La cultura
All'insegna della continuità, sia pure in discesa, sia pure nella cornice dello scadimento di rilievo politico, del rimpicciolimento di prestigio internazionale, la Venezia '700. Continua anzitutto la neutralità della politica estera non senza che si rafforzi il relativo culto ché - mentre colla neutralità Venezia ha doppiato i rischi della guerra di successione spagnola - la memoria delle alleanze sollecitate dalle guerre antiturche induce a valutare negativamente il momentaneo abbandono di detta neutralità per fronteggiare la Porta. Ogni volta Venezia ci ha rimesso. Ogni volta gli alleati si sono rivelati infidi. E prosegue, correlatamente, il rituale delle rappresentanze stabili veneziane ricambiato con rappresentanze stabili estere anche se, a mano a mano ci si inoltra nel secolo XVIII, i diplomatici veneziani sono sempre più spettatori e la sede, secondaria, veneziana diventa, per i personaggi inviati dall'estero, una sorta di pensionamento di lusso ad indorare l'amara pillola dell'allontanamento dalla politica attiva, dai centri dove questa viene effettivamente decisa. E quel che soprattutto continua è il marciano regime aristocratico: permane - senza allargamenti di spazio per la nobiltà di Terraferma; inascoltati gli inviti in tal senso del marchese Maffei - il monopolio patrizio dell'attività di governo. Sempre espressione del patriziato lagunare l'omaggiato e supplicato dai sudditi vertice dogale. Sempre nobili veneziani i rettori che s'avvicendano nelle città suddite. E rinnovato ogni anno, sino al 1796, il nuziale appuntamento col mare. Al più quel che cambia è il bucintoro: quello nuovo, inaugurato nel 1729, è più sontuoso, più indorato, più intagliato di quello antecedente. E più ingegnoso, nel 1777, l'apparato ligneo per la fiera in piazza. Novità nella continuità della festa, che, appunto, continua. E, naturalmente, continua la produzione di leggi. E ogni tanto è bene fare il punto, se non altro per selezionare all'interno del "diritto" della Serenissima "proprio" tra le leggi "stabilite nella successione de' tempi". E, per tal verso, le messe a punto più significative - il Codice feudale della [...] Repubblica [...] (Venezia 1780) e il Codice per la Veneta mercantile Marina [...] (Venezia 1786) - sono anche operazioni storiografiche, non senza convinzione che alla saviezza legiferante lungo i secoli si spalanchi il futuro. Indicativo, d'altronde, che l'"abate" e/o ex gesuita Cristoforo Tentori, trattando Della legislazione veneziana sulla preservazione della laguna (Venezia 1792), definisca il suo scritto in proposito, appunto, "dissertazione storico-filosofico-critica". Implicitamente un po' storico, volendo, anche quell'Angelo Sabini che si prende la briga di pubblicare le Leggi Criminali del serenissimo Dominio Veneto in un solo volume raccolte e per pubblico decreto ristampate (Venezia 1751). Se la "giurisprudenza" è fattore di "lustro e risalto alla storia dello spirito umano" è raccontabile, al pari di questo, in termini di "origine" e "progresso". Disciplina storica la storia del diritto. E storicamente consapevole l'avvocato Marco Ferro (1), l'autore del Dizionario del diritto comune, e veneto [...] (Venezia 1778-1781), non per niente promettente sin dal titolo, oltre a "leggi" e a "principi", pure "saggi di storia civile romana e veneta".
Non v'ha dubbio: se il giurista - o, più semplicemente, chi di diritto s'interessa, come, a suo tempo, l'abate e docente di matematica allo Studio patavino Giuseppe Guzzi, autore d'un Compendio della giurisprudenza civile romana e veneta [...] (Venezia 1768) uscito postumo o come, sempre a suo tempo, un altro abate, ossia Antonio Zuanelli, già docente al seminario ducale e morto nel 1722, di cui vengono pubblicate, sempre postume, le diffuse Concordanze del diritto comune col veneto [...] (Venezia 1773) - monta in groppa alla storia il paesaggio s'allarga e svaria e lo sguardo spazia. Però c'è anche, nella sua concretezza quotidiana, il "Palazzo Veneto", ci sono "le corti" di questo, c'è, nella sua singolarità, il "foro veneto". E per muovercisi nel presente occorrono introduzioni orientanti, urgono bussole, manuali, istruzioni. Una necessità avvertita da un bel pezzo cui, a suo tempo, è venuta incontro, appunto, ancora nel 1528, la Praticha del Palazo veneto [...]. E una "pratica" in forma dialogata è pure L'Avvocato [...] (Venezia 1554) di Francesco Sansovino. E manuali pratici si stampano nel '600. E manuali pratici si stampano nel secolo successivo. All'insegna della continuità anche in questo il '700.
Ben due i manuali di rapido orientamento - lo si è già notato nel nostro contributo al precedente volume di questa Storia - stampati nel 1737: quello di Querini e quello di Francesco Argelati, il figlio del più noto Filippo. S'aggiunge, di Piergiovanni Pivetta, L'arte di ben apprendere la pratica civile e mista del foro veneto (Venezia 1746 e, di nuovo, 1771, 1779, 1791), sciorinante 36 "titoli" dai "giudizi in generale" e nelle varie "spezie" alle "deputazioni di cause" e "repliche". Una succinta informazione in fatto di procedura civile quella di Pivetta su inibizioni e controinibizioni, presunzioni, giuramenti, sequestri, successioni, piaggerie, prelazioni, assicurazioni, doti, avarie, società, cambi, interdetti. Ma tutto ciò ha una genesi remota. C'è sempre un inizio. Quello della nascita della proprietà, "dacché incominciarono gl'uomini a rompere" l'"eguaglianza" in loro "stampata" nell'animo a mo' di "legge" escludente i "termini mio e tuo". Quando il proprio si fa largo nella mentalità e nei comportamenti, non senza pretendere d'"invader l'altrui", ecco che ne scaturisce un'esigenza d'arginante regolamentazione. Nel sottolineare questo Pivetta per qualche riga è storico, laddove Marco Ferro, padovano di nascita e a Venezia avvocato, anche tale si sente, se non altro perché - in ogni voce o "articolo" del suo Dizionario -, nel definire la "cosa", cui segue il richiamo legislativo romano e "unitamente" veneto, lo fa "con istile piano e quasi storico". Comunque sia, "per incantenar in buon ordine il sistema della Repubblica", per la sussistenza e consistenza della "tranquillità" e "felicità" dello stato marciano, necessita il funzionamento dell'apparato giudiziario, come osserva il "causidico veneziano" Leone Ongarini. Imprescindibile, allora, a detto funzionamento, la "mediazione" tra la domanda della società di giustizia e l'offerta statale della stessa esercitata dall'"interveniente" in sede di definizione delle "controversie" sottoposte al giudizio delle magistrature. Ed è, appunto, all'"interveniente o sia sollecitadore di palazzo" - ossia colui che sottopone "all'esame di magistrati" le "questioni" dei "cittadini" al fine che, nel riconoscimento dei "diritti" di "ciascheduno", la "giudiziaria decisione" stabilisca la pace tra i "litiganti" - che Ongarini offre le proprie Istruzioni utili e necessarie [...] (Venezia 1775). Così sgrezzati gli aspiranti all'esercizio dell'avvocatura a Venezia, laddove a quanti aspirano al notariato si propone a mo' di viatico soccorrevole Il Notaio istruito nel suo ministero secondo le leggi e la pratica della [...Repubblica [...] (Venezia 1792) di Giovanni Pedrinelli. Figura rintracciabile lungo i secoli questa del notaio e oggetto, sempre lungo i secoli, di "leggi" e "ordini". Tant'è che, ancora nel 1689, il pubblico notaio Marcantonio Bigaglia aveva pubblicato a Venezia un Capitulare Legum Notariis publicis Venetiarum [...] impositarum [...].
Sconcertante, forse, questo nostro spigolare tra "leggi e scrittori attorno ad esse", anziché - giusta il titolo assegnato al paragrafo - affrontare immediatamente la storiografia. Ma ci autorizza a siffatto sconfinare, a tutta prima arbitrario, il Saggio di bibliografia veneziana (Venezia 1847) di Ernmanuele Antonio Cicogna il quale, a nostro avviso non indebitamente, accorpa i testi di pertinenza giuridica nella seconda sezione del suo bibliografico censimento, che, appunto, s'intitola "storia politica e civile". Quanto meno contigui storia e diritto, nella misura in cui questo nasce in quella, nella misura in cui quella - la storia - s'esprime anche con questo. E se l'"abate" nonché "iurisconsulto veneto" Andrea Bianchini (2) pubblica le Istituzioni del pubblico ecclesiastico diritto accomodate alla pratica di Venezia (Venezia 1771) e successivamente Il diritto ecclesiastico tratto dalle opere canoniche del Vanespen con aggiunta di materie e pratiche per gli stati della [...] Repubblica [...] (Venezia 1786), così individuando - avendo come riferimento lo Jus ecclesiasticum universum (Lovanio 1700; è un'opera messa all'indice ancora nel 1704; ciò non toglie resti autorevole; tant'è che pure Benedetto XIV a questa ricorre) del celebre canonista lovaniense Zeger-Bernard van Espen - uno specifico della Serenissima, ne diventa un po' storico istituzionale e/o - per ricalcare l'aggettivazione di Cicogna - "civile". E la stessa sterminata "materia criminale" colla sua proliferante casistica si fa un po' cronaca dell'umano delinquere e del governativo punire. E al criminalista Bartolomeo Melchiori - autore d'una Miscellanea di Materie criminali [...] (Venezia 1741) nonché d'un Trattato dello spergiuro e della falsità composto secondo le leggi civili e Venete (Venezia 1755) - un "cancellier anonimo" rimprovera, appunto, d'aver trascurata l'impunità, in merito alla quale egli fornisce un Compendio de', appunto, casi imponibili per le Venete leggi [...] (Venezia 1767). Impunemente offendibili, ad esempio, per la normativa veneta, i banditi come ha già sottolineato, nella sua Pratica criminale [...] (Venezia 1739), il nobile lagunare Antonio Barbaro. Leggibili anche a mo' di racconto storico le Difese e Suppliche in materia Criminale [...] (Venezia 1788) del penalista veneto Antonio Egidi. E autentiche storie i casi per cui si batte Marco Barbaro (3), un patrizio marciano dal vibrante impegno avvocatesco, laddove Le formalità del processo criminale nel dominio veneto (Padova 1790-1791) - e dedicato il I tomo a Francesco Pesaro e il II a Zaccaria Vallaresso, entrambi interessati alla riforma del diritto penale - di Zefferino Giambattista Grecchi, un "dottore e avvocato" di Codogno, nella Lombardia austriaca, e quindi "forestiero" anche se con tre anni di "soggiorno" in terra veneta. Un "manuale pratico", a suo dire, la sua esposizione in due "parti", la prima dedicata alla "procedura" penale "generale", la seconda a quella relativa a "ciascuna classe di delitto". In realtà è un trattato di procedura penale. E scritto in italiano con esplicito riferimento all'invito in tal senso delle Lezioni di commercio genovesiane, ove è detto chiaramente che, sinché "le scienze non parlano la lingua della nazione", restano inerti, non circolano. Ed è, allora, colla lingua parlata che Grecchi illustra "formalità" e "cerimonie", nella persuasione che esse garantiscano giudizi regolari, non ondeggianti tra i sussulti dell'" arbitrio ".
Se le leggi sono distinguibili in "immutabili" e "mutabili", assegnabili le prime al "diritto naturale" e le seconde emanate dalla "sola volontà" del principe, ecco che il ceto ottimatizio, come principe collettivo, come titolare del governo, continua, anche nell'ultimo secolo della Serenissima, nella sua produzione di "provvedimenti" relativi e alle "quistioni del foro" e al mantenimento del "sistema di ben regolato governo". Un governo cui non basta essere legiferante, ma che pretende - designando a tal fine un patrizio particolarmente ricettivo di quelle che sono le sue esigenze sì da adattarsi, nella stesura, a queste pure d'esprimersi storiograficamente sul proprio operato non senza valorizzarlo come rilevante nel più generale contesto europeo. Ciò anche nel '700. Sicché permane l'istituto della pubblica storiografia. Sicché si continuano a nominare i pubblici storiografi. Come la Serenissima va avanti colle sue vicende, così la pubblica storiografia le corre dietro raccontandole. Morto, il 24 febbraio 1735, il pubblico storiografo Pietro Garzoni, a lui succede, il 5 marzo, Marco Foscarini (4). Deve raccontare quel che succede dopo il 1714, partire da lì dove l'esposizione garzoniana è giunta. La scelta non può essere migliore: Foscarini è forse, nel patriziato lagunare, il più convinto della "necessità" della conoscenza storica nonché della "facoltà di ben dire" per quanti maneggiano le "cose pubbliche"; e nutrito di piena padronanza della storia antica e recente l'eloquente suo discorso sulla "perfezione della repubblica veneziana". E senza indugio s'accinge al proprio compito. Gli si parano dinanzi gli anni dal 1714 al 1718. È "materia familiare", nel senso che vedono Venezia contrapposta al Turco e, nel contempo, un minimo non solo tale ché al conflitto partecipa l'Impero e a Passarowitz sono presenti anche i rappresentanti d'Inghilterra e d'Olanda. S'è sempre raccomandata ai pubblici storiografi la coniugazione tra "affari universali", europei, e "cose veneziane". Ebbene: anche se penalizzata colla perdita della Morea, Venezia ha ancora un margine di visibilità extradomestica. E un po' compensata dell'amputazione di quel "regno" con l'ampliamento modesto in Dalmazia, Albania, Erzegovina e col recupero di S. Maura e Cerigo. E incoraggiante prospettiva per la ripresa dei traffici l'abbassamento dal 5% al 3% nei porti ottomani dei diritti doganali che l'allinea alle condizioni di cui fruiscono Francia, Inghilterra e Olanda. Col che la storia della Serenissima è ancora mescolabile a quella degli altri. Ma poi? Ha un bel crucciarsi il pur volenteroso Foscarini sul "come" far risaltare il ruolo della Repubblica nei "fatti esterni", nelle "cose forestiere". Per quanto aguzzi lo sguardo non lo vede. Né, visto che intende offrire un'esposizione "sincera" e "spassionata", se la sente d'enfatizzare un'eminenza senza riscontro nei fatti, d'improvvisarsi panegirista d'un'influenza che non c'è. Non dubita che Venezia sia l'ottimo e il migliore dei governi. Ma, al contrario che nel '500, non ne corrisponde un effetto di ricaduta in termini di prestigio internazionale. L'Europa procede per suo conto. E Venezia? Come non ci sia.
Saggiamente - Foscarini ne è persuaso - immobile nella sua neutralità Venezia. Ma come scrivere d'una stasi e, insieme, dell'andamento "generale", del "mondo" che, magari poco saviamente, è tutto in movimento? Constatabile che Venezia se ne sta "oziosa" nelle "mutazioni" italiane ed europee. Beninteso: ciò non è disdicevole; ciò è prudente; e la prudenza è la virtù cui Venezia deve la "pace". Però questa sua "pace" non è contagiosa, non fuoriesce decantante pacificante anche l'altrui contendere, non si traduce in operazioni "virtuose" coinvolgenti le corti, le grandi capitali, i grandi stati. E una pace ai margini, periferica. Diplomaticamente sin iperpresente Venezia. Ma è presenza fisica di ambasciatori non ascoltati, non interpellati. È detti ambasciatori riferiscono sì, ma dal loro riferire risulta che, in ogni caso, non si chiede qual è il parere di Venezia. Questa - si consola Foscarini -, in ogni caso, si astiene dal male, non compie "cattive" azioni. Virtù questo suo non fare. Virtù il suo "ben usato silenzio", ché, proprio perché neutrale, si guarda dal compromettersi con dichiarazioni, con prese di posizione, con manifeste propensioni. Ma si dà storia del non fare, riporto del non detto? Magari loquaci i senatori riuniti. Ma sciupata la loro eloquenza se l'Europa è come sorda. Per quel che la concerne il senato veneto può anche ammutolire d'un tratto. Rapportata all'Europa Venezia quasi sparisce muta. E irraccontabile l'assenza, inesponibile il silenzio anche per chi tenta il tentabile per e pur di riuscirci come Foscarini. Beato Paruta che poteva narrare d'una "moderata potenza" che, assunta ad aurea mediocritas, splendeva in tutta Europa. E ancor più beato pel ruolo mediatorio da lui svolto allorché ambasciatore a Roma. Gloria di Venezia l'acconciarsi della S. Sede alla soluzione borbonica della crisi di Francia.
Ma ciò a fine '500. Ebbene: Foscarini smette di torturarsi per far quadrare il cerchio, lascia perdere i suoi tempi, lascia perdere il '700. Irriproducibile nel '700 la Venezia '500. Ma nulla vieta che in questa si trasferisca sin immergendosi Foscarini per tornare al proprio tempo carico dell'esempio, soprattutto cinquecentesco, d'una feconda con nessione tra "lettere" - da intendersi, nell'accezione più lata e dilatata, come cultura includente diritto e scienza, speculazione trattatistica e scritture di governo - e "amministrazione dello stato". Pazienza - anche questa è una virtù; e la riflessione storica in fin dei conti è stata per Foscarini un esercizio e di pazienza nell'applicazione e di pazienza, nel senso di sopportazione, nei confronti del risultato - se l'Europa settecentesca è irriguardosa con Venezia, è indifferente a Venezia. Peggio per lei, per l'Europa. Quel che conta è che Venezia si salvi, si conservi recuperando il magistero della Venezia cinquecentesca che Foscarini fa rivivere in Della letteratura veneziana (Padova 1752). Quel che la presunzione d'Oltralpe va strombazzando fragorosamente come propria peculiarità, ossia la militanza incisiva della cultura, ossia la valenza politica del lavoro intellettuale, non va cercato fuori casa, imitando, scimmiottando. Fa già parte della tradizione autoctona. È già culminato, all'interno di questa, specie nel secolo XVI l'intreccio tra dottrina e prassi. Fulgida la Venezia d'allora per politica culturalmente motivata e cultura politicamente tradotta in sapienza di stato. È a questa Venezia che occorre rifarsi. Magari un po' perplesso il consiglio dei X nel vedersi pervenire, anziché il richiesto pezzo di storia veneto-europea dal 1714 in poi, la Letteratura veneziana. Ma, superata l'iniziale perplessità, ben presto entusiasta. Sicché l'accoglie di buon grado, sicché l'ufficializza "come se fosse stata scritta per pubblico decreto". D'altronde non avrebbe potuto fare altrimenti. Foscarini è "l'idolo del senato", come scrive da Parigi Andrea Tron al cugino Andrea Querini il 2 giugno 1748. Trascinanti in quello, nel senato, le sue "parlatone", le sue interminabili ridondanti arringhe. E freddi i due nei confronti del futuro doge, sin sogghignanti, sin insofferenti. A loro avviso Venezia sta male, malissimo. Fiaccata da cronici mali non è suscettibile, tant'è debole, di ripresa per via di qualche energica terapia. Neque mala neque remedia pati possumus, si confidano memori d'un passo liviano. E, invece, per Foscarini la malattia - la disaffezione della classe dirigente, il suo straniarsi dalla politica - è curabile per via d'autoribadimento, d'autoriaffermazione, di fedeltà a se stessi nell'Europa che cambia. E ciò recuperando l'animus e l'energia cinquecenteschi, e, quindi, non orecchiando novità, non cambiando tanto per cambiare, ma nell'autoconservazione più orgogliosa, nell'autodeterminazione più ferma, nell'auto-valorizzazione più decisa. È riandando al '500 che il corpo ottimatizio marciano si scrolla di dosso la stanchezza, ritrova l'entusiasmo e la capacità di governo, così ricaricandosi, così riprendendo slancio, così rimotivandosi.
Dottissima la Letteratura foscariniana, copiosa d'annotazioni minute, epperò leggibile anche come proclama di civica riscossa, come programma incitante e rianimante di ripresa del nesso, già innervante, di cultura e politica, di sapienza e forza, di meditazione e operatività. Realizzata - se si bada a Foscarini - nel '500 e anche prima la saldatura tra lettere e azione e al punto che i più segnalati in quelle sono quelli che più si distinguono in questa. Sin manifesto della conservazione riverniciata, della tradizione risemantizzata, del passato rilanciato la Letteratura; ben di più, allora, che un pezzo di storia politica da appiccicare all'esposizione di Garzoni. Un'autentica iniezione d'una dose massiccia d'orgoglio patriottico. Non v'è altra "nazione" - così il gesuita mantovano Saverio Bettinelli docente a Venezia dal 1748 al 1751 - che disponga, al pari di quella veneziana, d'un "libro simile", di tanto impatto, di tanta portata, capace d'infondere "tai sentimenti" di senso d'appartenenza, di fattivo entusiasmo, di stimolo allo studio e alle opere, "a' suoi cittadini". Ed esempio vivente di sapere tradotto in politica e di politica gaivanizzànte il sàpere Foscarini nella direzione, la più convinta, non già dell'adeguamento, dell'allineamento, ma d'un'autoriaffermazione attestata sull'intangibilità della forma stato marciana, sin barricata nell'autodifesa, nel presidio del regime ottimatizio. Una parola d'ordine in tal senso sin secca la pur eruditissima Letteratura e per di più illustrata, esemplata dalla condotta dell'autore, da quel che fa, da quel che dice. Dalla "fondata cognizione di storia letteraria attinente alla nostra patria", dal serrato "confronto" della "storia civile della città colle memorie letterarie delle medesime" risulta che quanti più s'imposero "colla prudenza de' consigli", più "nobilitarono" Venezia "colla professione delle belle arti", coll'applicazione "in ogni liberal disciplina". Erede di questa tradizione Foscarini con la Letteratura si staglia come sua incarnazione. E militante il testo da lui proposto, sorta di manifesto di rifondazione dell'autoreferenzialità. Le "lettere" come corpus delle "opere scritte" dai propri concittadini. La biblioteca come adunanza di "opere" di mano "dei nostri patrizi, come anco d'altri, purché" veneziani e quindi come "corpo separato" destinato esclusivamente alla "letteratura de' nostri gentiluomini", il cui "semplice racconto" - quello, appunto, fatto dallo stesso Foscarini - è di per sé istruttivo, ammaestrante. Con "ammaestramenti", allora, "di somma utilità" il trattato foscariniano e tutti reperiti senza uscire da Venezia, restando a Venezia, scavando nei suoi giacimenti manoscritti o a stampa. È nella propria biblioteca, nella propria cultura, nella propria storia che la Repubblica può trovare le più valide indicazioni per agire e reagire.
Forse che non è sempre valido il magistero di Sarpi? Chi come lui padroneggiante il "diritto civile e canonico" e insieme - così Foscarini - tanto intendente il "vero spirito delle leggi "? Nel servita - insiste Foscarini - l'" ecclesiastica erudizione" assurge a comprensione operativa degli ambiti propri dell'"ecclesiastica potestà" e di quella "secolare". È in effetti - anche per impulso di Foscarini - s'assiste ad un vero e proprio revival di Sarpi: nel 1752 il servita Giuseppe Giacinto Maria Bergantini (fratello minore del teatino Gian Pietro il lessicografo) (5) ne difende l'ortodossia, mentre Francesco Griselini, suo biografo nel 1760, ne esalterà nel 1785 il "genio", laddove, nel 1767, delle anonime Riflessioni, demolendo la storia dell'assise tridentina di Sforza Pallavicino, restituiscono alla storia della stessa sarpiana la superiorità che le spetta. Né si tratta di discussioni circoscritte ai dotti. Sarpi fa ancora del male alla S. Sede e del bene alla Repubblica. Tant'è che i nunzi pontifici paventano il rinnovato circolare delle "massime" del servita nelle sedi decisionali del governo marciano. Tant'è che sia il Fra Paolo Sarpi Giustificato di Bergantini sia le Memorie [...] spettanti alla vita del [...] filosofo e giureconsulto F. Paolo Servita di Griselini le ribadiscono e le assolutizzano. E improntata dalla lezione sarpiana la scrittura del consultore in iure Antonio Montegnacco che - fatta propria da Sebastiano Foscarini, nipote di Marco - produce il clamoroso decreto senatorio del 7 settembre 1754 sottoponente al vaglio statale l'andirivieni delle carte con Roma. Uno scatto energico di fierezza giurisdizionale che risarcisce la Repubblica dell'umiliante soppressione del patriarcato d'Aquileia del 1751. Marco Foscarini ha di che compiacersi. Attivante, per lo meno in questo caso, la patria "letteratura". Propulsivo il Sarpi ricordato. Per illuminazioni ispiranti basta riaccendere i candelabri e lampadari nella domestica libreria; non c'è bisogno d'orecchiare quel che si stampa e si fa all'estero. Venezia non è un pianeta, non è un satellite. Brilla di luce propria. E per continuare a risplendere occorre l'alimento dell'autostima, dell'autoconsiderazione. Non per niente "Cicerone pensa che l'uomo riceva potentissimo incitamento ad incaminarsi alla sapienza" proprio dalla "considerazione di se medesimo". Così Marco Foscarini in uno scritto giovanile. Ma, allora, per la classe dirigente lagunare l'autostima nasce - oltre che dalla consapevolezza della "letteratura" dei "nostri antichi", dei "nostri" antenati - anche dalla convinzione nella titolarità d'una "divina costituzione". Ma, se così è, "ad infiammare ogni nostro cittadino di desiderio per la sua patria" valga il "potentissimo stimolo" dell'intendere "la di lei", della costituzione, "perfezione". Un postulato, dunque, questo della "perfezione" costituzionale che fa da piattaforma e da sfondo all'impegno politico. Paruta - si ricorderà -, a suo tempo, ne ha ben dedotta la superiorità etica della vita pubblica sulla stessa contemplazione se quella - l'attività - coincide colla dedizione patrizia ai compiti di governo. Una dedizione - giova sottolinearlo - riscontrabile anche in Marco Foscarini il quale, eletto doge il 31 maggio 1762, ascende così ai vertici di quello che è, a suo avviso, lo stato perfetto.
Ma, ad intenderlo pienamente, vale ripercorrere la sua vicenda costruttiva. Non è che uno stato così mirabilmente congegnato nasca subito intero dall'incresparsi delle onde marine. Raccontabili il sagomarsi, lo strutturarsi, l'articolarsi di una forma in funzione d'un contenuto e, pure, raccontabili i contenuti nella misura in cui questi sono riconducibili a quella - la forma - e l'esprimono. Idealmente collocato sullo stesso fronte di Foscarini - quello della conservazione consapevole, quello della tradizione risemantizzata, quello delle radici ritrovate -, anche se di minor prestigio, anche se di modesto rilievo pubblico, al racconto provvede con lena sistematica il nobile (ma di nobiltà recente e dalle modeste entrate) Vettor Sandi coi 9 volumi in quarto dei suoi Principii di storia civile della repubblica di Venezia [...] (Venezia 1755-1769) (6). Storico della cultura Foscarini e - rispetto a lui complementare e integrante - "storico civile" Sandi. Il compito che si propone è quello d'esporre diffusamente, analiticamente com'è fatto e come s'è fatto lo stato marciano. Non una "storia politica" la sua attenta alle vicende della Repubblica e, simultaneamente, degli "altri principati", ma una progrediente disamina del sistema Venezia. Ciò con una trattazione solo "interna", non intercettata da "fatti esterni", solo concentrata sulla "civile polizia", sulla "mente civile", sulla "base civile", sulla "civile essenza" lagunari. Le forme e i contenuti, insomma, del marciano "aristocratico governo", la sua struttura anatomica, il suo funzionamento fisiologico, il suo esprimere istituzionalmente la "nobiltà dominante", il suo produrre lungo i secoli e anche ora, nel XVIII, la "felicità aristocratica" nella matrice, ma di tutti e per tutti nella fruizione. Non dispotismo dall'alto la veneta "perfezionata repubblica", bensì "unità" bilanciata contemperante "linee" direttive formulate dal "centro" con quelle petitorie, ottative, auspicative a questo "indirizzate". Sintesi, quindi, il sistema di saggezza di comando ricettivo delle attese dei sudditi e di collaborazione fidente grata ottemperante di costoro. Così sulla carta, così stando alla ricostruzione sandiana del manifestarsi sempre più articolato e comprensivo d'una "prudenza civile" capace d'adeguare meccanismi decisionali e congegni attuativi alla sollecitante "necessità de' casi e de' tempi" e modellando all'uopo organi e "magistrature", uffici e cariche. Da palazzo Ducale la "policia aristocratica" provvede al "governo interiore", alla politica estera, alla difesa, alla quiete pubblica, all' " erario", al "commercio", alla punizione dei "delitti", al render "ragione ai privati", al controllo dell'"ecclesiastica esterior disciplina". Un "disegno" armonioso e armonizzante quello dell'architettura costituzionale, una macchina rifinita l'apparato di governo, una complessa orologeria all'interno della quale tutto si muove all'unisono. Il tutto assume l'aspetto d'un ragionato svolgimento che Sandi esplicita col "ragionamento progressivo" della sua descrizione. Sembra che le leggi siano tutte buone e tutte rispettate. Sembra che i sudditi siano sempre devoti. Sembra che il patriziato sprizzi zelo di dedizione alla cosa pubblica, sia sempre un corpo omogeneo d'eguali, non sia spaccato tra ricchi e poveri, sia tutto proteso a tradurre la sua vocazione "civile" nella realizzazione della "pubblica felicità". Sembra che tutto tenga, tutto scorra tranquillo; e se c'è qualche inceppatura, ecco che si mettono in moto efficaci e tempestivi meccanismi autocorrettivi. Sin idilliaca armonia la "connessione" di cui Sandi parla. Ma se si bada ad altri patrizi c'è invece sconnessione: la "fabbrica" è obsoleta, periclitante, inadeguata, scricchiolante, ondeggiante, smottante, quasi collassata, quasi sull'"orlo della caduta" (7). L'edificio è talmente corroso, talmente tarlato che può rovinare o per una semplice spallata dall'esterno o per autosfarinamento. Non c'è solo il tetragono ottimismo di Sandi. Altri si stanno angosciando. E si fanno strada nelle pieghe dell'animo anche dei patrizi migliori - d'un Andrea Memmo, tanto per fare un nome - amarezza, disillusione, disincanto, sconforto. Non che giungano ad ipotizzare la Repubblica affidata ad altre mani. Solo che constatano quanto le loro sono deboli, malferme. Senescente la Repubblica, stanco il regime aristocratico, malamente funzionante. E irriproducibile il mitico '500, buono, al più, come magazzino di spunti per nostalgiche rimasticature.
In fin dei conti la stessa sorte della pubblica storiografia è un episodio di cattivo funzionamento. Designato pubblico storiografo il 12 gennaio 1764 Nicolò Donà, l'autore de L'uomo di governo - redatta ancora nel 1734 la trattazione, ma pubblicata quasi vent'anni dopo a Verona nel 1753 e uscita poi, volta in francese, a Parigi nel 1767 - nonché estensore, nel 1736-1738, dei Ragionamenti politici intorno al governo della Repubblica [...], rimasti questi inediti. In essi aveva insistito proprio su quelle sperequanti condizioni in cui il patriziato è diviso sulle quali, invece, tanto Foscarini quanto Sandi sorvolano. Per entrambi la politica è un diritto e, insieme, un dovere dell'intera nobiltà marciana.
E fatta d'eguali, allora, politicamente - nel senso che a tutti i patrizi si aprono le stesse condizioni di partenza per, appunto, la carriera politica -, l'aristocrazia lagunare, la classe dirigente, il ceto di governo. Non sorvolante, invece, Donà: addirittura spaccato in quattro "classi" - i poveri, quelli di modeste condizioni, gli abbienti, i ricchi e sin straricchi -, per lui, il corpo ottimatizio. Una constatazione dalla quale aveva dedotto, in prospettiva, l'opportunità d'un ruolo politico differenziato privilegiante soprattutto i "benestanti", ché in condizioni ottimali per un disinteressato impegno pubblico, non crucciato - par di capire - da angustie domestiche e, nel contempo, non intorbidato da interessi privati, da tentazioni oligarchiche. Compito di Donà esporre le vicende della Serenissima a partire dal 1714. E, invece, muore il 7 agosto 1765 lasciando il manoscritto d'una Storia di Venezia dalla fondazione della città alla pace di Rastadt. Quel che gli è stato richiesto non l'ha nemmeno iniziato. Pressoché immediata la nomina, del 24 settembre, del successore, Girolamo Grimani, il quale, subito, il 26, si dichiara indisponibile sicché al consiglio dei X non resta che prenderne atto il 27. Successore del rinunciatario, con nomina del 24 gennaio 1766, l'allora ambasciatore a Roma Girolamo Ascanio Giustinian. Ma pure costui, appena gliene giunge notizia, si sottrae 1'8 febbraio. E, ancora una volta, il consiglio dei X, il 25, accetta la rinuncia dispensandolo. Evidentemente muraglia insormontabile il 1714. Qui il fluire maestoso della pubblica storiografia s'arresta, s'impaluda ristagnante. Non l'ha oltrepassato, pur tentandolo, Foscarini. Non tenta nemmeno di farlo Nicolò Donà. E rifiutano addirittura di tentarlo Grimani e Giustinian, che pur non sono uomini da poco ché, se non altro, il primo, sindaco ed inquisitore in Terraferma stenderà, coi due colleghi, nel 1772, una penetrante panoramica della situazione agricola, ché, se non altro, il secondo è uomo d'aggiornate letture, d'intense frequentazioni intellettuali, dai lumi non solo lambito, nonché pungolato da ansie riformanti. Per qualche anno il posto di pubblico storiografo resta vacante, sinché il consiglio dei X non decide, il 27 gennaio 1775, di affidarlo ad un protetto d'Andrea Tron, Francesco Donà, figlio di Nicolò (8). E costui si dedica sì alla "somma incombenza", stende sì - ultimandolo nel 1784 - un primo tomo dedicato al biennio 1714-1715. Ma qui s'incaglia. Non va oltre. Scrupoloso rovistatore d'archivi pubblici e privati, l'eccesso di documentazione gl'impedisce un minimo di speditezza. E la passione del documento lo sospinge all'indietro come per prendere la rincorsa. E finisce che andando indietro si trova meglio. Non ha più l'imbarazzo d'esporre le vicende "sin a giorni presenti", ingegnandosi risultino pel governo gratificanti. E evidentemente il pezzo fornito - quello dal 1714 al 1715 - tanto gratificante non è se i consultori in iure Giambattista Bilesimo (9) e Piero Franceschi ritengono inopportuna la pubblicazione. Perché, allora, andar oltre? E, infatti, Francesco Donà si ferma al 1715. Non fa seguire al primo torno un secondo. D'altronde la scrittura dei due consultori in merito al primo (e ultimo) è del 21 ottobre 1795. Ed egli aveva esibito i frutti delle sue fatiche nel 1784. Tutto sembra andare a rilento in fatto di "connessione". Quel che, invece, non rallenta è l'arrivo della scadenza della fine della Serenissima. E con essa finisce l'istituto della pubblica storiografia. Un ex a questo punto Francesco Donà, ex patrizio, ex pubblico storiografo. E sui "fatalissimi avvenimenti" dal 2 al 17 maggio 1797 lascia un Esatto diario di quanto è successo. Diaristicamente, cronachisticamente la contemporaneità, anche la più drammatica, è affrontabile. Ma non se - come pretendeva l'istituto della pubblica storiografia - occorre farne scaturire, a gratificazione del governo, una qualche visibilità sulla scena d'Europa, una qualche "mediazione" veneziana, un qualche "attaccamento" tra il dentro e il fuori. Questo non è riuscito nemmeno a Marco Foscarini, forse il cervello più attrezzato per la storia stralciabile dall'intellettualità patrizia della Venezia settecentesca, forse colui che più sulla disciplina storica ha riflettuto. Non per niente Baffo, in un suo sonetto, l'ha definito "testa da Platon". Certo: Baffo esagera. Basti constatare che Foscarini è stata una "testa" che ha capito che era meglio lasciar perdere la storia politica del presente, che era meglio volgersi a quella della cultura e che era meglio invitare Sandi alla "purgata istoria civile".
Piccola, piccolissima, quasi invisibile Venezia se rapportata al settecentesco concerto degli stati europei. Impossibile, checché pretenda il consiglio dei X dal pubblico storiografo, visualizzarla. Diluibile, semmai, l'irrilevanza settecentesca ripartendo dal 421 - convenzionale data di nascita - e arrivando al 1747 come fa, in 2 volumi, con la sua Storia [...] di Venezia (Venezia 1751), il patrizio Giacomo Diedo (10). E nella ristampa, in 7 volumi, veneziana del 1792-1793 un'anonima "dotta penna" si spinge sino al 1750, non oltre. Scorrevole l'esposizione, rinarrante il già narrato, risolfeggiante il già solfeggiato: lo stato marciano ha "per base la giustizia e per radicato istituto la moderazione"; è sintonia tra sollecitudine di "retto governo" e ottemperanza riconoscente di sudditi gareggianti in "fede e amore" per lui, il "retto governo". Una giaculatoria che ormai sa di rancido. E risuonata la musica della "pubblica maturità" d'una politica estera pilotante la navigazione nel burrascoso mare irto di scogli delle congiunture internazionali; doppiati i pericoli colla bussola dell'"attenzione" più avvertita, della più costante "imparzialità", rigorosamente "indifferente", cioè senza manifeste propensioni, allo spettacolo dell'altrui contendere. Una neutralità autopreclusa ad un pizzico di tifoseria, epperò sempre pronta ad attivarsi - ma occasioni del genere nel '700 mancano - allorché fiuta possibilità di promuovere pacifiche "corrispondenze", sempre generosa di consigli, sempre disponibile a suggerire soluzioni diplomatiche, a prestarsi a decantare tensioni, a far sbollire bellicosi furori. Benefico l'influsso pacifico del marciano "proporzionato dominio" che, pago dei propri "moderati limiti", in questi consiste e persiste, mentre l'impero romano sarebbe crollato sotto l'insostenibile peso del suo abnorme smisurato dominio. Troppo pachidermico questo per stare ritto, per non franare. Che lo stato marciano - proprio mentre più ci si interroga sul perché e sul percome della rovina dell'antica Roma - sia territorialmente modesto infonde fiducia di durata. Quel che importa - così Diedo nell'ultima parte della sua Storia, quella settecentesca - è che dai "giornalieri avvenimenti" d'Europa non venga "turbata la tranquillità o, almeno, la sicurezza della Repubblica". Sinché "la sposizione di cose indifferenti o straniere" non s'incrocia coll'oasi di lagunare tranquillità, concerne lontani teatri di guerra, c'è da stare sereni. Qui Diedo non tanto mostra di crucciarsi dell'indifferenza del contesto internazionale per Venezia, quanto sottolinea la positività d'una "sicurezza" non insidiata dalle "cose straniere" e, come tali, "indifferenti". Una sinonimia eloquente: le "cose straniere", sinché non interferiscono, sinché non manomettono, sinché non irrompono devastanti, viste da Venezia, suonano "indifferenti". Indifferente l'Europa nei confronti di Venezia, ma anche indifferente questa a quella. E, nella vicendevole indifferenza, il durare di Venezia. Ne spira un'illusione d'immortalità. "Immortale repubblica" Venezia, esempio di "politico governo a tutte le nazioni". Così, il 31 marzo 1797, il patrizio Giorgio Morosini (11), quando il territorio veneto è invaso dai Francesi e dagli Austro-Russi. Con tutta probabilità ha letto Garzoni. E da lui ha appreso come, all'inizio del '700, Venezia - pur colle sue terre invase dai Cesarei e dai Gallo-Ispani - s'è salvata attendendo paziente che quelli e questi andassero a combattere altrove. Neutrale allora la Serenissima. E tuttora, a fine secolo, neutrale. E quindi "immortale". Solo che Napoleone, dichiarandole guerra, la schioda dalla neutralità. Interferenti a questo punto le "cose straniere" e mortifere.
Sin qui una Venezia patrizia che ha saputo enunciare la propria volontà di conservazione colla Letteratura di Foscarini e i Principii di Sandi. Storico della cultura il primo, storico delle istituzioni il secondo. In cima all'edificio statale Foscarini, attivo a pianoterra Sandi. Una distanza colmata dall'ammirazione di questo per quello e dal riconoscimento di "gran seno" espresso da quello - Foscarini - per l'analisi delle "leggi" e dell'"interna costituzione" intrapresa da Sandi. E sin affratellati i due dal comune sentire. Saldabile la diffidenza foscariniana per l'importazione d'innovazioni e la ripulsa sandiana delle "velenose teorie che a giorni presenti pianger si devono diffuse per l'Europa". Ideologicamente dalla stessa parte i due, per la stessa battaglia: quella del rilancio della tradizione repubblicana che ha i suoi punti di forza nella sapienza di stato soprattutto cinquecentesca. e nella celebrazione, anche questa cinquecentesca, contariniana della costituzione. È la Repubblica che può ancora insegnare al mondo. E il Sarpi consultore della Serenissima quello che ha anticipato il giurisdizionalismo e il regalismo settecenteschi. Operazioni ideologiche, per tal verso, sia la Letteratura che i Principii e ideologi, in tal senso, i due autori, d'un'autoctonia sottratta alle critiche, al dibattito, sin ostinata e chiusa. E nell'orchestrazione ideologica è Foscarini che primeggia laddove Sandi si situa in certo qual modo a valle del maestro che, per dir così, imprime il leitmotiv, sceglie il tono. Direttore d'orchestra - per proseguire la metafora - Foscarini, orchestrale di tutto rispetto Sandi, ed esecutore della parte assegnatagli, appunto dal maestro. Ma una volta detto che la musica suonata è sottesa d'ideologia, va anche detto che pieno è il padroneggiamento della materia, sicché il risultato è anche quello d'un'informazione di prima mano, frutto d'assidua ricerca nelle biblioteche e negli archivi, d'un indefesso lavoro d'investigazione e di scavo. Indubbio l'apporto cognitivo d'entrambi. Questo resta a prescindere dalla tenuta delle motivazioni e finalità ideologiche. Sterminata la conoscenza di libri e manoscritti di Foscarini. E scrupolosissimo il ricorso alle fonti d'archivio di Sandi, il quale ben sa che l'"uso o il genio letterario del secolo" è quello "di provar i fatti con la citazione de' documenti", come scrive nell'introduzione ai Principii. Un criterio cui si conforma, ché la sua opera sarà "civilmente scientifica", rigorosamente documentata. E trasudante perizia filologica, meticolosità pertinentemente annotante, determinazione accertante, padronanza dei criteri d'accertamento, attenzione alle lapidi e alle monete, scienza dell'antichità, passione collezionistica la Letteratura di Foscarini. Sin caduco l'ideologo - facile, peraltro, dirlo colla scienza del poi -, ma poderoso l'erudito, formidabile.
Approfittiamo di questa sottolineatura un po' enfatica per passare dalla Venezia patrizia sin qui tenuta presente grosso modo gravitante su palazzo Ducale, col problema di cosa scrivere e di come scrivere del governo - e quindi di sé classe di governo -, coll'ossessione del ruolo nel presente della Serenissima, del suo peso specifico, del suo peso relativo, della sua dignità, della sua tenuta, del suo funzionamento, del suo rapporto coll'Europa, del suo rapporto coi sudditi, coll'incubo del conservare riformando qualcosa, di riformare qua e là conservando l'essenziale, per passare, dicevamo, ad un'altra Venezia. La Venezia erudita. Una Venezia socialmente composita, interclassista: ricchi e meno ricchi, nobili e non nobili, laici ed ecclesiastici, regolari e secolari. Una Venezia policentrica, sin dall'erudizione diffusa: la Marciana e fornite biblioteche private, conventi e palazzi, botteghe antiquarie e collezioni, musei domestici e domestici archivi, librerie e tipografie. E c'è pure palazzo Ducale, ma come immane deposito archivistico. E Foscarini ha ben addebitato agli impegni pubblici "fuori della patria" la mancata stesura dell'"istoria veneziana di questi ultimi tempi" ché "la troppa lontananza dall'archivio segreto" gli ha, appunto, "impedito il por mano all'opera". Ovviamente è una scusa. Se Foscarini non ha fatta la sua parte è perché, in sede d'approccio, gli si sono parate dinanzi la perdita del ruolo internazionale della Serenissima, la sua mancanza, la sua fine. Un vuoto di presenza non colmabile riesumando documenti. In questi, comunque, s'immerge volonteroso Francesco Donà per - come s'è visto - raccontare il biennio 1714-1715. Ma con relativa sua soddisfazione visto che il permesso di pubblicare non arriva, visto che passano gli anni e, ad un certo punto, gli si fa capire che è meglio non pubblicare. È evidente: al pubblico storiografo si chiede l'impossibile, si pretende faccia levitare dalla documentazione incensi gratificanti, si vorrebbe ne distillasse motivi d'autocompiacimento governativo. Ma non si frequentano impunemente i documenti senza che non cresca il rispetto per il loro dettato, senza che non s'affini lo scrupolo amoroso per quel che realmente dicono, senza che non nasca un'autentica religione del documento. E, allora, ci si rifiuta all'uso manipolatorio della documentazione, si punta all'edizione, alla lettura interpretante. E, poiché colla contemporaneità ciò non è concesso, ecco che si va all'indietro, ecco che si diventa paleografi e diplomatisti. Più ci si allontana dal presente, più ci si sente liberi, più l'erudizione può indossare i panni dell'onestà appurante e chiarificante. Sintomatico Francesco Donà vagheggi un'antologia di Rerum venetarum scriptores, aspiri ad editare i Diarii sanudiani, raduni migliaia e migliaia di pezzi da assemblare in un Corpus Venetiarum, a costituzione d'un gigantesco codice diplomatico. Erudizione come filologica edizione a questo punto e filologica acribia come storiografia. Una storiografia svincolata dai condizionamenti del presente, dalle cautele, dalle convenienze, dalle connivenze, dalle reticenze, dalle omissioni, dalle esagerazioni da questo imposte che immette in una sorta di zona franca ove l'erudito incontra altri eruditi - Francesco Donà, tanto per dire, si mette in contatto con Giambattista Verci, lo storico degli Ezzelini, lo storico della Marca; nella misura in cui si fa medievista abbisogna di consultare un illustre medievista - in un mutuo intenso scambio di consigli, indicazioni, suggerimenti, informazioni lungo il quale si dà la continua progressiva crescita delle conoscenze. Un conoscere fondato su pezze d'appoggio non senza che deflagrino le relative scienze delle varie pezze d'appoggio. E quindi codicologia, sfragistica, diplomatica, archivistica, numismatica, paleografia, epigrafistica, procedure per la collazione, araldica.
Ci sono sì, nel presente, movimenti d'eserciti, accordi e disaccordi tra gli stati, avvicendarsi di ministri, conciliaboli di gabinetti, trattati e quant'altro. Solo che gli eruditi non sono contemporaneisti. E, allora, non studiano il presente, ma nel presente studiano altro, discutono d'altro, scrivono d'altro. Magari s'occupano di bagatelle, compongono scrittarelli su cose di poco conto. E per di più sbagliando, incappando in errori, in grossi abbagli. Poco male però. Non c'è da temere un qualche intervento punitivo dall'alto, dell'autorità, del governo. Autonoma l'erudizione nel suo autocorreggersi. Quante inesattezze e incompiutezze nel De historicis latinis del 1627 del filologo classico Gherard Iohannes Voss! Ma corrette, almeno parzialmente, dalle, appunto, Dissertazioni Vossiane (Venezia 1752) di Apostolo Zeno (12) che interviene colle sue Giunte [...] intorno agli storici italiani che hanno scritto latinamente rammentati dal Vossio. Sempre giuntatile nell'erudita corporazione l'erudito lavoro. Ma proprio in questo si dà possibilità di progresso. Un progredire - giova insistere - autonomo, interno alla categoria degli eruditi, dei "letterati". Non s'avverte la subalternanza degli intellettuali al potere. Nella misura in cui fattisi eruditi eruditamente trattano d'erudite questioni, non d'immediato interesse politico, non d'attualità, sono intellettualmente liberi. Liberi di cercare, di congetturare, d'integrare, di scoprire. Zeno non rivela alcun segreto di stato affermando che delle "epistolae" di Francesco Castiglione, già segnalate da Montfaucon, si trovano a Firenze, "nella libreria Laurenziana in un cod. pecorino al banco LIII, num. XI". Però, dando la segnatura, fa nascere a nuova vita un testo. Laddove la contemporaneistica soggiace all'accadimento, lo riporta per quel tanto che le è permesso dalla distanza, dall'arrivo, più o meno deformato lungo la strada, della relativa notizia, dall'autorizzazione o meno a riferirne, nel suo che l'erudizione è sin creativa: riesumando fa rivivere, disseppellendo scopre, editando mette alla luce. E, risalendo lungo una tradizione manoscritta agli apografi e, magari, all'autografo, traccia, da padrona, la storia d'un testo. Libera, a questo punto, di fare, di disporre, di comandare. Dalla libertà nel senso d'indipendenza alla sovranità. La stessa opera di Foscarini sa di libertà e, pure, di sovranità. Autoemancipandosi dal penso - indigesto, indigestissimo - d'una storia politica delle ultime vicende, s'è volto, per suo conto, motu proprio, all'"istoria letteraria" di Venezia nel "tempo addietro". L'ha trovata fiorente di "ottimi studi", culturalmente operosa. Ma è col suo personale studio che ricrea un'imponente produzione intellettuale, sistemandola, ordinandola, scandendola. Sono, allora, le sue indagini erudite quelle che - così il consiglio dei X il 12 gennaio 1752 nell'accogliere la Letteratura - "illustrano li studi e l'antica erudizione dei nostri maggiori". È come dire che s'è applicato a disseppellire l'applicazione allo studio degli antenati. Studioso, allora, Foscarini degli studi antecedenti e, come tale, rievocatore delle benemerenze, altrimenti dimenticate o dimenticabili, di raccoglitori d'iscrizioni, intenditori d'antichità, costitutori di musei, cacciatori di medaglie, genealogisti, giurisperiti, trattatisti, storici, cronisti, memorialisti, annalisti, classicisti, adunatori di codici, cultori di scienze. E ciò non senza constatare veneziani primati: quello delle scritture di viaggio, quello della raccolta ramusiana, che fa tutt'uno coll'intrapresa - precorrente quella d'"ogni altro popolo" - d'"arditi viaggi" tanto "da terra che di mare"; quello del riferire per iscritto degli ambasciatori a ciò tenuti già dal 1268 se non da prima; quello dell'istituzione, a Padova, dell'Orto Botanico; quello per cui Nicolò Zeno sarebbe stato "de' primi" ad avviare la storia "d'Europa e di Asia" dei secoli di mezzo; quello d'una monetazione attestata "in ogni tempo" e antecedente, quanto meno, di quattro secoli i "matapani", assomiglianti alle monete "greche", coniati, "per la prima volta", essendo doge Enrico Dandolo. E ciò individuando ed enfatizzando peculiarità veneziane, lagunari singolarità. Ad esempio la "nobiltà del dialetto veneziano, siccome quello che avanza per lungo tratto in copia di scritture qualunque altro d'Italia", sicché si dà una costante produzione in dialetto, specie "nelle cose di poesia". E laddove, per Foscarini, l'eccesso dei "francesismi" d'"oggidì" intorbida inopportunamente e ingiustificatamente "la favella italiana", il mescidarsi col veneziano lungo i secoli di "voci greche", la presenza infittita dei grecismi hanno una loro giustificazione: tanti i Veneziani - l'attestano gli "atti dei tempi mezzani" - nati in aree grecofone oppure "di madre greca"; e mescolati dagli scambi, dai traffici veneti e "greci". La stessa "voce gondola" è "tolta dai greci". "Propria" esclusivamente di Venezia la gondola; e trattasi di "termine antichissimo" documentato dal "privilegio di Loreo del 1091" tenuto presente da Andrea Dandolo, il doge cronista. Connotante altresì Venezia un "diritto" suo "proprio", uno "ius veneziano"; dotata "quasi dalla sua infanzia" la città "di leggi proprie" e adoperante "le sole" proprie "leggi" nel foro veneto ove oralmente e non con "allegazioni" scritte gli avvocati argomentano in base "al ius patrio". Mera "pompa" ad allungare "le aringhe" lo sfoggio di dottrina romanistica. Non che, per questo, non si dia accostabilità e quindi "attinenza" tra "leggi" venete e "romane", tra diritto veneto e "ius comune" e/o "giustinianeo"; solo che quello, rispetto a questo, nella "semplicità" dei suoi "statuti", schiva le "glose", i "commentari", le "quistioni" interpretative, il frastornante - pardi capire - cavillare dei causidici.
Lo si può constatare con mano: col suo scavo erudito Foscarini tocca una varietà di temi, di problemi impensabile se si fosse attenuto alla parte assegnatagli. Sin arida la storiografia meramente politico-diplomatica rispetto all'aprirsi di tanti possibili percorsi. E sin imperiosamente sollecitante l'esigenza della storia del diritto nel trapasso dell'"erudizione legale" alla volontà d'intendimento del dettato delle leggi nella dinamica del progredire e complicarsi della vita urbana. Di per sé "ogni legge discopre un qualche bisogno della società politica", ne registra il cangiare. Se contestualizzata nel "tempo" nel quale è "promulgata", ecco che la "notizia" di detto "tempo" fa meglio intendere la lettera della "provisione", non senza che la comprensione di questa non si faccia più larga comprensione della situazione. Né il sottrarre dalla polvere e dall'oblio vecchie storie e vecchie cronache si limita ad allungare l'onomasticon degli storici e dei cronisti. A mano a mano con questi si va a ritroso nel tempo s'incontrano ad un certo punti "Narentani", da non confondersi coi "Liburni", cogli "Slavi", coi "Croati". E si è "al di qua dal secolo decimo". E c'è da riflettere. Da qui, "da tal punto sino a mezzo il mille trecento" si distende "la più sugosa e notevol parte della storia veneziana". E come dire che la fase più perentoria della vicenda di Venezia è quella medievale, quella talassocratica. Il che - si converrà - è un'affermazione forte, è pensiero storico. E sin una risistemazione dell'idea che la classe dirigente marciana ha dei secoli di storia che le stanno alle spalle. Più forte, par di capire, più vigorosa la Venezia tutta "da mar", non ancora duplicata in quella "da terra". Sospinto dalla lettura d'autori antecedenti trattanti, a loro volta, d'argomenti antecedenti sino alle "primizie" della vicenda veneta Foscarini, sino all'"estuario antico", sino alla nascita di Venezia - e quando farla nascere: nel 421 come vogliono le "cronache popolari" o più tardi, coll'irruzione devastante di Attila? - Foscarini. Coi testi si va all'indietro. Da Bernardo Trevisan s'arriva alla lettera di Cassiodoro. E da qui si risale all'agire veneto pressoché "in casa": i rapporti coll'esarcato, "la difesa libertà" contro la spedizione di Pipino, "l'occupazione di Comacchio". A questo Foscarini accenna soltanto, per poi alludere alle "famose battaglie co' Normanni", alla "Dalmazia soggiogata", all'espansione in Levante, all'allargarsi "del commercio cresciuto a dismisura". Ma, nell'accenno a volo d'uccello, una scansione: prima l'esordio in ambito circoscritto, poi lo slancio; prima "azioni [...] contenute dentro il seno adriatico", poi lo slargarsi dell'epopea marittimo-mercantile. E, in questa scansione, la centralità del medioevo. Si sente l'adesione all'invito muratoriano allo studio dell'età di mezzo, come il più fecondo di scoperte, come il più prodigo d'inediti, come il più ricco di sorprese (13). E felice scoperta, tra il materiale destinato allo scarto del magistrato delle acque, quella, del luglio 1746, di Tommaso Temanza, del Codice del piozego (14), che tanto informa sull'antica condizione fisico-giuridica delle lagune, tale da far tripudiare l'erudito Foscarini. E se ne può approfittare per rimarcare come l'erudizione non finisca colla fine della Serenissima. L'erudito ottocentesco Cicogna il codice l'acquista.E quindi finisce alla biblioteca del Museo Correr con tutti, appunto, i codici Cicogna. E un codice - così Foscarini - quello del piovego zeppo di "passi chiarissimi di carte ed istromenti molto antichi". E vi si parla di pesca, caccia, pascoli, vigne, mulini sparsi nelle isole e isolette dell'estuario. Entusiasta di quanto se ne può evincere Foscarini. Perlustrando il medioevo la messe è ben più ricca e variata di quanto capiti a chi deve stendere un pezzo di recente storia politica. Si entra nel passato e questo rivive colle sue esigenze alimentari, col suo organizzarsi. Ne saltano fuori "contratti", "vendite ", "permute ", "assegnamenti", "doti". Sembra quasi la medievistica sia, ben più della modernistica, quella che è capace di far pulsare il ritmo della vita quotidiana, della storia materiale. Fondante conoscere, anche così, il medioevo, comprendendo il quale si capisce anche di più il prima e il dopo. Nodo e snodo le età di mezzo. Donde, ai fini della comprensione storica, la funzione appunto centrale del fissarle - utilizzando documenti d'ogni genere - come quelle che "stando fra la cagione delle più antiche e la chiarezza delle seguenti, somministrano conghietture per arguire ciò che le prime nascondono e fondamenti per meglio intendere ciò che avvenne di poi".
Qui si può dire - senza tema d'esagerazione - che l'erudizione vola alto. Dalla paratassi dei documenti alla sintassi ricostruttiva. Virtualmente Foscarini si pone già a questo livello. Potenzialmente un salto di qualità il suo rispetto alle Notizie [...] sugli scrittori veneziani, in 2 tomi (Venezia 1752-1754) - il primo col profilo biografico di 28 autori, il secondo d'altri 36; e, cronologicamente, gli estremi vanno dalla fine del secolo XI a quella del secolo XVI - di Giovanni degli Agostini (15), il bibliotecario del convento di S. Francesco della Vigna suo amico. In queste diligenza racimolante, ma poco pensiero; e scarsi anche i pensierini. In Foscarini l'erudizione, nei suoi affondi dipananti un'aggrovigliatissima matassa di testi che proliferano in tutte le direzioni, è ricerca di senso. Nei, frate è ricerca di notizie, fornitura di notizie. Dedicate quelle del tomo I a Foscarini, quasi a porsi sotto la sua ombra protettiva. E in questo, annuncia al dedicatario, "si comprendono le azioni tutte civili e tutte le produzioni letterarie [...] di parecchi scrittori". Fa il possibile per essere gradito al grande patrizio, "cavaliere, procuratore e istoriografo". Però già dalla dedica si capisce che il frate ha capito pochino del senso della, appena uscita, Letteratura. In questa non la separazione tra versante civico e cultura, ma il nesso, l'interconnessione, la correlazione, la convergenza, sin la fusione. Le "azioni civili" e "le produzioni letterarie" sono come due corsie separate, come sfasate semanticamente, invece, pel minorita. Distante distantissimo e per nerbo d'ingegno e per pubblica eminenza il patrizio dal frate. È inaccostabile, a tutta prima, per costui tanta eminenza. Ma accomunante il lavoro erudito in virtù del quale s'incontrano. E calamitato come il topo dal formaggio degli Agostini dall'accesso alla "nobilissima libreria" del "glorioso mecenate" dove consulta il "libro de' reggimenti" della Serenissima, codici, incunaboli. Discepolo dell'ultimo Zeno - quello che nel 1731 se n'è tornato da Vienna dove s'è sentito come in esilio, dove ha anche sofferto come un topo senza formaggio: "qui", a Vienna, si lamentava "non si vede nelle botteghe un buon libro" - degli Agostini è per lui pieno di venerazione e affetto. E pure Zeno s'è costituito una ragguardevole biblioteca che, nel 1747, decide di lasciare ai Domenicani osservanti del rosario alle Zattere (16) cui così arriveranno - stando ad una lettera del 13 novembre 1750 di Bernardo Maria de Rubeis, lo studioso di s. Tommaso, l'illustratore della storia della chiesa aquileiense (17), a Francesco Florio canonico udinese - circa 17.500 volumi di vario formato nonché quasi 600 manoscritti. E in questa "un superbissimo codice pecorino in foglio" che entusiasma degli Agostini. "Prezioso acquisto", allora, quello fattone da "questo grand'uomo", ché tale pare a degli Agostini Zeno ancorché vecchio, ancorché malato. Ma ammirante pure Foscarini: Apostolo Zeno è, a suo giudizio, il "raccoglitore più diligente", il "conoscitore più accorto" di quanto, direttamente o indirettamente, concerna "la patria", riguardi Venezia. Anch'egli s'è servito dei suoi codici, dei documenti in suo possesso. E lo considera altresì maestro d'indagine ricostruttiva. A lui - riconosce - "al pari d'ogni moderno scrittore di cose relative a storia letteraria, confessiam di essere tenuti".
Sin saldata dalla venerazione affettuosa per Zeno la Venezia degli studi, delle raccolte, dei musei, delle biblioteche, delle collezioni, delle collazioni, delle edizioni. Sin gloria patria Zeno, che pure Foscarini qualifica "celebre", "chiarissimo" lungo la Letteratura, nella quale, incidentalmente, affiorano altri nomi di chi a Venezia sta ora, nel presente, studiando. Il servita Bergantini; l'abate Nicolò Coleti (18); padre de Rubeis; il "cavaliere" e zio del più celebre omonimo Andrea Memmo, "senatore di squisite lettere" nonché, tra i viventi, il più ferrato nell'approfondita conoscenza "delle cose veneziane"; Gian Rinaldo Carli (19) che sta avviando i suoi innovanti studi di storia monetaria coi quali - Foscarini ne è certo - "s'illustreranno i commerci, la polizia e molte gelose parti"; il camaldolese Anselmo Costadoni, l'autore, con Giovanni Benedetto Mittarrelli, dei 9 volumi degli Annales Camaldulenses (20), attivo in quel convento di S. Michele in Isola dove Angelo Calogerà (e converrà ricordare che Foscarini protegge le sue militanti "Memorie per servire alla Istoria Letteraria" dagli assalti gesuitici tesi a tacitarle) dal 1728 continua ad organizzare la sua miscellanea "Raccolta di Opuscoli scientifici e filologici", che nel 1755 inizia la nuova serie col titolo, appunto, di "Nuova raccolta", la quale, morto nel 1766 Calogerà (21), non desiste, durando, grazie a Fortunato Mandelli, sino al 1787. Quasi sessant'anni di vita produttiva d'un totale di 92 volumetti che inizia con una baldanzosa apertura al nuovo e al moderno per poi - a mano a mano le idee nuove e moderne si radicalizzano, si fanno "scellerata filosofia" - innestare un'impaurita e, talvolta, inorridita retromarcia. Certo: un'involuzione, un impoverimento. L'erudizione non salta sul carro della cultura militante. Ma è anche per questo che, se quel carro si rovescia, continua imperterrita e indenne le proprie occupazioni. Lesionata dalle vicende storiche, sin disdetta e malmenata la cultura militante. Non ambiziosi gli eruditi come i "liberi pensanti" di riformare e sin di sovvertire "leggi" e "morale", non rovescianti sul mondo pagine rivoluzionanti o, per lo meno, riformanti. Al più, se l'erudizione si pone uno scopo che fuoriesce dal suo perimetro - è il caso di Foscarini e anche di Sandi, che si colloca sulla stessa lunghezza d'onda -, questo va nel senso della conservazione, del rafforzamento dell'esistente, del consolidamento del lascito del passato, dell'irrobustimento di quanto affonda nel passato, del ritorno alle radici. Eruditi con una marcia in più, in tal caso, gli eruditi; non, allora, solamente tali. Un conto è migliorare Voss, Fontanini, Cinelli Calvoli, un conto è mirare al salvataggio della Repubblica così com'è usando l'erudizione a mo' di mastice, di ricostituzione, per dir così, del tessuto connettivo, a mo', sempre per dir così, di strumento di riattivazione, di rimessa in circolazione della lezione del passato. Fortemente politicizzato, per tal verso, il Foscarini storico della letteratura lagunare. Nelle intenzioni il suo è un lavoro a tesi, in servizio del governo, a corroboramento della Serenissima. Politico-ideologico, dunque, l'intento. Ma non ne risulta inficiata la sostanza erudita della Letteratura, stendendo la quale l'autore s'è attenuto ad un metodo, a suo dire, zeniano e ha accostato non tanto i colleghi in senato, quanto gli interessati agli studi. Studioso tra gli studiosi, allora, Foscarini, erudito tra gli eruditi e, come tale, posizionabile non tanto tra i sussulti preagonici della sua classe, quanto nel continuum d'un'applicazione di, appunto, studio erudito che sopravvive all'azzeramento del 1797, che continua tenace anche dopo, anche senza il vessillo di S. Marco, anche sotto altre bandiere. Senza cesure, senza soluzioni di continuità la vicenda, appunto, continuata, ininterrotta, lungo il '700, lungo l'800, dell'erudizione veneziana. Ormai alle ultime battute la pinacoteca dogale: morto nel 1763 Foscarini, non restano che tre dogi. Allungabile anche oggi la pinacoteca erudita. E in questa il ritratto di Foscarini accanto a quelli non dei politici da lui frequentati, ma degli studiosi che studiando ha incontrato. Quello, ad esempio, del servita Bergantini, "il quale alle doti del costume e dell'ingegno unisce molta erudizione delle antichità veneziane, di che abbiamo noi fatta vantaggiosa prova per sua gentilezza". Sottolineabile questo tratto della "gentilezza", della generosità, della disponibilità tra studiosi. È quel che è il "garbo" per la vita in società. Talvolta litigiosi, rancorosi, dispettosi tra loro gli studiosi. Ma se gli studi vanno avanti è perché, ciò malgrado, capaci d'essere tra loro gentili. Donde, ad esempio, la "gentilezza lodata" dal francescano degli Agostini del camaldolese Costadoni, al quale deve "la [...] notizia [...] benignamente somministrata" dell'esistenza d'un codice pergamenaceo custodito nell'"eremo di Camaldoli". Una pinacoteca, quella destinabile agli eruditi, in cui il doge Foscarini non disdegna di figurare accanto al prete Giovanni Battista Leonarduzzi, "sacerdote ornatissimo intorno alla successione dei vescovi e dei patriarchi della città", nonché "de' primiceri e dei piovani d'ogni parrocchia" risalendo, "per via di pubblici documenti e di carte autentiche" sino, almeno, all'inizio del secolo XIII, se non "oltre". Encomiabile pure l'effigie dell'"erudito sig." Girolamo Zanetti, l'editore del Chronicon di Sagornino, il restitutore alla "sua vera lezione" del diploma, dell'840, di Lotario, il rieditore della convenzione, del 1268, tra Luigi IX di Francia e Venezia, lo storico del corno dogale, dell'origine d'alcune Arti - in primis della nautica - a Venezia, il catalogatore, con degli Agostini, della biblioteca del console Smith, il collaboratore, dal 1753 al 1756, di Calogerà nella redazione delle "Memorie per servire alla Istoria Letteraria" - e se smette è perché non ne può più della puzza fratesca che emana dal troppo begare di Calogerà coi Gesuiti, con padre Zaccaria -, l'esaminatore d'antichi papiri, d'antiche pergamene, lo studioso dell'antica monetazione veneta, il decifratore d'iscrizioni greche, il disquisitore d'urne e statue dissepolte. Neanche costui è un patrizio. È di distinta e agiata famiglia, è cugino del caricaturista Anton Maria Zanetti. Se Foscarini l'apprezza è perché diplomatista, perché antichista, perché medievista. D'impronta muratoriana, a tal proposito, l'inedito suo Ragionamento istorico della giurisprudenza italiana de' secoli barbari. Ma lodato anche il fratello maggiore di Girolamo Zanetti, Anton Maria e da non confondere coll'omonimo. Studioso della pittura veneziana il fratello di Girolamo, intenditore d'arte, critico d'arte. Ma non per questo lo menziona Foscarini, bensì perché redattore del catalogo dei codici greci marciani. Pubblico bibliotecario, dal 10 luglio 1742, Marco Foscarini. Va da sé sia lieto d'avere in "Antonio Zanetti" - l'allestitore dei Graeca Domini Marci bibliotheca codicum manuscriptorum per titulos digesta [...] (Venetiis 1740) e del successivo catalogo Latina et italica [...] (Venetiis 1741), ossia dei codici latini e italiani - il "natural custode della Libreria" di S. Marco "ornato [...] di ottime lettere". Non più il doge, a partire dal 1797, a palazzo Ducale. Ma a Zanetti, che muore nel 1778, alla Marciana succede Giacomo Morelli. E se Ludovico Manin deve tornare a casa, Morelli alla Marciana rimane, in veste di "bibliotecario pubblico", di "bibliotecario nazionale". Anche per questo persistere della Marciana (22), dei suoi competenti funzionari ci siamo permessi, pocanzi, d'azzardare la valutazione della vicenda degli studi eruditi in termini di continuità, di non interruzione, di prosieguo colla prima dominazione austriaca, coll'incorporamento nel regno italico, col ritorno dell'Austria. A Morelli subentra, nella direzione, Bettio, a Bettio Valentinelli, a questi Veludo; poi Castellani, poi Morpurgo. È una lista non a termine, come quella dei dogi. Che poi, dal 1811 al 1904, la biblioteca di S. Marco debba acconciarsi al trasferimento a palazzo Ducale, sia in questo racchiusa, per quanto penalizzante l'effettivo funzionamento, sul piano dell'immagine ha un suo significato: la Repubblica dogale è morta, non però gli studi nella città già dei dogi. E, salvata, altresì, la Repubblica dogale archivisticamente all'archivio dei Frari, nel convento già domenicano. E le tonnellate di carte qui concentrate vivono nella misura in cui sono oggetto di studio. E l'archivistica, la diplomatistica, la paleografia sono discipline nate da esigenze erudite, costitutive dell'erudizione stessa.
Ma se questa, l'erudizione, è viva e vegeta nella Venezia '800 è anche perché era già viva e vegeta nella Venezia '700. Viva, vegeta e - doveroso aggiungere - cattolica. E non tanto per l'abbondare nell'erudito onomasticon di preti e frati, quanto per la propensione di parecchi tra questi a privilegiare l'erudizione cosiddetta "sacra" (23), rispetto alla profana. Basti ricordare il camaldolese Costadoni, il domenicano de Rubeis e l'oratoriano Andrea Galland, il curatore d'un'imponente Bibliotheca [...] (Venetiis 1765-1781 e di nuovo 1788) patristica greco-latina, cui aggiunge l'"adiumentum" d'un Thesaurus, nonché d'una silloge di dissertazioni d'autori vari De zetustis canonum collectionibus [...] (Venezia 1778 e, di nuovo, Magonza 1790). Ma laico, sposato, con figli, il senatore Flaminio Corner (24), il quale "va tessendo [così Foscarini in una nota della Letteratura] e pubblicando con infaticabile studio e con più critico esame [...] una storia generale di tutte le chiese di Venezia preservando alla città quell'avanzo di documenti che, senza il benemerito aiuto di questo patrizio, avrebbero corso il destino" della dispersione e dell'oblio proprio "degli altri". Per lo meno - questo vuol dire Foscarini - l'"avanzo" del perduto si salva. Ciò perché sta scrupolosamente editando la documentazione residua. E per quel che lo concerne, così sempre nella stessa nota Foscarini, il fatto che la ricerca di Corner investa "tutte le chiese" l'esenta dal nominare "ad uno ad uno" quanti antecedentemente si sono occupati dell'"origine dei nostri monasteri". Non più che tanto caloroso Foscarini nel salutare l'opera in corso da parte di chi ha, al pari di lui, impegni politici.
E forse - azzardiamo - Corner in senato gli è parso troppo filocuriale. Forse - anche se non lo dice - preferirebbe che all'erudizione "sacra" pensassero i regolari e non un patrizio particolarmente devoto. Un po' riduttivo, insomma, Foscarini nel suo riconoscimento un po' a denti stretti. Chi invece par quasi prosternarsi di fronte all'"amplissimo", "benemerito" senatore Corner, anzi "sommamente benemerito", nonché "lodevolissimo", nonché "eruditissimo" è degli Agostini. E in ciò s'avvertono non solo il consenso ammirante all'"erudita illustrazione di tutte le chiese della nostra patria", ma anche la soggezione del frate per un autorevole patrizio. Ma che sta facendo, "con tanta sua gloria", per dirla con degli Agostini, il senatore Flaminio Corner? Nato nel 1693 è ormai ultracinquantenne quand'esplode perentoria inderogabile la sua vocazione, sino allora tacitata e come schivata tra cure domestiche e impegni pubblici, di studioso. Non la politica l'interessa veramente, ma la realizzazione d'un "opus" che sia "in gloriam Domini" nonché "eruditorum in sacra praesertim antiquitate utilitatem". A tutta prima vorrebbe illustrare sistematicamente le tracce dei santi presenti in laguna. Pensa a degli Acta sanctorum in questa localizzati e focalizzati. Ma si può dissertare di reliquie prescindendo dalle chiese che le ospitano, e, comunque, le vantano? Si può ragionare di contenuti - nella fattispecie di corpi, pezzi di corpo, indizi di corpo ignorandone i contenitori, le chiese, i conventi? Certo che no. Così, almeno, ritiene Corner. Ma, allora, non bastano gli Acta sanctorum, necessitano quelli ecclesiarum. La ricerca s'allarga a dismisura, si complica. C'è di che scoraggiarsi. C'è di che ripiegare in una monografia incentrata su di una qualche chiesa, magari importante, magari zeppa di reliquie. Ma Corner non si spaventa, non arretra. Fedele all'assunto procede tenace, con volontà ferrea. Quel che s'è proposto lo porta a termine col lavoro indefesso di circa una decina d'anni.
Donde le Ecclesiae Venetae antiquis monumentis [...] illustratae [...], poi le Ecclesiae Torcellanae, sempre antiquis monumentis [...] illustratae [...] quindi i relativi indices duo. Una sterminata opera in 18 volumi complessivi, tutti datati Venetiis 1749, anche se questa data vale, in realtà, solo pel primo volume. Tant'è che il cenno di Foscarini e i cenni di degli Agostini la danno per avviata, per a buon punto, non per ultimata. Quel che più preti o più frati non son riusciti a fare l'han fatto l'" amor patriae" e il "venetae ecclesiae amplificandae ardor" d'un uomo solo. C'è di che rimanere sbalorditi e, insieme, da considerare che, in tal caso, l'essere patrizio e laico a Corner è giovato. Con autorevolezza ha potuto pretendere l'esibizione della documentazione. Non s'è trovato di fronte esplicito sabotaggio di parroci, palese ostilità di frati. Garanzia di super partes lo stato laicale pei secondi. Intimiditi dal rango senatorio i primi. A lui se non spalancati almeno dischiusi, allora, gli archivi, i depositi di documenti; e se ci sono state, nel renderglieli accessibili, "difficultates", l'impressione è che la resistenza degli "ecclesiarum praesides et archivorum custodes" vada addebitata più all'"incuria" - di cui vergognarsi - della conservazione che ad altri motivi. E sistematico il loro, degli archivi, utilizzo: corredata, appunto, di documenti - bolle, lettere e quant'altro - ogni vicenda cronologicamente scandita di chiesa e/o monastero. Una documentazione desunta da archivi parrocchiali e conventuali di puntuale pertinenza, non senza mirati sondaggi anche negli archivi pubblici. Documentato, documentatissimo Corner, emergente, appunto, con messe documentaria dalle sue archivistiche immersioni. Sciorinatore di fonti e storico, quindi, laddove la storiografia sia intesa come, anzitutto, edizione delle fonti scoperte. Sin inauguratore alla grande Corner della storia ecclesiastica lagunare. Ciò non toglie che volgendosi all'illustrazione coi "monumenta" e/o documenti delle singole chiese si sia, di fatto, sottratto al severo esame dell'autenticità delle reliquie. Per tal verso i suoi documenti attestano venerazioni. Ma che sia attestata una devozione non esclude il suo rampollare dal fasullo, dall'affabulazione nonché da interessi sin di stato. Di per sé pressioni dall'alto e ingenuità dal basso possono sommarsi nel culto delle patacche. E a tal proposito occorrerebbe procedere ad un rigoroso e, perciò, impietoso disboscamento. Ci vorrebbe del coraggio. Ma a tanto Corner non può e non vuole giungere. Sin interiorizzata la versione di stato laddove sia in ballo la questione dell'autenticità delle reliquie marciane. Membro della classe dirigente d'una repubblica a s. Marco intitolata, al punto che il culto del santo s'è trasformato in culto dello stato marciano, ogni dubbio in proposito gli sembra devastante, blasfemo. Lipsanologo di stato a questo punto il senatore Corner. Certo: da muratoriano di stretta osservanza - e non è solo casuale che Giambattista Pasquali, l'editore delle Ecclesiae [...], sia lo stesso che di Muratori stampa e gli Annali d'Italia [...] e le Dissertazioni sopra le antichità della medesima - Corner procede a suon di documenti monumenti. Monumentato e/o documentato il suo immane lavoro. I lumi dell'erudizione nascono, appunto, dall'apporto illuminante dei documenti. Altra cosa la critica a lume di ragione. E un lume che può scalzare i documenti, può sin, se li bersaglia, ridurli in polvere. Gli eruditi abbondano in dichiarazioni di fede nei documenti. Con questi dimostrano i fatti. Un fatto è un documento. Un documento è un fatto. Ma è un'impostazione da prendere alla lettera? È indubbiamente un documento la missiva del doge - quindi una ducale - Renier Zeno del 30 maggio 1265 a dir della quale nell'incendio, del 1231, della sacrestia della Basilica tutto è diventato, così nel volgarizzamento della ducale del notaio della procuratoria de supra, "carboni et cenere", salvo "la santissima croce del legno di Nostro Signore", miracolosamente rimasta "illesa dal foco". Trascritto il latino della ducale da Corner. Che dedurne? Che c'è la croce o che c'è un testo che vuol far credere ci sia? Si converrà: non è la stessa cosa. Forse è il caso di limitarci a dar per documentato l'incendio. E dev'essere stato distruttore se ancora se ne parla trentaquattro anni dopo.
Benemerite, comunque, le indagini di Corner specie se - è il caso dei 2 tomi su Creta sacra (Venetiis 1755) fornisce le liste vescovili di rito greco e latino dell'isola, grazie ai fondi pubblici veneziani (e a tal proposito è il primo a utilizzare quello del "duca" dell'isola) da lui consultati, costruisce, appunto, la lista dei duchi e delle autorità venete in generale. E pazienza se qualche nome manca. In tal caso le lacune si colmano, per quel che concerne la gerarchia latina, colla documentazione pontificia. Avesse avuto modo Corner avrebbe consultato pure gli archivi vaticani. Ad informazione degli studiosi sia Creta sacra che le Ecclesiae [...] e, come tali, strumenti di studio fondamentali. E i fedeli semplicemente? Anche di questi si preoccupa Corner col volumone delle Notizie istoriche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello [...] (Padova 1758), ove, in italiano, pianamente, senza porsi e porre problemi, senza l'apparato delle note e dei documenti, divulga e sminuzza le risultanze delle Ecclesiae [...]. Col che diventa un autore edificante, più scrittore spirituale, di cristiana devozione, di cristiana pietà che storico ecclesiastico. Non che dimentichi le "carte" e che smetta d'amare tra queste le più antiche. Solo che non ne desume più liste di parroci o di abati bensì che Venezia è "favorita da Maria".
E la fortuna che arride a Il giornale di spirito [...] (Padova 1760), sorta di manualetto per una gestione virtuosa della quotidianità rapportata alla "memoria" del santo del giorno - lo si ristampa nel 1761 e lo si pubblica in versione versificata nel 1762 -, è sintomatica d'una domanda non rivolta ai "falsi sapienti" del razionalismo, ma agli agiografi - ed è agiografica, appunto, l'ultima fatica corneriana, ossia l'Hagiologium italicum [...] (Bassano 1773), profilante, in 2 volumi, i santi e beati d'Italia -, sì che facciano della santità un esempio cui riferirsi durante l'esistenza. E va anche detto che Corner - sinché papa il veneziano Clemente XIII - s'è dato da fare perché il catalogo santo e beato s'infittisca di Veneziani e Veneti. E non a vuoto se, il 16 luglio 1761, viene beatificato Gregorio Barbarigo. L'erudizione "sacra" sin si mobilita a fabbricare santi, ad intensificare culto di beati. E va in porto quello del beato Pietro Acotanto il cui culto viene, appunto, confermato l'8 agosto 1759 e il 13 novembre 1760.
Più ardua l'auspicata canonizzazione di Angela Merici, la fondatrice delle Orsoline.
E sin insistente e petulante Corner nel suo battersi per l'ufficializzazione del culto della beata Contessa Tagliapietra. Ma, per quanto cerchi, la richiesta tavola già posta sulla cassa della beata - vi sarebbe stato scritto che morì nel 1308 - non salta fuori. Poderosa, comunque, la corneriana erudizione e a gloria di Dio e, insieme, di Venezia.
È la vergine stessa, madre di Dio, a privilegiare la città. Lo dimostrano le corneriane Notizie storiche delle Apparizioni e delle Immagini di M. V. Santissima nella città di Venezia [...] (Venezia 1761). E punto di partenza e d'arrivo del libro - il più massiccio tra le pubblicazioni mariane prodotte dai torchi lagunari nel secolo XVIII - il frontespizio: qui una nuvola con sopra la Madonna e il Bambino e sotto, inginocchiata, una donna con la corona dogale. Naturalmente questa impersona Venezia, la città della Madonna, la città della Vergine.
Mariologo, con questo testo appena menzionato, il senatore Corner e, insieme, storico delle immagini, analizzatore d'icone bizantine. E privilegiata la Nicopeia, ossia l'icona mariana dipinta, stando alla leggenda, da s. Luca e giunta a Venezia nel 1204, col bottino costantinopolitano. Un'immagine miracolosa da portare in processione contro il maltempo, contro le carestie - lo si fa nel 1742 - e, pure, contro le tempeste politico-militari. Esposta al pubblico per una quindicina di giorni, nella primavera del 1797, quando l'armata napoleonica preme ormai a ridosso. Vien da dire che se il leone marciano non ha più fiato per ruggire, non resta che porsi sotto il manto protettivo della Vergine. "Sub tuum presidium confugimus Sancta Dei Genitrix". Così l'iscrizione sottostante alla figura nel frontespizio delle Notizie [...] di M. V. [...] di Corner. Senza denti, senza unghie, senza spada il leone. E legittimata la surrogatoria protezione della Vergine da una messe figurativa per sciorinare la quale Corner affonda ambo le mani nel medioevo. Rorida di devoti sensi la sua erudizione, ma insieme scienza del medioevo, medievistica. Quanto mai valido l'invito muratoriano allo studio dell'età di mezzo. Divaricante la contemporaneità sacro e profano, stato e chiesa, politica e morale, e, così, lacerante le coscienze, devastante le anime pie. Sin alternativo, per tal verso, il medioevo ricordato. Quel che nel presente è scisso lì, invece, è intrecciato, compenetrato. E orante oltre che operante l'umanità lagunare rievocata negli 8 volumi Delle Memorie Venete antiche profane ed ecclesiastiche (Venezia 1795) di Giambattista Gallicciolli, il curatore dell'Opera (Venezia 1768) di Gregorio Magno, l'allestitore d'un Dizionario latino italiano della [...] Bibbia zolgata [...] (Venezia 1773), quello grazie al quale il Lexicon latinum di Facciolati esce locupletatum (Venetiis 1778), quello che interviene su Dell'antica lezione degli ebrei e della origine de' punti (Milano 1786) del barnabita Giovenale Sacchi con uno scrutinante Esame [...] (Venezia 1787) che, colle sue 132 pagine, supera le 124 della dissertazione esaminata. Patrologo, lessicografo, antichista, quanto meno laborioso tale lo ricorda Foscolo, che, giovinetto dal fiammeggiante ingegno, l'ha avuto per impari maestro; e, in effetti, fu pure tale, nonché docente d'ebraico e greco "nelle pubbliche scuole" - l'abate Gallicciolli che, nel suo affondo a ritroso, trova avvinti il sacro ed il profano. Preceduto dai Monumenta [...] (Venezia 1758) della chiesa di S. Tommaso di Giovanni Antonio Pivoto e da quelli, usciti lo stesso anno, della chiesa di S. Moisè di Nicolò Coleti, Gallicciolli parte dalla chiesa di S. Cassiano e da questa allarga l'attenzione a tutte le parrocchie veneziane. Specola la parrocchia sul vivere associato nonché suo fulcro. E riscontro di fatiche e di preghiere quotidiane. Studiando gli archivi parrocchiali e dagli archivi parrocchiali s'incontrano liturgia, tradizione, folclore, abbigliamento, monetazioni, mestieri, quotidianità, remoti toponimi, crucci per campare, rintocchi di campane, vicende edilizie, trasgressioni marine, vicissitudini di litorali, livelli di piani stradali, pavimentazioni, catastrofici incendi, antiche fondazioni, geografia, topografia, ambiente, clima, mortalità, religiosità, costumanze, tessuto urbano, organizzazione territoriale e, naturalmente, liste di piovani, albori parrocchiali, decime, reliquie.
Va da sé che nella trattazione - se non altro perché estesa a più argomenti, se non altro perché non monografica - non mancano "abbagli", "equivoci", "contraddizioni". E di ciò infatti accusa Gallicciolli un altro abate, lo spagnolo invenezianato e già gesuita Cristoforo Tentori, l'autore d'un Saggio, in 12 volumetti, sulla storia civile, politica, ecclesiastica, e sulla corografia e topografia [...] della Repubblica [...] (Venezia 1785-1790), e come s'è già notato, d'una "dissertazione storico-filosofico-critica" sulla Legislazione veneziana [...] (Venezia 1792) a difesa della laguna, a preservazione dell'habitat insulare. Oggetto, allora, le Memoriae [...] di quello d'una mitragliata d'Osservazioni storico critiche [...] (Venezia 1796) da parte di quest'ultimo. In disaccordo Tentori sulla consistenza del primiceriato e dei canonicati marciani, benefici ecclesiastici veri e propri per Gallicciolli, "meri e semplici benefizi laicali" per Tentori. "Episcopal giurisdizione" quella dogale nella Basilica inclusiva del conferimento al primicerio di "privilegi d'immunità e giurisdizione". E dov'è il "privilegio" che, a sua volta, carica di tanto la "potestà laica del doge"? Non c'è; non salta fuori. Allegabile al suo posto "la consuetudine immemorabile in uno colla pubblica fama". Una contesa quella tra Gallicciolli e Tentori. E il primo replica all'attacco del secondo con una puntuta Risposta [...] (Venezia 1797). Stampate l'anno prima le Osservazioni dell'"ex gesuita" - nel replicare l'abate Gallicciolli lo sottolinea - con "licenza", appunto, di stampa, dei riformatori allo Studio patavino. Questa "licenza", invece, non compare, nella Risposta. Evidentemente non c'è più la Serenissima, colle sue magistrature, colle sue prassi d'autorizzazione. C'è la municipalità provvisoria. E Tentori stende un Dialogo tra Eraclito e Democrito redivivi sulla rivoluzione politica di Venezia, stampato, senz'alcuna indicazione, nel 1797. E pubblica pure, collo pseudonimo di "Pandolfo Malatesta di Rimino", un suo Discorso storico [...] pronunziato nel dì primo settembre dell'anno 1797, anche questo privo d'indicazioni tipografiche. È rivolto al "popolo veneziano", per avvertirlo accoratamente che i suoi "provvisori agenti" - i municipalisti - stanno distruggendo un'"opera meravigliosa" costruita anche dalle sue "mani", dalle mani del popolo. La Repubblica - a dir del finto riminese -, dal 455 al 1297, alla Serrata, cioè, del maggior consiglio, sarebbe stata "democratica" e "aristocratica" dalla Serrata in poi. L'età di mezzo, allora, come secoli e secoli di "democratica storia", cui rifarsi per contrapporsi, con popolare riscossa, alla "disorganizzazione voluta e decretata" dai municipalisti, la quale si sta rivelando "nemica non solo dell'aristocratico passato governo, ma attentatoria della [...] sovranità" popolare e, come tale, "sovversiva", sostanzialmente, dell'"antica democrazia" e, quindi, antidemocratica. C'è da dire, però, che tanto distruggere - criminale agli occhi di Tentori - s'arresta riverente alle soglie della cappella già dogale, della basilica di S. Marco. Il doge non c'è più. Resta il primicerio Alvise Paolo Foscari. E tale resta sino al 1807 quando la Basilica diverrà cattedrale patriarcale. Nel frattempo, tra il 1798 e il 1801, l'operoso Gallicciolli fa uscire, tradotte dal greco, le lettere di s. Ignazio d'Antiochia, di s. Clemente I papa, di s. Barnaba apostolo e le opere di Atenagora ateniese, non dimentico peraltro d'impartire lezioni di catechismo ai fanciulli della diletta parrocchia di S. Cassiano. E il bibliotecario Morelli, tanto per dire, pubblica una Dissertazione intorno ad alcuni viaggiatori eruditi veneziani poco noti (Venezia 1803). Si dissertava prima del 1797, Si continua a dissertare dopo. Certo: la dissertazione di Morelli fosse uscita nel 1796 non sarebbe comparsa la dicitura "conte" e "contessa" nella dedica a Leonardo Manin e a Foscarina Giovanelli.
Senza visibili traumi, insomma, l'operosità dei dotti. Tant'è che gli 8 volumi delle Memorie storiche de' veneti primi e secondi di Iacopo Filiasi (25) - che ha già pubblicato un Saggio sopra i veneti primi (Venezia 1781) e ha già dissertato Delle strade romane che passavano anticamente nel Mantovano (Guastalla 1792) - escono, senza che, appunto, il 1797 ritardi l'uscita, a Venezia nel 1796-1798. E sono poi ristampate - in 7 volumi e con dedica al viceré Eugenio e quel minimo d'aggiornamento (per cui Napoleone diventa "sovrano benefico"; virtualmente sotto di lui può riprendere slancio la navigazione mercantile) dettato da ragioni d'opportunità - a Padova nel 1811-1814. Dalla situazione ambientale e terrestre e lagunare all'apparire avvolto di leggenda dei "veneti primi", ossia prima di Venezia, la cui presenza si fa a mano a mano meno sfuggente sinché su di essi domina Roma e poi, caduto l'impero di questa, subentra "il dominio degli emuli e goti". Segue l'"epoca longobarda" e in questa inizia la storia dei "veneti secondi", ossia dei Veneziani, che Filiasi ripercorre sino all'inizio del secolo XII. Una storia all'insegna del "commercio" (sin dal VI secolo), della navigazione (visibile nel VI e/o, al più tardi, nel VII 1'" architettura navale" veneziana) e presidiata dall'evangelista Marco. Storico della formazione storica della laguna di per sé Filiasi, competente d'idraulica, climatologo epperò anche lipsanologo nel suo garantire l'autenticità delle reliquie contenute in una cassa sbucata fuori nel corso di lavori di restauro in Basilica - e in questa sarebbe stata collocata nel 1094 essendo doge Vitale Falier che decide di così preservare le già smarrite e poi, dopo "esatta ricerca", ritrovate "ossa sacre" dell'evangelista -, nel maggio del 1811. Anche altri - ad esempio Agostino Carli Rubbi, ad esempio il conte Leonardo Manin, ad esempio l'abate Domenico Maria Pellegrini - dissertano in proposito. E tra questi pure Cicogna che, appunto, Sullo scoprimento del corpo di s. Marco evangelista fatto nella basilica patriarcale di Venezia il giorno 7 maggio 1811 pubblica tempestivo, a Venezia, nel 1811 una "dissertazione storico-critica". E con lui, con Cicogna, l'erudizione, che ha doppiato indenne la tempesta del 1797, prosegue vigorosa. Alunno di concetto, dal 1° marzo 1811, Cicogna presso la corte d'appello di Venezia - e quando andrà in pensione, nel 1852, vi ricopre la carica di segretario -, all'inizio d'una modesta carriera impiegatizia. È finito il regime aristocratico. I patrizi si struggono di nostalgia. A suo modo, eruditamente, l'impiegato Cicogna s'accinge a raccogliere il materiale per studiarlo. E questo diventa civico patrimonio "sempre a pro degli studiosi" (26).
Ultimo secolo della Serenissima il XVIII, ma non per questo riducibile a marcia consequenziale verso la fine. Non da addebitarsi questa al mancato autorinnovamento dello stato, nella supposizione - in tal caso - d'un Napoleone riguardoso e rispettoso della, appunto, Repubblica autoriformata, sensibile a scrupoli estranei alla logica spartitoria insita nella messa a frutto delle vittorie militari. Avesse nutrito preoccupazioni d'ordine ideologico, si fosse posto il problema di ciò che è politicamente corretto, Bonaparte avrebbe, allora, dovuto serbare spazio per respirare alla municipalità provvisoria, si sarebbe fatto scrupolo di consultarla prima d'incontrarsi coi plenipotenziari imperiali. E, invece, le toglie ogni scampolo d'avvenire. E, prima, ha fatto sparire, dichiarandole guerra, la Serenissima. Costretto all'autodimissionamento il vecchio regime stanato dal guscio protettivo della neutralità. Già efficace, questa, ancorché disarmata e ancorché inerte di fronte all'uso del territorio e del mare veneti da parte dei contendenti, durante la guerra di successione spagnola, ancora all'inizio del secolo. Analoga la situazione del primissimo '700 a quella dell'ultimo: allora i Cesarei e i Gallo-Ispani, ora i Francesi e gli Austro-Russi. Ma doppiata la prima, al contrario della seconda. E ciò per via della perduta neutralità. È la spallata della dichiarazione di guerra, della sneutralizzazione coatta a far crollare la Serenissima, non la senescenza, non la sclerosi, non l'artrosi. Per tal verso Venezia è vecchia già nel '600. Certo: nel '700 il processo d'invecchiamento prosegue ingravescente. Acciacchi, malanni, tosse cavernosa, bronchite cronica. E c'è chi prevede collassi, attacchi d'asma. E c'è da aver paura delle correnti d'aria, sin degli spifferi. E c'è chi sottolinea come la Repubblica si stia incurvando sotto il peso dei secoli, si regga a malapena, proceda claudicante aggrappata al bastone, intabarrata. Di sicuro il suo corpo non è agile, scattante. Epperò si può vivere anche così, avvolti da coperte, con lo scaldino nelle mani, confidando in decotti, in tisane, in infusi, con mille cautele, con mille riguardi. Basta che chi corre, corra altrove. E ben allungabile la vecchiaia se si ha riguardo e se gli altri hanno riguardo. Anche così si può durare, se ci si accontenta, se ci si adatta. E nel ripiegamento, nell'avvizzimento non manca il tentativo del recupero della posizione eretta, del sembiante spirante dignità e fierezza. È la ripresa dell'animus cinquecentesco auspicato da Foscarini nel presidio di quella costituzione che - nelle sue tre fasi costruttive: quella che giunge al 1300, quella successiva sino al 1500, quella dell'ulteriore perfezionamento sino al 1700 - s'è ben saputa evolvere come il più idoneo dei meccanismi, come la fabbrica più acconcia alla produzione continuata del buongoverno. "Un sistema completo" quello veneziano, a detta di Sandi, compiutamente strutturato ad esprimere la sapienza di stato marciana ricordata da Foscarini e da Foscarini stesso esemplata. Se - così informa un articolo del 1714 nello zeniano "Giornale de' Letterati d'Italia" (27) - in Inghilterra i "toris ", rispetto ai "vigs", si distinguono professandosi "realisti", sostenitori del "governo monarchico", colle convinzioni di Foscarini e di Sandi c'è di che far sortire un partito tory in salsa lagunare, coll'oltranzismo venezianistico al posto del realismo, col regime aristocratico al posto della monarchia. Magari non gran che rallegrati dal presente il coltissimo doge e l'indefesso avvocato fiscale e tuttavia saldi nelle loro certezze conservatrici e pure sereni per quel che di serenante viene da una considerazione che si distende lungo i secoli traendone fiducia e conforto nell'impegno profuso a motivare le ragioni del conservare. Campioni della Venezia riaffermata e rilanciata i due. Argomentato il loro attestarsi nella tradizione, autentico pensiero conservatore il loro, pensiero, se così si può dire, forte e, anche, idea forza, con una sua dignità, con una sua combattività. Altra cosa il mero istinto di conservazione che, pavido, si ritrae mugugnante di fronte all'apparir di libri che possano un minimo turbare il sonno della mente. E, ad avviso del patriziato più retrivo, tra il 1723 ed il 1741, il revisore alle stampe, nonché addetto alla vigilanza su quanto di pubblicato vien da fuori, Carlo Lodoli di libri ne lascia stampare troppi e ne lascia entrare troppi. Si sa: i libri comportano e portano idee. E, in senato, c'è chi delle idee in quanto tali ha paura. Sicché il troppo permissivo francescano - tale è Lodoli - all'inizio del 1742 viene sospeso dall'incarico e gli subentra l'abate Marziale Reghellini.
Fruttuoso, ad ogni modo, il quasi ventennale allentato controllo lodoliano in fatto di permessi di stampa e di via libera all'ingresso delle stampe. Un incarico che poteva essere soffocante, censurante, interdicente, intercettante diventa, ai fini del "commercio" intellettuale, slargante. Lasciar stampare libri, lasciar vendere libri. Niente di meglio per incrementare lo smercio librario e il lavoro dei torchi. Industria diffusa nel tessuto urbano l'editoria, con vivace piglio imprenditoriale, con consistente rilievo occupazionale ché tale da qualificare la città tutta - ormai secondaria politicamente - come centro culturale eminente in Italia e di spicco nella stessa Europa. Ed è indicativo che il maresciallo von Schulenburg (28) - quello che nel 1716 ha difeso efficacemente Corfù dall'assalto turco, quello che nel 1704 è riuscito a battere Carlo XII di Svezia in Polonia e che perciò Voltaire stesso, attendendo alla riedizione della sua Histoire di quel sovrano, interpella nel 1740 -, godendosi a Venezia il riposo del guerriero, metta assieme, a partire dal 1725, oltre alla sua collezione di dipinti, una ragguardevole biblioteca, il cui incremento s'arresta solo nel 1747, quando muore. E coincidente, grosso modo, il radunar quadri e libri di Schulenburg col primeggiare, in fatto di collezionismo, del console Smith (29), il finanziatore di splendide edizioni, anch'egli vantante una ragguardevole biblioteca. E frequentatore dell'accogliente aperta casa Smith Lodoli. Vivacizzate le riunioni in questa dalla presenza del frate, il quale, coll'età, s'è un po' ingentilito e dirozzato nel tratto. Non è più quello ispido e spigoloso che il marchese Maffei, intuendone "il talento e le cognizioni", aveva voluto tra i "commensali" del proprio palazzo veronese. Da un pezzo Lodoli sa stare - a forza di frequentare per conversare e di conversare per frequentare in società, senza, per questo, rinunciare a dire quel che pensa. E vale la pena sentirlo parlare perché il suo pensiero è originale, genuino, unico, singolare. E, anzi, è necessario sentirlo, ché non stampa alcunché, volendo sapere quel che pensa. Nato nel 1690 a Venezia ed è suo padre il dottor Bernardo Lodoli avvocato fiscale compilatore de Il cuore Veneto legale formato della compilazione delle leggi, decreti, Terminazioni, et altre cose notabili stabilite nel corso di cinque secoli per la buona amministrazione e governo dell'Arsenale [...] (Venezia 1703), la "gran casa di guerra" dove da secoli sono fonditori gli Alberghetti; ed è un'Alberghetti la moglie di Bernardo Lodoli, sicché sono zii materni di Carlo Lodoli il Sigismondo e il Giusto Emilio Alberghetti attivi a fine
'600 e nel primissimo '700 -, già docente presso i Minori osservanti a Verona e quindi docente di teologia sempre presso i Minoriti lagunari, è a Venezia che il suo ingegno s'impone perentoriamente, colla sua viva voce, sconcertando, sbalordendo, inquietando, ma anche intrigando, seducendo, affascinando, entusiasmando. E tra i patrizi adolescenti da lui calamitati il più ammagato dal "Socrate architetto" - è d'architettura che il frate ama soprattutto ragionare, è sull'architettura che investe il suo credito di didatta - è Andrea Memmo (30), quello che provveditore a Padova doterà la città della piazza-monumento del Prato della Valle, la più "sorprendente piazza d'Europa", che, prima ancora d'essere ultimata, a Goethe parrà "bellissima". Non dispersa l'aforistica scintillante scoppiettante balenante lezione socratica del frate ché, lui morto nel 1761, Andrea Memmo, venticinque anni dopo - quand'è ambasciatore a Roma; e qui ha poco da fare: ha tempo d'andar a donne, ha tempo di riandare al suo Socrate a mo' di rammemorante amoroso Platone, ringalluzzendo, così, l'età ormai avanzata coi soddisfacenti trastulli dell'eros e mantenendo, nel contempo, desta la mente riafferrando quanto in gioventù l'ha stimolata all'andar pensando criticamente, problematicamente -, ad essa dedica gli Elementi di architettura, appunto, lodoliana o sia l'arte di fabbricare con solidità scientifica e con eleganza non capricciosa (Roma 1786). Un primo volume questo uscito a Roma, cui seguirà, postumo, a cura della figlia Lucia - sposa nel 1787 d'Alvise Mocenigo (quello dell'azienda modello d'Alvisopoli, quello della tipografia diretta da Gamba) - un secondo (Zara 1833-1834). Fosse dipeso dalla Repubblica, del geniale Socrate in saio francescano si sarebbe persa ogni traccia. Requisiti sì, alla sua morte, appunti, disegni, carte, abbozzi, ma non per conservarli, come si costuma - tanto per dire - coi consulti dei consultori in iure, ma quasi per nasconderli, per togliere loro un qualche futuro, come per smemorizzarli. Collocati, per disposizione degli inquisitori di stato, in un qualche bugigattolo dei Piombi. E lì ignorati marciscono. Quando Memmo vorrà consultarli, avrà tra le mani una poltiglia indecifrabile, inservibile, come ricorda egli stesso in una lettera da Roma, del 15 maggio 1784, a un amico, l'abate Giulio Perini. Quanto meno incuria di stato il marciume cartaceo di quanto sequestrato alla scomparsa di Lodoli. E forse - si può azzardare - anche volontà di stato. Nel 1761, l'anno della morte del frate, Marco Foscarini è savio alla mercanzia, correttore, riformatore dello Studio, savio del consiglio sinché, nel 1762, il 31 maggio, viene eletto doge. Si fosse un minimo interessato, le carte lodoliane si sarebbero salvate, potevano diventare patrimonio della Repubblica, al pari dei consulti di Sarpi e Micanzio, suo giacimento spirituale. Così non è avvenuto. Vien da dire che la Repubblica di Foscarini le ha di proposito, destinandole al macero, escluse dalla "letteratura" che connota la sapienza di stato marciana. Per fortuna si dà surrogatorio il Lodoli ricordato di Memmo. Nessun pubblico mandato per questo suo ricordare. È una questione privata. Ormai disilluso e disincantato Andrea Memmo allorché riesuma il francescano. Ma così ritorna adolescente, nella fase immediatamente precedente al suo ingresso, carico di speranze innovatrici, nella vita politica. E la voglia di fare animante il suo apprendistato in questa la deve al frate. Fare per cambiare, non per conservare. Un costruire, nelle intenzioni, criticamente consapevole. Vien da pensare all'architettura. E, appunto, d'architettura, gli ha parlato il frate non architetto di professione nelle sue lezioni indirizzate a futuri politici, non ad aspiranti al mestiere d'architetto.
Singolare codesto martellare, da parte d'une francescano, il tasto del più rigoroso funzionalismo architettonico quasi a inchiodarlo nella mente dei rampolli d'un patriziato che certo non praticheranno l'architettura. Epperò è come teorico d'architettura che Lodoli campeggia nel ricordo di Memmo. Un'architettura concepita come sintesi di teoria e prassi, come austera ripulsa dell'ornato, del sovraccarico, del superfluo, sin prosciugata d'ogni umidiccio con sentore di riccioloso, sin allergica alla benché minima tentazione non funzionalmente necessitata. Non si dia "rappresentazione" che non sia "funzione". Ecco il comandamento di Lodoli infuocato banditore d'una disciplina assommante responsabilità etica, saperi, dottrine sin astratte e pratica empiria sostanziata di manualità artigianale, conoscenza tattile dei materiali, gusto per la sperimentazione e includente l'attenzione all'arredo, al dettaglio, al singolo oggetto. E anche nel particolare sin fobica la condanna del di più, dell'indulgenza al ricamo, all'infiocchettatura, all'increspatura, all'imbellettatura, all'aggiunta non necessaria, non indispensabile, non funzionale. La "forcola" a sostegno del remo assurge a paradigma di coincidenza sinergetica tra funzionalità ed eleganza. Radicalmente intransigente e/o intransigentemente radicale il funzionalismo lodoliano senza riverenze per l'antico - redarguito per la traduzione in pietra dell'ornamentazione lignea -, sin iconoclasta nel suo razionalismo che vien da dire fondamentalista, che aggredisce Palladio, il palladianesimo, la ripresa dell'antico, il neoclassicismo. Non è tanto il barocco la bestia nera di Lodoli. Sin scontato che quella barocca è un'architettura indecente. Troppo facile constatarlo. Ben più insidiosi - ora che il barocco è un cane morto col quale tutti fanno sfoggio di sprezzo - i pasticci del compromesso, gli annacquamenti del rigore, le concessioni, le strizzate d'occhio. Sono Algarotti, l'allievo tralignante, Milizia, Temanza, Visentini i bersagli polemici di Lodoli. Sono i miti - anche quello della capanna rustica e, naturalmente, quello di Palladio - a risultare inquinanti. Polemicissimo il frate e insolente - tale lo dice Temanza quand'è morto; e così cerca di scrollarsi di dosso i sarcasmi di cui Lodoli l'ha fatto oggetto sinché vivo - nel suo menar fendenti a destra e a manca senza riguardo per nessuno, nella sua mordacità corrosiva, nel suo scagliarsi contro i verseggiamenti dell'Ellade, il vitruvieggiare, il vignoleggiare, il trescare coi moduli palladiana. Inclemente e fustigante il "vero Lodoli" rievocato da Memmo, demistificante, smitizzante. Come incalzato da un furore distruttivo ora spara fragorose cannonate ora dissemina le mine della consequenzialità più spregiudicata e paradossale. Il suo ingegno "filosofico", se c'è da distruggere, si scatena. È come un'artiglieria sempre in attività e a tutto campo, a 360°. Eloquente la pars destruens del pensiero lodoliano, nel senso di esplicita, di chiaramente espressa, di svolta, di argomentata. E la pars construens? Questa è sin stenta, sin immiserita in irrigidimento regolistico, in precettismo arido. Lodoli - par di capire - privilegia la coerenza, il serrato ragionamento, la logica deduttiva. Vagheggia un'architettura coerente, logica, improntata alla bellezza insita nella verità d'un "raziocinio" che si fa figura, d'una funzione che si fa forma, d'una necessità che si fa eleganza. Il bello dell'utile, insomma, del funzionale. È questo quel che il frate esige. Donde l'accostamento della "sedia da lui", da Lodoli, "inventata" - "concavo lo schienale", "concava nella parte" dove ci si siede - ai "gran seggioloni foderati", borchiati, intagliati, dritti dove ci si siede, dritti dove s'appoggia la schiena, pesantissimi, con gran bracciali, duri, poco accoglienti. Scomodissimi questi. Chi ci si siede è a disagio. Altra cosa la sua seggiola, comoda: mette a proprio agio chi l'adopera. Funziona meglio, è più funzionale. Quindi è più bella del pomposo seggiolone. Procedente con siffatti confronti il "filosofar" lodoliano, così esemplificante l'applicazione di "scientifici principi". E ciò per addestrare gli allievi - e tra questi Memmo - alla consapevolezza ragionata, al ragionamento consapevole. Suscettibile di ragionamento consapevolizzante, di consapevolezza ragionata ogni argomento, anche la sedia, anche il seggiolone. Seduti gli allievi. Ebbene: sappiano almeno dire se sono seduti comodi, se la sedia è di loro gradimento e perché. E va da sé che chi ragiona sulla sedia che sta adoperando, così s'abitua a ragionare anche di altro, su altro. Forse è a questo che mira la didassi lodoliana. E, allora, la sedia è un pretesto. E lo è la stessa architettura. Palestra per la ginnastica mentale, per l'esercizio critico della ragione. E, allora, Lodoli adopera il proprio disquisire d'architettura per formare giovani abituati una volta per tutte, definitivamente, a pensare criticamente, a ragionare spregiudicatamente, a privilegiare quel che funziona, a rendersi conto di quel che non funziona. Che la sedia non sia metafora, che il seggiolone non sia allegoria? E come sta funzionando la forma stato marciana? Che l'edificio, di cui Sandi ripercorre la vicenda costruttiva, non stia ormai rivelandosi troppo complicato, troppo macchinoso? E se funziona male, se è impari alla bisogna, perché non dirlo? Che non sia la costituzione veneziana il seggiolone?
Forma con funzione l'architettura. Forma con funzione - tant'è che se ne parla come d'un edificio, tant'è che è palazzo Ducale, il contenitore del governo, a visualizzare lo stato veneto, tant'è che l'idea di questo rinvia alla sua figurazione tramite quello - la struttura costituzionale. Va da sé che il trapasso dalla forma architettura alla forma stato dev'essere il sottinteso latente e lì lì per fuoriuscire allo scoperto in quel singolare sproloquiare d'un francescano digiuno d'ogni pratica di cantiere o di progetti, materiali, pratiche costruttive, ad un uditorio che mai avrà a che fare con calce e mattoni, con muratori e falegnami. Preso alla lettera Lodoli pare un progettista capomastro titolare d'un corso intensivo per aspiranti progettisti capimastri e/o per figli d'impresari edili destinati a succedere ai padri. Un corso però che, anziché compendiare e spiegare come s'è fatto e come si sta facendo, parte alla carica contro l'edilizia passata e presente nella persuasione ora si debba fare altrimenti e che pure nel passato si sarebbe dovuto fare altrimenti. Un attacco continuo le lezioni lodoliane, un ininterrotto lancio di strali, frecciate in tutte le direzioni, quasi una furibonda decostruzione per stanare errori, difformità, disfunzioni nel costruito d'ieri e di oggi. Un bersaglio l'antico e un bersaglio il moderno. Ciò con il massimo della libertà di parola e anche con un torrente in piena di parole in libertà. Affascinati dall'impeto distruttivo del discorso incalzante e scalzante di Lodoli gli adolescenti patrizi che l'ascoltano. Apprendono da lui a guardare con occhio critico l'architettura, a intenderla liberamente. Forse, allora, le ville e i palazzi di cui i padri vanno tanto fieri sembrano loro meno belli. Comunque sono manufatti criticabili, smontabili. Ma criticabile, smontabile anche altro, anche la politica, anche il governo, anche lo stato. Ma il parlar liberamente di Lodoli su questo sorvola. È libero di parlar liberamente d'architettura, non di morale, non di religione, non di politica. Ma anche così - nella coazione a parlar liberamente solo d'architettura - si può essere educativi, formativi. La lezione educa alla libertà mentale. Chi apprende a valutare in termini di funzionalità, non s'arresta riverente di fronte a nessun santuario, anche se questo è lo stato marciano. Memore del magistero lodoliano Andrea Memmo, da questo formato, plasmato, segnato per sempre. Valutato coll'ottica del frate, coi suoi criteri - quelli su cui si fonda la pars destruens del suo pensiero - lo stato marciano non esce dall'esame con la promozione. Funziona male; quindi va bocciato. Collocato dentro l'ingranaggio della macchina governativa Memmo ha modo di constatarne il logorio, l'inadeguatezza. E a poco servono rammendi, ricuciture, spolverature, oliature, riverniciature, parziali ritocchi. La sua malattia è di fondo, diffusa in tutto il corpo. Crudele impietosa la diagnosi con occhio lodoliano. E la pars construens? Se la barocca pesantezza dello scomodo seggiolone è sostituibile colla funzionale elegante semplicità della seggiola, un'altra forma stato non è a portata di mano. E se di sedia si può parlare calcolando schiena e fondoschiena, se si tratta di scranni e di seggi nei luoghi deputati al comando, al deliberare, al decidere, il problema non è tanto quello della loro - degli scranni, dei seggi - comodità, quanto di chi ha diritto a sedersi lì, in quelli e, correlatamente, della capacità dei, appunto, sedenti a comandare, a disporre, a imporre. Poco cale i governanti siano assisi in seggioloni o in seggiole. Importa piuttosto che, comodi o scomodi che siano, i governanti riuniti sappiano governare avendo a disposizione una strumentazione idonea. Certo: la "forcola", l'ha insegnato Lodoli, asseconda il ruolo del remo, è perfettamente funzionale: ed è, anche questo ha insegnato il frate, bellissima. Ma nelle sue lezioni non ha parlato del remare. Ha dato per scontato che il rematore sappia, appunto, remare. Ma, a prescindere anche dalla "forcola", non è troppo vecchio il gondoliere, troppo stanco, troppo acciaccato? Fuor di metafora, è ancor in grado di governare la classe dirigente marciava? Memmo stesso pare dubitarne. Comunque di quella classe dirigente è personaggio eminente. E, per quanto uso a guardare lodolianamente, non osa spingere lo sguardo oltre, molto oltre, sino ad ipotizzare il passaggio ad altre mani del remo, ad altra classe del governo. E, morendo il 27 gennaio 1793, gli è risparmiato lo spettacolo del gondoliere che - per non essere buttato a mare - cede il remo ad altri.
Dei migliori, comunque, il procuratore di S. Marco, nonché, nel 1789, tra i candidati alla successione del doge Paolo Renier, Andrea Memmo d'una classe di governo ormai alle ultime battute. E capace Memmo sino all'ultimo della sua vita pubblica di comprensione lucidamente operativa dei problemi come attestano le scritture da lui redatte sulla paurosa situazione di miseria e degrado della Dalmazia esitanti in indicazioni di pronto intervento governativo. E fatte proprie, nel gennaio del 1791, dal governo le sue proposte, mentre egli è ormai preda della malattia, da questa pressoché paralizzato. E tangibili nel frattempo i frutti degli interventi da lui suggeriti in Dalmazia, stando alla relazione, del 15 novembre 1792, del provveditore Angelo Diedo. Positiva anche in termini di realizzazione, in tal caso, la sua comprensione d'una situazione di miseria e degrado, come s'è detto, ché non mera constatazione, ma con istruzioni per l'avvio del risanamento. In attivo, se non altro per questo, il consuntivo della sua esistenza. E voce d'assoluto rilievo nel conteggio di ciò che, nel bilancio finale di questa sua vita vissuta nella consapevolezza della crisi e dello smottamento dello stato marciano, suona in positivo, va posto nella colonna dell'attivo, l'energica sottrazione all'oblio dell'altrimenti evanescente fantasma di Lodoli, il suo ridargli volto e voce, il suo riproporlo. Sempre s'è aggirato nel paesaggio mentale di Memmo l'indimenticato maestro "zoccolante", che, nell'intenerirsi dei ricordi, gli si è fatto "amico" e confidente. Ed è al maestro "amico" che Memmo, "per solo sforzo di memoria" personale, senz'ausilio documentario, rende "onore" con gli Elementi, il cui primo volume, avviato alla stampa nel febbraio del 1786, esce di lì a due mesi. Immediato il consenso dell'abate - e tale dal 1743, quando s'è alleggerito del più pesante abito camaldolese - Gianmaria Ortes (31) il quale, il 29 aprile 1786, s'affretta a scrivere a Memmo per manifestargli, appunto, tutta la propria approvazione. "Trovo [così Ortes] lei aver fatto molto bene", tanto più che ha avuto modo di conoscerlo "molto bene" sinché "in vita", di serbare "memoria" di Lodoli "anche dopo morte ". Questi - concede Ortes - è "un di quei geni superiori" meritevoli di ricordo. Memorizzabile, dunque, Lodoli, nella misura in cui i pochi, e Memmo è, appunto, uno di questi, che l'hanno effettivamente praticato sappiano garantire della superiorità del suo ingegno, sappiano attestare che non è stato solo stravagante, bizzarro. Riduttivo, tutto sommato, il plauso dell'abate. Questo va alla pietas rammentante dell'amico - c'è amicizia, in effetti, tra Ortes e Memmo: la differenza d'età (Ortes è nato nel 1713, Memmo nel 1729) è compensata dal prestigio sociale del secondo -, che, indubbiamente, fa "molto bene" a fissare l'immagine di chi ha conosciuto "molto bene" non senza esserne suggestionato al punto da giurare sulla genialità del defunto. Più che giusto che, di ciò convinto, Memmo abbia "creduto" doveroso "conservarne" degno ricordo esternandolo con gli Elementi e, così, trasmettendolo, così pubblicizzandolo. "Io non sarò Platone [aveva scritto, ancora il 23 luglio 1785, Memmo ad un altro amico, l'abate Perini], ma son certo che il Socrate architetto", Lodoli, colla prossima stampa degli Elementi, "sarà dissotterrato". Una dissepoltura, allora, la sua per la ricollocazione delle spoglie nella monumentalizzazione d'una genialità che, col monumento, gli Elementi, eretto alla sua memoria, viene perentoriamente ricordata, rimessa in circolazione, restituita alla vita intellettuale, al dibattito culturale, al commercio attuale delle idee. Ma sul fatto che Lodoli sia stato realmente un Socrate redivivo in laguna Ortes non si sbilancia. Questa, par di capire, è una convinzione di Memmo, non sua. Sull'autentica genialità di Lodoli Ortes par nutrire implicite riserve. Elogia, in fin dei conti, la generosità con cui Memmo si sta esponendo in tal senso, ma non è che sulla sostanza l'affianchi. Nobile operazione la dissepoltura per una degna sepoltura atta a tener desta la memoria. È lodevole che a tanto giunga l'affetto grato dell'allievo pel proprio maestro. Ma sulla effettiva statura di questi Ortes non si pronuncia. Che sia grande lo sta dicendo Memmo, non lui. Eppure anch'egli ha conosciuto Lodoli, ha con lui parlato e discusso. Entrambi - Ortes e Lodoli - hanno, se non altro, avuto modo d'incontrarsi in casa del console Smith. Ma non è stato un incontro decisivo. Non è che i due si siano sentiti particolarmente attratti, particolarmente interessati l'uno all'altro. Forse per riguardo e d'amico rispettoso del suo entusiasmo e d'abate un po' in soggezione col patrizio illustre Ortes non obietta a Memmo che un tantino sta esagerando. Ma implicitamente si sottrae ad un'incondizionata solidarietà al giganteggiare di Lodoli preteso dall'allora ambasciatore veneto presso la S. Sede. Frutto della "memoria" di questi il Lodoli ricordato. Ma un po' di "memoria" aggiuntiva poteva tirarla fuori pure Ortes. Se non lo fa, se ne può evincere che più che tanto non concorda, che intimamente rilutta, che, quanto meno, non sta a lui annaffiare un mito non condiviso.
Intelligenza non comune - questa, si può azzardare, l'opinione di Ortes - quella di Lodoli, dall'estrosa stravaganza, epperò non realizzatasi in qualche concreta, appunto, realizzazione; anzi, al limite, dispersiva, sterile, improduttiva. Avesse avuto la forza d'un'autentica capacità elaborativa, Lodoli sarebbe ben stato in grado d'esprimerla in saggi compiuti. Non solo stravaganza, sprezzatura il suo non pubblicare, ma anche incapacità, impotenza. Un espediente il fingersi Socrate, una mascheratura a copertura d'un'oralità incontrollata, che, forse, una volta fissatasi in un qualche scritto, in un qualche trattato, si sarebbe immiserita, ingrigita. Forse è proprio questo il giudizio di Ortes su Lodoli. Al contrario Ortes quel che pensa lo scrive. E parecchio di quel che pensa e scrive lo stampa. Dei propri scritti è convinto. Non paventa il vaglio scrutinante della lettura. È per iscritto, è a stampa che il pensiero appalesa la propria solidità. Un pensiero affidato alla sola oralità non è propriamente tale. C'è da sospettare sia, invece, loquace effervescenza che, se stampata, svapora, si sgonfia. Largo, altresì, il ventaglio dei temi affrontati da Ortes, dalla Vita (Venezia 1744) del suo maestro pisano, il camaldolese Guido Grandi, alle Riflessioni sopra i drammi per musica [...] (Venezia 1757) e al Calcolo sopra il valore delle opinioni e sopra i piaceri e i dolori [...] (Venezia 1757), dagli Errori popolari intorno all'economia nazionale [...] (s.l. 1771) a Della economia nazionale [...] (s.l. 1774), da Della religione e del governo dei popoli [...] (s.l. 1780) a Dei fedecommessi [...] (s.l. 1784), da Delle scienze utili e dilettevoli [...] (s.l. 1785) alle Riflessioni sulla popolazione [...] (s.l. 1790).
Non solo non è ossessivamente monotematico - non avrai altro argomento all'infuori dell'architettura - come Lodoli, ma è pure, di contro al suo silenzio tipografico, editorialmente presente, attivo. E ciò senza rinunciare alle conversazioni, alle frequentazioni di società, all'ampliamento del giro delle conoscenze, alla cura di rapporti epistolari, della corrispondenza. Anche se ce l'ha cogli idola del suo tempo, non ripara in qualche eremo quivi autosegregandosi. Nel suo tempo è fisicamente e metaforicamente ben dentro. Non solinga anomalia, infatti, il suo pensiero, ma controtendenza che ha presente la tendenza, ma controcanto che vuol suonare puntualmente stridente nel concertato dell'ottimismo progressivo. Un pensiero contro quello ortesiano che disattiva la linea dell'ascendente perfettibilità, che scalza la fiducia nei ridisegni riformatori, che disinnesca la carica della speranza concependo l'umana società come blindata da una ferrea staticità, come costretta a non oltrepassare l'alta, definitiva muraglia dove, per dir così, sta scritto in caratteri cubitali nihil sub sole noti. Destinate ad infrangersi come onde sulla roccia della scogliera le aspirazioni alla "felicità", le illusioni essa sia conseguibile.
Non sussiste, al limite, la dinamica produttiva con correlata crescita della ricchezza. Apparente movimento quello economico, ché complessivamente la ricchezza non aumenta. Sordo Ortes agli entusiasmi per far rendere di più la terra, per moltiplicare i bovini, per vivere in ambienti più confortevoli, per vestire meglio, per concedersi i divertimenti, il superfluo, il lusso. La vita è per lui soddisfacimento di bisogni primari, quelli essenziali alla sopravvivenza. Lavorare di più per avere di più è sin follia. Affidare la "bramata felicità" all'incremento della produzione è ingannevole. Da constatare, semmai, il divario, la sperequazione: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. E per poveri s'intendano quelli che stentano ad attestarsi sui livelli minimi della sopravvivenza. E i poveri sono tali perché senza pane. E sono senza pane perché senza lavoro, perché disoccupati. Coerente coll'immobilismo che inchioda la sua visione dell'economia, Ortes al dilagare della disoccupazione e, quindi, della fame non propone l'illusoria, per lui, prospettiva dello sviluppo, ossia più opifici, più manifatture, più terre coltivate, terre meglio coltivate, più traffici, ossia l'intensificarsi e l'ulteriorizzarsi del ritmo produttivo che fornisca ad un'allargata domanda un'allargata offerta e che inventi nuovi lavori per nuove esigenze e viceversa. Statica rimanendo l'economia nel suo complesso e immodificati i tempi complessivi di lavoro unica possibilità, a suo avviso, a portata di mano quella della ridistribuzione di questi ultimi. Si tratterebbe insomma di lavorare meno per lavorare tutti. Per far scemare la disoccupazione sono da "intermettere le occupazioni". Visto che queste, nella misura in cui sono "interamente assunte da alcuni", mancano "ad altri", con "esclusione" di costoro dal lavoro, andrebbe applicata la norma a dir della quale ogni lavoratore lavori, appunto, "per soli tre giorni" alla settimana. E, così, lavorando tutti meno, lavorano, in compenso, tutti. È chiaro che una proposta del genere è sin antitetica al fervore produttivistico identificante, tanto per dire, "la principale utilità" della "diminuzione" della festività coll'"accrescimento dei lavori" e di conseguenza "dei frutti" prodotti, appunto, dal "continuo lavoro". Singolarmente coriaceo l'Ortes pensatore economico alle sirene della "prospérité des états", della "liberté des personnes, des choses et des actions"; irrecepibili per le sue orecchie i peana all'umana attività, alla crescita, al benessere, al progresso. Epperò suscettibile anche di lettura rivoluzionaria, in termini d'emancipazione dal lavoro, il suo mondo statico. Nella misura in cui la sua visione stazionaria non è movimentata dai lumi, ci sarà chi - Marx - l'userà per andar oltre i lumi. Un andar oltre, beninteso, che riguarderà Marx, non certo l'abate.
Quel che delle lumières urta quest'ultimo è l'ottimismo di fondo che le pervade, è il loro promettere felicità. Ed egli, invece, non cerca d'illudersi, ma di spingere lo sguardo sino allo zoccolo duro d'un vero senza gli additivi edulcoranti e mistificanti dell'immaginazione. Il "diletto" tutto mentale che persegue è quello del perseguimento, con metodo geometrico, da "geometra", della "verità", anche se questa è incompatibile colla "felicità", sia questa collocata nello stato di natura mitizzato o sia proiettata in avanti quale premio al del pari mitizzato umano progredire. Verità immediatamente constatatile quella della materialità corporea. "Fusto d'ossa legate insieme per vie de' tendini, di muscoli e d'altre membrane" l'uomo. E l'anima? Questa, se si bada a quanto ne dice il sacerdote veneziano Bartolomeo Scardua - l'autore di Riflessioni metafisiche sulla religion naturale e sopra l'esistenza di Dio in 2 tomi (s.l. 1787) e di Istruzioni Aristocratiche per tutti quelli [...] destinati al governo politico, economico, civile, criminale e militare delle repubbliche e come giudici in tutte le magistrature e reggimenti [...] legazioni [...], anche queste in 2 tomi (Bassano 1788), e, nel secondo, l'appendice colla confutazione dei Discours [...] (Neuchàtel 1782) del conte d'Albon, per quel che in questi concerne Venezia -, è sospinta da un vertiginoso moto ascensionale sino all'unione con Dio. Non che sia "Dio ", come lui "immensa". Ma pur sempre "simile a Dio e vogliosa [...] di qualche immensità". Ortes non ne parla. Guarda al corpo. E lì non la vede. Integrale il materialismo di Ortes laddove il reale coincide coll'anatomia e la fisiologia, è fisicità, è corpo. Un'antropologia grevemente materialistica senza gratificante spirar d'aure spirituali. Non alonabile spiritualmente la datità d'una struttura corporea inchiodata nella natura, la quale è "geometra" e come tale leggibile col metro della "geometria" e quindi soltanto da uno studioso che, intendente di "geometria", è "geometra" egli stesso. E contenitore la natura della storia; e oggetto questa d'una storiografia che, adoperando le stesse procedure delle scienze naturali - non vichianamente distinguibili e divaricabili le due conoscenze, quella scientifica e quella storica -, non scorge in essa, nella storia, alcun fremito progressivo, alcun avanzamento, alcun salto di qualità, alcuna sostanziale novità. Niente di nuovo sotto il sole, insomma, in un andamento ripetitivo, come d'un meccanismo che autoattivandosi gira in tondo, con moto uniforme, senza necessità di piatta-forma metafisica donde la storia parta per qualcosa, verso qualcosa. Nessuna meta metafisica, visto che, ripetendosi, è sempre la stessa. Per una direzione della storia con significato occorre l'atto di fede nella religione rivelata. Ma sinché si adotta la lettura geometrica la direzione suona appiccicaticcio estrinseco. Uomo di chiesa, ecclesiastico il prima camaldolese e poi abate Ortes. Ma basta l'abito ad attestare l'ortodossia del suo pensiero? È un "buon cristiano" oltre che "galantuomo", oltre che "filosofo", oltre che "assai indifferente" come lo qualifica Andrea Memmo nel 1758? "Filosofo" sì, "indifferente" - nel senso, par di capire, di imperturbabile saviezza, di non affanno e anche coll'implicanza di un ostentato agnosticismo, di non schieramento - sì. Ma quanto al "buon cristiano" Memmo sta ironizzando. È detto ammiccando, da uomo di mondo, che sa stare al mondo. E tra quanti sanno stare al mondo è di moda ostentare indifferenza, incredulità. Non è un caso che dai pulpiti i predicatori tuonino contro l'incredulità, la loro bestia nera; un tuonare un po' patetico visto che alle prediche gli increduli non ci vanno. "Fisioteista", se si vuol essere seri, invece, Ortes, come vien definito nel 1757, in un fascicolo delle "Novelle della Repubblica Letteraria". E come dire che, nel suo pensiero, è la natura ad essere deificata; che il protagonista non è Dio creatore. Ma crede Ortes nel Dio della Scrittura? E, allorché, nel 1763, è egli stesso a dirsi prete "a solo titolo patrimoniale", che intende? Che il suo status d'abate l'esenta da cura d'anime, da obblighi, da doveri verso il prossimo? Che sta godendo d'una sinecura grazie alla quale campa, libero, nel contempo, di studiare? Che non nutre ambizioni di carriera ecclesiastica? Oppure vuol dir di più, alludendo al suo pensar diversamente dalla veste che indossa?
Un abate che non crede, un ecclesiastico senza fede vien da sospettare di Ortes. Non ci sarebbe da menar scandalo. Sin ingrediente della conversazione del tempo col suo spiritoso motteggiare l'abate cinico e mondano, l'abate galante, l'abate cicisbeo. Ma non è questo il caso di Ortes. Non è l'abatino spruzzato di lumi che civettuolo sfarfalleggia nei salotti. Anzi, i lumi lo urtano e le riforme lo feriscono. E quando la stessa classe dirigente veneziana calca pesantemente la mano col suo interventismo giurisdizionalistico in un'offensiva nella quale le "massime" di fra Paolo si sommano coll'anticlericalismo dei philosophes, reagisce in difesa della religione, il fondamento della società, e si fa apologeta sin del fedecommesso, il cui smantellamento giudica un esproprio di stato a danno della proprietà ecclesiastica. Non solo: è un atto pubblico con interessi privati ché ne sortisce, vieppiù squilibrante, vieppiù sperequante, l'ampliamento della grande proprietà. È questo il progresso: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Non aumentando la quantità, è in atto una ridistribuzione a vantaggio dei primi, a tutto danno dei secondi. Ed espressione violenta dell'ingordigia dei primi il metter mano nella proprietà ecclesiastica d'un governo, quello veneto, che sta assumendo i tratti d'una prepotente cricca oligarchica. Antioligarchico, a questo punto, il reazionario Ortes. E, allora, non solo reazionario. Lo è se esaminato a lume di lumi. Ma non è detto sia questo un criterio esclusivo d'esame. Certo: coll'istituzione della deputazione ad pias causas si dà - e finalmente! - un'impennata incisivamente riformante, tale da suscitare - e ancora una volta vien da dire finalmente l'ammirazione di Kaunitz, dello stesso Giuseppe II. Dall'alto finalmente il governo mette ordine. Era ora! Ma è sempre un ordine che piomba terremotante dall'alto, subito in basso. Certo: è per il bene dei sudditi. Ma chi stabilisce qual è il loro bene, cosa li fa star meglio? E che la stessa pubblica felicità non sia un camuffamento dell'indecente tornaconto dei governanti empi e arraffoni? Quasi nostalgico d'un'antica aurorale Venezia democratica l'Ortes sdegnato con quella, a suo avviso dispoticamente oligarchica, che sta sopprimendo conventi e incamerando beni ecclesiastici. E nella nostalgia per le parvenze democratiche delle origini non è solo. Anche l'abate Tentori - lo si è visto alla fine dell'antecedente paragrafo - la evoca. Quanto a Filiasi, che un minimo il problema se l'è posto, a sua scienza, "fattasi aristocratica la Repubblica si perdette quasi ogni traccia dell'antica democrazia, e più ancora delle particolari democrazie che in ogni comunità esistevano cioè in ogni isola". Schegge di democrazia, insomma, le isolette dell'" estuario ", ma intermittente, non piena. Sì, può - precisa Filiasi - parlare di "democrazia" precedentemente all'"aristocrazia", purché "l'espressione" s'adoperi coll'avvertenza che non va intesa che "con somma modificazione" rispetto all'accezione moderna, ché, a suo giudizio, "democrazia pura e vera pare che non ci sia stata tra i veneziani". Ma se ci sia stata o no democrazia a Ortes non preme più che tanto. Quel che lo fa protestare è l'arroganza arbitraria d'un'oligarchia di governo, il suo mettere a soqquadro equilibri collaudati dai secoli. Al limite gli ripugna la politica, specie se è politica delle riforme, se è politica che vuol riformare.
Scritto com'è con caratteri geometrico-matematici, il gran libro della natura è leggibile dal geometra studioso del mondo naturale senza che la lettura lo modifichi. Ma geometra pure l'economista Ortes che, numerando, pesando, misurando, assegnando "ragioni", individua il singolo spazio economico della singola nazione - questa economicamente si risolve nell'autosussistenza, nell'autoalimentazione - espresso da una somma di ricchezza costante e proporzionale al numero degli abitanti. Un calcolare questo del "filosofo" economista, del teorico d'un'economia politica immobilizzata bloccata, che suppone l'invarianza, che nella circolarità produzione-consumo non prevede eccedenze, crescite, spinte ulteriorizzanti. "Ufficio" dell'intendimento è fissare la fissità dell'economia, non escogitare "sistemi inutili", non confidare in mirabolanti manomissioni, in sostanziali miglioramenti. L'"intelletto" è rimozione della fantasia, è disingannante, è disincantante, è snebbiante, è, insomma, apprensione degli "oggetti quai sono in se stessi". Esercizio severo quello dell'intelligenza: capire senza pretendere di migliorare, di far avanzare. Scienza dura, al pari delle scienze fisico-naturali, la teoria economica, l'economia politica, non affabulazione della crescita, dell'arricchimento. La macroeconomia, quella che bada all'assieme, alla risultanza complessiva, non deve lasciarsi fuorviare dalle vicissitudini microeconomiche, queste sì sussultorie, a forte tasso di variabilità. È scienza di ciò che permane, è analisi d'un meccanismo ripetitivo, è constatazione consapevolizzante. E, allora, non mente, non s'illude e non illude, non suscita fallaci speranze, non è connivente con chi sbandiera programmi di riforme. Una scienza l'economia politica, ma non scienza, invece, la politica specie laddove si pretende innovante politica economica. Ma la comprensione che rifugge dalla cecità dell'"ignoranza", che procede senza prestar fede al favoleggiar delle illusioni, al vaneggiar delle presunzioni, finisce col coincidere colla cognizione del dolore, dell'"infelicità" della condizione umana, non certo suscettibile col cianciar di progresso, di "pubblica felicità". Azzerata la realizzabilità di questa - fallace promessa della politica dimentica della dura lezione dell'economia, scienza inamena, non consolatoria - dal fermo sguardo d'un "intender" che non si presta a rosee tinteggiature, a ottimistici vagheggiamenti, a falsanti inzuccheramenti. Non valletto servizievole coi desideri, colle aspirazioni 1'"intender" ortesiano. E, anche se la risultanza è amara, non privo di "diletto" ché così l'invade la sensazione sin gioiosa che sta afferrando il vero. E c'è nell'intendimento di questo l'"utile" del far, una volta per tutte, ruvidamente, duramente chiarezza. Dannoso miraggio quello del progresso: giova rimuoverlo. Orgogliosamente contrapposto alle attese suscitate dalla baldanza delle lumières il pensiero di Ortes e fiero del suo andar controcorrente, del suo non sintonizzarsi, del suo essere isolato. D'esser solo non si spaventa, anzi lo conforta. Non dubita d'essere colui che pensa tra tanto chiacchierare a vanvera. Il non allineamento colle idee alla moda è indice di serietà, di profondità. Ma, allorché la ventata riformatrice investe anche in terra veneta la proprietà ecclesiastica, allorché la si ridimensiona, disincagliando, in certo qual modo, il mercato immobiliare dal suo incombere, allorché slargante, anche a chi non nutre particolare propensione pei lumi, appare la prospettiva di disinceppare i movimenti dell'economia dai lacci dei fedecommessi, delle manimorte, ecco che il "geometra" che more geometrico è convinto di capire più di tutti, meglio di tutti e contro tutti, smette di pensare e si mette a ringhiare a mo' di cane da guardia del fedecommesso, della proprietà ecclesiastica, della manomorta. Incompatibile la sua geometria con quella degli estimi, dei catasti, dei censimenti immobiliari. Né si chiede se non ci sia una qualche ragione nella richiesta di dimostrare, di documentare la legittimità dei possessi. Se è lo stato a farla, la sente indebita, esorbitante. Che lo stato attivi le sue prerogative giurisdizionali è per lui una iattura, sin un crimine. Dopo aver dimostrata l'immodificabilità della condizione umana, la sua sostanziale "infelicità", s'è anche convinto che questa si fa tollerabile nel saldo organizzarsi della società col binomio e sotto il binomio religione-governo, cattolicesimo-"principato". Sopportabile l'esistenza se così socialmente disciplinata, avendo la religione come fondamento. E la chiesa ne sia "ministra e custode", laddove il "principato" rappresenta "la forza comune difensiva" e funge da "esecutore e ministro". Sinergeticamente coincidenti religione e politica, convergenti nell'immunità dei rispettivi ambiti, nella mutua concordia che le avvince. Un aureo equilibrio che, per Ortes, si sarebbe realizzato nel medioevo, quando la "religione cristiana" era una. Esiziale la divisione successiva delle "credenze" ché il perduto "credito" dell'unità religiosa ha compromesso l'equilibrio, ha rafforzato il "principato". E filiazione della divisione religiosa l'incredulità, per cui una religione vale l'altra, per cui tanto fa tollerarle tutte, per cui lo stato rafforza se stesso, mentre la fede s'indebolisce, mentre scadono i costumi. Ma quel che Ortes ricorda, di contro agli "spiriti bizzarri e increduli de' tempi presenti", è che la società resta compatta se ispirata da un principio superiore, se saldata dalla religione, su questa fondata. Certo: la religione "vera" è soltanto la cattolica. Epperò la perduta uniformità ha nuociuto anche in ambito cattolico, ché nemmeno in questo è rimasta indenne la contemperanza religione e politica. Perso l'equilibrio, s'è fatto troppo forte il "principato", mentre la "mancanza di religione" - è questo l'esito dell'incredulità - sta dilagando disgregante. E una società senza il fondamento della religione non tiene. E nella non tenuta l'esasperarsi dell'ineguaglianza tra il lusso più sfacciato e la povertà più cenciosa e cimiciosa, tra fasto di "palazzi" e miseria di "catapecchie" e "abituri". Riscontrabile il progresso se s'adotta come metro di misura quello dell'imporsi delle "compagnie di commercio", del farsi sempre più "potenti" delle "armate". Certo: così "alcuni pochi arricchiscono oltremodo", a dismisura. Ma non divengono ricchi i "marinai", i "soldati". Aumentano i "miserabili" nel "popolo". E c'è chi langue "per le strade", c'è chi finisce in qualche squallido ospedale. E cresce la criminalità. E destinati i "rei" a "perir nelle carceri o in case di correzione". Decisamente Ortes non si sente d'unirsi al coro inneggiante alla crescita del commercio, all'aumento della potenza di fuoco degli eserciti. Potesse innestare la retromarcia l'abate Ortes riporterebbe l'umanità al medioevo, all'armonia - mitizzabile e da lui mitizzata - tra chiesa e "principato" antecedente alla scissione religiosa con correlato infrangersi della sintonia chiesa-"principato" anche nell'ambito rimasto cattolico. E colpiti tanto gli stati cattolici quanto quelli protestanti dal virus patogeno dell'incredulità ignoto al medioevo. È una malattia moderna. Ed è il moderno ad essere ammalato. Smottando le fondamenta crolla la simmetria che Ortes, "geometra" anche quando, per così dire, è sociologo, ravvisa nell'ormai irriproducibile età di mezzo. Un modus vivendi fondato sulla roccia quello medievale. Sdrucciolevoli e forieri di capitomboli i moderni tentativi di fondare altrimenti. E nel dirsi favorevole a fedecommessi e a manimorte ecclesiastici Ortes sembra un conservatore di frammenti rocciosi d'una roccia spezzata, andata in frantumi, nel devastante proseguire d'un processo d'accumulazione-concentrazione della ricchezza in poche mani. Collegante, associante la religione, tessuto connettivo, mastice coesivo. Senza quella un'umanità scollegata, dissociata, divaricata tra i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Hanno distrutto il medioevo e l'han chiamato avanzamento, progresso. Per lo meno, allora, la forbice tra ricchezza e povertà era meno allargata. E il suono delle campane valeva a far volgere a tutti lo sguardo al cielo, associati se non altro in questo ricchi e poveri, accomunati dalla fede la quale, poi, rendeva i ricchi caritatevoli e i poveri rasserenati dalla fiducia nel soccorso. Un mondo che teneva quello medievale, con un forte senso d'appartenenza, di radicamento, con un che di comunitario ché la religione era ben accomunante, ché la preghiera aveva ben una funzione saldante, era anche momento collettivo, unificante.
Non solo ampio terreno di pascolo per le erudite ruminazioni l'età di mezzo, ma anche, nel caso di Ortes, fantasma d'una perduta serenità e d'una perduta stasi. Checché, comunque, si pensi del medioevo, fatto sta che quel che se ne pensa è indicativo di quel che si pensa di lumi e riforme. Direttamente proporzionale il medioevo vagheggiato di Ortes all'illuminismo da lui avversato. Va da sé che se, invece, nel medioevo si colloca il proliferar dei conventi e degli ordini religiosi, il valutarlo a mo' d'età di frati soprattutto oranti è riscontrabile soprattutto tra i fautori dei lumi riformanti e/o delle riforme illuminate auspicanti una razionalizzazione disboscante nei confronti, appunto, dei troppi frati e dei troppi conventi percepiti a mo' di pesante retaggio d'un passato - quello medievale - che sta zavorrando il presente. E l'ottica ispirante, allora, non è tanto quella del rimpianto d'una smarrita religione fondante, quanto, piuttosto, quella della non produttività fratesca, dello scarso giovamento che viene all'economia e allo stato dall'eccessivo numero di "claustrali" salmodianti e contemplanti. E siffatto valutare non è solo esibizione di spregiudicato sentire laddove è anche obiettivo del governo veneto sfoltire i regolari, sbloccare la manomorta. E se l'istituzione della deputazione ad pias causas è del 1766, tempestiva, nel 1769, è l'uscita, a Venezia, d'un "opuscolo", tradotto dal tedesco, del "celebre ecclesiastico" Giustino Febronio, ossia Iohann Nicolaus Hontheim, ove espone i suoi Sentimenti [...] intorno ciò che sia giusto rapporto alle rendite dei monasteri ed alle leggi di amortizzazione, così integrando il trattato De statu ecclesiae et legitima potestate romani pontificis. Stampatore dei Sentimenti Antonio Graziosi (32), già stampante - e ben tre le edizioni - l'opera antecedente, leggibile peraltro anche nella versione italiana uscita nel 1767 pei tipi di Giuseppe Bettinelli. E revisore alle stampe il teatino Tommaso Antonio Contin (33), un febroniano convinto e, come tale, non trattenuto dalla messa all'indice, nel 1763, del lavoro sulla potestà papale. Opera fondamentale, discussa questa. Ma importante pure la "dissertazione" successiva; tant'è che subito ne segnala l'uscita, all'inizio del 1769, "L'Europa Letteraria", il periodico (34) di Domenico Caminer (35). Imparziale, negli intenti di questi, il giornale, non schierato, non militante. E, nella segnalazione, si plaude alla "dissertazione" febroniana per l'autorevolezza convincente con cui si distingue dal rissoso begare degli opposti fanatismi, quello dell'oltranzismo curialistico e quello degli "scrittori anti-romani e anti-monaci", del pari faziosi. Epperò, visto che il "libro" è meritevole di "qualche riflesso", non è che nel rifletterci su il recensore sia poi tanto super partes. Abbondante il medioevo di "claustrali". E già allora "poco utili allo stato". Ma, volendo "opportunamente riflettere", c'è però da concedere che, allora, "in quegli antichi tempi", lo status di regolare - quello che ha per "professione il pensare alla propria salute", alla "salute" dell'anima si capisce; e, allora, "i buoni frati pensano a sé soli", non si fanno carico, è sottinteso, del prossimo - non era sfacciatamente parassitario, "non viveva alle spalle d'altri". Ma che dire dell'odierna frateria? Che è "scandaloso" il "questuare de' mendicanti" - questi petulanti pretendono offerte da chi, invece, lavora - che è, quanto meno, "poco edificante" il simultaneo "lusso de' padri abati". Siglata A.F. la relativamente imparziale segnalazione d'un libro che - così posizionato dalle riflessioni suscitate dalla lettura - da espressione dei "sentimenti" febroniana a proposito del "giusto rapporto" in fatto di "rendite" conventuali trapassa a stimolazione di giusti interventi e al momento giusto. Ora che il ferro è caldo, è bene batterlo; ora che è messa in piedi la deputazione ad pias causas, che si proceda con grinta. Sicuramente A.F. non è una sigla di comodo dietro la quale si cela il cautissimo Caminer. È una firma abbreviata alle sole iniziali. Si tratta d'Alberto Fortis (36), accostabile a Ortes per quel che è il percorso biografico. Da camaldolese ad abate Ortes. Da agostiniano ad abate Fortis. È evidente che non la pensano allo stesso modo, che Fortis si sta agitando nella direzione delle riforme, rispetto alla quale Ortes si sta chiudendo a mo' di riccio ispido e puntuto. È ben compresente a Venezia tutta una varietà di prese di posizione, di atteggiamenti, di adesioni, di ripulse. E ciò nella città d'Italia dove più entrano i libri dall'estero, dove più si stampa, dove più si traduce, dove più le gazzette farcite di "avisi" informano su quel che succede vicino e lontano, dove più i periodici culturali sfornano "novelle" continue sulle novità librarie, a mo' di notiziari bibliografici, non senza tenersi d'occhio l'un l'altro, non senza che in questo si esamini l'articolo apparso nell'ultimo numero di quello. E col ricorso all'estratto di pubblicazioni italiane ed estere, coi riassunti, coi resoconti la panoramica sulla produzione intellettuale europea è aggiornata, tempestiva; e, nell'adempimento al compito informativo e, magari, col pretesto di detto adempimento, il panorama include anche il materialismo più radicale, anche il sensismo più conseguente, anche il relativismo più esplicito, anche l'empietà più manifesta, anche la paradossalità più sconcertante, anche le ipotesi più terremotanti.
Vecchio il sistema di governo, vecchia la classe dirigente, epperò, in fatto di novità editoriali e di nuove idee, sin città spugna Venezia tant'è immediatamente ricettiva, tanto accoglie di tutto, risuona di tutto, non senza che questa sua disponibilità alla ricezione non funga anche da cassa di risonanza e, in virtù delle stamperie lagunari, da intensificatore della circolazione di libri e idee, da acceleratore, da propalatore, da divulgatore, da reclamizzatore, da banditore (37). E di suo Venezia può riesumare Sarpi, riattualizzabile anche a lume di lumi visto che gode della benedizione del papa laico Voltaire che l'innalza a "homme libre, défenseur d'un senat libre", visto che d'Alembert l'assolve dal saio ché unico frate meritevole del titolo di filosofo. E crede nel binomio lumi-riforme il Francesco Griselini che per Sarpi si batte. Non per niente è contro il Sarpi attualizzato che scende in campo Appiano Buonafede (38), lo stesso che dà del "bue" a Baretti, da questi ricambiato coll'epiteto di "frataccio di Comacchio" nonché - dato, appunto, il luogo di nascita - di "teologo anguilla". Un rissare, questo tra i due, che preoccupa il governo veneto. Troppo aggressivo l'Aristarco barettiano, troppo suscettibile il dotto comacchiese. Se proprio devono litigare come energumeni, che lo facciano altrove. Ed è, appunto, in terra non veneta che la "Frusta Letteraria" deve cercarsi un tipografo. Fatto sta che nel lagunare incrociarsi di libroni e libretti, di idee e ideuzze vivace è il discutere, con contrasti, animosità, schermaglie di repliche e contro-repliche. Fustigante, frustante l'Aristarco barettiano, con poche idee in testa e anche anguste, epperò, proprio per questo, sicuro di sé nel suo ergersi a "giudice de' vivi e de' morti". Ma c'è chi le frustate non le gradisce e reagisce, a sua volta, frustando. "Frustato", allora, il "frustatore", nel 1763, da "La Minerva, o sia Nuovo Giornale de' Letterati d'Italia", di per sé esordito l'anno prima annunciando sì volontà di "giudizio" e di "critica", ma non per questo scadendo nella "calunnia" e nella "maldicenza". Solo che Aristarco è troppo screanzato, troppo ignaro delle buone maniere. Sicché il governo preferisce che vada a stampare i suoi vituperanti sfoghi lungi da Venezia, non sotto la Serenissima. Un po' pavido, se si vuole, questo governo che si spaventa per delle tempeste in un bicchier d'acqua. Idee da retroguardia quelle d'Aristarco, non certo pericolose. Ma inopportuno il suo tono, sgraziato il suo menar fendenti. È questo che spiace alle venete autorità. Non è - va notato - che esse sulla sostanza prendano posizione, si pronuncino sul merito del litigio tra il "bue" e l'"anguilla". Quel che preoccupa è che stanno facendo troppo chiasso. Ma indifferenti, di per sé, le venete autorità ai motivi del divergere del soldataccio a riposo e del frataccio che puzza di pesce. Innocuo lo sputar sentenze di Baretti travestito da Aristarco. Altri sono gli autori pericolosi, nel senso che leggerli può indurre a guardare criticamente al sistema Venezia, può suscitare irriverenza e sarcasmo nei confronti della Serenissima, può minare le fondamenta dell'affezione, può ridicolizzare la Repubblica, può farla sembrare una patetica vecchia dama un po' svanita, un po' svampita. Ed ecco che, spione degli inquisitori di stato, Casanova denuncia come i testi di Voltaire, Rousseau, Raynal, La Mettrie e di altri ancora stan passando "tra le mani di tutti" e li leggano "persone civili" e "patrizi". Ed ecco che un ex gesuita, Giovan Battista Roberti, lamenta che il Contratto sociale si trova persino nelle smilze bibliotechine dei parroci di campagna. È proprio tiranno, come dirà Foscolo, un governo in cui si leggono ovunque gli autori proibiti, quelli forieri di idee virtualmente sovversive? O è da dedurne che non sa fare il tiranno? Che non sa realmente controllare, reprimere, punire? E come, d'altronde, potrebbe farlo se sono proprio i suoi membri più di spicco quelli che più leggono quello che non si dovrebbe leggere? Fornitissime le biblioteche patrizie. E che razza di spia è Casanova che avvisa sì della lettura di Voltaire, ma che, nel contempo, l'ammira, si proclama suo "écolier", enfatizza l'incontro con lui quale "le plus heureux momento della propria esistenza?
Certo: la censura, i riformatori allo Studio, gli inquisitori vorrebbero bloccare, arginare, tacitare, scacciare, allontanare, rimuovere. Proibita la stampa di questo e di quello. Ma è buon surrogato il falso luogo di stampa. E il testo proibito entra lo stesso, di soppiatto. E, allora, in breve, la proibizione non ha più ragion d'essere. Se c'è una città ove, di fatto, vigono il lasciar scrivere, il lasciar leggere, il lasciar pubblicare, il lasciar tradurre, questa è proprio Venezia. Indulgente, di fatto, tollerante il governo, nel senso di non abbastanza determinato a non esserlo, di non abbastanza deciso a prendersi sul serio anche quando tenderebbe a non transigere. Di fatto anche coi lumi finisce col risultare neutrale, come lo è in politica estera: non opta a favore, non si dichiara contro. Sicché subisce un diffondersi che non sa vietare. E i lumi nel frattempo s'installano nelle biblioteche, nelle redazioni dei giornali, nelle chiacchiere dei caffè, nelle confidenze d'alcova, nei retrobottega delle farmacie, nelle conversazioni dei salotti, nelle corrispondenze epistolari, nel civettare delle dame, nel corteggiare dei cicisbei, nei motti di spirito, nei sottintesi, negli ammiccamenti, nelle recite teatrali, nei palchi dei teatri, nei ridotti. E scendono lungo il Brenta e salgono in gondola come bagaglio mentale del turismo colto. E coi lumi si sale anche in nave per andare a Costantinopoli e da qui tornare. È ben espressione d'illuminata apertura al diverso la turcofilia, contro la quale protesta Carlo Gozzi, il cui livoroso antiilluminismo si sfoga coll'invenzione d'una scioccherella con mille grilli per la testa, imbalordita da letture alla moda, intontita dal mito di Parigi. Solitario, comunque, Carlo Gozzi nel suo rancoroso andar mugugnando. Non è che dietro a lui si scorga il coalizzarsi di un qualche gruppo reazionario. Rapporti, contatti, collegamenti, semmai, sono ravvisabili tra quanti - Griselini, Fortis, Elisabetta Caminer, Scottoni - con più consapevolezza e voglia fattiva militano (è il caso di dirlo anche per distinguerli da quanti d'illuminismo sono solo superficialmente spruzzati, limitandosi ad intenderlo a mo' di moda cui conformarsi) dalla parte dei lumi. In ogni caso - volendo arrivare ad una sbrigativa risultanza - questi non sono un'ondata distruttiva cui la Repubblica non ha saputo opporre dei metaforici murazzi. Sono arrivati in ordine sparso, dentro i libri, addosso alle persone. E c'è chi li ha salutati festevole, e c'è chi ha chiuso loro la porta in faccia. Si sono diffusi negli strati medio-alti della società. E hanno quindi lambito soprattutto il patriziato, la classe di governo. Privilegiati i philosophes nelle letture private dei patrizi più colti e intelligenti, collocati nelle scansie più praticate delle loro domestiche biblioteche. Epperò la somma delle private letture non si traduce in pubblica virtù. Acuita sì da quelle la lucidità della diagnosi dei mali dello stato veneto, sino al punto di giudicarlo malato cronico. E la malattia è la struttura stessa confezionata lungo i secoli a contenere il monopolio patrizio della politica. E il risanamento - sempre che non sia troppo tardi - mette in questione il regime aristocratico. E questo - così ha insegnato Marco Foscarini - se vuol durare, non tanto deve riformare, quanto rianimarsi per conservarsi. Ma convinto Foscarini della bontà, della positività dello stato marciano. Non altrettanto quanti meditano sulle pagine dei philosophes. L'avvenire in queste configurato non contempla Venezia. Donde, sempre nei patrizi più colti e intelligenti, la consapevolezza della crisi dello stato veneto e, insieme, una sensazione d'impotenza rispetto ad uno smottamento in atto, ad una decomposizione, ad uno scollamento che investono lo stato, il loro stato. Sapere di che questo soffre non ne elimina il soffrire, visto che è il suo stesso ingranaggio, sfasato coi tempi, residuato del passato nella contemporaneità, ad essere patogeno. Donde, negli stessi, una situazione di personale disagio, di personale dissociazione. Analogamente agli abati scettici e mondani che, una volta fatte proprie le lumières, non riescono più a credere nel Dio della chiesa e nella chiesa istituzione, essi, pur ricoprenti incarichi, pur partecipi alle sedute senatorie, non nutrono nell'intimo alcuna fiducia nella possibilità di risanamento della Serenissima e nel senso stesso della loro pubblica dedizione. Come svuotata interiormente delle motivazioni al servizio della Serenissima (vivide, a suo tempo, in Paruta e ancor presenti in Foscarini, l'ideologo della conservazione) la veste pubblica. Continuano ad indossarla come i preti increduli continuano a dir messa. E lo fanno con dignità, con competenza, ché non si sentono di disertare. E lo fanno sinché il fisico regge come, appunto, Andrea Memmo. C'è un che di strenuo nel non disertare dei patrizi come lui. Certo che, agli occhi d'un Marco Foscarini, il loro domestico appartarsi cogli amati philosophes, il loro colloquiare intellettualmente colla cultura europea potrebbero apparire biasimevoli. Un vizio privato, insomma, le loro private letture, dal momento che non ne traggono solide certezze.
Un vizio - col metro di misura dell'etica foscariniana - l'assenza di certezze con conseguente ripiegamento nella sfiducia, nel disincanto. E demotivante la frequentazione della cultura europea, se ne risulta che la Serenissima è strutturalmente troppo anchilosata per tener dietro all'Europa e, nel contempo, troppo poco autorevole per pretendere che essa l'aspetti. Invisibile politicamente Venezia nell'Europa settecentesca, ininfluente. E ben per questo che si dà il fallimento della pubblica storiografia. Nemmeno Marco Foscarini - con tutta la sua preparazione storica, con tutta la sua vocazione storiografica - è riuscito ad inventare un qualche rilievo europeo per la Repubblica. Quella europea è una storia che ne prescinde. E la storia di Venezia prosegue come automantenimento al quale giova l'indifferenza dell'Europa. Il finale del secolo colla fine della Serenissima, colla fine dello stato veneto è ben un prodotto, per dir così, dell'attenzione, della non indifferenza. Sempre in vita invece la Serenissima sinché l'Europa pensa ad altro, si occupa d'altro. E volendo veder l'Europa, basta fare come Algarotti (39), l'intellettuale cosmopolita, andare come lui a Parigi, a Berlino, a Pietroburgo non pretendendo che qui si parli di Venezia. Ma a che titolo parlarne dal momento che è neutrale e, come tale, non convocabile dalla propria parte, non paventabile come ausiliaria della parte avversa? Una neutralità che esclude alleanze con, alleanze contro. Non solo: è talmente interiorizzata da tradursi sin in silenzio governativo su temi attorno ai quali l'opinione pubblica europea si scalda e si divide. Ma questo non pronunciarsi del governo è per le tipografie redditizio. Così possono stampare testi che si pronunciano in un senso e nell'altro. Meglio se palazzo Ducale ha sin paura d'esternare una qualche indicazione. Così le idee circolano più liberamente e si scontrano più liberamente. E sin d'oro, per l'editoria, il non prender posizione del governo, ché così i torchi lavorano per gli uni e per gli altri, non senza che i singoli tipografi si schierino, stampando solo per questi contro quelli e viceversa. Con i Gesuiti o contro? È un tema che incendia, che suscita un'autentica guerra di scritture, polemiche furibonde. Ebbene dell'asperrima contesa è l'editoria veneziana a beneficiare. E, al di là della pubblicistica più polemica, è sempre l'editoria lagunare a pubblicare i testi più significativi e di maggior respiro, non solo polemici. Sicché Venezia, la capitale che, nell'Europa delle corti, conta meno, è quella che, nell'opinione pubblica europea, più spicca. E ciò perché, tanto il governo evita di pronunciarsi, altrettanto le stampe si scatenano in entrambe le direzioni. È a Venezia che esce, nel 1743-1749, Il cristianesimo felice nelle missioni de' padri della compagnia di Gesù di Muratori (un testo di riferimento questo anche per discutere di "felicità", di "bonheur"), seguito dai 3 torni di Lettere edificanti [...] delle missioni della compagnia [...] stampati nel 1751-1752, cui se ne aggiungono altri 2 nel 1755. E numerose, nel corso degli anni '50, le edizioni di testi giusnaturalistici, anticuriali, antigesuitici per lo meno implicitamente, gallicani, giansenistici. E stampata a Venezia nel 1767 un'anonima Descrizione [...] del regno del Paraguay [...], ove si dà del credulone a Muratori (40). Ed è l'anno in cui vengono chiuse definitivamente le riduzioni paraguaiensi, in cui la Compagnia è ormai alle corde. Esulta Baffo, che la detesta, a mano a mano le notizie confermano la sua caduta in disgrazia: il Portogallo l'ha "cazzada via", la Francia l'"ha bandia", in Ispagna, finalmente, "i gesuiti più no ghé", Genova ne diffida, a Napoli è ormai imminente l'"espulsion". E, nel frattempo, dai torchi lagunari abbaia la canea della pubblicistica antigesuitica. Ma in compenso replica pure quella filogesuitica (41). E stampatore di fiducia dei fautori della Compagnia il tipografo e libraio Antonio Zatta - è quello che stampa le Meditazioni sulla felicità di Pietro Verri, L'esistenza della legge naturale impugnata e sostenuta di Carlo Antonio Pilati, i Discorsi sopra la storia ecclesiastica di Claude Fleury, il profilo di Federico II di Prussia, di Amedeo Svaier (un luterano di famiglia tedesca nato a Venezia e quivi residente), nonché Dante, nonché le Rime petrarchesche; è quello che reiteratamente vagheggia di ristampare la versione italiana dell'Encyclopédie -, mentre i titoli antigesuitici sono sfornati dai tipografi Giuseppe Bettinelli, Gianmaria Bassaglia, Bortolo Baronchello, Paolo Colombani, Antonio Graziosi. Cinque contro uno, se si conteggia. Ma Zatta da solo li può fronteggiare: è più affermato, vanta il prestigio delle edizioni dantesche e petrarchesche, è protetto dai Rezzonico, la famiglia del papa regnante. E prossima al loro palazzo l'officina zattiana. E stampa a tutto spiano a favore dei padri della Compagnia. E a tutto spiano stampano pure gli altri. E il governo lascia fare, lascia stampare. Se si fa vivo con Zatta è quando paventa che si stia offendendo troppo veementemente il "segretario di stato di Portogallo". Comunque è Zatta a stampare la Lettera pastorale dell'arcivescovo di Parigi in favore dei gesuiti. In questa si va sul pesante con "la potestà secolare". Quel che ci rimette è il revisore alle stampe Iacopo Rebellini per aver, appunto, concessa la licenza di stampa: nel giugno del 1764 lo si esonera dall'incarico. E sequestrati antecedentemente, nel maggio del 1760, oltre 3 mila opuscoli avversi alla Compagnia a Giuseppe Bettinelli, ché stampati senza licenza. Tutti pubblicamente bruciati il 6 giugno detti opuscoli non autorizzati. Ma prima, il 4 giugno, autorizzata la stampa degli stessi purché figurino usciti a Lugano. Sterminata la lista dei titoli a favore e contro i Gesuiti. E tra gli autori contrari si distinguono il teatino Contin, al quale non par vero di riandare all'incandescente contesa dell'interdetto, di risolfeggiare motivi già orchestrati da Sarpi. Sembra quasi che l'intellettualità militante veneta per dir qualcosa debba rifarsi al servita. Sembra quasi che in lui siano già formulate le parole d'ordine per l'offensiva antigesuitica e, soprattutto, per la fermezza anticuriale. Saturo di Sarpi il Ragionamento intorno a' beni temporali posseduti dalle chiese, dagli ecclesiastici e da tutti che si dicono manimorte (Venezia 1766) d'Antonio Montegnacco, canonico udinese e consultore della Repubblica. Non illimite il "diritto" della chiesa ad "acquistare e possedere beni temporali sì mobili che stabili". E proclamano parere opposto il curialista Francesco Florio e Tommaso Maria Mamachi entrambi a stampa, entrambi nello stesso anno. E al consultore non resta che confermare il proprio fermo Ragionamento [...] (Venezia 1768), la cui sostanza è ribadita autorevolmente da Contin ne Il diritto e la religione giustificati contro le declamazioni [...] (Venezia 1773) curialistiche strattonanti dalla loro parte e diritto e religione. E in proposito è intervenuto pure Ortes con gli Errori popolari [...], che escono a Bologna nel 1771. È indicativo il luogo di stampa. Ora che si è messa incisivamente in moto la deputazione ad pias causas, il governo veneto non è neutrale. E consonanti colla prassi del governo nonché stimolanti nonché legittimanti - assicurano che il procedere della Repubblica è legittimo, è giustificabile con argomenti giuridico-teologici - Montegnacco e Contin. Antigovernativa la reazione di Ortes. Perciò deve stampare nella pontificia Bologna. Ma eccessivamente reazionaria, per l'arcivescovo di questa, l'impostazione del suo attacco. Questo rischia d'essere controproducente. Sicché lo pubblica a sue spese, in soli 200 esemplari, per distribuirli agli amici, ai non molti che possano essere interessati.
Attivo, attivissimo, in ogni caso, centro editoriale Venezia. E per stampare di tutto e il contrario di tutto - lo s'è già sottolineato - giova che il governo non prenda posizione. Nessun plauso governativo a Pombal, infatti, e nessuna condanna governativa, infatti, a suo riguardo. Di qui il parapiglia della fluviale produzione di stampe favorevoli e avverse alla Compagnia. Nel frattempo il governo sta a guardare. E ne attende la soppressione, di cui, ovviamente, prende atto il 29 settembre 1773, senza aver fatto alcunché per ritardarla o per accelerarla. Se, però, non ci si limita a constatare l'entità della produzione tipografica veneziana e come di questa si alimenti la vita intellettuale dell'intera penisola, ma si procede a selezionare in detta produzione l'apporto veneto, le voci venete, i timbri veneti, ecco che questi si fanno più evidenti, più percepibili, più netti non già quando il governo tace, ma quando il governo, per dir così, parla e si muove. Non è un caso, insomma, che l'elezione, del 12 aprile 1766, di tre deputati straordinari ad pias causas sia preceduta, salutata, seguita, tallonata, incitata nella sua concreta attività da una fioritura di scritti, di ragionamenti, di interventi, di dissertazioni, di messe a punto, di excursus storico-giuridico-teologici. Da un lato il governo decide di procedere al rigoroso censimento degli stabili ecclesiastici per poi incamerare e mettere in vendita quanto risulti indebitamente posseduto, dall'altro si mobilitano i cervelli a disquisire argomentatamente di materie beneficiarie, di manimorte, di diritto canonico, di diritto ecclesiastico, di stato e chiesa, di chiesa e stato, di acquisti, di possessi, di usi, di abusi, di lasciti, di tradizioni, di peso delle tradizioni, di costumanze buone, di costumanze cattive, di indispensabile, di superfluo, di rendite, di gius antico, di gius moderno, di regolari, di secolari, del loro "numero" più o meno "convenevole", della situazione com'è, della situazione come dovrebbe essere, di quel che può fare il governo e sino a che punto. Nutrita la pubblicistica europea in proposito. E presenti in questa autori veneti, autori veneziani con un piglio che vien 'da dire militante. E si stampano nel 1768 in italiano i classici trattati del gallicanesimo seicentesco, ossia l'istoria dell'origine e del progresso delle rendite ecclesiastiche [...] di Richard Simon, ossia l'Autorità legittima de' vescovi e de' sovrani per procedere alla riforma de' regolari senza che rii concorra l'autorità del papa di François Rolland Le Vayer de Boutigny. E, naturalmente, ispirante l'ombra di Sarpi. Finalmente il governo fa qualcosa. E gli intellettuali si sentono come investiti d'un mandato sociale, si battono per una causa di pubblica utilità, sentono l'orgoglio dell'attivo situarsi nel congiungimento della cultura colla politica, del tradursi di quella nelle riforme di questa. Né la veste ecclesiastica è d'imbarazzo e d'impaccio ai combattenti che, appunto, l'indossano senza impaccio e senza imbarazzo anche se quanto scrivono sta legittimando un intervento che va sopprimendo conventi, che va requisendo terre mettendole all'asta, che procede sfoltendo, di fatto, i regolari, infoltendo, di contro, i secolari, che punta sui parroci, la cui figura è ben dislocabile sul terreno del socialmente utile, dell'istruzione primaria, dello sgrezzamento dei villici, dell'insegnamento dei primi rudimenti agronomici. Poco cale Roma protesti. Multisecolare la tradizione d'un clero intimamente marciano, sin - si può dirlo - patriottico, fedele alla Repubblica, dalla parte dello stato, sensibile alle esigenze della sovranità, ostile all'invadenza prevaricante romana. È un clero che, all'inizio del '600, a disdetta del pontefice interdicente la vita religiosa nei domini della Serenissima, ha continuato a dir messa, a far suonare le campane, a somministrare i sacramenti. E ora l'anticurialismo, l'antigesuitismo, propensioni giansenistiche, riecheggiamenti gallicani, il magistero del Sarpi consultore rivissuto dal consultore Montegnacco sono tutti fattori propulsivi per lo schierarsi di tante penne per lo più ecclesiastiche. E animante, altresì, la persuasione che una chiesa meno appesantita dai possessi, prosciugata da mondani appetiti, detersa dai troppi interessi possa meglio adempiere al proprio spirituale ministero. Da coniugare colla prassi del veneto governo - lo insegnano i trattati di Andrea Bianchini - il diritto ecclesiastico. Che il principe comandi di più e comandi meglio nel proprio territorio, non lede la missione della chiesa, anzi l'illimpidisce. Intatta l'essenza del suo magistero. Che venga stampato Febronio, che venga stampato Antonio Pereira de Figuejredo - e il titolo dell'edizione veneziana del 1768 del suo trattato dedicato "a sua maestà" Giuseppe I suona ben programmatico: Dottrina della antica chiesa intorno la suprema potestà del re eziandio sopra gli ecclesiastici [...] -, che venga stampato, nel 1770, sempre in veste italiana, il trattato di Louis Ellies Du Pin sull'autorità ecclesiastica e la potestà temporale è opportuno ad orientare su quelli che sono gli spazi dell'esercizio della sovranità. Non per questo chi prega e insegna a pregare, chi avverte la "vanità delle cose del mondo", chi si preoccupa dell'"eterna salute", chi riflette sulle "verità cristiane ", chi medita sui "misteri della grazia e della predestinazione" deve angosciarsi. Nessuno sta invadendo quest'ambito. E che nel 1771 il patriarca Lorenzo Priuli affidi alle stampe la "dottrina cristiana [...] da insegnarsi", che nel 1778 il patriarca Federico Giovanelli pubblichi dei "capitoli" con occhio di riguardo alla formazione religiosa femminile è faccenda che, di per sé, non riguarda lo stato. Niente di più ragionevole dell'accomodarsi dello stato e della chiesa "entro i loro limiti"; ma come mettere i paletti che valgano per entrambi? E, poi, la lettura dei philosophes induce al rispetto degli ambiti o l'empito espansivo della ragione non s'arresta, scavalca lo steccato, mette becco saccente nel sacro? Annoverabile tra i lettori dei philosophes, tanto per dire, chi, nel 1779, denuncia, in maggior consiglio, il celibato ecclesiastico come responsabile del declino demografico affliggente la Serenissima. Volendo non è difficile scovare che tale celibato agli albori del cristianesimo non c'era. E tra gli ecclesiastici c'è ben chi è disponibile ad una ricerca del genere.
Beninteso: ciò non accade. Lo si è ipotizzato per dire che se c'è un segnale governativo, un cenno dall'alto, l'intellettualità - vesta essa laici panni o indossi la tonaca o il saio o vesta a mezzo e mezzo come gli abati, gli ex frati - è sempre pronta a mobilitarsi, dicendo al governo per iscritto quel che il governo vuol sentirsi dire. E anche se non lo vuole di proposito, il governo, se un minimo si muove, nella misura in cui tocca il profano che è di sua competenza, un minimo tocca pure il sacro. Troppe feste rallentano il lavoro dei campi. Donde il decreto senatorio, del 1775, abolente le feste non di precetto: è d'uso festeggiare un santo patrono, un santo protettore, un santo venerato. Si faccia pure, ma spostando il festeggiamento alla domenica. Più in là va il successivo decreto senatorio del 1787: questo diminuisce le feste di precetto. Non che ne sortisca uno scontro colla S. Sede - questa non può più alzar la voce come un tempo -, non che ne nasca una qualche tensione col patriarca di Venezia, coi vescovi. Resta il fatto che i "limiti" sono scavalcati, anche in termini di motivazione, ché il senato, nel suo decretare, non si trattiene dall'argomentare che troppe feste inducono all'ozio, alla gozzoviglia, mentre, se sfoltite di numero, meglio si prestano agli "esercizi della più fervida e immacolata religione". E resta, comunque, il dato che se del numero delle feste si discute per poi discutere di come vadano santificate - mica basta la messa oppure sì? -, ciò avviene sotto l'impulso dei decreti senatori. E se i testi di catechesi - ad esempio La gioventù illuminata nell'intelletto e nel cuore contro i moderni pregiudicj del secolo [...] per poter senza periglio d'inganno camminare nel sentiero dell'eterna salute [...] (Venezia 1776) del parroco di S. Giuliano Gian Francesco Simonini (42) - si dilungano a precisare quali siano le opere servili (e non solo queste... ci sono anche i divertimenti troppo distraenti e lo sono pure le arti liberali), è proprio perché sulle feste l'autorità laica è intervenuta. Eloquente di quest'effetto di ricasco degli interventi della politica la stampa di testi che di per sé sono solo teologico-devozionali, di per sé trattano dell'"obbligo cristiano della santificazione delle feste". E a ridosso del secondo decreto senatorio la Dissertazione sopra la santificazione delle feste (Vicenza 1788) di Orazio Claudio Capra. Certo che se la domenica si riduce a "giorno di libertà" per abbandonarsi "ad inutili passatempi, alle gozzoviglie", sin ai "più nefandi peccati", come questi lamenta, il problema non è più quello del numero delle feste. È il secolo, per dirla con Simonini, ad essere "guasto e corrotto ". E la colpa va addebitata a quegli "spiriti di sedizione" che spacciandosi per "saggi filosofi", coi loro "volumi oltramontani", che sono "nelle mani delle colte non meno che dozzinali persone dell'uno e dell'altro sesso" - grosso modo il parroco lamenta una circolazione in termini non tanto differenti dalla spiata di Casanova agli inquisitori di stato; e in più precisa che pure le donne leggono i "filosofi" -, vanno seminando "false dottrine", avverse alle "podestà spirituali" e, pure, "secolari". E quel che più cruccia il parroco è che li si leggano "con piacere", con diletto, con divertimento. E il perché non gli sfugge. E lo "stile" a rendere gli scritti piacevoli a leggersi. Si tratta, riconosce - e così implicitamente ammette che le opere edificanti sono invece pesanti, noiose -, di "dottrine asperse di stile vivace che l'intelletto abbaglia ed inganna".
D'altronde - si può aggiungere, senza pretendere che il parroco sotto sotto dica anche questo - annoiare, alla luce delle lumières, è una colpa, e, simmetricamente, divertire è una virtù. E la palma dell'intelligenza finisce coll'essere assegnata allo scintillio del motto, alla icasticità della formulazione. Vincono, magari solo epidermicamente, i lumi. E ne scapita pure la santificazione della domenica. E se ne accorgono i parroci. Il deismo, l'indifferentismo, una volta scesi dai piani alti della speculazione, stanno diventando incredulità diffusa, disinvoltura di costumi. È l'incredulità la bestia nera dei predicatori. Ma gli increduli le prediche, come detto, non le frequentano. A quel che si va tuonando dal pulpito restano indifferenti al punto dal disertare le chiese. Veementi le prediche contro di loro, ma anche a vuoto. Essi non le ascoltano. Si sono tanto battuti gli Agostiniani di S. Stefano, i Domenicani dei Frari e del convento delle Zattere - e qui sin gigantesco Daniele Concina (43), roccia di certezza assertiva: "la religione rivelata è un diploma spedito da Dio al mondo in cui sta registrata la sua legge, composta di misteri da credersi, di credenze e di precetti da praticarsi" - contro il molinismo, contro il lassismo, contro il probabilismo gesuitici, a loro avviso adulteranti la religione. Ma sono loro i vincitori, ché la Compagnia è stata soppressa? Oppure sta vincendo qualcos'altro? Di per sé il rigorismo, il tomismo, l'agostinismo dovrebbero essere i beneficiari della sconfitta gesuitica. Ma possono cantar vittoria per la religione disinquinata dal tossico gesuitico quando è così vistoso il distacco dalla religione? Un distacco avvertibile in alto, nelle file patrizie, e in basso, nel popolo.
A monte il furente polemizzare di Concina - che ha il suo braccio destro nel confratello Gian Vincenzo Patuzzi -, intransigente contro la morale transigente della casistica, spietato nella demolizione dell'incauto, e per lui stomachevole repellente, gesuita Bernardino Benzi (44). E avversario di Concina soprattutto il gesuita Francesco Antonio Zaccaria sicché Venezia diventa epicentro d'un teologico scontro affatto interno alla chiesa. Ma, avendo occhio alla chiesa nel suo assieme, non è stato autolesionistico - per la credibilità della chiesa - il rissare con reciproche accuse d'empietà, lo strattonarsi Roma con discredito di questa, l'accusarsi a vicenda o di pelagianesimo eterodosso o di giansenismo del pari eterodosso? E non c'è stato, da parte del fronte antigesuitico veneziano - quello del triangolo Zattere, SS. Giovanni e Paolo, S. Stefano - un eccesso di faziosità nell'approfittare della caduta in disgrazia della Compagnia presso gli stati borbonici? Inondata Venezia da un'"infinità di libri contro i gesuiti", scrive il 29 febbraio 1760 de Rubeis a Florio. "Ricercati e comperati da tutti", lamenta, in una lettera dell'11 gennaio 1762, Michele Lazzari. Non c'è stata della miopia nell'accusare i Gesuiti d'ogni nefandezza, d'ogni crimine, effigiarli come sitibondi di sangue, assatanati dalla brama di ricchezza? Non dibattito teologico a questo punto, ma mischia invereconda. E non sospinti alla lettura di Pascal, di s. Agostino, di s. Tommaso, dello stesso Concina gli spettatori lagunari, ma sconcertati e attoniti se fedeli, se pii, se credenti; e divertiti dall'alto della loro indifferenza, della loro incredulità e in questa vieppiù confermati i non credenti, gli spiriti forti, gli irreligiosi. "Lupi smascherati" i padri della Compagnia, faccendieri colti sul fatto, anime tenebrose tramanti nell'ombra delitti, ma iene ululanti in attesa del cadavere Domenicani e Agostiniani. È la chiesa tutta a non farci una bella figura. Ed è la fede a rimetterci. È Roma a barcollare. E, nel frattempo, anche a Venezia, da palazzo Ducale, s'impenna l'autorità dello stato. E non per distinguere tra i cattivi Gesuiti e i regolari buoni, ma per disporre del clero, sul clero. "Provideant principes" aveva, d'altronde, auspicato Concina, quasi assegnando allo stato un diritto d'intervento in materia ecclesiastica. E la Repubblica sente che può intervenire, che può fare la voce grossa. Donde, il 26 agosto 1765, l'esclusione di qualsiasi ingerenza ecclesiastica nelle "scuole" e il divieto di voto agli ecclesiastici a queste ascritti. Donde, l'anno dopo, l'istituzione, del 12 aprile, della deputazione ad pias causas. Donde, il 30 gennaio 1767, l'imposizione della "tassa di famiglia" ai regolari, e, il 10 settembre, la proclamata determinazione a sfoltire il clero troppo numeroso. Donde, nel 1768, la destinazione del ricavato della vendita dei beni ecclesiastici al restauro del Ridotto. È un procedere lesivo dell'autorità pontificia, aveva scritto da Roma il generale dei Serviti ai confratelli veneti, salvo poi, da Firenze, disdirsi scrivendo un'altra lettera "al suo provinciale veneto" del tutto opposta all'antecedente, "tutta contraria", in questa "inculcandogli la ubbidienza al suo principe e al giusto di lui decreto". Così del voltafaccia, amareggiatissimo, da Roma, ov'è riparato, Zaccaria in una lettera del 26 novembre 1768. Favorevoli, invece, i suoi avversari - a mano a mano il vero bersaglio si fa la chiesa pingue di benefici, obesa di privilegi - sin all'istituzione, del 1° giugno 1769, della "cassa civanzi" a raccolta delle eccedenze delle rendite delle corporazioni ecclesiastiche. Salutiferi - a mano a mano, colpiti a morte i Gesuiti, l'agostinismo si fa esplicita ecclesiologia giansenista - l'eliminazione dei conventi "inutili", l'abolizione della manomorta, l'elevazione dell'età pei voti monastici, se ciò ridà smalto e limpidezza all'impegno ecclesiale. Ma è il clero all'altezza? E c'è in senato un referente dalla scavata interiorità sì che ne risultino spiritualizzabili gli stessi interventi riformanti? Refrattari, nel patriziato, i patrizi religiosamente scettici alle scalmane dello zelo giansenistico. E chiuso, conservatore, tradizionale il cattolicesimo di quelli, invece, non indotti allo scetticismo dai philosophes, non certo portati a forzare la mano in senso antiromano. Deluso nel 1791 Pujati dal "saggio e mansueto e rispettabilissimo governo" che lascia si spargano "i semi dell'inalterato papismo" ad "oscurare i diritti della sovranità", mentre i "vescovi" veneti si adoperano a perseguitare "i migliori libri e le migliori persone", ossia il giansenismo. È ben dalla cattedra pavese, nella Lombardia austriaca, che Pietro Tamburini può sintonizzarsi con Firmian e poi, dal 1780, assecondare colla sua dottrina l'interventismo impetuoso, anche in ambito ecclesiastico, di Giuseppe II. Troppo pavida Venezia per imitarlo. E ripiegante, arretrante il suo governo, sin afasico, sin paralizzato e perciò incapace di mobilitare al suo fianco energie intellettuali.
Per la mobilitazione ci vuole un appello dall'alto, da palazzo Ducale. Occorre che questi indichi un obiettivo. L'ha fatto - come s'è visto - coll'istituzione della deputazione adpias causas. Non si può certo dire che siano sortiti esiti irrilevanti. La soppressione, tra il 1770 ed il 1793, di 127 conventi, la vendita all'asta di quasi 11 mila 400 ettari di terra - circa un sesto dell'asse fondiario in mano ecclesiastica; e che il 30% di questo sesto sia finito in mani patrizie un minimo dà ragione all'ostinazione di Ortes quando rifiuta di considerare progresso una ridistribuzione privilegiante chi già possiede non sono cosa da poco. E stato un incidere sulle strutture. E nell'avvio del processo una tensione intellettuale, un fervore di dibattito poi allentatisi. Non solo, comunque, deciso a metter mano alla proprietà ecclesiastica, negli anni '60, il governo, ma anche intenzionato a promuovere un miglioramento generale dell'agricoltura. E ciò non solo a mo' di generico auspicio, ma anche colla messa in atto d'un approccio cognitivo. Donde l'istituzione, nel 1765, presso lo Studio patavino d'una cattedra - ed è la prima in Italia - d'agraria che, dotata d'un appezzamento di terreno per le pratiche sperimentazioni, viene affidata a Pietro Arduino (45). E segue, nel 1774, la costituzione dell'insegnamento della veterinaria. Ma ancor più rilevante l'appello senatorio all'intellettualità locale - quella che è solita riunirsi nelle accademie - dei centri minori e maggiori dei domini della Serenissima, del 1768, a volgersi con sguardo intendente ai temi e ai problemi della terra in generale e del territorio circostante in particolare. Invitati energicamente i letterati ascritti ai sodalizi, alle letterarie radunanze, alle colonie arcadiche a cambiar registro, a non titillarsi più coi vezzeggiamenti delle "pastorali muse", a non zufolare più dietro a pastorelle ora sfuggenti ora compiacenti per dedicarsi "con buoni metodi e con assiduo impegno" ai "modi di trarre" il "maggior frutto possibile" dal suolo. Non più - così un sonetto (46) d'un membro degli Aspiranti di Conegliano - il "bel crin di Fille o Clori", ma "vigne", "tralci", "susin", "peschi ", "pioppi", "ontani", "canape e lini", "grani", "erbacci", "legumi", "ortaggi". Già da un pezzo quel sodalizio, postosi il quesito di "qual arte sia più utile e piacevole agli uomini", l'aveva indicata nell'agricoltura. E così altri sodalizi. Ma ora il senato chiede loro d'applicarsi sul serio. E l'adesione è pronta, tempestiva. Le accademie si trasformano in agrarie o includono una sezione agraria. E le dissertazioni lette in quella sede e sovente pure stampate sono tutt'altro che generiche. Affrontano argomenti mirati, legati al loro "territorio", si tratti della conservazione del vino, o della perniciosità o meno della presenza d'armenti d'ovini. Non più minimale ricovero per intellettuali che se han troppo verseggiato e cicalato è stato anche perché nessuno ha fatto appello alle loro competenze esortandoli, nel contempo, a farsele, le accademie, ora che il governo le ruolizza, assegna loro un compito. Sinché letterati generici e tradizionali, nelle accademie si sono contati e intrattenuti. Ma coll'apparire della possibilità d'essere socialmente utili, eccoli pronti alla stesura d'agronomiche relazioni nelle quali quel poco o quel tanto che sanno dei lumi è messo a fuoco perché divenga illuminata scienza agronomica che sia, a sua volta, d'orientamento illuminante per il riscatto agricolo delle campagne venete. E organo di tanto speranzoso fervore il veneziano, per stampa e pure per gradimento del veneziano governo, "Giornale d'Italia spettante alla Scienza Naturale e principalmente all'Agricoltura, alle Arti, ed al Commercio". Un periodico con una sua tenuta attestata dai 12 tomi della prima serie dal 1764 al 1776, dagli 8 della seconda - colla quale inizia ad autoqualificarsi "Nuovo" - che giunge al 1784. E segue, dopo un'interruzione, dal 1789 al 1797, la terza serie. E sinché è redattore Griselini, sinché interviene Scottoni s'avverte un respiro che va oltre la tecnica, anche se tecnicamente agguerrito. Lo sguardo s'allarga alla società.
Come, d'altronde, parlare di pratiche culturali - vecchie o nuove che siano, da mantenere, da cambiare, da introdurre - senza che non si profilino proprietà e manodopera, interessi contrapposti, avidità di padroni, ignoranza di rustici? Locazioni, affittanze, criteri di conduzione si situano in un contesto. Certo: l'agricoltura è indispensabile ad apprestare "le derrate per la sussistenza umana". Ma quanta fame nel mondo dei campi. E quanto ottimismo fiducioso nella "filosofia" del proprietario che sia "agricoltore" e "vero filosofo". E quanta sicurezza d'"avanzamenti" se s'impone la figura del proprietario conduttore, imprenditore agricolo, se la contadinanza presta orecchie ricettive all'insegnamento dell'"accademia agraria" - ne basterebbe una per "provincia" -, se si lavora di più, sfrondando drasticamente le feste, aumentando i giorni lavorativi, se si lavora meglio, con "raziocinio", colle rotazioni, coll'irrigazione, colla salvaguardia del patrimonio zootecnico, coll'accorta distribuzione del boschivo, dell'arativo, del prativo.
Il che è giusto, il che è sin ovvio, il che vale anche quando si dissolve la Serenissima, anche dopo il 1797. Si scarica ben sull'800 il fardello dell'agricoltura sotto l'Ancien Régime, ma col fardello anche le idee sul finire di quello enunciate per migliorarla, per riformarla. Non è che queste siano risucchiate dalla fine della Repubblica. E qualcuno dell'ex classe dirigente può ben volgersi ai propri campi - gli è stata tolta la politica, non la proprietà - quale scenario per il campeggiare, appunto, del proprietario illuminato. E, magari, abbandonarsi, tra le proprie terre, anche al sogno. C'è ben il sogno d'Alvisopoli in Alvise Mocenigo, il genero d'Andrea Memmo. Un sogno che parte dai lumi. "Gran partigiano degli enciclopedisti" è detto Mocenigo. E nella sua grande azienda agricola con estese coltivazioni, con risaie, egli sovrintende a bonificazioni, a canalizzazioni, a ristrutturazioni. È agronomo appassionato e promuove studi d'agricoltura. Ed è suo nipote quell'Alvise Mocenigo che nel 1842 fonderà l'associazione agraria friulana. Ma così ci si spinge troppo oltre. Lo si fa, tuttavia, solo per mostrare che ci sono storie di uomini e di idee che nascono prima del 1797 e che, appunto, proseguono oltre. Forza delle idee, vien da dire, o, per lo meno, forza delle illusioni nutrite dalle idee se, non pago della proprietà azienda, Mocenigo vagheggia di farne sprigionare una città agricola-industriale-intellettuale, luminoso concentrato d'operosità e cultura. Quanto meno il titolare dell'idea illusione ha una buona opinione e/o idea di sé, visto che la città si chiama Alvisopoli ed egli, appunto, Alvise. Un sogno costoso, ambizioso questo di Mocenigo. E per sognare così meglio se non c'è più la Serenissima. Lo spirito d'intrapresa è stimolato sin all'invenzione dall'allargarsi del fondale. Sullo sfondo il titanico scontro della Francia coll'Inghilterra, la necessità - vista la perdita delle Antille da parte della prima - di sopperire, pur di colpire l'Inghilterra, allo zucchero di canna con altro. Si pensa a zucchero estratto dalle uve. E poi s'afferma, perché più economica, l'estrazione dalle barbabietole. Ma anche Mocenigo a suo modo interviene: punta sul ripristino, su scala industriale, dell'allevamento delle api. E l'iniziativa s'avvia, nel 1810, con un primo nucleo di 300 arnie. Guarda al futuro, ma ancora settecentesca la sua biblioteca, donde estrae la Coltivazione delle api di Carlo Amoretti (47) - un agostiniano secolarizzato costui, segretario nel 1783 della società agraria milanese, prefetto dell'Ambrosiana nel 1797, amico di Fortis, collaboratore del "Genio Letterario d'Europa" di questi, autore dell'Elogio letterario allo stesso dedicato - e la fa ristampare, nel 1811, dalla tipografia di Alvisopoli, allora diretta da Nicolò Bettoni. Sognatore alla grande e in grande Alvise Mocenigo, la cui Alvisopoli è menzionata da Vincenzo Monti nel poemetto, del 1811, a celebrazione della nascita del re di Roma. E la ricorderà pure Bacchelli tra le località originate da "capricciose ed amene fondazioni di despoti e signori", dicendola alla brava "l'Alvisopoli del nobiluomo illuminista Alvise Mocenigo, città di tipografi". Tutto sommato, mentre suo suocero Andrea Memmo - il lodoliano che lascia il suo segno a Padova con Prato della Valle - i lumi, servendo la Serenissima, se li è dovuti tenere più in casa che dispiegare sul corpo refrattario della Serenissima, Alvise Mocenigo coi lumi può sin giocare e sbizzarrirsi. A proprio agio, ben inserito nel "sistema francese" e di questo "partigiano" - così lo si giudica a Vienna nel febbraio del 1815 -, vien da dire che, col napoleonico regno d'Italia, ha più modo d'esprimersi e di tentare in proprio azzardando come gli garba e quanto gli garba. Di certo - ci preme sottolinearlo -, colla Serenissima, non avrebbe potuto abbozzare la sua illuminata cittadina, non avrebbe potuto investire tutto se stesso nel realizzare, coi lumi, un avvio ad uno spicchio d'utopia in un comprensorio di terre bonificate nel corso del '700 nei pressi di Portogruaro. Morendo, poi, il 2 marzo 1815, non è costretto a convivere colla restaurazione. E senza problemi, per Bartolomeo Gamba, l'attività editoriale nella Venezia austriaca (48).
Singolare, comunque, questo personale sognare coi lumi d'un ex patrizio d'una Venezia postuma. Certo questa, sinché politicamente viva, non s'è voluta reinventare coi lumi, come troppo vecchia per credere nel miracolo del ringiovanimento e come troppo scolpita dai secoli per buttar via pressoché se stessa prodotto di secoli. In effetti, nell'abbondar di testimonianze d'adesioni all'illuminismo anche patrizie, non è che salti fuori il sogno d'una Venezia finalmente tutta illuminata. L'unico sogno si colloca, dissolta la Serenissima, ad Alvisopoli, coincide coll'invenzione di questa. Il sogno della ragione, con la ragione, la ragionata utopia e, anche, la ragionevole utopia nonché la localizzata eutopia con Mocenigo. Questo dopo il 1797. Non prima. Paralizzante per tal verso l'autoconservazione dello stato marciano. E, lungo questa, unico pensiero forte, unica espressione convinta la ragionata e, anche, ragionevole conservazione del sistema aristocratico proposta da Foscarini come ritorno all'animus dell'autostima cinquecentesca. In biblioteca - nella sua, fornitissima di cose veneziane - Foscarini colloquia col passato più augusto, consulta una grande Venezia che non disdegna di rispondergli, sì da animarlo, sì da infondere significato nella sua dedizione alla vita pubblica. Donde, metaforicamente, la sua positura eretta, solenne, maestosa. Ma ciò è possibile a lui, eminente socialmente, prestigioso politicamente, non a Gasparo Gozzi (49), il garbato scrittore, l'operoso giornalista, a Foscarini vicino nella servizievole fornitura dei materiali per la Letteratura. E lodato in questa, in una nota, il "sig. conte Gasparo Gozzi veneziano, uno de' più gentili e purgati scrittori italiani" dell'"età nostra". Ma che riesce a dire ai suoi lettori con la "Gazzetta Veneta", con l'"Osservatore Veneto", con "Il Mondo Morale", con "Il Sognatore Italiano", Gasparo Gozzi? Che non stiano tanto a pensare ad essere informati "dell'Africa e dell'America", ma che badino invece alla vita locale, alla cronaca locale. Anzitutto "i fatti" propri, le proprie "cose", in "casa" propria. Un sentore di casareccio, di nostrano, di non foresto. E l'invito a "far di necessità virtù". Valga la bussola del buon senso, non l'astratta, perniciosa, presuntuosa ragione dei philosophes. Se applicata, sarebbe una catastrofe, un "diluvio", un folle ribaltamento. Uomo di buon senso Gasparo Gozzi vorrebbe, invece, annotando "i difetti", così concorrere a rendere "migliore il mondo", quello che l'attornia, quello che frequenta, quello a portata di mano. Epperò l'invade la sensazione che il suo adoperarsi colla penna è "un gracchiare al vento", un "cianciare a vuoto ". Mostruosa pianta la "malizia", non sradicabile e sempre frondosa. Lo "scrittore" ha un bell'affannarsi a tagliar questo o quel "ramo ", a sfrondare. Sempre lussureggiante la boscaglia delle cattive costumanze. E sempre vigorosa la "mala pianta", sempre verdeggiante, sempre in vita: tagliato il ramo, subito rinasce. Se "tanti valentuomini" inondanti "la faccia della terra" coll'ininterrotto flusso dei loro "libri", non riescono a produrre alcun effetto, perché mai "l'onore [...] di riformare il mondo" dovrebbe capitare alle pagine di Gozzi? Fissabile il mondo col pennello di Longhi, colla prosa descrittiva di Gasparo Gozzi: si litiga in calle del Forno, tripudia il carnevale, i contadini danzando nell'aia dimenticano, per un po', le pene della loro esistenza. È un mondo cui si può sorridere, che fa anche sorridere. E innegabile, altresì, l'esistenza delle "scienze", delle "buone arti", lodevoli entrambe. Ma avanza realmente, grazie a loro, l'umanità? Forse che il brigantaggio non infesta le campagne venete, forse che non sono frequenti nel territorio violenze, soprusi, agguati, rapine? E, anche se stando a Venezia per fortuna non si vedono, forse che le "guerre", coi loro "assedi", coi loro "trinceramenti", colla loro orribile "tempesta" di "bombe infuocate", non sussistono "come un tempo"? E evidente: "come una volta" continuano "gli uomini" ad ammazzarsi. Ripetitiva, monotona, per tal verso la storia. Dove sta il miglioramento? A meno che non s'intenda per tale il progressivo perfezionarsi delle tecniche di distruzione e di morte. "Pare [constata Gozzi] ch'oggidì" gli uomini si combattano e "s'ammazzino con migliori ordinanze e con più regolata disciplina di prima". Scettico lo sguardo di Gozzi, non vede il progresso quale crescita complessiva, quale ascesa qualitativa. La ragione non elimina la guerra, la razionalizza, la rende vieppiù distruttiva. Certo: Venezia non è bellicosa. Ma non per questo deve ignorare che altrove la guerra imperversa. E anch'essa, allora, deve un minimo aggiornarsi, migliorare i propri strumenti di difesa. Non che Gozzi ne faccia cenno, ma è supponibile sappia della stampa lagunare di "ordini" pel "buon governo dell'armata circa la navigazione e combattimenti", di "terminazioni" regolative, di "regole da osservarsi" dagli "ufficiali ingegneri", di "istruzioni militari raccolte" da zelanti colonnelli, della "regola universale" suggerita per l'"infanteria" veneta dal conte di Schulenburg, il bibliofilo, il collezionista d'arte e, prima, validissimo uomo d'armi. Memorabile, lo s'è già detto, la sua difesa, del 1716, di Corfù. E ancor più memorabile la sconfitta da lui inflitta, ancora nel 1704, in Polonia, a Carlo XII di Svezia. E interessatissimo, lo s'è già notato, Voltaire - allorché, nel 1740, attende alla revisione per la ristampa dell'Histoire [...] a quest'ultimo, il re di Svezia, dedicata - ad apprendere da quello, dal guerriero in riposo, i particolari di quel suo lontano trionfo. Scrupolo storiografico questo di Voltaire, ma pure attenzione ai procedimenti del combattere, alla tattica, alla strategia. Per lui, Voltaire, il progresso è tale anche perché tecnico-militare, è attestato anche da robustezza di fortificazioni, disciplina d'eserciti, potenza d'artiglieria, forza offensiva, prontezza difensiva. Ma se Gasparo Gozzi diffida dei "moderni filosofi", del "secolo illuminato" è solo mugugno di letterato muffito, incartapecorito nel tradizionalismo? O non c'è, nel suo non entusiasmarsi per gli indubbi progressi degli apparati bellici, anche un minimo d'assunzione del punto di vista delle vittime della guerra, delle vittime della storia? Quanto meno un trasalimento in tal senso c'è in quest'autore che, peraltro, nel suo ricercato rapporto col pubblico, non si spinge mai sino a sciogliere i suoi interiorizzati legami col "principe", col reggimento aristocratico. E nel contempo non è premiato da un successo d'una lettura particolarmente allargata da cui trarre conforto e forza. In altre parole Gasparo Gozzi non ha il rilievo d'un opinionista che meriti una particolare attenzione in sede governativa perché dietro a lui è visibile una qualche opinione pubblica. Né i suoi bozzetti, le sue favolette, le sue tipicizzazioni, i suoi commenti ambiscono a formarla. Giornalista di costume, cronista arguto, osservatore della quotidianità a lume di buon senso, quel che soprattutto lo connota è la qualità della scrittura di per sé atta ad alleggerire il bagaglio dell'erudizione e ad elevare le ovvietà buonsensaie. Di per sé dovrebbe essere autore premiato da un'utenza allargata e composita. E, invece, finisce che i suoi giornali - specie l'ultimo, "Il Sognatore Italiano", di cui escono, tra il 21 maggio e il 17 settembre 1768, 18 numeri - non s'impongono, non mordono. Donde il manifestarsi d'una sensazione di solitudine, d'un malinconico ripiegamento in se stesso, la cui sostanziale amarezza - il consuntivo è, appunto, amaro - si stempera, per quel tanto che ci riesce (presenti in Gozzi momenti di disagio psichico, di precipite depressione, di sofferenza intollerabile; e, allora, ecco il tentato suicidio del 1777, a sessantaquattro anni; e per la morte naturale dovrà pazientare sino al 27 dicembre 1786), nella teorizzazione d'una "quiete" interiore d'un autoisolamento pago del "mondo" costruito nel proprio "core ", nel proprio "cervello".
Ma, lungo gli anni '80, specie alla fine di questi e ancor più all'inizio degli anni '90, ad altri - per lo più giovani a Venezia in transito e in sosta e non radicati nel sistema di governo o, per lo meno, senza ragioni di particolare affezione a questo - cuore e cervello ribollono. Inquieti o, per lo meno, irrequieti smaniano intolleranti del soffoco, dell'odor di vecchio, vorrebbero spalancare la città all'irrompere delle idee della Francia della rivoluzione. Già avversata da Gasparo Gozzi la Francia pei suoi cattivi maestri. E di loro non c'era a suo avviso bisogno. Al limite non c'è bisogno di quel che vien da fuori. "Tutti gli uomini per lo più s'ingannano" nel loro andar "cercando lontanissime cose", avendo "ogni cosa nel proprio paese". Così Gozzi nel 1760, a pochi anni dalla Letteratura veneziana di Foscarini ove è ben indicato quale giacimento spirituale spesso di secoli essa sia, ove è ben sottolineata l'inesausta vitalità della lezione del passato. Ma che può dire questa all'avvocato Sografi, a Giuseppe Compagnoni, al giovinetto presuntuoso Foscolo? E come frenar la lingua di quanti sproloquiano entusiasti di ciò che sta succedendo in Francia? E se il governo ne inorridisce, non per questo è in grado d'incarcerare tutti quelli che, invece, si rallegrano per la marcia inarrestata della rivoluzione. E con l'espressa simpatia per questa non si tratta più di lettura dei philosophes, di auspicio di riforme illuminate; circolano il giacobinismo, il sovversivismo. E, agli occhi di questo, il regime aristocratico va abbattuto, come in Francia è stata abbattuta la monarchia. E per il relativamente informato giacobinismo veneto Napoleone che sta arrivando è un autentico giacobino, un giacobino patentato. Sconcertante spettacolo, comunque, da palazzo Ducale, all'inizio degli anni '90, quello d'una Terraferma che si rivela d'un tratto disaffezionata, virtualmente ribelle alla Serenissima, insofferente del suo dominio, come alitante ostilità, come percorsa da fremiti di odio. Un governo che, per secoli, guardandosi allo specchio, s'è compiaciuto della propria immagine di buon governo, più che tanto non può sorridersi se sente montare l'ostilità dei sudditi, se sente che c'è tra loro chi mormora sedizioso. Da un lato spera che la tempesta resti in Francia, non dilaghi da lì sino a colpirlo. Dall'altro però è costretto a chiedersi se - ora che la disaffezione s'appalesa sia pure mormorando e non insorgendo in armi - non c'era da intervenire prima, con una robusta ristrutturazione dall'alto, a compattare lo stato. E ciò non tanto, nell'inesistenza d'un alternativa borghese, dando spazio alla nobiltà di Terraferma, giusto l'inascoltato appello in tal senso del marchese Maffei, ma quanto in termini d'un affondo riformatore su tutto il territorio, d'un intervento coerentemente ristrutturante l'intero stato, a riaffermazione perentoria del centro, della capitale che ridisegnando lo stato, in certo qual modo lo cementifica, ne recupera la tenuta. Non sono i murmuri, i bisbigli in quanto tali a far paura. È il loro proliferare da un organismo che si sta scollando, sfilacciando, disarticolando, sconnettendo ad aggravare la sensazione che il governo sia debole, impotente, sin in fibrillazione, come in preda agli avvenimenti, come incapace di pilotarli, di preventivarli, d'affrontarli. Sconfortante, per la classe dirigente, il non poter fare, il non saper che fare, e il percepire il fare come tardivo, inadeguato, sfasato. Certo: in Francia impazza la follia, imperversa il delirio della ragione ottenebrata. Ciò non toglie che, forse, ai lumi della ragione sarebbe stato opportuno far ricorso prima riformando. Bisognava, allora, fare come Giuseppe II? Ma che ha fatto quest'imperatore? Rappresentante della Serenissima a Vienna per sette anni sta a Daniele Dolfin (50) - un patrizio tra i più colti, un dichiarato ammiratore di Mably - riferirne al ritorno a Venezia il 21 marzo 1793. Generosa, riconosce Dolfin, la sollecitudine del defunto imperatore, genuina la sua nobiltà d'intenti, febbrile la sua attività. Ma "odioso" il "mezzo del dispotismo", dispotica la mitragliata di provvedimenti dall'Hofburg su tutto l'Impero per eliminare la "differenza", per sopprimere l'eterogeneità, per imporre il "medesimo metodo forense", l'obbligatorietà del tedesco in sede amministrativa e giudiziaria, l'uniformità dell'insegnamento scolastico, universitario, sinanco seminariale.
Comprensibile, accettabile, per Dolfin, in "una sola nazione" - è il caso della Francia -, la vigenza d'un solo univoco dettato legislativo, non nella variegata difformità degli "stati ereditari" dell'impero. Illusoria pretesa quella dello scomparso di costringere "varie nazioni" a farsi "un sol corpo ben compatto e solido". Grandioso progetto il centralizzare, disboscando, semplificando, spianando, livellando, razionalizzando. Ma anche volontaristica astrazione calata dall'alto, ma anche violenta imposizione. Donde la riluttanza dei "ministri" stessi ad attuarla, donde l'esplosione del "malcontentamento" nelle "provincie", l'insorgere della disobbedienza dei sudditi. Irrecepibile nel vivo delle differenze, inradicabile nello humus riottoso delle diversità il "vasto edificio" concepito da Giuseppe II. Sicché, senza fondamenta che lo stabilizzino, oscilla, traballa e "in gran parte rovina" prima ancora che il sovrano muoia. Amareggiati, in effetti, i suoi ultimi giorni dalle insorgenze delle periferie contro l'omologazione coatta del centro. Sin fallimentare il consuntivo: l'" edificio" non sta in piedi. Epperò - Dolfin ci tiene a sottolinearlo - l'imperatore resta un gigante della storia. Bastevoli ad "immortalare" la sua figura i due decreti del 1781, ossia l'abolizione della "vergognosa schiavitù" della gleba e l'assicurazione della libertà di culto ai protestanti e grecoscismatici sostanziata dalla "cittadinanza" con relativa accessibilità degli "impieghi civili". Se non altro per questo Giuseppe II va innalzato ai "fasti" della vicenda umana. Protagonista, insomma, d'umano avanzamento, per l'illuminista Dolfin, l'illuminato sovrano. Ma allergico il patrizio Dolfin, membro dell'aristocratico governo, al progresso imposto per decreto, al marchio violentante dell'uniformità su di un immane territorio ove "ogni provincia" ha una sua specificità, è connotata da una "propria costituzione", è contraddistinta da "propri privilegi". Come far pesare su tanta varietà di situazioni peculiari la "stessa" timbratura, la medesima "autorità"? Ed è giusto, per uniformare e pur di uniformare, coartare colla forza? E il mezzo - quello "odioso" del "dispotismo" - non è forse anche il contenuto? Implicitamente Dolfin sta valorizzando lo stesso anacronismo dell'ormai polveroso e consunto stato marciano. È sì curvo sotto il peso di secoli e secoli di storia. Ma lungo questi ha saputo gestire, non sopprimere, le differenze, ha saputo convivere colla varietà della specificità, ha rispettato le peculiarità locali, ha ibridato il proprio diritto colle consuetudini, colle normative statutarie; palazzo Ducale non ha solo comandato, ha anche ascoltato. Ormai è frastornato da quel che sente, ormai non sa cosa comandare e come comandare. Epperò per secoli ci è riuscito. Tutto sommato è questo che sta dicendo Dolfin, quasi anticipando - ora che la storia della Serenissima sta per finire - l'orchestrazione del rimpianto ottocentesco, i solfeggi indulgenti dell'intenerita nostalgia. E raccontata e raccontabile la fine della Serenissima effigiando questa come vittima del despota per antonomasia, Napoleone. E troncata così dispoticamente, d'un tratto, secoli d'una vicenda statale singolarmente ignara d'odiosi mezzi dispotici. Così, almeno, sottintende Dolfin nella relazione del 1793 al rientro da Vienna. Nel frattempo Foscolo sta già scalpitando. Di lì a non molto potrà giacobineggiare. E bollerà il passato regime come turpe mescidanza di "terrore" aristocratico, di borghese connivenza, di popolare corruzione. All'insegna - stando alle autodiciture - d'adamantine "virtù repubblicane" praticate col "virtuoso entusiasmo" d'un bruciante "ardore" pel "pubblico bene" la municipalità provvisoria. Non per questo il despota Bonaparte ha remore nel suo disporre. La forza ha una sua logica affatto interna. Questa non contempla attenzioni rispettose per le idee, specie per quelle nutrite di eticità. Diverso, ovviamente (non ovvio, tuttavia, avvertire la valenza morale da entrambi attribuita alla politica; eticamente fondato, insomma, il loro barlume di politologia), il pensiero d'un Foscolo da quello d'un Daniele Dolfin. Ma colpiti entrambi da Bonaparte, sordo alle lamentele dell'etica, comunque vestita, sappia essa di aristocrazia o di democrazia, sia essa organica alle automotivazioni del vecchio regime, sia, invece, organica alle prospettive aperte - sino a Campoformido - alla speranza. E, constatato questo, vien anche da riandare a quel Luigi Ballarini che, agente di casa Dolfin, quando Daniele Dolfin è ambasciatore all'estero - e prima che a Vienna, lo è, dal 1780 al 1786, a Parigi - lo informa di quel che succede, di quel che si dice, di quel che pare e non pare a Venezia. Uno spettegolare continuo le lettere dell'agente a Daniele Dolfin. Ma anche nel pettegolezzo - si converrà - si dà esercizio dell'intelletto umano, anche spettegolando si dà esercizio di scrittura. Ebbene: in una lettera di Ballarini del 1785 c'è, fulminante, il fixing della situazione. "Venezia [così lo scrivente] diventa sempre più un paese curioso e dove non vi è bussola per navigare" (51). Un'idea non ponderata, non meditata - la meditazione, l'approfondimento non sono certo il forte di Ballarini -, istintiva, impressionistica, epperò calzante, centrante. E, anche, volendo, consapevolmente disperata e disperante, formulata com'è in una città la cui immagine si compendia nello stilema della gondola, nel cui lessico "nuar" sta per vivere, "remar" sta per saper vivere, "timon" sta per criterio. E senza "timon" è sinonimo di senza "bussola".
Una via crucis il 1797, con due decessi, prima quello della Serenissima, poi quello dello stato veneto. Un anno desolato, funesto. Ma non per questo legittima la deduzione ritorcente sugli oltre novant'anni che precedono la categoria del lutto annunciato, sicché - tanto per dire - persino gli azzurri e i rosa tiepoleschi s'incupiscono a preavviso di tragedia. Più produttivo, forse, limitarsi a constatare il settecentesco rigoglio della musica, delle arti figurative, del teatro, delle lettere, senza intestardirsi, colla scienza del poi, a stralciare sentori di funebri rintocchi, meste tonalità come di campane che suonano a morto. Un trionfo, sul versante artistico letterario, il '700 veneziano. Al più s'adoperi la scienza del poi per dirlo l'ultimo trionfo. Così basta e, anche, avanza. Constatabile, semmai, a margine che lo splendore è come disgiunto dalla potenza. Poco male: l'arte sa essere grande per conto suo. È inventiva. La monumentalità, lo slancio verso l'alto, lo sfondamento prospettico, l'esaltazione allegorica, l'aerea magniloquenza, le volte celesti, le deflagrazioni epifaniche, le solari luminosità, le eroiche trasfigurazioni, le piramidali sublimazioni tiepolesche non è che abbisognino d'una qualche replica del re Sole. Bastano i Pisani, basta il vescovo di Würzburg. Né pel tripudiare del dialetto, di "el lenguazo", per dirla con Goldoni, "de la zente", del suo parlare tra "canali" e "strade", tra rii e fondamenta necessita una Venezia temibile e temuta. Sempre sapido - anche se la Dominante non incute più timore - il veneziano adoperato da Giorgio Baffo (52) per cantare il coito, ossessione e gioia, incubo e miraggio. Fosse, anzi, protesa per mantenere un qualche politico primato, essa, Venezia, non sarebbe così connivente, così disponibile, così docile ad ambientare il suo aggirarsi da insaziabile gattaccio infoiato miagolante sguaiato immediate pretese, quasi il mondo a queste debba ridursi. Sin sbranata da primordiali pulsioni la circoscritta musa di Baffo. Altri, magari, le chiamano amore. E "l'amore [così Celine nel Viaggio al termine della notte] è l'infinito messo alla portata dei barboncini", e, possiamo aggiungere, dei cani in genere, anche dei cagnacci. Una definizione ritoccabile per adattarla a Baffo: l'amore è l'infinito quale può concepirlo un gatto randagio in calore. Aggiungibile, volendo, a titolo integrativo che l'eros è per Baffo - uomo tutt'altro che indotto; se segue l'istinto c'è, a monte, un'opzione mentale, una scelta di vita - l'hic et nunc surrogatorio dell'assenza d'infinito, visto che questo coincide, una volta "morti" nel destino di rimanere "in eterno in sepoltura", che inghiotte nientificante la vita come se, ancorché "nati" e vissuti, "a sto mondo no fussimo mai stai". E, allora, date le "tante diverse religion", ognuna spacciata per vera, non resta che il libero esercizio della sessualità, sul quale - sogghigna furbesco - "s'accorda 'l mondo intero", ché, in fin dei conti, non c'è Dio - né quello dei cristiani, né quello degli ebrei, né quello dei maomettani - che lo neghi. Così praticando, conclude, "ubbidisso Dio". E tutto un programma: "sia 'l nostro ultimo fin solo 'l diletto". Utilizzate le scorse ai philosophes - e tra questi "Elvezio", il "parigin filosofon" - in senso materialistico, antimetafisico, eccone, in certo qual modo, legittimato il percorso riduttivo per cui l'eros si contrae a sessualità, e questa - nell'ossessiva enfatizzazione del corpo come macchina che dà e riceve piacere - si localizza nell'apparato genitale semplificato in fallica erezione e umidore vaginale. Non che verseggiando Baffo non tocchi altri argomenti, ma di quel che gl'ingombra la mente non si scorda nemmeno quando dovrebbe e/o potrebbe. Muore nel 1764 Algarotti. Certo: colla sua "cultura" s'è distinto, "l'ha fatto una gran figura", la sua "fama" s'è spinta sino ai "paesi più remoti". Ma Baffo lo stima soprattutto perché è sempre stato pieno di donne senza tirar mai fuori un soldo. Tanto di cappello, dunque, al saggista, all'intellettuale cosmopolita. Ma ancor più al donnaiolo fortunato, cercato dalle donne senza prendersi la briga - correndo loro dietro, per loro spendendo e spandendo di cercarle. Brillante, arguto, anche poeta l'abate Angelo Maria Barbaro (53); ma a Baffo interessano soprattutto le sue fortune amorose; "i dise" sia spropositato, "terribile" il suo membro virile. Personaggio di spicco nella Venezia di Baffo, Lodoli. Ma eccolo ridotto nei versi di Baffo a collezionista di quadri e, insieme, "sempre in cerca de roversi", sempre a caccia d'invertiti. Esultante Baffo alla morte, nel 1761, del "fratazzo", il "filosofo sporco d'ogni vizio", praticante con "donne", praticante con "putti", "vero disonor" del suo ordine, quello francescano, dalla "vita buzzarada", laida, sodomitica. Se si bada a Baffo il Socrate architetto non è che un corruttore di fanciulli; di socratico c'è solo la seduzione delle repliche d'Alcibiade. Certo che, scrutata nei risvolti sessuali, non c'è personalità che non s'impoverisca. E, nel caso di Lodoli, non è che si salvi alcunché, che ci sia distinzione tra costumi e dottrina. Depravati quelli, inesistente questa, una truffa, un imbroglio, una "bestial filosofia", gonfia superbia, insolente pedanteria d'uno scroccone impenitente "che se stimava assae più d'un dottor della Sorbona". Un bluff l'"architetto novo, e immaginario", un contaballe. Tuttavia - ammette Baffo con dispetto - c'era "chi el voleva a tola", l'invitava a colazione, pur di "sentir" un suo "apologo". Stimato, invece, da Baffo il futuro cannoneggiatore di Tunisi e Biserta Angelo Emo. E sa che è tutto eccitato all'idea "de montar nave patrona". Ebbene: è la stessa eccitazione ch'egli prova quando s'incontra con una donna. E se il futuro ammiraglio rischia la vita nelle tempeste, egli rischia di prendersi una malattia. Priapismo in versi vien da dire, sessomania monocorde, monotona, ripetitiva, prevedibile, in una Venezia peraltro dove il francescano Scottoni viene accusato dai confratelli d'andar diffondendo un'Ode a Priapo, d'andar sostenendo per le osterie che ci sarebbe una bolla pontificia autorizzante nel periodo estivo pratiche sodomitiche. "Frate scandalosissimo" Scottoni a detta dei suoi superiori, "miscredente ed atteista" (54); così esagerando, così per colpire il suo riformismo, il suo anticurialismo screditandolo moralmente. Così il fautore dei lumi vien degradato a libertino. E così i lumi diventano la premessa al libertinaggio. Vituperando questo, vituperabili anche quelli. È la posizione di Scottoni in fatto di manimorte, di riforme, di istruzione a renderlo inviso. Ma Baffo, checché pensi, non rappresenta un'ideologia. Inchiodato alla parte del poeta osceno, a lui la città chiede versi osceni da recitarsi per gli avventori dei caffè, nelle cene, inter pocula, nei discorsi sboccati, nelle conversazioni sfacciate. Destinate le sue "composizioni" agli "omeni e alle donne morbinose" che sappiano intendere la vita pel verso giusto. Poeta minore Baffo oppure - nel suo genere, nel lubrico - grande, unico, geniale come vuole Casanova e vate priapeo d'una Venezia grondante sesso come vorrà Apollinaire? Forse la poesia lo lambisce non quando le spara grosse quasi a ciò incitato da una platea sguaiata, ma quando s'insinua interstizialmente la tetraggine dell'umor nero, quando s'affaccia la stanchezza, quando si preannuncia il non funzionamento del corpo. E isolatile un'impennata d'autentica poesia là dove dice tutta la visceralità del rapporto coll'acqua della sua città, che voglia dire il nascervi e il morirvi: "e come da sto mar tutti nassemo / dopo morte in sto mar tutti tornemo". Possente - si noterà - la forza espressiva del dialetto, slargante, arioso, non casareccia micragna, non asfissia di calle cieca. Ed è col dialetto che, come già nel '500 Venier, Baffo dice i gesti e i luoghi del sesso che l'Arcadia non può che schivare, come, nel '500, il "toscan" dei petrarcheschi, elusivo e sublimante, l'aveva, sorvolandoli, di fatto taciuti. Non una gentildonna, non una dama la "musa" di Baffo, ma "una donnazza veneziana". Questa "parla schietto". E se la contegnosa "matrona" parla come un accademico della Crusca, lo "stil scoverto" di Baffo scavalca la barriera della lingua alta, si tuffa nel lessico della "puttana". Inediti, sinché vive, i suoi "versi buzzarai" ispirati dalla lagunare musa puttanesca, epperò intensissime la loro circolazione manoscritta e, pei più scandalosi, la trasmissione orale. Sicché risultano "semenai" per tutta Venezia e anche in giro "per tutto quanto el stato" e persino "fora", oltre confine.
Una lingua con una marcia in più il dialetto di Baffo. Ma anche, laddove un'abbondante produzione spesso anonima esprime il misoneismo, il conservatorismo e, prima ancora, l'ostilità al pensare, solo vernacolo chiuso anzitutto mentalmente, angusto registro espressivo d'una grettezza buonsensaia istintivamente diffidente della cultura, delle idee, dei libri senza darsi pena di conoscerli, di discuterli, di affrontarli argomentatamente. È un parlare per sentito dire. È un respingere prima ancora di leggere, senza leggere. E un rifiutare preventivo. Col che il dialetto diventa formula di scongiuro contro gli "spiriti forti" che cianciano irriverenti di religione, che van dicendo che i "miracoli" son "cogionarie", che "ancuo", oggi, il mondo è a sufficienza "iluminà" per buttar via a mo' d'inutile ciarpame fede e morale, per accontentarsi di postulare un dio "de sora", non senza ipotizzare l'eventualità di farne a meno. A tanto arrivano gli "spiriti forti", con empia sicumera. Che dirne in dialetto se non che sono, nel sostenere assertivi le loro idee, come dei cornuti vantanti "l'onor de so mogier", come dei bastardi certi delle virtù materne? "Incerti de so fioli e de so pare", essi "i zura quel che no i pol zurar", spacciano per certe le loro false credenze. Così, con un paio di battute, un anonimo si fa portavoce del buon senso, del senso comune. Banalizzati i lumi a supponenza ridicola, rimpiccioliti, messi alla propria portata, ecco che se ne può sparlare orchestrando una maldicenza da calle, col lessico della calle. E questa sa dire di corna, di padri veri e di padri presunti. E l'abate Angelo Maria Labia - lo stesso che nel pieno della festa della Sensa del 1775 è colto da un soprassalto di voglia di pianto: in festioitate homo tristis, basterebbe commentare; ma, letti alla luce del 1797, i suoi versi dialettali son diventati profezia della fine - non è che s'alzi d'una spanna rispetto a quel che può dire la calle irridendo al "perspicacissimo saver" dei "Russò e Volter" e degli altri "sapienti" che pretendono d'"illuminar". E dalla calle li si bersagliano con frizzi e lazzi in vernacolo. "El mondo", dice la calle (e va da sé che così le fa dire il patriziato più retrivo, ma anche più in difficoltà a discutere ragionando, a ragionare discutendo), non ha bisogno di lumi. Essi, protesta la calle, tanto loquace nel vituperio quanto incapace d'articolare un discorso reazionario, guastano l'anima, il cervello, il costume. Sono una malattia pericolosa, un'epidemia contagiosa. Ma non è arginata da battute in dialetto. Diffusi: i "libri forestieri" e citati nella "conversazione" cui prestano spigliati paradossi, audaci sentenze, massime disinvolte. In ritirata gli ammaestramenti morali, le religiose certezze, la stessa saviezza dei proverbi. Sempre più sbarazzina e spregiudicata la conversazione, sempre più brillante, sempre più spiritosa. E va a parare nel civettare, nel corteggiare, nella galanteria. E questa produce amoretti che poi diventano amorazzi. Non innocue le biblioteche con autori alla moda. Di moda citarli. Di moda dedurne comportamenti. E se la virtù non è più di moda è colpa dei cattivi libri, dei libri forestieri. "Così accade [lamenta il bassanese Roberti, prima gesuita e poi abate] che l'autorità d'un Elvezio giustifichi le bugie amorose delle fanciulle e il libertinaggio". Ne scapita la moralità. E la scostumatezza è talmente sfacciata e talmente imperversante che il doge Paolo Renier - lo stesso che, prima del dogado, col suo voltafaccia dal campo dei novatori a quello avverso s'era guadagnata la nomea di traditore da parte di quelli; ma va pure ricordata la sua cultura; notevoli la sua padronanza del greco, la sua passione per Omero e Pindaro; e sintomatico il suo tradurre in veneziano Platone d'affezione alla lingua quotidiana, ma anche di sperimentazione della sua virtuale elevabilità ad esprimere il pensiero, la speculazione - paventa d'essere destinato a diventare "l'ultimo doge di questa meretrice" (55), ossia di Venezia, quasi questa debba crollare perché moralmente fradicia. E una confidenza del genere l'avrebbe fatta, nel 1782, al giansenista Tamburini, in effetti frequentatore, quando a Venezia, di casa Renier nonché ospite pressoché quotidiano della mensa dogale. Severo giudice, in privato, il penultimo (questo il suo posto nella lista) doge (56) della propria città scostumata, sin baldracca. Epperò non esempio di specchiati costumi e chiacchieratissimo il passato - ma ci sarebbe da dire anche del presente, ché ha un amante, di lei molto più giovane, che, vedova, sposerà - della sua seconda moglie. E tutt'altro che silenti i sonetti satirici a proposito di "siora Margherita" - Giovanna Margherita Dalmet, dal doge sposata segretamente (si fa per dire: tutti a Venezia lo sanno) -, troppo influente sul marito. E sin accanito il dialettale satireggiare su questo "dose" eletto senza "evviva" di "popolo". "Pianzo né digo gnente". Così l'autore d'un sonetto. Troppo ci sarebbe da dire di questo "Clodius in foro, Catilina in senatu, Veres in provincia" meritevole non di lapidi celebrative, ma di lapidazione. E, quando, il 13 febbraio 1789, cessa di vivere, è impossibile, stando ad altri versi, "dir ben de lu", ché "ripugna la coscienza". Allora "xe un gran ben per tutti ch'el sia morto". Lo proclama la città, concorda l'intero "stato venezian". Entrambi "così" dicono "universalmente". Una condanna doverosa: "cucì deve dir ogni cristian". Ma sa essere ancora cristiana Venezia, oppure - spugnosa com'è - non è più se stessa, è francomane, è anglomane? Esistono ancora i Veneziani veraci? O sono una razza in via d'estinzione, anzi già estinta?
Corrente impetuosa la moda si tratti d'abusare in "sbeleto", si tratti del conformarsi nel "pensar". È il sonno del buon senso. È il dilagare d'una autentica pazzia tanto è scriteriata. E ne nascono mostri in carne ed ossa. Un mostro la donna imbellettata e volterriana ad un tempo, alla vista del misoneismo e del misoginismo che si nutrono a vicenda sino a fabbricare, nel loro sommarsi, La Marfisa bizzarra satireggiata nel poemetto in ottave che Carlo Gozzi (57) compone, tra il 1761 e il 1768, intingendo la penna nella bile. Troppe Marfise starnazzano e squittiscono nei salotti, menadi vestite alla parigina e ostentanti letture parigine, eroine d'un mondo superficiale, frivolo, garrulo, corrotto, corteggiate da leziosi cicisbei, da fatui bellimbusti. Iroso con questi e quelle Carlo Gozzi, il fratello di Gasparo, sdegnato col loro essere alla moda. Non che speri coi suoi versi d'indurli alla saviezza, al ritegno, alla compostezza. Almeno servano a testimoniare che egli col mondo che si sta stupidamente rovinando è agli antipodi, che coll'andazzo dei tempi è furente nel suo totale disaccordo. Donchisciottesca la sua battaglia, solitaria. Individuale gesto di sfida il suo atteggiamento, troppo impaziente per mettersi ad organizzare, coordinando collegando paziente, un qualche partito pel ripristino del buon senso, per il ribadimento dei buoni costumi. D'altronde non è che i Granelleschi, d'accordo sinché si tratta di "purità di linguaggio", di tradizione letteraria, di studio dei classici, di reagire a Bettinelli, a Cesarotti, a Chiari, a Goldoni siano un "drappelletto" che riconosca in Carlo Gozzi una guida autorevole. È troppo umorale per farlo. Motivata, comunque, la sua opposizione a Chiari e a Goldoni. A quest'ultimo imputa la lesa tradizione della commedia dell'arte, la lesa dignità della lingua, la sciatteria, il sovversivismo latente dei suoi personaggi carichi di difetti se titolati e, invece, positivi se non titolati, se borghesi. Un opporsi che sa, per tal verso, di muffa, ma che non è solo tale nella misura in cui le sue fiabe riaffermano il teatro come luogo della fantasia, dello stupefacente, del meraviglioso, dell'evasione, appunto, fiabesca dalla realtà, dalla verosimiglianza che, invece, Goldoni privilegia, mentre Chiari pasticcia. E il consenso di pubblico (mancato invece al fratello giornalista) arriso a Gozzi autore teatrale - in una città ove l'offerta teatrale è la più intensa e svariata d'Europa; quand'è a Venezia, nel 1786, Goethe quasi ogni sera va a teatro e sempre a vedere qualcosa di diverso - è anche favor di popolo, sin di popolino. Se i borghesi amano vedersi con Goldoni, i popolani preferiscono sognare con Carlo Gozzi. Divaricata l'antitesi tra la gozziana fantasia e la goldoniana verosimiglianza, mentre Pietro Chiari (58), in urto con entrambi e da entrambi ricambiato, non è che brilli di luce propria. Né carne né pesce vien da dire di lui autore teatrale. Non è abbastanza fantasioso né è capace di resa realistica. Non sa inventare ariosamente, né sa creare situazioni tramite rapide battute. Epperò c'è chi va a vederlo. Epperò ha anch'egli i suoi estimatori. Sicché si dà la compresenza di tre autori rivali che si contendono, sin sgomitando per primeggiare, le scene e coi testi e, per così dire, coi peritesti. E ad un certo punto Chiari smette i panni d'autore teatrale, diserta la teatrale contesa, per farsi, senza per questo diventare un grande scrittore, il banditore del romanzo in Italia, offrendo ad una vasta cerchia di lettori e, più ancora, di lettrici le avventure delle sue eroine incolpevoli messe a cimento da complicate vicende sperimentando le quali nel contempo ne approfittano per meditarci su, massimeggiare in proposito, commentandole. Avventurosi e didascalici ad un tempo i romanzi di Chiari, peripezie con commento e, pure, visto che le protagoniste raccontano di sé in prima persona, pseudo (è sempre l'autore che così decide) autobiografie. "Scritti" per il "volgo più spregievole", pei "servidori di livrea", per le "più plebee" delle "donnicciole", inveisce Baretti a proposito dei romanzi di Chiari, la cui lettura è vietata alla "fanciulla nobile di mente come di schiatta" interlocutrice d'Aristarco. Epperò è soprattutto Chiari che - rispetto alla Francia dei Prevost e dei Restif de la Bretonne e all'Inghilterra dei Defoe, dei Richardson e dei Fielding - tien dietro colle romanzesche traversie della "filosofessa italiana", della "giocatrice di lotto", della "bella pellegrina", della "francese in Italia", della "donna" introvabile, dell'"americana raminga". E non dimenticato il teatro, ché sono ben tratte dal mondo teatrale "la ballerina", "la cantante", "la commediante". Non che manchino i romanzieri in Italia e a Venezia. In questa Zaccaria Seriman, Antonio Piazza, tanto per fare un paio di nomi. Ma è Chiari l'autore che s'impone e più impone il genere romanzo. Stando ad una lettera di Ortes del 13 dicembre 1760 all'amico bolognese Gian Lodovico Bianconi tra i libri più recenti più venduti e letti, oltre alle "commedie del Goldoni", ci sono, appunto, "i romanzi del Chiari".
Deprecabile, comunque, per Baretti il prolifico romanzare di Chiari, scrittore per un pubblico incolto, epperò, proprio per questo, in un'età d'ansiosa ricerca del pubblico, slargante la domanda di lettura cui viene appunto incontro colla sua offerta di narrativa divulgante - nei commenti - un po' di lumi al popolo, alle donne, alle donnette. E redarguente nel contempo dal pulpito dei Granelleschi, Carlo Gozzi il commediografo Goldoni che troppo si sta imponendo. Ma criticare non basta. Occorre una produzione alternativa che gli sbarri il passo, che lo faccia retrocedere. Di qui la scesa in campo della controffensiva, tra il 1761 e il 1765, di Gozzi con L'amore delle tre melarance, Il corvo, Il re cervo, La Turandot, La donna serpente, La Zobeide, I pitocchi fortunati, Il mostro turchino, L'augellino belverde, Zeim re de' geni. Una strepitosa convocazione del magico, del soprannaturale assecondata, in sede di rappresentazione, dai trucchi ingegnosi d'una scenotecnica adoperante inventiva macchine e fondali pur di creare atmosfere strabilianti e portentose. E un repertorio a futuro utilizzo operistico pel Wagner delle Feen, le fate, per Puccini, per Malipiero. E un favoleggiare che pesca i suoi spunti e i suoi stimoli, al di fuori della tradizione toscana di cui il Gozzi granellesco s'era pur fatto paladino, in Le mille e una notte, nel basiliano Cunto de li cunti, nella Posilicheata di Pompeo Sarnelli. E, nella inverosimiglianza più stravagante e bizzarra, sin puntigliose tirate antiilluministiche, pretestuosi inserti d'un reazionarismo coriaceo, intestardito. Pentita, pentitissima, nell'Augellino belverde, Barbarina dei propri "studi [...] stolti e fallaci" che l'hanno indotta a spregiare la "ragion dal ciel moderatrice" - niente a che vedere con la raison dell'umano presumere del cielo dimentico - facendosi "schiava" d'un'"insaziabil torma" di egoistiche "brame". Così Gozzi nel 1765, laddove, in La filosofessa italiana, il primo romanzo di Chiari uscito ancora nel 1753 (a soli tre anni dalla perentoria Difesa della storia contro i romanzi dello stesso: è chiaro che, se corrono dietro al pubblico, i professionisti della penna non possono permettersi il lusso della coerenza), la protagonista, nel confessare "quelle cose ancora che le fan poco onore", è proprio in virtù dei libri letti che ha una personalità, una sua autonoma capacità di giudizio, nonché d'autoanalisi. Le è morto il marito. Fedele alla sua memoria, reprime i moti del cuore. Non intende riaccasarsi. Virtuosa, quindi, "agli occhi del mondo" per questa sua strenua affezione allo scomparso. Ma che si tratti d'autentica virtù essa dubita. Avverte nel proprio comportamento più la "vanità" del "comparir" virtuosa che l'"esser" realmente tale. Traversie, evasioni, duelli, gravidanze, scomparse, ritrovamenti, riconoscimenti, perigli, corse, rincorse, città, prezzi (sin l'ammontare delle mance), toponomastica nei romanzi di Chiari. Ma, oltre ai comportamenti, anche problemi di comportamento, così riecheggiando situazioni anche psicologiche della narrativa d'Oltralpe. E tra locande e strade, tra scendere dalla carrozza e risalirvi il profilo dell'eroina che sa giudicare e giudicarsi, in grado d'esprimersi, dotata di cervello, culturalmente non sprovveduta. "Tempo già fu che l'ignoranza era un pregio del nostro sesso". Così, quasi in prima battuta, la giovane francese sbalzata dalla sorte nella penisola. Ma ora - oltrepassata la metà del '700 - "le donne leggono assai", tanto più che le donne si sono pure "poste a scriver". E Chiari, a suo modo, lo registra camuffando i propri romanzi da autobiografie femminili. L'altra metà del cielo un po' s'è desta, vien da dire. Un risveglio disturbante per il misoneista e misogino Gozzi. Lo urtano quel che leggono e quel che scrivono le donne. Ma più ancora lo urta il fatto che leggano e scrivano. "Nella donna l'attività intellettuale è segno d'anormalità criminale", asserirà Lombroso. Ecco: Carlo Gozzi in un'asserzione del genere potrebbe riconoscersi. Una pentita la sua Barbarina decisa ad espiare la colpa dello studio, della cultura. È Marfisa che va in rovina perché non si pente. E va in malora il patrimonio dei Gozzi per colpa di Luisa Bergalli, la prima moglie del fratello Gasparo che il cognato Carlo non riesce a sopportare. E nel suo caso non perché particolarmente infamata dei lumi, ma perché legge, perché scrive, perché traduce, perché ha pretese d'operatrice culturale, perché mette becco nelle faccende di famiglia, perché non sta al suo posto, perché fa, perché strafà.
Certo che, per una Barbarina che rinsavisce, mille Marfise stanno perdendo il senno dietro a Parigi e per colpa di Parigi. E perde pure il senno l'attrice amata da Gozzi che gli preferisce quel che più odia: un cavaliere galante e simpatizzante pei philosophes. Carlo Gozzi ha ben di che incupirsi. Unica consolazione è che nel 1762 Chiari se ne sia tornato a Brescia e che pure Goldoni (59) - usciti il I e il II volume delle Opere presso l'editore Pasquali; e bisognerà attendere il 1778 perché esca il XVII, l'ultimo - sia partito, e definitivamente, per Parigi. E qui si vorrebbe un Goldoni rivitalizzatore di quella tradizione italiana che, coll'applicazione letterale della sua riforma, andrebbe totalmente in crisi. E ci morrà nel 1793, troppo presto per riavere la pensione toltagli l'anno prima in un ribollimento tumultuoso di gran lunga eccedente quanto le sue aperture ai lumi avrebbero potuto - pur pigiando al massimo il pedale della fantasia - prevedere. Fuori dall'orizzonte mentale di Goldoni la rivoluzione. E punitiva, d'altronde, questa con lui visto che nel 1792 lo spensiona. Confitta invece nel paesaggio mentale del Goldoni impariginato Venezia: "no passa dì che no me vegna in mente", confessa, nel 1782, alla nipote, "el dolce nome della patria mia", lasciata ormai da "vint'ani". Autore teatrale prolificissimo - e un minimo anco imprenditore teatrale applicandogli addosso la definizione schumpeteriana a dir della quale l'imprenditore è, appunto, colui che innova continuamente i processi produttivi con un esercizio individualistico delle proprie funzioni; manager, quanto meno, Goldoni, nella misura in cui l'edificio teatrale, la compagnia teatrale, ancorché non suoi, vivono in virtù della sua produzione, nella quale investe tutto il suo credito - di testi ambientati a Venezia o Venezia riecheggianti anche se camuffati da altri toponimi, scrittore di testi in veneziano, Goldoni ha ben diritto a dir "mia" la città. Ci è nato, ci è vissuto a lungo; e l'ha talmente colta e l'ha talmente resa che tuttora Venezia settecentesca e Venezia goldoniana suonano sinonimiche. Veneziano al cubo, allora, Goldoni, ritrattista che inventa, inventore che ritrae, sì che la vita nella commedia sembra quella vera e quest'ultima sembra una commedia.
Affinato professionista - e tale veste l'aristocratico Gozzi gliela rimprovera: svilente, per lui, la categoria degli autori "prezzolati" - Goldoni e in grado di dire, nel 1750, un po' sopra i quarant'anni, con quali criteri lavora, come esercita la propria professione.
Con una ragguardevole produzione alle spalle - tragedie, melodrammi, intermezzi, commedie -, coll'attivo d'un'avviata riforma imponente al teatro, del pari professionista, testi compiutamente scritti, la cangiante mimica del volto a sostituzione della fissità della maschera, il rispetto scrupoloso delle parti con correlata rimozione delle guitterie, delle improvvisazioni estemporanee, delle acrobazie, dei gigionismi attoriali autorizzati dai semplici canovacci, può ben essere esplicito su di sé nella prefazione alla prima raccolta, quella bettinelliana, delle sue commedie. Senza imbarazzo ammette di non essersi più che tanto dedicato ad uno studio intenso. Ha letto sì, par di capire, i grandi autori, ma un po' di corsa, senza supplementi di meditazioni, riletture, approfondimenti. Ha invece "meditato" sui due "libri" dei quali s'è realmente "servito ". Un libro è costituito dal mondo, che ha per lui, si può commentare, una funzione analoga a quel che è libro aperto della natura per Galilei, da questi privilegiato rispetto all'esegesi aristotelica. "Con ingenuità" - un'ingenuità relativa: Goldoni è consapevole di quel che sta dicendo; solo che fingendosi ingenuo non è tenuto a discutere, può semplificare - confessa il proprio esiguo bagaglio culturale, la propria relativa conoscenza della letteratura antica e moderna. Non ha letto gran che, proprio perché quel che c'è veramente da leggere glielo fornisce la lettura del mondo. A lui questo "mostra tanti e [...] vari caratteri di persone" dipinti "al naturale", squaderna il campionario dei possibili "argomenti", svela la dinamica delle "passioni", attiva "avvenimenti curiosi", mette sotto gli occhi le costumanze in corso, palesa "vizi" e "difetti" e simultaneamente "virtù" che si incarnano vieppiù evidenti "in qualche persona", appunto, "virtuosa". Un'informazione continua, una didassi continua il "libro" letto e riletto da Goldoni, osservatorio, specola sulla contemporaneità. Beninteso: la contemporaneità è quel che si vede, quel che sta sulla superficie; anzi, meglio, la contemporaneità è la superficie, è la visibilità della superficie, la sua evidente presenzialità, il presente nella sua evidenza.
Assente l'idea di carsici spessori, sinanco di storia. Più d'uno ha letto Vico e meditato su Vico a Venezia (60). Ma non Goldoni. In tal caso il suo dirsi ingenuo sta per ignaro. Sicché persino un Chiari - nelle Osservazioni alla propria Vendetta amorosa, scritta nel dicembre del 1755 e rappresentata il 17 gennaio del 1756 - avrà buon gioco a ricordare che non si danno solo "il mondo e il teatro" viventi, ma che esiste pure il passato, almeno "tre mille anni" di vicenda umana e di espressione teatrale. Semplificato il mondo se alleggerito di millenni di storia e facilitato lo sguardo se lascia perdere gli interstizi e le crepe donde guardare a quel che sta sotto. Così si schivano complicazioni. Così non è attardata l'immediata resa di quel che subito si vede. Esente da tentazioni di riflessione storico-filosofica il cordiale affabile approccio della poetica goldoniana. Non buca la superficie. Non si propone sondaggi geologici. Prende dalla superficie, ne utilizza il campionario, l'antologizza. Goldoni, con la sua poetica funzionale alla sua produttività, non scava, non perfora, non va a caccia nelle viscere del mondo e nei segreti meandri della psiche di splendidi tesori e di terrificanti orrori. Senza scheletri nell'armadio i suoi interni domestici. Anche perché negli armadi, per buona creanza, non va a curiosare. Se sono chiusi li lascia chiusi. E senza tombini i suoi campielli, le sue calli, le sue stanze a cielo aperto. Non guarda sotto il letto. Non disselcia selciati. Se non altro perché gli manca il tempo. In quanto professionista deve mantenere i propri impegni professionali.
Deve fabbricare testi rappresentabili con la scadenza datagli. E nel 1750 - l'anno della stampa della sua raccolta da lui così prefata - che s'impegna a fornire, per la prossima stagione teatrale, 16 nuove commedie. Da professionista serio assolve l'impegno. E, data la sua capacità di lavoro, di lì a qualche anno, s'impegna per una produzione di 8 commedie all'anno. Il che non concede meditazione, approfondimento, scavo. Deve andar di corsa. E ha fiato per correre. E, tutto sommato, correre non gli dispiace. Non può - né gli piace - perlustrare con pazienza antri tenebrosi per afferrare evanescenti fantasmi. Non può rimanere immobile colle orecchie tese per percepire fioche voci interrompenti remoti silenzi. Quel che vede subito e che sente subito basta e avanza. Un libro ben stampato, ben illustrato quello del mondo. Mica è un palinsesto. Ma quale il "secondo" libro? Esplicita anche su codesto la prefazione. È quello "del teatro", in certo qual modo - visto che le scene teatrali, le sedi deputate alla rappresentazione sono di questo mondo, in questo si vedono - un libro nel libro, che "fa conoscere" a Goldoni le coloriture, le ombreggiature, le tecniche chiaroscuranti, i dosaggi della tinteggiatura, gli accorgimenti, le astuzie adottabili per la messa in scena di "caratteri", "passioni", "avvenimenti". Il libro del mondo vale, insomma, a prestare gli oggetti della rappresentazione, quello del teatro ad istruire sulle modalità, sulle procedure di detta rappresentazione. Nel primo si opera la selezione individuante quanto più impressiona, sorprende, meraviglia, attrae, incuriosisce, suscita "riso", diletta, stimola, intrattiene, diverte. E ciò avviene "nell'uman cuore", nella mente sensibile allorché riscontra, nella "commedia" rappresentata, "effigiati al naturale" e "i difetti" e "'l ridicolo" che lo spettatore incrocia nella vita di tutti i giorni e ai quali egli stesso non è estraneo. In certo qual senso compendiante la riproduzione teatrale lo spettacolo che c'è già nel mondo. Spettacolo dello spettacolo, allora, il teatro che filtra lo spettacolo del mondo restituendolo alleggerito, illimpidito sì che non risulta urtante, offensivo. Uno spettacolo, quello teatrale, che non denuncia, che non s'aderge a giudice. Registra, riporta, indulgendo e facendo indulgere. Uno spettacolo, questo teatrale, che, avendo per destinatario un pubblico, si fa "occasione" per appurarne il "gusto particolare", sicché l'autore, lo scrittore per il teatro - talvolta applaudito proprio quando meno se l'attende, talaltra criticato proprio là dove gli par di meritarsi applausi scroscianti - ne tenga il debito conto nella disponibilità "a regolar", appunto, il proprio personale "gusto su quello" degli spettatori senza supporsi autorizzato a dettar "legge" in proposito. Non si dà insomma un'autorale titolarità al monopolio del buon "gusto". Questa, si può annotare, è una pretesa dell'Arcadia, dei Granelleschi. Non definibile una volta per tutte, invece, per Goldoni, il "gusto". È mutevole, è cangiante. "I gusti [argomenta] possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il popolo egualmente che delle mode e del vestire e de' linguaggi". Ne consegue che - fattosi il "popolo ", una volta a teatro, pubblico - spetta a questo, il popolo pubblico, il giudizio sul "gusto" dell'autore, il quale, allora, deve mirare a che il proprio "gusto" sia sintonizzato con quello degli spettatori, incontri il loro gradimento.
Indifferente Goldoni all'altrui teorizzare, trattare, dissertare, disquisire, dibattere. Non è un letterato che con letterati metta a fuoco quel che sono le lettere. Non è nemmeno un erudito che ai colleghi in erudizione sottopone un programma di studio. Non sta giustificandosi di fronte ad una commissione di competenti. Sta semplicemente elevando a poetica, a programma la propria prassi, sta illustrando la flessibile empiria della ricetta dei due libri, sta dicendo che bisogna conoscere il mondo per rappresentarlo a teatro, che la rappresentazione teatrale fa conoscere meglio il mondo e, nel contempo, che le procedure di rappresentazione le si apprendono in teatro. Esito del mondo conosciuto la commedia e, nel contempo, ulteriore cognizione del mondo. Istruttiva, quindi, la commedia: senza essere di proposito edificante, chiarisce, illumina, nonché - in virtù del registro del comico - sdrammatizza, ridimensiona. S'afflosciano, nella commedia, i turgori tempestosi, si sgonfia la roboante eloquenza, non provocano incendi disastrosi le vampe amorose. Se a teatro si ride, un po' su di sé si sorride. Strumento d'autocomprensione indulgente a questo punto la commedia. E sinottica la lettura goldoniana dei due libri, del mondo vivente e del mondo rappresentato sulle scene, simultanea, interagente nel trapasso da quello a questo e viceversa. Spettacolo virtuale il mondo e mondo virtuale lo spettacolo. Chiacchiere di caffè, bisticci di servo e padrone, brontolar di vecchi, smanie per villeggiare, tensioni domestiche tra parsimonia sin troppo avveduta e spese voluttuarie sin eccessive, mariti che col carnevale vorrebbero chiudere porte e finestre e mogli che al carnevale vorrebbero spalancarle, crepitante loquacità di campielli, appianabili crucci d'amore di putti e putte. Così a questo mondo e così a teatro. E così soprattutto a Venezia, dove la quotidianità sembra una recita e nel contempo include come connotato abitudinario, scontato, le recite teatrali. Normale andare a teatro. Abituata ad andarci, prima di sposarsi, 2 o 3 volte d'autunno, 5 o 6 di carnevale Margherita, la moglie del rustego Lunardo. E senza teatro a lei par di soffocare. A Venezia, allora, il massimo della sinossi per la lettura dei due libri, per l'intendimento della vita come spettacolo e dello spettacolo come vita. E c'è un andirivieni d'invenzione e realtà nel rimbalzare dentro il teatro della città e nel ridondare del teatro su questa. Sicché la città diventa goldoniana e il teatro è anzitutto veneziano. E chi cerca l'essenza di Venezia va a teatro. E chi cerca l'essenza del teatro gira per Venezia. E il tutto col massimo della visibilità e, quindi, alla luce del sole, che, lo si sa, investe le superfici. La superficie illuminata, insomma. E la superficialità illustrata nel suo muoversi, nel suo dirsi. E la profondità? Non è che non ci sia nella misura in cui la lingua della superficie viene dal profondo, ha il cuore antico, è ricca di secoli di comunicazione, lievita pel fraseggio del presente dalle stratificazioni del passato, è impastata, impostata lungo questo, in una vicenda di persistenza e innovazione, di perdita e arricchimento. È il linguaggio - lingua o dialetto che sia - il latore della profondità. E nel teatro goldoniano si parla come si parla a Venezia non senza che questa parli come il teatro goldoniano. E per male che vada, anche se il padron di casa è un "rustego", sua moglie ha diritto, di carnevale, a "una strazza de commedia". E questa è di Goldoni, mentre costui origlia il battibecco domestico suscitato dal negato spettacolo. Certo: smaniare per partire alla volta della villeggiatura, battibeccare per andare a teatro non è indice di pensosità. Ma è questo l'agitarsi della superficie. La felicità come evasione campestre, come uscire in maschera, come assistere ad una rappresentazione. E l'infelicità come non farlo, perché non si può, perché, almeno, qualcuno dice che non si può. Monta, allora, la ribellione entro i domestici interni. Si crea contro Lunardo un fronte femminile tra moglie e figlia di primo letto. Il carnevale sta finendo e le due non sono state una sola volta a teatro. In un paio di battute Goldoni riproduce con sguardo comprensivo quel che significa esser senza carnevale in una città in cui questo è un diritto e anche un dovere. La sua è una comprensione della superficie colla sapienza profonda del linguaggio. Questo fotografa una situazione nel suo contesto, nel suo ambiente geostorico. E basta anche una mezza riga fulminea. "Creature, cossa diseu de sto tempo?". Così, in prima battuta, Lucietta nelle Baruffe chiozzotte. Donne in attesa degli uomini in mare. Una vita in cui il "tempo" atmosferico è protagonista. Altro fulminante incipit goldoniano il "Patte, chi mette al lotto?" del Campielo. Così s'annuncia il gioco della venturina; e le donne s'affacciano alla finestra. Basterà questo a farle bisticciare. E come il preludio d'un crescendo che poi si smorzerà l'incipit. E, una volta adoperato da Goldoni, anche il dialetto più consueto si rinfresca. Gli "omeni" attesi dal crocchio femminile chioggiotto hanno, per fortuna, "el vento in poppe". Un'espressione usata da secoli. Ma il "boccon de scirocco" lo è altrettanto o è scarto inventivo di conio goldoniano? Poco importa appurarlo. Quel che scintilla è la perfezione della resa, il concertato del "lenguazo", l'andante con moto del dialogo. E nel suo contrappunto il tipicizzarsi dei tipi, il caratterizzarsi dei caratteri, il differenziarsi delle differenze sociali. Borioso l'esprimersi del titolato, sussiegoso il tono del nobile anagrafico. Ventosa bolla la sua idea di onore. Ben diversa l'idea dell'onore del "mercante onorato", del "zovene onorato", della "putta onorata", della "donna onorata". Sa d'onesto comportamento, ha il profumo dell'onestà. "Onoratamente" vive il "galantomo", l'uomo dabbene, serio, onesto, leale.
È per costui che simpatizza Goldoni. È decisamente dalla parte dei galantuomini, tali definibili non per la "nascita", ma per le "bone azion". Goldoni si riconosce nella serietà operosa e non seriosa della borghesia, quella cui appartiene Rosaura, la "figlia onorata e civile" del mercante Pantalone per sposare la quale don Alonso, il nobile alfiere, acquista la "libertà" dall'esercito, dove l'"onor" costringe al duello, dove la vita è "militar disciplina". Blindata, costretta l'esistenza dei "cadetti" inquadrati nei ranghi dell'ufficialità. Ben altro il respiro dell'esistenza nel mondo civile dei gentiluomini "da senno", di "buoni costumi", dei mercanti onorati. Se questi si riuniscono, l'atmosfera è socievole, franca, affabile, cordiale. Ne nasce - sottratta alla "soggezion", disinibita, svincolata da ossequi alle "cariche" - l'intelligente conversazione. In questa la "pienissima libertà" d'una borghesia attiva che in questa, nell'atmosfera liberata, si ritrova al meglio. Si dà - in Le donne curiose, la commedia rappresentata per la prima volta nel teatro di S. Angelo nel febbraio del 1753 - il riunirsi d'un'"amichevole società", d'un'"onorata compagnia". Ne sortisce un'"onoratissima conversazione", senza "cerimonie", senza "complimenti", senza inchini, senza riverenze, senza convenevoli, senza salamelecchi, senza omaggi, senza deferenze. Si parla del più e del meno, si discute; e anche si fa assieme colazione e anche si legge. Ci si scambiano informazioni, ci si trasmettono idee. E se si viene a sapere di qualche uomo dabbene cui gli affari sono andati male, che in miseria senza sua colpa, di questa "vergognoso" non si fa più vedere, ecco che si vede d'aiutarlo, di soccorrerlo. Un po' circolo ricreativo, un po' gabinetto di lettura, un po' accademia la borghese radunanza; e, anche, la sede luogo di riconoscimento reciproco, di mutua colleganza, di rafforzata solidarietà. È stando insieme che i mercanti si sentono categoria, ceto. Ne nasce una sensazione di forza, di sicurezza. Piacevole stare assieme, ma anche saldante. Autosufficiente, autoappagante, autogratificante la sociabilità ben temperata della borghese riunione, non inquietata da aspirazioni a titoli nobiliari, a cambio di status. Né si può dire questi borghesi goldoniani ambiscano a conquistare politicamente uno spazio di politico comando. Loro bastano lo spazio e il ruolo che stanno detenendo nella società. Né li squassa brama di sontuoso tenor di vita. Vivono in dimore agiate e confortevoli. Non appetiscono invidi al fasto dei palazzi. Non sono inquieti e nemmeno irrequieti. Non pare auspichino un governo illuminato. È sufficiente che questo abbia quel tanto di lume del buon senso per non disturbare e intralciare la loro operosità che permette loro una vita decorosa e che ridonda socialmente utile, a beneficio di tutti. Sono una borghesia medio alta, degli affari, negli affari. Ancora di là da venire il sovversivismo giacobino, ancora non avvertibile lo scontento ribelle della piccola borghesia. In fin dei conti non stanno male nel mondo così com'è. E se riescono a star meglio è merito loro. Il benessere è frutto delle loro fatiche. Non lo pretendono dall'alto. Contano su se stessi, sulle proprie forze. E si considerano presenza attiva nella società senza prepararsi ad organizzare il salto della presa del potere. Che il loro rilievo sociale non abbia riscontro politico non pare sia motivo di cruccio. Per lo meno non appare alla superficie da Goldoni ritratta. Questi è attento alle parole, non ai silenzi. Per quel che lo concerne esistono solo i pensieri detti, i propositi manifestati.
Dal libro del mondo Goldoni trae - come gli acini da un grappolo d'uva, come gli spicchi da un'arancia - spunti rappresentabili. Per far questo non necessita uno sforzo speculativo. Semplice, semplificante l'ottica goldoniana. E non problematiche le considerazioni che mette in bocca ai suoi personaggi: "chi gh'a dei bezzi xe paron del mondo"; "el [...] mondo xe pien de furbi", attenti soprattutto ai "bezzi". Il "paron" poi non è il re, è il padrone di casa. "Governar", "governo" afferiscono al lessico dell'economia domestica. Il comando non gronda lacrime e sangue. È quello dei rusteghi: "comando mi, vegnimo a dir el merito, comando mi". È il disporre in casa: "semo paroni nu. E la muggier no comanda". Di là da venire gli inferni domestici dei drammi borghesi. Che l'uomo ordini alla consorte di non far "comarezzo" non induce al sospetto che, anche così, solo così, la casa può trasformarsi in cornice di microsadismo familiare, in recinto patogeno. Il "poeta comico per professione" non può evocare incubi, non può toccare nodi di vipere. Gli odi furibondi sottesi al bisticciare per "sparagnar" o "spender e spander", per la dote, per il testamento non debbono funestare la comicità. Né i sospiri dei morosi si trasformano in vampa di passione. "Cuor" e "prudenza", "prudenza" e "cuor". Se c'è movimento è quello della momentanea increspatura, della tempesta in un bicchier d'acqua. Ed è sempre nel mondo così com'è, non contro il mondo così com'è. Ognuno vi recita la sua parte, sta al suo posto. Linguacciuta, magari, la serva, rispondona, sin, di fatto, un po' padrona. Ma non per questo lo status di serva è rifiutato. Né si dà, nei padroni, un qualche disagio nell'esser tali. Non balugina, insomma, una qualche crisi del ruolo. Né Mirandolina si monta, per quanto stracorteggiata, per quanto a lei si dichiari il cavaliere, la testa. E funzionali le sue nozze alla gestione della locanda. C'è la massera, "dona valente", la quale, "per el so paron se farave desfar". C'è il "desfar" patrimoni. C'è sin chi è disposto per amore ad ogni sacrificio, sino a "desfar" se stesso. C'è chi è un incapace, "inclinà piuttosto a desfar che a far". C'è chi comanda a casaccio ora una cosa, ora il contrario come, appunto, la comandona che "la fa e la desfa". Ma nessuno si sogna di "desfar" il mondo, nessuno immagina che si può immaginare di "desfassar", di "disfazzar" un assetto, un regime. Se poi, in un Friuli feudale, i contadini bastonano il giovane padrone non è perché scoppi, finalmente, la lotta di classe. Questi, per agguantare una villanella, s'è travestito da villico. E i villici, picchiandolo di santa ragione, fingono di prendere per buono il travestimento. Solo così, astuti, possono bastonare il padrone: simulando sia un contadino come loro. Rappresentato sì da Goldoni un episodio di villereccia astuzia, ma non certo di rustica insorgenza. Per questa non c'è preannuncio nelle sue campagne. Blanda, non militante la sua adesione ai lumi, che lo lambiscono quel tanto che basta a rendere più comprensivo il suo sguardo, ma che si trattengono dal trafiggerlo ad evitare che le sue commedie si trasformino in esplicita propaganda illuministica. Meglio così, ché così può continuare a sorridere e a far sorridere, senza lasciarsi tentare dall'imbocco della polemica sarcastica. L'eccesso di lumi avrebbe reso meno indulgente il suo sorriso, che poi, nel congedo da Venezia di Una delle ultime sere di carnovale, s'intenerisce malinconico nella malinconia, appunto, dell'addio.
Non scalzante familiari equilibri, sociali equilibri il sorridere di Goldoni. Il suo arioso "venezian", il suo agile "toscan" ignorano l'urlo ribelle e l'autentica disperazione. Strumenti del comico sono controllati perché non fuoriescano, perché non vadano a parare altrove. Forse una rottura degli argini si dà, un po', in qualche verso di Baffo, quando il dialetto è forzato ad esprimere l'oscenità più melmosa. Inclusiva del "vero" e del "naturale" la poetica goldoniana, ma non per restare autore "comico ", di tutto il vero, di tutto il naturale. Edulcorata la Venezia settecentesca nella trasposizione nella Venezia goldoniana. Le carte d'archivio documentano putte che perdono il pulcellaggio, carne in vendita nei commerci del sesso mercenario, adulteri, delitti. E, in Goldoni, invece la "bona muggier" che sa "portar respetto" al consorte. E se c'è "superbia", ecco che il marito la sa "umiliar". E le "patte" al più, senza il permesso del padre, lanciano sguardi. E le massere, per quanto linguacciute, non anticipano le bonnes di Genêt. E il giocatore - anche se Goldoni è il primo a saper come il gioco sia un vizio che s'insedia sin "in tele viscere", che "noi se poi lassar" - si ravvede, si merita l'amore di Rosaura. Non è che i pescatori di Chioggia ignorino che i rivenditori di pesce "col bareton de veludo" s'arricchiscono alle loro spalle, colle loro "fadighe". Però non c'è scontro, in quel di Chioggia, tra "pescaori" e "bazariotti" o venditori. Il promesso sposo di Lucietta se la prende col barcaiolo Toffolo che con lei ha fatto il galante. Una baruffa tra poveri. Culminante nel 1760-1762 la creatività goldoniana trascorrente dal corale battibeccare clodiense al saluto d'Anzoleto, il disegnatore per ricami che parte per la Russia, come Goldoni parte per Parigi. Forse quel che ha da dire stando a Venezia l'ha detto tutto. Forse è stanco della diffidenza del patriziato più conservatore per le sue propensioni borghesi, per la sua apertura al popolo. Forse è irritato dall'acrimonia aggressiva di Carlo Gozzi e, anche, dal successo che incontrano le sue fiabe. A Parigi - e qui si illude - gli si fanno buone condizioni. Parigi significa aria nuova anche per la sua arte. E poi - evidentemente tertium datur c'è una terza lingua da sperimentare. In francese, nel 1771, Le bourru bienfaisant, in francese, l'anno dopo, L'avare fastueux, in francese, soprattutto, la stesura, del 1783-1784, dei Mémoires pour servir à l'histoire de sa vie et à celle de son théâtre pubblicati nel 1787. Un'autobiografia questi ultimi a ripercorre la propria esistenza a mo' di progressivo svolgimento d'un'imperiosa vocazione teatrale fattasi via via riforma del teatro. Un racconto in tre parti - quasi commedia, in questo caso non solo comica, in tre atti - intitolabili rispettivamente: da Venezia a Venezia; sulle scene lagunari; a Parigi. Un'esistenza vincente con lieto fine parigino. In realtà, usciti i Mémoires, il finale non è poi tanto lieto; un "buon vecchietto", visto da Alfieri, l'ultimissimo Goldoni, non certo un trionfatore. Ormai è troppo in là cogli anni per mantenere la vitalità ottimistica che percorre i Mémoires, che li rende ilari, briosi. Incoercibile, in questi, la sua voglia di vivere che tracima anche nella stessa loro stesura. E grande il suo entusiasmo per Parigi. Non gran che entusiasmante doversi adattare a stendere canovacci, a farsi maestro d'italiano. Duro stare "à la cour" per chi non è "courtisan". E non gran che remunerativa la pensione. Fallita iniziativa, poi, quella del 1783 di metter su un "Giornale di corrispondenza italiana e francese". E lavoro di ripiego la traduzione dell'Histoire de miss Jenny, di quella madama Flaminia Riccoboni, moglie di Luigi Riccoboni, che altri non è che Elena Balletti, la poetessa arcadica amata da Maffei. Avesse scritto una quarta parte dei Mémoires, un quarto atto, in questo Goldoni avrebbe dovuto dire del suo disagio di vecchio frastornato nella Parigi sbastigliata. Se non l'ha scritto, è supponibile il venir meno della voglia di vivere e, con questo, della voglia di raccontarsi. Comunque, sinché l'ha avuta, può sorridere alla propria esistenza; la fuga coi comici da Rimini a Chioggia, il ritorno quindicenne a Venezia - ed è come la vedesse per la prima volta -, l'irridente satira delle ragazze pavesi, il praticantato legale, la fortunosa e poi fortunata vicenda teatrale, le nozze con la riposante e paziente Nicoletta Conio, l'esaltante visione di Parigi. Una vita piena, da raccontare, con tante tangibili realizzazioni, con tante soddisfazioni. Una vita anche assaporata, goduta. E, nell'assaporamento, un bordeggiare ben più in là di quanto non avvenga nelle commedie. Ai bordi del vizio del gioco. Ai bordi d'una caccia vorace alle donne. Ma anche con arretramento rispetto al bordo, senza rovinarsi nel gioco, senza perdere la testa per le donne. Questa la testa è rimasta lucida per febbrilmente tener dietro agli adempimenti della professione. Ed esorcizzato con le commedie il demone del gioco. E decantata nelle commedie la bramosia di donne. Nutrito l'onomasticon femminile del commediografo: Anzoletta, Bettina, Brigida, Cate, Cattina, Cecilia, Chiara, Chiaretta, Clarice, Cleonice, Colombina, Corallina, Costanza, Daniela, Dorilla, Dorina, Elenetta, Elvira, Erminia, Eufemia, Flaminia, Fortunata, Gasparina, Gnese, Giulia, Isabella, Isabetta, Laurina, Leonora, Lindora, Lisoletta, Lisetta, Lucietta, Lucrezia, Margherita, Marietta, Marina, Marinetta, Marta, Meneghina, Mirandolina, Momola, Niccolina, Olivetta, Pandora, Pasqueta, Rosanna, Rosaura, Rosina, Silvestra, Smeraldina, Tonina, Violante, Zanetta. Si può correr dietro alle donne anche così, inventandosele, senza che la moglie in carne ed ossa protesti. D'altronde la "bona moggier" sta zitta. E Nicoletta Conio è una "bona moggier". E non s'adonta all'idea che il consorte, almeno con Mirandolina, farebbe anch'egli il cascamorto.
Senza moglie accanto, invece, le Memorie inutili dello scapolo Carlo Gozzi, che escono nel 1797, quando la Serenissima non c'è più. E, ai fini della stampa, meglio così: colla censura del vecchio regime l'autore non avrebbe potuto dar libero corso alle sue stizze maldicenti. Umorose, malmostose e, quindi, stizzite, in effetti le sue Memorie, testimonianza d'un inacidire rancoroso, d'uno scontento mugugnante, d'un ringhiare a tutto campo - alla volta dei parenti, della moda, dei costumi, del teatro, dell'editoria, del proprio tempo in genere -, come d'un cane da guardia con pochi denti messo a custodia di qualcosa che non c'è più. Sta come recitando la parte dell'ingrintato, dopo aver scelto per sé la maschera più immusonita quale quella che più s'addice a chi ha deciso d'avere il mondo in gran dispetto. Epperò, anche se l'atteggiamento è irrigidente, la scrittura è mossa, inventiva, caustica, spigliata, mordente, graffiante. Scrittore autentico il memorialista. La musoneria recitata allo specchio - smorfie disgustate, strabuzzar d'occhi, digrignar di denti - più che tanto non regge. E, allora, s'allenta, dà spazio all'ironia e all'autoironia. E ciò con giovamento del brio della scrittura, capace di creare pagine godibilissime, quali quelle che raccontano d'un Gozzi cui, nel 1758, al rientro dal Friuli, due militi sbarrano l'accesso in casa sua. L'ha lasciata vuota e sprangata. Ci torna e la vede tutta illuminata e, dal rumore, l'intuisce piena di gente, tutta festante. E non può a tutta prima entrarci. Il tutto poi si chiarisce. È stato il patrizio Gasparo Bragadin, che sta lì vicino, a requisirla per dar più spazio alla festa per la nomina a patriarca del fratello Giovanni. Un'appropriazione momentanea che - a detta d'"un maestro di casa tutto trinato d'oro" fattosi incontro a Gozzi respinto dai militi come non invitato - avrebbe avuta la "permissione" del padron di casa. In realtà a Gozzi non è stato fatto alcun cenno. Comunque tace, non volendo "far parole" in proposito con un servitore sia pure gallonato. Ne parlerà - è sottinteso - col suo padrone. Quel che conta è che entra. La dimora dove incupisce gli sembra, ora che è investita dalla luce e piena d'allegria, diversa, restituita alla vita. E, in cucina, finalmente, "un grandissimo fuoco" con relativo bollir di "paiuoli, pignatte, tegami", con il girar sopra d'un enorme spiedo infilzante pollame, pezzi di vitello, carni d'ogni genere. Non c'è da adontarsi. Da un pezzo lo spettacolo dell'abbondanza non visita la casa dei Gozzi, nobili sì, ma male in arnese. Ma pur sempre desto l'orgoglio nobiliare in Carlo Gozzi. Sicché, come un bramino col paria, lascia che il "maestro di casa" spieghi, ma con lui non parla. Goldoni, al suo posto, avrebbe iniziato un dialogo. Altro momento di gran verve nelle Memorie gozziane il ritorno dell'autore allora giovane - è nato nel 1720 -, nel 1744, a Venezia dalla Dalmazia. Si porta al "palagio" avito, si mette a "picchiare il portone". Nessuno risponde, nessuno apre. È come bussare "ad una sepoltura". Finalmente, a forza di battere e ribattere, una donnetta - la "custode" della "bella fabbrica" e unica abitante del grande edificio altrimenti "diserto"; riparati, in effetti, i Gozzi in Friuli dove la vita costa meno e dove l'ostentazione del tenor di vita è meno vincolante che a Venezia - lo fa entrare. Salita la "bella scala di marmo", si spalanca ai suoi occhi, desolante, lo spettacolo delle "meste larve dell'indigenza". I suoi se ne sono andati, quasi a nascondersi per medicare le ferite d'un dissestato patrimonio. E, ora, nella casa vuota lo stato pietoso del pavimento tutto "cavità cancrenose", tutto buchi, le "invetriate rotte", le "tappezzerie" sdrucite tarlate, la "galleria" già sequenza continua di "bellissimi quadri antichi" di questi svuotata quasi completamente. Quel che rimane è come uno spezzone residuo, nello "stato squallido" del presente, d'uno splendore passato. E in "sala", per fortuna, ancora rimasti "i ritratti degli avi miei, del Tiziano e del Tintoretto. Io li guardava [così Gozzi], ed essi guardavano me. Parevano mesti, meravigliati, e chiederti ragione de' consueti agi da loro lasciati".
Di vero c'è che i Gozzi erano ricchi e che ora non lo sono più. Ma si ha l'impressione che, ad assecondare il chiaroscuro, qui Carlo Gozzi stia quasi vaneggiando di avi ritratti da Tiziano e Tintoretto, come d'altronde esagera nel caricare di tinte scure il rifugiarsi dei parenti a Vicinale. Qui i Gozzi hanno una bella villa, dei campi; e un po' di vita di società la fanno. Ma manca nelle Memorie la spiegazione di come il nonno paterno si sia creata una "buona facoltà" visualizzata dalle "quattro civili abitazioni" - una a Padova, una a Venezia, una a Pordenone e la villa a Vicinale -, laddove la perduta ricchezza è addebitata alla cattiva amministrazione. E un disastro, per tal verso, le nozze del fratello Gasparo con Luisa Bergalli, "geniale astrazione", sogghigna il memorialista, latrice di "pindarica amministrazione". Forse un po' di lumi non avrebbero nuociuto ad un miglior intendimento d'una situazione che è sì anche risultato d'incompetenza amministrativa, ma che ha pure a che fare col fattore lavoro, col fattore produttività. Forse il nonno paterno ha anche lavorato. E di certo i nipoti non lo hanno imitato. Comunque, nella spartizione delle spoglie d'un patrimonio già costituito dal nonno, nel "parteggio" a Carlo Gozzi tocca la "paterna abitazione" di Venezia, ove, sopravvissuto alla fine del regime aristocratico, alla fine dello stato veneto come entità autonoma, muore, nel 1806, in una Venezia sotto egida francese, dopo aver dedicato un sogghigno ai patrizi veneziani cui l'Austria, durante la prima sua dominazione, ha concesso di rimanere "nobili", anche se non sono più "uomini". Definitiva la sconfitta della sua classe d'appartenenza. Ed "estro vano", allora, il suo memorizzare. "Non servirà a nulla". Inutilità delle scritture rammemoranti, dunque. Ma non inutili gli esercizi di scrittura stimolati dalla memoria ai fini, appunto, d'uno scrivere con forte connotazione personale, ad alto tasso d'originalità. "Inutili" le Memorie ché né invertono, né ritardano il corso della storia. Ma utili a far deflagrare l'umorale reazione di chi, come Gozzi, si sente impotente bastian contrario, che abbaia contro. Nessun spiraglio, in lui, di spirito collaborativo coi tempi. Non è un loro servitore. È inassoldabile, non allineabile. E con le sue fiabe in teatro non è poi che abbia perso. Nel teatro s'è sin imposto. Ma il teatro gli ricorda lo smacco più cocente della sua vita, forse, anche, il dolore più grande di questa: che la bella attrice Teodora Ricci gli abbia preferito Pierantonio Gratarol (61). E Gozzi s'è vendicato raffigurando il rivale nel fatuo e vanitoso don Adone, un personaggio delle Droghe d'amore, la commedia colla quale l'ha ridicolizzato spietatamente, ne ha fatto lo zimbello di tutta Venezia. Tant'è che - ravvisato per strada - viene sbeffeggiato dai perditempo. E non basta a Carlo Gozzi che il rivale in amore se ne debba fuggire da Venezia - qui era segretario del senato, qui aveva fondata una loggia massonica di cui era maestro venerabile - mentre, il 22 dicembre 1777, il consiglio dei X gli scaglia dietro una condanna a morte in contumacia, il bando perpetuo, pone una taglia sul suo capo, gli confisca i beni. Non basta vada ramingo in Germania, in Inghilterra, poi oltreoceano a Baltimora e poi in Brasile, per quivi imbarcarsi alla volta del Madagascar. E non basta nemmeno muoia nel 1785. Furente di gelosia, malgrado il passar degli anni, non sa dimenticare, non sa perdonare. Né l'estrosa sua scrittura ammette si possa penar d'amore. E l'amore non ammesso diventa il puntiglio d'onore d'un gentiluomo cui è stato negato il duello. E il duello prosegue colla penna surrogato della spada. Ha ben infilzato il rivale nelle Droghe d'amore. Vuol rinfilzarlo da morto. Sicché, nel terzo tomo delle Memorie, ristampa la commedia. Non basta: nello stesso tomo ripubblica la Lettera, colla quale, ancora nel 1780, aveva rinfacciata a Gratarol - ormai da anni lontano da Venezia - l'appartenenza alla "setta contagiosa", alla massonica congrega di "spiriti forti", corruttori di corpi e anime, "miscredenti" nonché di "femmine [...] filosofe", tutte "matte", tutte "bagasce". La penna batte dove il cuore duole. E poiché non sa dire e non vuol dire la pena di questo, ecco che Gratarol diventa oggetto di odio ideologico. Né la vampa dell'odio del perdente in amore nei confronti del vincente ideologicamente camuffata e poi ideologicamente alimentata, lo s'è visto, s'estingue o, per lo meno, si smorza colla scomparsa di Gratarol. La ferita non si cicatrizza; è una piaga sempre aperta. Lo "scervellato sofista" è morto da oltre dieci anni. Ma sempre furente Gozzi nel ripensare che costui - fattosi avanti col dono d'una scatola di "diavoloni", di confetti napoletani, sorta di zuccherini dolcissimi e aromaticissimi; e il dono è stato gradito, e da cosa nasce cosa - s'è insediato nel cuore e s'è installato nel letto della bella commediante a lui, Carlo Gozzi, cara. E poco cale sia poi fuggito, sia poi morto. E poco cale nel 1797 succeda quel che succede. E poco cale che gli anni di Gozzi siano tanti. Sempre ulcerante la pena, sempre sbranante la gelosia. Utili almeno le Memorie alla ristampa - in un anno in cui ci sarebbe altro cui badare - delle Droghe d'amore, alla ristampa della Lettera confutatoria. D'altronde ha iniziato a scrivere le stesse Memorie proprio nel 1780, anche per replicare a Gratarol che, a sua volta, nella Narrazione apologetica, se l'era presa con lui, Gozzi, l'aveva tirato in causa come responsabile del clima irrespirabile che l'ha costretto alla fuga.
Certo: la spinta d'avvio non impedisce alle Memorie di slargarsi. Epperò ogni volta che sguaina la spada contro i "filosofi d'oggidì", le "empie dottrine sparse in questo secolo", la sensazione è che quelli e queste assumano il sembiante del massone Gratarol. Ma così, puntualmente, la ferita torna a farsi atroce. Fosse vissuto in clima romantico Gozzi sarebbe stato il protagonista d'una passione infelice. E, invece, una soluzione narrativa del genere non è alla sua portata. È la "patria", Venezia, ad essere "infelice", pel "costume corrotto". A Gozzi, che vagheggia il mondo dei poemi cavallereschi, quello dei paladini, quello di Marfisa, l'affascinante donna guerriera, il presente si configura come laida deformazione di quel mondo: Marfisa è un'isterica bislacca, i paladini sono dei cavalieri serventi istupiditi, Carlo Magno è un vecchio rimbambito. Impossibile l'epica. Ma, almeno, azzardabile l'evasione fantastica. È nelle fiabe che Gozzi si ritrova, lungi dalla goldoniana verosimiglianza. E, nel 1761-1765, il capocomico Antonio Sacchi le dieci fiabe di Gozzi le mette in scena. Primadonna, però, della compagnia Teodora Ricci. A tutta prima la vita sta sorridendo a Gozzi: è autore di successo, e colla prima donna intreccia un rapporto sentimentale che dura sei anni, non senza, lungo questo, battersi per l'onore della donna. Un battersi adattato ai costumi del tempo. Ossia da protettore che elimina "gli scogli", gli ostacoli frapposti all'affermazione "di quella giovane", adoperarsi "per farle benevolo il pubblico". Più che un paladino di Carlo Magno, più che un cavaliere della tavola rotonda Gozzi usufruisce d'un rapporto di scambio: offre protezione in cambio di grazie. Il che non è particolarmente edificante. Flessibile, all'atto pratico, il rigido moralismo di Gozzi. Per un po' convive coi deprecati costumi. E, rotta la convivenza, vieppiù li depreca. E quel che depreca s'incarna proprio nella Ricci. L'attrice ha sempre in mente Parigi. Lì il pubblico sarebbe ben più generoso che a Venezia, lì "finanzieri ricchi sfondati" sarebbero soliti lanciare "alle attrici" addirittura borse "di luigi d'oro". Spregiudicata, spregiudicatissima l'attrice nel suo teorizzare il comportamento più disinvolto. "Noi mortali [filosofeggia] non abbiamo altra felicità che il fare all'amore sino alla morte". E, allora, va praticato liberamente, svincolandoci da "riguardi" inibenti d'"una stupida educazione". Enormità - si scandalizza Gozzi, che scrive quando la Ricci non è più sotto la sua tutela, quando s'è interrotto il rapporto di scambio -, per di più dette da una donna sposata, con "un marito e due figli". Un parlar da dama civettante in un salon parigino. E come una parigina la Ricci si profuma. E riempie gli "stanzini del teatro" d'un intenso, troppo intenso odor di muschio. Questo è talmente "acuto" da risultare insopportabile, da far venire il mal di testa. Inutile, però, far presente alla Ricci che sta eccedendo. "Invasata dalla francese leggiadria", replica che a Parigi tutto sa di muschio, sin "gli alberi delle Tuillierie". Talmente è "fissa" l'attrice con la sua "immaginazione" su Parigi da prendersela con Venezia, "divenuta per lei una cloaca". E di Parigi le par di saper tutto, ché la "femmina francese", sua insegnante di "gallica favella", la aggiorna meticolosamente su quel che si fa a Parigi, su quel che vi si costuma. E la lezione diventa un decantare i "bei costumi" parigini. E, nella "leggerezza del suo cervello", che proprio perché vuoto è riempibile colla peggior cianfrusaglia d'Oltralpe, non avverte lo scadimento della sua recitazione. Intellettualmente disastrata è ormai "ridotta" ad un "recitare le sue parti con una caricatura nobilmente affettata d'azione" insopportabile per Gozzi, "non sofferibile [generalizza] dagl'italiani".
Affetta dal morbo di Parigi la commediante è, ormai, un caso disperato. Non c'è nulla da fare. Non c'è rimedio. È come la Marfisa bizzarra, che "non istà mai cheta un'ora", che vorrebbe essere l'eroina di "qualche libro alla franciosa". E Carlo Gozzi - che dell'"idioma francese" non è digiuno: anch'egli è andato a lezione "da un piemontese", ma non per conversare come a Parigi, bensì per quel minimo di apprendimento grammaticale e lessicale che gli permetta di leggere direttamente i "perniziosi libri" d'Oltralpe - diagnostica tanto nella Marfisa quanto nella Ricci "gli effetti delle libere moderne filosofiche amicizie". Gallofobo com'è, alla peste che vien da Parigi, che infetta Venezia, che impesta la Marfisa della sua fantasia e la Ricci che ama - ma per ammetterlo ci vorrebbe una strumentazione romantica; e, in mancanza di questa, l'amore non detto, diventa livore vendicativo; visto che, per colpa di Gratarol, è andato a male, non si dà nemmeno l'ammissione della sofferenza per amore - oppone l'impotenza nevrotica dell'odio. C'è un che di patologico nel menar fendenti del vecchio Gozzi contro il fantasma di Gratarol. Singolare, però, che, sempre nel 1797, ci sia un "cittadino", Silvestro Gatti, che, ristampando in due volumi la Narrazione autodifensiva di questi - l'aveva pubblicata in vita all'estero -, fa parlare anche lui; e, sempre nel 1797, un altro "cittadino", Giovanni Zatta, ristampa la ristampa. E sia nell'edizione di Gatti che in quella di Zatta c'è, ad integrazione dello scritto autoapologetico, l'aggiunta di Riflessioni e d'una lettera di Gratarol, nonché di Memorie ultime [...] a lui relative coi documenti della di lui morte. Indicativo quest'interesse di due stampatori "cittadini" e non più sudditi - nel clima eccitato della municipalità provvisoria, quando ancora Bonaparte è il "liberatore" espressione della liberante rivoluzione francese - a riesumare Gratarol, quasi a candidarlo all'inserimento in un virtuale Pantheon di perseguitati dalla tirannide, così nel lessico giacobino (62), aristocratica. Quanto meno è un atto di pietas riparatorio dell'illacrimata sepoltura colla quale s'è concluso il suo errabondo esilio. E all'attivo della stamperia Gatti la pubblicazione di Robertson, Gibbon, Denina; e delle benemerenze editoriali ha pure Zatta. Beninteso: sia l'uno che l'altro prima del 1797. Quanto a Carlo Palese, lo stampatore delle Memorie, era stretto il suo legame con Gasparo Gozzi, ne godeva la fiducia. E s'era pensato in un primo tempo a lui per la stampa de Gli apologisti della religione, una raccolta di testi coi quali fronteggiare l'incredulità dilagante già uscita in Francia. Forse è un minimo chiaroscurabile questo impegnarsi di tipografi già un po' inclini ai lumi per Gratarol, mentre Carlo Gozzi ricorre a chi, ancor viva la Serenissima, era stato "proto esaminatore". Buon per lui, per Gozzi, comunque, che la municipalità provvisoria duri poco. Così finisce con quella il tentativo d'impiantare un teatro di formazione e mobilitazione democratiche. Tra quanti lo auspicano e lo promuovono c'è il romanziere e commediografo Antonio Piazza. Questi, in un articolo del 28 giugno 1797 (63), una volta additato nel "teatro" lo strumento principe per una pedagogia civica di massa, denuncia proprio Carlo Gozzi quale esemplare d'un teatro, invece, d'evasione e d'intontimento. "Gran mezzo" il teatro "per far apprezzare il dono celeste della libertà". Ma da spazzar via, allora, "le maledette commedie dell'arte"; e, a maggior ragione, da bandire dalle scene le "fiabe", a cominciare da quelle gozziane. "Poetiche stregherie" testi siffatti, "parti mostruosi di cervelli sconcertati" e, come tali, diseducativi, reazionari, antidemocratici: mantengono "il popolo nella più crassa ignoranza", ne fomentano i "pregiudizi", ne coltivano gli "errori". Da negare ogni spazio teatrale, quindi, "in una nazione rigenerata", alla rappresentazione del fiabesco già in auge "sotto l'aristocrazia". Da utilizzare, invece, la lezione goldoniana forzandola a "scuola piacevole di costumi", dislocandola a didassi figurata civicamente formante, a "dottrina di morale" rappresentata, visualizzata. Non più, allora, "commediacce all'improvviso" di buffoni e istrioni e saltimbanchi e nemmeno "favole" come quelle di Gozzi, allegorie, mitologie istupidenti, frastornanti, stordenti, imbalordenti. Valgono ad imboccare la direzione giusta, quella del teatro politicamente formativo, politicamente, vien da dire, corretto, i "tanti bei modelli" dalla Francia rivoluzionaria proposti. Va da sé che il teatro giacobino non ha il tempo di manifestarsi più che tanto. Gli eventi lo zittiscono e anche lo seppelliscono mentre alle fiabe di Carlo Gozzi - che muore ultraottantenne, il 14 aprile 1806, in una Venezia ove, ancora il 19 gennaio, sono riapparse le truppe francesi - andrà la simpatia di Goethe, madame de Staël, de Musset, Schlegel, anche di De Sanctis (per quel tanto che si prestano ad essere definibili commedie popolane). E, nel primissimo '900, sarà sin autore di culto sulle scene della Russia prerivoluzionaria. E La donna serpente rivivrà in Die Feen, la "Mrchenoper" wagneriana.
Privilegiato, insomma, l'inventore, per la scena, di fate e streghe, di finte uccisioni, di ritrovamenti, di prove incredibili ambientati nel fitto fogliame di misteriose foreste, sullo sfondo di montagne corrucciate. In ombra, invece, il memorialista. Epperò forse qualcosa di questo - lo azzardiamo alla buona, senza la pazienza di approfondire se l'ipotesi un po' regga - ridonda nelle Confessioni nieviane. Il Friuli di Gozzi un minimo è proiettabile su quello dell'infanzia di Carlino. E per contrasto si può aggiungere che il ricordare di quest'ultimo si sintonizza con una vicenda collettiva in crescita, mentre quello gozziano s'avvita con un discendere verso la fine. Finisce Gozzi e inizia Carlino Altoviti, insomma. E capire la fine è anche capire l'inizio, e viceversa. Ma, a parte questo e, anche, senza questo, le Memorie restano per l'estro umoroso d'un'indubbia originalità e sin saporosità di scrittura: "beata stia di vergini". Così d'un convento Gozzi. Verrebbe quasi da ricordare che c'è anche qualche sua pagina da antologizzare in un'eventuale antologia del filone non aulico della letteratura italiana. E simmetrico controcanto, altresì, per la parte teatrale, le Memorie della riforma teatrale raccontata dai Mémoires goldoniani. Antiilluminista Carlo Gozzi e, in fatto di teatro, antigoldoniano, antiriformatore nel suo arroccamento nel fiabesco. Un ostinato al di qua del realismo che, nelle rivisitazioni otto-novecentesche, si presta alle escogitazioni d'un teatro che vuol andare oltre il realismo, al di là, essendo nel contempo macchina dai complicati congegni d'una tecnica al servizio del fantastico, non senza che questo finisca coll'iscriversi tra le meraviglie della tecnica. Documento di vita teatrale, comunque, e l'autobiografia di Goldoni e quella di Gozzi. Una professione esclusiva pel primo nella quale mettere anima e corpo il teatro nonché il luogo per riprodurre il mondo. Un'evasione dal mondo pel secondo il teatro dalla cui lontananza quasi astorica e quasi ageografica mandar, ogni tanto, frecciate alla volta del presente storico e della società veneziana. Gravitanti sulle scene i Mémoires goldoniani, convocanti le scene le Memorie gozziane. Circuitata, invece, su di un assoluto, esclusivo egocentrismo, tutta ruotata sull'autore l'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova (64), mentalmente, magari, pensata in italiano epperò immediatamente tradotta correnti calamo in un francese comunicativo che, appunto, corre a dirotto per star dietro al protagonista, il quale, a sua volta, corre da se stesso a se stesso, da Casanova a Casanova, attore e, insieme, vittima d'un moto perpetuo senza remissione. Tutto di corsa, pure la penna. Bilingue questa: in italiano l'uggiosa Confutazione d'Amelot de la Houssaie, l'Epistola di un licantropo, la versione in ottave dell'Iliade, gli Anedoti della Venezia trecentesca, gli Opuscoli miscellanei, il libellistico Né amori né donne, la Storia dei rivolgimenti di Polonia, ovviamente le informazioni agli inquisitori, ovviamente parecchia corrispondenza; in francese, oltre alla Vie, il racconto della fuga da Venezia del 1755, il racconto d'un suo duello, il romanzo l'Icosameron. All'insegna del movimento l'esistenza di Casanova, dal viaggio improntata, in questo protesa e a questo coartata. E lungo il viaggio famelici appetiti, frenetico vitalismo di corpo vigoroso, di mente desta, ché la vita va goduta specie se si è in "bonne santé", specie se "la bourse", pel momento, non è vuota; e meglio, naturalmente, se è "pleine ". Un viaggiare vivendo e un vivere viaggiando in cui è impossibile metter radici. È, semmai, lo sradicamento continuo a dismettere i panni dell'eccezionalità, a farsi come normale, come naturale, sin ad assolutizzarsi come unica, irrinunciabile, imprescindibile condizione di vita. Una disfrenata vitalità, uno smanioso protagonismo, un'indomita energia psico-fisica lo costringono alla mobilità perenne, senza soste, al turbinio vertiginoso degli arrivi e delle partenze, all'irrequietezza più vagabonda, all'andirivieni più sfibrante. E costantemente eccitante, per l'avventuriero, l'odor di femmina: "j'ai toujours trouvé que celle que j'amais sentait bon, et plus sa transpiration était forte plus elle me semblait suave". Così confessa Casanova con autocompiacimento. Nessuna reticenza, da parte sua, sulle proprie pulsioni, tutto alla luce, in luce, senza omissioni ed elusioni (queste le si avvertono in Goldoni e anche in Carlo Gozzi), quasi il tutto vada anche conteggiato in un rendiconto puntiglioso nella conta, attento anzitutto alla quantificazione. Numerate, insomma, le innumeri avventure d'una caccia predace. E se questa è movimento, vien praticata lungo gli spostamenti continui, è sin piantata nelle viscere e in queste immobilizzata e da queste inamovibile la molla scatenante del desiderio. Fermo, insomma, il, per dir così, motore immoto. "Coltivare il piacere dei sensi fu per tutta la mia vita la mia principale occupazione e non ne ebbi mai altra più importante". Non la confessione d'un pentito, ma l'enunciazione d'un programma attuato.
Un attivatore che s'autoricarica in qualsiasi contesto il piacere che s'autoalimenta, nel cangiar dei fondali, vorticosamente colla dinamica della ricerca e dell'appagamento, propellente d'una semina continua per un raccolto continuo. Sterminata la lista degli amplessi, ravvicinatissimo il succedersi delle performances, senza soluzione di continuità il mutar dei sembianti e dei corpi, ma, anche, ripetitivo il trapasso dal rapido corteggiamento al prevedibile - pel rapinoso seduttore - travolgente finale d'alcova. Ciò in ogni città e in tutte le città. E tante le città, ognuna diversa dall'altra, epperò anche - dal momento che la parte in queste recitata, sostanzialmente, non muta - sempre le stesse, sì da costituire, al limite, un'unica città. Arrivi e partenze, ritorni e ripartenze. Elenchi di donne, elenchi di toponimi si sommano e si confondono. Come una trottola che, girando attorno a se stessa, s'aggira pure per l'Europa, Casanova. E, come una trottola, ad un certo punto, smette di girare in tondo e di, girando in tondo, andare di città in città, in cerca del bel mondo, per brillare nel bel mondo, per arraffare nel bel mondo, anche per campare alle spalle del bel mondo. Come una trottola cui si esaurisca la forza propulsiva del moto vorticoso, Casanova perde colpi: i suoi movimenti - nell'incupimento della senescenza, nella stanchezza del corpo logorato - rallentano, s'appesantiscono, diradano, si smorzano a replica senile sinché smettono. E come la trottola finisce immota in un cantuccio, così, incapace di riprendere movimento, il vecchio avventuriero si ferma, s'acconcia - lungi dal bel mondo - alle mansioni di bibliotecario, a Dux, in Boemia, un posto fuori dal mondo nel castello del conte Carlo di Waldstein, maestro di camera di Giuseppe II, dove il maggiordomo gli è ostile, dove il servidorame non esita a sbeffeggiarlo. Non gli restano che i ricordi del tanto suo muoversi e la penna per rinnovarli nella lingua che si parla a Parigi. E di cose da ricordare e da raccontare ha ingombra la testa. E vorrebbe narrarle tutte "jusqu'à l'an 1797". Ma non ce la fa. Di fatto la sua autonarrazione s'arresta al 1774. Morendo nel 1798 la sorte non gli concede d'andar oltre. E, in certo qual modo pietosa, gli risparmia il racconto dell'incepparsi del corpo, dell'insinuarsi maligno del taedium vitae, del fiato che si fa grosso, dell'affannare cianotico, dello smalto che si fa ruggine, del cielo sempre più grigio e sempre più piovoso, quasi il mondo stia avvizzendo assieme a lui, a Casanova, l'avventuriero ormai stanco. E a Dux, in effetti, piove spesso; e c'è freddo dentro il castello, freddo nella biblioteca di questo.
Ed è a Dux che Casanova, nato a Venezia da due attori (ma forse il padre naturale è un nobile) nel 1725, muore nel 1798. Almeno Goldoni ha avuto la ventura di finire i suoi giorni a Parigi, la prima meta di Casanova allorché si proietta all'estero. È la città più connivente e condiscendente, quella - lo dice per scienza e in tutta coscienza - dove "l'impostura e la cialtroneria" più hanno di che mordere e nutrirsi, dove "possono far fortuna meglio che altrove", dove più s'imbroglia, dove più si viene turlupinati, dove più ci si arrabatta, dove più s'intriga, dove più si spende, dove più ci si indebita, dove più si tresca, dove più e meglio si conversa, dove più, conversando, ci si affina e ci si scaltrisce, assaporando la gaiezza, l'effervescenza, la leggerezza che rendono la conversazione il miele della vita, costitutiva d'una dolcezza corretta e insaporita coi pepi e coi sali dell'intelligenza. Forgiante Parigi per la vocazione libertina d'un Casanova pronto da lì a svolgerla e a verificarla in tutta Europa. E dopo Parigi la corsa ininterrotta. Si succedono Praga, Vienna (peccato l'angusti il bigotto moralismo di Maria Teresa), Venezia (qui la prigione e la fuga rocambolesca da questa), di nuovo Parigi, l'Olanda, Colonia, la Svizzera (qui un'attraente dama fa rapidamente rientrare un timido proposito d'ascetico ritiro), Aix-les-Bains, Avignone, Grenoble, Marsiglia, Valchiusa, Genova, Livorno, Firenze, Roma, Napoli e, ancora, Parigi. Ha senso tutto ciò? Ma ha poi senso chiederselo? Questa - così l'avventuriero veneziano - "degna o indegna" che sia è la sua esistenza. E "degna o indegna la mia vita è la mia materia e la mia materia è la mia vita", asserisce con determinazione. Sommatoria la vita di piaceri cercati, afferrati, perduti, riafferrati, di attimi fugaci, d'episodi salienti, di scandali, scandaletti, carrozze, locande, salotti, ridotti, teatri, situazioni, paesaggi. E non è che, da parte di Casanova, ci sia una direzione alla volta d'una qualche meta. Salta ora di qua ora di là. E salta sempre. Non sta mai fermo. La vita come movimento per il movimento. E in questo la fedeltà a se stesso, all'irrequietezza del proprio moto d'avventuriero che per tale si ribadisce tra avventure e disavventure. Cara al suo cuore, alla sua mente, ai suoi occhi Parigi. Ma qui si caccia nei guai e questi l'obbligano ad abbandonarla in tutta fretta. Ed eccolo, nel 1763-1764, a Londra, donde il soffiar dello spirito "ambulatorio" - questo non concede percorsi a tappe verso un qualche centro definitivo, vanifica ogni tentativo di stasi un po' prolungata - lo sospinge a Tournai, a Berlino, a Pietroburgo. E, in quest'ultima, per 100 rubli, compra una contadina che ribattezza Zaira. È splendida, è come la "statua di Psiche vista a villa Borghese". Purtroppo è gelosissima, credula, superstiziosa e, quindi, insopportabile. E, perché, allora sopportarla? E perché non cambiar aria? Abilissimo nell'inventarsi credenziali Casanova o nell'usarle, autentiche o inautentiche che siano, una volta a Varsavia riesce, intrufolandosi negli ambienti di corte, ad accostarsi al sovrano Stanislao Poniatowski. Ma un duello - quello cui dedica una monografia -, a causa d'una ballerina, con un personaggio altolocato l'obbliga alla fuga. E riecco l'avventuriero a Vienna e Parigi. Bandito da quella e da questa, ripara a Madrid. Troppi i 10 mesi quivi trascorsi. È città poco frizzante, chiusa, pesante, bigotta, ma non al punto da impedirgli successi amatori. Ma è qui a Madrid che avverte gli anni, che il corpo non è più una macchina dalla resa sicura, dalla pronta ricarica. Angosciante l'idea che possa far cilecca. Ma l'amatore non sa viver senza, appunto, far l'amatore. Deve tener alto il suo prestigio, deve rimanere all'altezza della sua fama. E deve anche mirar alto, non accontentarsi delle fantesche. Sicché a Barcellona s'incapriccia dell'amante del capitano generale della Catalogna; e questi fuori di sé prima l'incarcera e poi l'espelle. Rinfrancato da una tranquilla dimora ad Aix-en-Provence, il moto riprende con ritmo più intenso: Livorno, Napoli, Salerno, Roma, Firenze, Bologna, Trieste, Gorizia, Venezia e, ancora, Trieste. Poi Abano, di nuovo Firenze, di nuovo Trieste; e di qui Vienna, e di qui il girovagare per Germania e Olanda per poi puntare a Parigi e da questa ripuntare a Vienna, ove, pare, collabora alla stesura di da Ponte del libretto pel Don Giovanni mozartiano. Ormai attempato il veneziano, ormai aggredito dal peso degli anni. Impossibile non prenderne atto: è nell'"età in cui l'uomo comincia a temporeggiare". Acciacchi, fastidi fisici, sminuito vigore, vivacità offuscata, lena fiaccata, infittirsi di crucci, acuirsi di suscettibilità, stanchezza, spossatezza. E anche sfiducia, anche rinuncia. Alle spalle il grosso della vita. Poco lieto il presente. E niente da sperare dal futuro, salvo che duri poco.
È, allora, il passato ricordato che conta. E si affacciano e s'accalcano volti di donna. Tanti, troppi amori. Ma nessuna è l'amore. Forse Casanova questo non l'ha mai conosciuto. Grande amatore, grande consumatore, non l'ha mai sfiorato la passione esclusiva, non ha mai messo tutto se stesso nelle mani d'una donna. Nato troppo presto per annaffiare una sensibilità alla Werther, avesse incontrato nell'anno della sua morte un equivalente di Jacopo Ortis, l'avrebbe giudicato del tutto fuor di senno, avrebbe a lui guardato sbalordito come si guarda uno strano esemplare d'una strana fauna, un essere - orribile a dirsi - incapace di conversare, incapace di figurare nel bel mondo, un mostro sgraziato, goffo, delirante, gesticolante, sproloquiante, con gli abiti stazzonati, coi capelli arruffati. Non una Carlotta, non una Teresa. E avesse incontrate donne del genere, le avrebbe al più degnate d'un pizzicotto. Ma allora che ha amato Casanova? Lo dice: "il piacere", il proprio "piacere", quello dei sensi, di tutti i sensi, a coltivare il quale s'è impegnato con determinazione sin ferrea, sin implacabile, al punto da non concedersi, in questa sua scelta di vita, periodi di prolungata vacanza. Una coltivazione che dura tutto l'anno, in qualsiasi luogo, con qualsiasi tempo, la sua. Una coazione nel contempo preclusa ai sommessi piaceri degli affetti, dell'intimità domestica, della famiglia, dei figli. Ma perché, se il piacere è prassi e scopo, non è rimasto a Venezia, la quale - così Baffo che da Venezia non s'è sostanzialmente mai mosso - "xe el centro dei piaceri"? Che ha cercato, in più, Casanova col suo vivere viaggiando al punto di dare la sensazione di viaggiare per vivere? Si parte per "far fortuna" spiega Lorenzo da Ponte (65), al quale Casanova, nel loro incontro a Dux, anziché restituire i quattrini che gli deve, suggerisce di cercarla "a Londra" piuttosto che "a Parigi", laddove sempre a da Ponte l'abate Giovanni Battista Casti consiglia di garantirsi "un pane in Russia, in Inghilterra od in Francia". Una geografia dilatata quella che si dispiega al cercar "fortuna" o, più semplicemente, "un pane" di da Ponte, che ancor più si dilata, di fatto, allorché da Londra - qui non si può dire abbia fatto fortuna -, nel 1805, a cinquantasei anni parte per "Nuova Jorca" dove morrà nel 1838. E nella fase americana e ultima della sua vita insegna italiano, traffica in spezie liquori medicinali, non senza, ultraottantenne, improvvisarsi impresario teatrale con esiti finanziariamente disastrosi. Ma, almeno, le sue Memorie a New York le pubblica. Non altrettanto fortunato, per tal verso, Casanova. Lunga e complicata la vicenda editoriale del manoscritto della Vie. Certo che, nell'esibito elenco delle tante donne avute, la dea bendata, la capricciosa e bizzosa fortuna non figura. L'avventuriero l'ha inseguita per l'intera esistenza. Ma è sempre mancata all'appuntamento. Più volte a Casanova è parso di sfiorarla, talvolta s'è illuso d'averla a portata di mano, d'essere lì lì per afferrarla, ma essa s'è sempre sottratta. Incatturabile miraggio, fantasma imprendibile. E quando a Dux esorta da Ponte a puntare alla volta di Londra - forse è qui che la fortuna ha preso stanza -, egli che, invece, da Dux più non si muove, ha rinunciato a cercarla. In certo qual modo s'è già congedato dalla vita come avventura. La fortuna, l'insegna Machiavelli, ama i giovani. E Casanova è vecchio e senza mezzi. Ci sarebbe di che precipitare nella più tetra disperazione. Fallimentare il consuntivo riepilogante nel finale intristire nella biblioteca d'un isolato castello. Ci sarebbe di che pentirsi, di che convertirsi. Ippolito Pindemonte - da Casanova conosciuto a Dresda, che ha quasi trent'anni di meno di Casanova, di lui ben più favorito (e in partenza, per nascita) dalla sorte - sta ben, coll'Abaritte, teorizzando una felicità che, rinunciando al viaggio, s'autorecinti nel microcosmo d'affetti domestici. E da qui - con una passeggiatina nei dintorni campestri - ecco che incontra la malinconia, ninfa gentile, cui consacrare la vita. Ma Casanova è un vecchio senza famiglia, senza il conforto di affetti domestici. Sterile - nel senso che non ne salva un gruzzolo affettivo da aggiungere al poco bagaglio col quale si sistema a Dux - l'antecedente sua vita all'acceleratore. E senza conforto di pianto la sua sepoltura, senza lascito d'affetti. Ma resta il manoscritto della sua Vie, ché l'immobilità coatta dei suoi ultimi anni s'è tradotta nella scrittura delle sue peripezie, dei suoi movimenti. E ciò senz'ombra di pentimento, senza palinodie.
Certo che quando, il 4 giugno 1798, muore, non ci si accorge, a Venezia, della sua scomparsa. D'altronde, è, a sua volta, scomparso quel sistema di governo che Casanova sfidando - a singolar tenzone Amelot de la Houssaie che ancora cent'anni prima aveva detto la sua in proposito; e, per reagire, costui avrebbe dovuto uscire dall'oltretomba - aveva difeso a spada tratta. Per quel po' che è lecito indulgere un minimo alla storia fatta coi se - un procedimento che a nostro avviso schiude delle varianti, ipotizza correlazioni, movimenta un po' l'accaduto realmente con quel che poteva succedere e non è successo -, se da Dux il vecchio e malandato avventuriero si fosse spostato a Venezia, magari solo per morire dove è nato, avrebbe potuto incrociare il giovinetto Foscolo. E il vecchio - malvissuto o benvissuto che sia; è questione di punti di vista; e poco cale la vita, quella sua, sia "degna" o "indegna"; importa, invece, che l'ha intensamente vissuta - forse si sarebbe più incuriosito (non senza una punta d'invidia) dello svezzamento all'amore elargito a quello dalla Teotochi già Marin e non ancora Albrizzi che dell'appuramento delle sue acerbe qualità letterarie. E, se spettatore, il 4 gennaio 1797, del Tieste, la cosa più brutta che Foscolo abbia mai scritta, più che di applaudire, forse gli sarebbe venuto in mente di fornire agli inquisitori di stato l'elenco di quanti più si sbracciavano ad applaudire. E anche forse - una volta imboccata la via dei se di per sé non finisce; è prolungabile a piacere - il declamar tragico con piglio alfieriano, il giacobineggiar ad alta voce l'avrebbero infastidito facendogli nel contempo percepire che l'Europa in cui si è collocato il suo vivere viaggiando è finita, che non c'è più il bel mondo, che non c'è più la dolcezza del conversare. Tutto ciò fa parte del vecchio regime o comunque c'è stato prima della rivoluzione. Più arduo dopo vivere piacevolmente. Un deciso stacco poi, nell'800 romantico, il privilegiamento del "cuore" e delle passioni. Solo che nell'800 il fantasma di Casanova rispunta, coll'edizione della Vie, a mo' d'emblema non tanto della ragione, quanto delle ragioni d'un piacere vitalistico spruzzato, nella gestione, di lumi per quel tanto che questi si prestano ad intensificare, evitando scrupolosamente i turbini della passione, i modi e i contenuti del piacere. E mitizzato Casanova - nell'età delle passioni - a mo' di campione del piacere spassionato. Ed è un mito romantico nella misura in cui il culto della passione e quindi del dolore sono romantici. Annaffiati di lacrime gli amori infelici. E ingigantito ad eroe d'un libertinismo senza cuore e senza pianto l'avventuriero veneziano. Quasi quasi lo si invidia. E ciò non senza ingigantire i piaceri di cui avrebbe goduto. Il che è avvertibile anche nella Venezia '800. A mano a mano questa si allontana dal '700, l'indora di profuse voluttà. Una colpa dell'ultimo secolo della Serenissima quella, appunto, d'un'inclinazione irresponsabile al piacere, alla voluttà. Epperò dev'essere stato bello vivere all'epoca di Casanova. Ecco: Casanova diventa espressione in certo qual modo d'una scienza del vivere - saper vestire, saper mangiare, saper viaggiare, saper conversare, saper corteggiare, saper conquistare - che, prima della fine della Serenissima, avrebbe toccato il culmine, appunto, della piacevolezza più voluttuosa. Irriproducibile però il '700. Non replicabile Casanova. Né replicabile Goldoni. E se a lui ci si rifà, salta fuori Giacinto Gallina. Anche se la vita è un pattinare sulla superficie salta pur sempre fuori quanto sia pelosa la sollecitudine del santolo. E, allora, alla "bona moggier" occorre dire "vergognosa". Troppo connotati l'avventuriero Casanova e il commediografo Goldoni dal loro secolo e, nel contempo, rispetto a questo, troppo connotanti, per non rimanere confitti in questo a qualificarlo anche per contrasto rispetto al successivo. Valgono più a divaricare che ad accostare. Una rottura traumatica, d'altronde, per Venezia ritrovarsi, col finire del secolo, non più capitale. E segnato dall'elaborazione del lutto, infatti, l'800 veneziano. Ciò non toglie si diano elementi di continuità. L'erudizione, lo si è detto, prosegue, grazie ai Morelli e ai Chiodo. E se Flaminio Corner muore nel 1778, nasce nel 1789 Cicogna. E continua pure la poesia dialettale. Morto nel 1768 Baffo, pubblicato postumo nel 1771 e nel 1789. Nasce nel 1772 Pietro Buratti (66) la cui "reputazion vernacola" - e in questa non è assente la scurrilità - si situa nell'800 ormai iniziato.
1. Sul quale v. Paolo Preto, Ferro, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLVII, Roma 1997, pp. 198-199. Pressoché sistematico, come si vedrà anche dalle note successive, il rinvio al Biografico. E ciò anche per alleggerire l'apparato annotatorio del contributo, ché il rinvio vale, oltre che per le notizie fornite dalla singola voce, pure per la bibliografia che la correda.
2. Sul quale cf. Giuseppe Pignatelli, Bianchini, Andrea, ibid., X, Roma 1968, pp. 178-179. E v. anche Manlio Miele, Ultimi scorci di una "diocesi separata". La prelatura marciano in una prospettiva canonistica, in San Marco: aspetti storici e agiografici, a cura di Antonio Niero, Venezia 1996, pp. 240-267.
3. Profilato in Gianfranco Torcellan, Settecento veneto e altri scritti storici, Torino 1969, pp. 485-487.
4. Inquadrato in Gino Benzoni, Pensiero storico e storiografia civile, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 71-95, v. su di lui Piero Del Negro, Foscarini, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, pp. 390-395.
5. Dedicata ad entrambi una voce - redatta pel lessicografo da Gian Luigi Beccaria (Bergantini, Gian Pietro) e per l'altro da Gianfranco Torcellan (Bergantini, Giuseppe Giacinto Maria) - in Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, pp. 84-87 e 87-89.
6. V. Francesco Dalla Colletta, I principi di storia civile di Vettor Sandi. Diritto, istituzioni e storia nella Venezia di metà Settecento, Venezia 1995.
7. Cf. Piero Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 123-145.
8. E profilati, tanto il figlio che il padre, da Id., Donà (Donati, Donato), Francesco e Donà (Donati, Donato, Nicolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, rispettivamente pp. 730-732 e 786-789.
9. Cf. Fernanda Torcellan Ginolino, Bilesimo, Giovanni Battista, ibid., X, Roma 1968, p. 458.
10. Cf. Paolo Preto, Diedo, Giacomo, ibid., XXXIX, Roma 1991, pp. 775-776.
11. Cit. in Gino Benzoni, Verso la fine?A proposito dell'ultimo secolo della Serenissima, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, p. 251 (pp. 245-269).
12. V. Cesare De Michelis, Zeno, Apostolo, in Dizionario critico della letteratura italiana, I, Torino 19862, pp. 481-486. Va da sé che, come col Biografico, anche qui il rinvio alla voce s'estende alla relativa bibliografia.
13. Cf. Gino Benzoni, Alla volta del medioevo, "Ateneo Veneto", n. ser., 27, 1989, pp. 85-117.
14. Cf. Maria Francesca Tiepolo, Flaminio Corner e gli archivi veneziani, "Ateneo Veneto", n. ser., 18, 198o, p. 65 (pp. 61-67).
15. V. Sonia Pellizzer, Degli Agostini, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXVI, Roma 1988, pp. 154-156.
16. V. Antonella Barzazi, Dallo scambio al commercio del libro. Case religiose e mercato librario a Venezia nel Settecento, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, 156, 1997-1998, pp. 1-45.
17. V. Paolo Preto, De Rubeis (Rossi), Bernardo Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 238-240.
18. V. Claudio PovoLO, Coleti, Nicolò, ibid., XXVI, Roma 1982, pp. 727-728.
19. Sul quale - oltre a Elio Apih, Carli, Gian Rinaldo, ibid., XX, Roma 1977, pp. 161-167 v. Ugo Tucci, Teoria e pratica nelle idee monetarie di Gian Rinaldo Carli, "Studi Veneziani", n. ser., 31, 1996, pp. 111-123, nonché, di più autori, i contributi dal convegno internazionale Un grande riformatore del '700. Gian Rinaldo Carli tra l'Istria, Venezia e l'impero, "Acta Histriae", 5, 1997.
20. V. Paolo Preto, Costadoni, Anselmo (al secolo Giandomenico), in Dizionario Biografico degli Italiani, XXX, Roma 1984, pp. 266-268.
21. V. Cesare De Michelis, Calogerà, Angelo (al secolo Domenico Demetrio), ibid., XVI, Roma 1973, pp. 790-793.
22. D'obbligo, in merito, il rinvio a Marino Zorzi, La Libreria di San Marco. Libri, lettori, società nella Venezia dei Dogi, Milano 1987.
23. V. Antonio Niero, L'erudizione storico-ecclesiastica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 97-121.
24. V. Paolo Preto, Corner, Flaminio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 191-193.
25. V. Id., Filiasi, lacopo, ibid., XLVII, Roma 1997, pp. 643-646.
26. Cf. Lara Spina, "Sempre a pro degli studiosi": la biblioteca di Emmanuele Antonio Cicogna, "Studi Veneziani", n. ser., 29, 1995, pp. 295-355.
27. In Giornali veneziani del Settecento, a cura di Marino Berengo, Milano 1962, pp. 33-35.
28. V. Alice Binion, La galleria scomparsa del maresciallo von der Schulenburg, Milano 1990 e Werner Arnold Die Bibliothek der Grafen von der Schulenburg, Berlin 1994.
29. Cf. Frances Vivian, Il console Smith mercante e collezionista, Vicenza 1971.
30. Sul quale v. Gianfranco Torcellan, Una figura della Venezia settecentesca: Andrea Memmo, Venezia-Roma 1963, nonché Lodoli, ad vocem. E, per entrambi, il maestro el'allievo, cf. Manlio Bernabei, la letteratura artistica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, pp. 485-508.
31. Su questi - oltre a G. Torcellan, Settecento veneto, ad vocem - Giammaria Ortes. Un ῾filosofo' veneziano nel Settecento, a cura di Piero Del Negro, Firenze 1993, e Erica Morato, L'economia nazionale di G.M. Ortes nei rapporti tra Stato e Chiesa, Milano 1998.
32. Per questo e gli altri stampatori e per le iniziative editoriali in genere v. Mario Infelise, L'editoria veneziana nel '700, Milano 1998.
33. V. Paolo Preto, Contin, Tommaso Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 509-512.
34. Per questo e per periodi settecenteschi in genere imprescindibile l'antologizzazione con ampia introduzione dei Giornali veneziani, a cura di M. Berengo.
35. Su di lui e sulla figlia Elisabetta v. Cesare De Michelis, Caminer, Domenico Caminer, Elisabetta, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, rispettivamente pp. 234-236 e 236-241.
36. Sul quale cf. Luca Ciancio, Autopsie della Terra. Illuminismo e geologia in Alberto Fortis, Firenze 1995 e Id., Fortis, Alberto, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIX, Roma 1997, pp. 205-210.
37. Il che è sin troppo desumibile da Franco Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, 1758-1774 e V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, 1761-1797, Torino, rispettivamente, 1976 e 1990, nonché da Piero Del Negro, Il mito americano nella Venezia del '700, Padova 1986.
38. Su questi - oltre a Giambattista Salinari, Buonafede, Appiano (al secolo Tito Benvenuto), in Dizionario Biografico degli Italiani, XV, Roma 1972, pp. 100-104 - il miscellaneo Appiano Buonafede, un intelletuale e cattolico tra l'Arcadia e i Lumi, Ferrare 1988.
39. Sul quale Giovanni Da Pozzo, Algorotti, Francesco, in Dizionario critico della letteratura italiana, I, Torino 19862 pp. 30-33.
40. Cf. Gino Benzoni, A proposito di Gesuiti: Paraguay e "felicità", in Il letterato tra miti e realtà del nuovo mondo: Venezia, il mondo iberico e l'Italia, a cura di Angela Caracciolo Aricò, Roma 1994, pp. 61-84.
41. Cf. Mario Infelise, Gesuiti e giurisdizionalisti nella pubblicistica veneziana del '700, in Gesuiti a Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù, a cura di Mario Zanardi, Padova 1994, pp. 663-686.
42. Su questi, il Capra un po' oltre menzionato e il contesto dei loro interventi v. Gianni Bernardi, Echi veneziani ai dibattiti teologici del tempo, in La chiesa di Venezia nel Settecento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1993, pp. 89-125.
43. V. Paolo Preto, Concina, Daniele, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 716-722.
44. V. Giuseppe Pignatelli, Benzi, Bernardino, ibid., VIII,
Roma 1966, pp. 716-717.
45. V. Giuseppe Lusina, Arduino, Pietro, ibid., IV, Roma 1962, pp. 66-68 e Mario Gliozzi, Arduino, Giovanni, ibid., pp. 64-66.
46. Cit. in Michele Maylender, Storia delle accademie d'Italia, I, Bologna 1926, p. 359. E, per l'apertura all'interesse per l'agricoltura, annunciato anche da questi modesti versi v. Giuseppe Gullino, Le dottrine degli agronomi e i loro influssi sulla pratica agricola, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 379-410.
47. V. Renzo De Felice, Amoretti, Carlo, in Dizionario
Biografico degli Italiani, III, Roma 1961, pp. 9-10.
48. Cf. Nereo Vianello, La tipografia di Aloisopoli e gli annali delle sue pubblicazioni, Firenze 1967.
49. Sul quale v. Gasparo Gozzi. Il lavoro di un intellettuale nel Settecento veneziano, a cura di Ilaria Crotti-Ricciarda Ricorda, Padova 1989.
50. Profilato da Paolo Preto, Dolfin, Daniele Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 481-484. Sulla sua relazione e sui rappresentanti veneti alla corte cesarea v. Gino Benzoni, Vienna nelle relazioni degli ambasciatori veneziani, in Venezia Vienna, a cura di Giandomenico Romanelli, Milano 1983, pp. 9-24.
51. Cit. in G. Torcellan, Settecento veneto, p. 453.
52. Su di lui ibid., ad vocem e Piero Del Negro, Introduzione all'edizione da lui curata di Poesie di Giorgio Baffo patrizio veneto, Milano 1991.
53. V. G. Torcellan, Settecento veneto, pp. 481-484.
54. V. F. Venturi, Settecento riformatore, V/2, ad vocem e specie pp. 93-94.
55. Cit. in Alberto Vecchi, Correnti religiose nel Sei-Settecento veneto, Venezia-Roma 1962, p. 386 n. 4.
56. V. Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1956, pp. 636-654, donde sono tratte le citazioni che seguono nel testo.
57. V. Cesare De Michelis, Gozzi, Carlo, in Dizionario critico della letteratura italiana, II, Torino 19862, pp. 429-433, nonché i miscellanei Carlo Cozzi scrittore di teatro, a cura di Carmelo Alberti, Roma 1996 e Carlo Gozzi. Letteratura e musica, a cura di Bodo Guthmüller-Wolfgang Osthoff, Roma 1997.
58. V. Pietro Chiari e il teatro europeo del Settecento, a cura di Carmelo Alberti, Vicenza 1986 e Luca Clerici, Il romanzo italiano del Settecento. Il caso Chiari, Venezia 1997.
59. V. Felice Del Beccaro, Goldoni, Carlo, in Dizionario critico delle letteratura italiana, II, Torino 19862, pp. 409-420. Strumento indispensabile per entrare, girovagare e assaporare la produzione in dialetto è Gianfranco Folena, Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni, Roma 1993.
60. Cf. Vico e Venezia, a cura di Cesare De Michelis-Gilberto Pizzamiglio, Firenze 1982.
61. Cf. Giancarlo Boccotti, La fuga di P.A. Gratarol nobile padovano a Braunschweig: una loggia massonica negli intrecci politici della Venezia tardosettecentesca, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 291-337.
62. Cf. Erasmo Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Venezia 1991.
63. Cit. in Cesare De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Firenze 1979, pp. 244-245.
64. V. Nicola Mancini, Casanova, Giacomo, in Dizionario critico della letteratura italiana, I, Torino 19862, pp. 538-542.
65. Cf. Aleramo Lanapoppi, Lorenzo Da Ponte. Realtà e leggenda nella vita del librettista di Mozart, Venezia 1992.
66. V. Armando Balduino, Buratti, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XV, Roma 1972, pp. 391-394.