricole, nonché di trasmetterli a chi lavorava la terra.
Quello della divulgazione comunque restò un impegno comune a molti uomini di scienza che consideravano l’informazione scientifica un fattore di progresso civile e di amalgamazione nazionale. Uno dei più fortunati tentativi di «fare gli Italiani» mediante la diffusione delle conoscenze scientifiche, fu Il bel Paese di Stoppani apparso a Milano nel 1875 e ripetutamente ristampato, per lo più in forma ridotta per le scuole. Di sentimenti risorgimentali (aveva partecipato da seminarista alle Cinque giornate di Milano) e di idee filo-rosminiane, il geologo e abate lombardo riteneva che l’identità culturale e la coscienza unitaria degli italiani dovessero passare anche attraverso la conoscenza del territorio nazionale, delle sue caratteristiche geomorfologiche, delle risorse e delle bellezze che dovevano essere bene utilizzate. Era altresì convinto della conciliabilità di ragione e fede, di sapere scientifico e tradizione religiosa, di analisi della realtà e concezione spiritualistica e provvidenzialistica della vita, sempre più in conflitto con tanta parte della cultura di fine Ottocento.
Non solo il metodo scientifico era praticato in ogni campo, ma lo sviluppo straordinario delle scienze, la crescita autonoma di tante discipline, la comprovata importanza dei fenomeni fisico-chimici nella materia vivente, la formulazione di teorie nuove, come la darwiniana, stavano modificando profondamente la tradizionale raffigurazione dell’uomo e della natura, e quindi anche i rapporti tra le risultanze scientifiche e le credenze religiose, che continuavano però a porsi come dogmi o verità assolute in quanto rivelate (Redondi 1980; Landucci 1987).
Di qui l’asprezza degli scontri postunitari, le cui questioni di fondo (l’autonomia della ricerca e la libertà di pensiero, la laicità del nuovo Stato, il rifiuto di ogni interferenza diretta delle autorità ecclesiastiche nella sfera politica e civile, la capacità da parte del razionalismo scientifico di conquistare il popolo), si intrecciarono e si combinarono in forme e gradi diversi, allora e in seguito.
L’unificazione politica, colpita dalla condanna papale, fu per molti versi un detonatore delle controversie di fine Ottocento. Molto eloquenti sono le parole usate dal chimico Lieben nella lettera a Cannizzaro in cui si congratulava per il trasferimento della capitale a Roma e per la riforma dell’Ateneo romano: «Sta bene che nella capitale e rimpetto il papa si trovino riuniti gli scienziati più illustri d’Italia e che brucino colla torcia d’Ercole le teste sempre crescenti dell’idra reazionaria e religiosa» (Cannizzaro 1994, p. 278).
Ma ciò che qui va specialmente segnalato è il dibattito che si sviluppò oltre che sulla natura antidogmatica della scienza, sul rapporto tra dati empirici e teoria, sulla distinzione tra la ricerca rigorosa e le affermazioni aprioristiche o le enunciazioni generali non sufficientemente suffragate da prove e verifiche. Accanto allo scontro tra i fautori del «naturalismo moderno», che con Jacob Moleschott o Aleksandr Ivanovič Herzen o Moritz Schiff, sostenevano una concezione materialista della realtà vivente, e gli spiritualisti come Raffaello Lambruschini che contrapponevano il «santuario della coscienza» quale gabinetto «di più alta fisica, di più alta chimica e di più alta fisiologia» (Rogari 1991, pp. 117-118), non tardò a emergere anche quello fra i positivisti che praticavano il «metodo sperimentale» in modo disinvolto su tante questioni, e gli scienziati più rigorosi, che, come Golgi, contrapponevano la distinzione fra le «ipotesi» legittime, perché fondate su un’adeguata messe di osservazioni, e quelle prive di solide basi sperimentali (Cimino 1975).
Nonostante la descritta debolezza delle istituzioni nate con l’Unità, il sistema di scuole tecnico-scientifiche continuò nel corso degli anni Settanta a consolidarsi sia pure in modo diseguale nelle diverse aree del paese, e ad arricchirsi anche di nuove strutture formative e di ricerca. Tra queste ultime una menzione particolare va dedicata alla Stazione zoologica di Napoli per il carattere e la rilevanza che assunse sin dall’inizio. Voluta e realizzata dal biologo tedesco Anton Dohrn per lo studio della vita del mare, la Stazione sorse nei primi anni Settanta col sostegno del municipio di Napoli, del governo italiano e di quello tedesco e funzionò come «un istituto estra-territoriale e internazionale» (Dohrn 1897, p. 15). Scienziati di vari paesi confluirono a Napoli per le loro ricerche e vari aiuti materiali e morali giunsero a sostegno della nuova struttura (anche Darwin «fu più volte largo di doni»), al cui regolare mantenimento giovarono però soprattutto i finanziamenti assicurati dall’affitto dei tavoli di ricerca a istituzioni pubbliche e a privati.
Intanto cominciavano a farsi sentire gli effetti della svolta unitaria. Le schiere di allievi che si erano formate nelle nuove scuole di ingegneria, nelle cliniche rinnovate, nelle facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali, nei laboratori di nuova concezione e sotto la guida di docenti collegati con gli ambienti scientifici europei più avanzati, entravano in azione sviluppando la loro attività nei campi più diversi della ricerca e dell’insegnamento, delle professioni e della produzione. Dei primi 161 laureati della sezione industriale del Politecnico di Milano, annotava Colombo nel 1881, gran parte operava nelle industrie o nel campo ferroviario, mentre 34 erano registrati come direttori, gerenti o fondatori di stabilimenti importanti e si erano distinti, insieme ad altri ex allievi delle scuole politecniche, nell’Esposizione industriale tenutasi a Milano nel 1881. Il progresso «incontestabile», che si era potuto registrare a vent’anni dall’unificazione e dalla prima Esposizione di Firenze, era dovuto, a suo giudizio, alla presenza attiva dei tecnici-imprenditori (da Giovanni Battista Pirelli ad Angelo Salmoiraghi, da Bartolomeo Cabella a Giulio Prinetti, da Ercole Porro a Ernesto Galimberti, da Alberto Riva a Egidio e Pio Gavazzi, da Pio Borghi ad Aristide Rubini e altri protagonisti della nascente industria italiana) capaci di comprendere le innovazioni tecnologiche e di applicarle nei vari comparti produttivi nazionali. Proprio in ciò sta «la più sicura garanzia che il progresso è solido, è stabile», concludeva Colombo, avendo ben presente che poco prima dell’Unità, all’inizio del suo percorso di ingegnere industriale, aveva dovuto imparare tutto da solo (Colombo 1985, pp. 256-257).
Brioschi, per parte sua, nel 25° di fondazione dell’Istituto milanese, riferiva compiaciuto che su 1.339 ingegneri censiti, e ormai sparsi in molte province italiane, 123 operavano nelle strutture tecniche dello Stato e nelle istituzioni formative, 67 negli uffici tecnici degli enti locali, 137 nelle società ferroviarie, 154 in società industriali, 60 in imprese private di lavori pubblici, 21 in società di assicurazione e in aziende rurali, 208 nella libera professione, 38 attendevano ai propri interessi o alla vita pubblica. Alla fine degli anni Ottanta, quando Brioschi illustrava questi dati, il numero complessivo degli ingegneri laureatisi presso le sette scuole di applicazione erano già più di 9.000 e costituivano un richiamo per molte famiglie della borghesia italiana che, come annotava Lessona, mandavano i loro figli alle scuole politecniche, come in passato «li destinavano in gran numero alla chiesa» (Lessona 1884, p. 87).
La rilevanza di questi dati (a cui vanno aggiunti, ovviamente, quelli delle altre scuole speciali a carattere tecnico-scientifico ed economico, sia di grado superiore che di grado medio e inferiore, comprese le scuole professionali d’arti e mestieri e di disegno applicato per operai) risulta evidente quando si considera che proprio allora, con l’avvento dell’industria elettrica e l’impiego di tecnologie a carattere scientifico sempre più accentuato, si stava entrando nella seconda rivoluzione industriale, e c’era quindi bisogno di un capitale umano adeguato ai processi in atto, per potervisi inserire come paese, in modo efficace e durevolmente.
Si era appena conclusa nel 1881 l’Esposizione internazionale di Parigi dedicata all’elettricità, che Colombo dava vita a iniziative imprenditoriali e applicative di punta (prima centrale termoelettrica continentale per l’illuminazione urbana e fondazione della Società elettrica Edison a Milano), mentre Galileo Ferraris, docente di fisica tecnica al Museo industriale di Torino, dopo essere stato tra i primi suoi laureati, sviluppava le ricerche che gli consentirono di scoprire il campo magnetico rotante e di ideare il motore elettrico a corrente alternata.
È bensì vero, ed è stato più volte sottolineato a riprova dello scarso spirito industriale dell’Italia postunitaria, che anche Ferraris, come già Antonio Pacinotti con la sua «macchinetta elettromagnetica» all’inizio degli anni Sessanta, non trasferì sul piano produttivo e imprenditoriale l’importante acquisizione. È anche vero però che a metà degli anni Ottanta Ferraris non era più, come Pacinotti vent’anni prima, un isolato, incompreso e pronto a passare dalla fisica all’astronomia. Né il mancato sfruttamento in campo industriale del motore elettrico da parte sua vuol dire che egli fosse indifferente al nesso sempre più stretto fra scienza, tecnica e industria, e quindi agli aspetti tecnologici e applicativi della ricerca, che invece Ferraris coltivò con impegno sul piano che gli era proprio: quello della ricerca, della sperimentazione e dell’organizzazione degli studi. Non a caso fu a Torino che nacque la prima Scuola superiore di elettrotecnica italiana, nella quale sotto la guida del maestro si formarono numerosi ricercatori e docenti, da Pietro Paolo Morra a Luigi Lombardi, da Ettore Morelli a Riccardo Arnò, destinati a operare anche in altri atenei italiani, nonché numerosi imprenditori elettrotecnici come Ettore Thovez, Giulio Daina, Antonio Tessari, Camillo Olivetti, per citarne solo alcuni (Ferraresi 1995).
Ugualmente efficace fu il contributo dell’altra scuola elettrotecnica, che contemporaneamente sorse a Milano, grazie alla già ricordata donazione di Carlo Erba. Dall’istituzione elettrotecnica milanese uscirono sia tecnologi di vaglia, come Giuseppe Sartori, Alberto Dina, Giacinto Motta, Angelo Barbagelata, sia industriali elettrici di successo, come lo stesso Motta, Carlo Clerici, Giuseppe Gadda, Ettore Conti, Guido Semenza (Regoliosi, Silvestri 1988).
Né meno rilevante fu l’apporto che nei diversi campi della ricerca diedero le schiere di scienziati (Giulio Bizzozero, Giuseppe Veronese, Augusto Righi, Gregorio Ricci-Curbastro, Camillo Golgi, Giovanni Giorgi, Guglielmo Mengarini, Vito Volterra) che furono allevate dalle altre istituzioni formative e di ricerca postunitarie.
Insomma, se a pochi decenni dal 1861 fu possibile l’inserimento dell’Italia nel processo di modernizzazione e di sviluppo di fine Ottocento, un merito non secondario va riconosciuto alla svolta che fu compiuta negli anni dell’unificazione e alla trasformazione culturale che ne derivò ai diversi livelli della realtà nazionale, nonostante le molte resistenze e i duri ostacoli che continuarono a condizionarla. Di ciò va preso pienamente atto in sede sia di analisi storica che di memoria pubblica condivisa.
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