Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La disco music anni Settanta, ai suoi esordi, risulta un insieme di brani funky, soul e r’n’b. Il ballo e la figura del dj sono aspetti imprescindibili di questo tipo di musica, come i luoghi di fruizione: in un primo momento la discoteca, in seguito il club e il rave. Successivamente la componente “sintetica” prende sempre più il sopravvento dando origine alla musica house e poi alla techno. Negli anni Novanta si fanno avanti processi di sperimentazione che portano a momenti artisticamente ispirati: si pensi all’ambient di Brian Eno, ai Chemical Brothers e a Fatboy Slim.
L’electronica pop
Nella componente ritmica del rock vi sono elementi compulsivi che si trovano a proprio agio quando indossano l’abito della macchina. Ingredienti probabilmente riconducibili ai ritmi, filtrati dal country, delle musiche bandistiche e dei balli popolari nordeuropei. Se c’è una parte del rock più incline al soul e al r’n’b, che si incarna nel continuo dell’anima e del sentimento, c’è un’altra parte che viaggia tra una componente mentale e una meccanica. È proprio in questo andamento meccanicamente scandito, relativamente povero di irregolarità accentuative, che si ritrova la mancanza di swing che il jazz rimprovera al rock. Pensiamo solo all’inesorabile metro binario della batteria di Charlie Watts dei Rolling Stones, alle lunghe e ipnotiche costruzioni ritmiche dei Velvet Underground, alle prime forme di jungle beat di Bo Diddley, alle lunghe suite strumentali del krautrock, e si avrà l’idea di come anche nel rock sia presente, proprio nelle sue forme più elementari, un’idea di ripetizione continua, dilatata e fortemente scandita, alternativa alle cadenze risolutive tipiche del blues.
Muovendo da questa stessa ripetitività, i Kraftwerk, influenzati da decenni di ricerca sonora sperimentata nel campo dell’elettronica, hanno dato corpo nei primi anni Settanta, alle prime forme di elettronica pop e danzabile associata a un immaginario futuribile e neoscientista (che attinge alle imprese spaziali, alle nuove tecnologie informatiche e alla fantascienza). Provenienti da Düsseldorf, Germania, decentrati rispetto all’asse angloamericano come molta musica di ricerca europea dello stesso periodo, i Kraftwerk fanno convergere la lezione minimalista con l’elettronica di Karlheinz Stockhausen. Essi concentrano la loro ricerca estetica sul sintetizzatore, sulle drum-machine, su voci “robotiche” come il loro immaginario visivo, importando armonie alla Beach Boys elettronicamente “filtrate”. I loro brani si configurano come inni postfuturisti dedicati all’autostrada, alla radioattività, al treno, al computer. La coloritura sonora tecnologica si sposa con strutture che sono mutuate dal rock ma allo stesso tempo orientate a una nascosta danzabilità quasi caraibico-latineggiante, come dimostrerà in anni recenti il progetto di rilettura electro-salsa di Señor Coconut che ne ha riproposto brani in chiave cha-cha-cha o mambo.
L’universo dell’electronica (come viene altrimenti definito il campo dell’elettronica pop e dance contemporanea) viene così progressivamente arricchendosi di elementi determinanti, come il ballo, il corpo e la sessualità, mutuati dal funky e per poi trasformarsi in disco-music. Una disco rilevante per aver contribuito a fare emergere una sessualità non più solo eterosessuale, romantica o maschilista, ma anche apertamente gay e portata a uno stile di vita smaliziato ed edonista, collegato ai club e alla vita notturna. Fa parte di questo immaginario l’idea di un flusso che si protrae per una notte intera senza soluzione di continuità. Una pratica sviluppatasi soprattutto negli Stati Uniti molto prima che la disco nel 1977, con il club Studio 54 di New York, esploda come fenomeno di tendenza e soprattutto prima che con John Travolta e il film Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera) essa diventi un fenomeno commerciale mondiale. La musica da ballo dei primi anni Settanta è dunque un composito insieme costituito da brani funky, soul e rhythm and blues, talvolta intervallati da momenti rock, uniti a percussioni africane (Soul Makossa di Manu Dibango) e brani strumentali di musica latino-americana.
Già dal 1970 a New York i party si sono trasferiti in domestici club privé, come ad esempio The Loft di David Mancuso, locale nel quale domina l’ideologia hippy libertaria del padrone di casa, un cultore di musiche e pratiche psichedeliche. Uno spazio chiuso e socialmente separato, assieme privato e pubblico, in modo similare ai locali da ballo segreti della Francia occupata dai nazisti. Luoghi dove la libera sessualità, il consumo di droghe e il ballo sono le note dominanti. I club di New York sono costituiti da una folla prevalentemente gay, etnicamente composita, ma con prevalenza di neri e ispanici, così da mescolare ogni forma di differenza sociale. In questo scenario il dj (alias disc-jockey), selezionatore di dischi e compilatore di liste di brani, assume una rilevanza crescente divenendo sempre più artigiano della danza collettiva ma anche artista della manipolazione del suono. Se in un primo tempo è quasi invisibile e si limita ad assemblare musica eterogenea solo in base a un criterio o a uno stile, successivamente il dj si prende la libertà di interrompere, riavvolgere, ripetere, mischiare frammenti, oppure di intervenire sui timbri e sulle sonorità dei brani, magari aggiungendo parti di batteria elettronica. Larry Levan, resident dj del Paradise Garage di New York, club che annovera frequentatori come Keith Haring e Mick Jagger, è uno dei primi liberi manipolatori. Oltre a essere uno dei responsabili della transizione dalla disco music verso la musica house, anche sull’onda del suono dub importato dalla Giamaica, è un esempio rappresentativo di dj artefici di veri e propri mondi musicali, atmosfere predefinite che si protraggono per l’intera nottata.
Dalla vasta scena underground emergono, tra gli altri, nomi di musicisti come Chic e Sylvester. Tra i responsabili dell’importazione di sonorità elettroniche all’interno della disco oltre quest’ultimo ci sono il produttore tirolese Giorgio Moroder, artefice europeo da Monaco del successo americano di Donna Summer, e i Parliament di George Clinton. Divengono dominanti linee di basso meccaniche a discapito della variazione blues che in una certa misura continua a sussistere nella musica funky. Nel ballo l’estetica artificiale e sintetica sta soppiantando lentamente la retorica dell’anima e della natura. Con l’arrivo di White Lines di Grandmaster Flash e Planet Rock di Afrika Bambaataa, anche quello che viene tuttora considerato il momento fondativo dell’hip hop – Rapper’s Delight della Sugarhill Gang (1979) contraddistinto dalla linea di basso “rubata” agli Chic – è presto superato da intrecci di batterie elettroniche e sequencer (generatori di melodie programmabili al computer). La big thing del momento è la breakdance, un esercizio di virtuosismo ed equilibrio atletico realizzato al ritmo di canto rap (frasi in rima, modulate ritmicamente e non melodicamente), con l’accompagnamento di stereo portatili (ghetto blaster) ed esibito sulle strade delle metropoli americane.
Gli anni Ottanta: house e techno
Dalla parte opposta dell’Atlantico, specie in Inghilterra, l’interesse del rock sta orientandosi verso la musica di tradizione nera (Police, Clash, P.I.L.). La dance intesa come nuovo riferimento collettivo contribuisce tra l’altro ad abbattere le barriere tra rock e musica da ballo. Gli ultimi fuochi della contrapposizione si compiono nel 1979 nella battaglia reazionaria denominata Disco Sucks, in cui individui bianchi eterosessuali e reazionari, per preservare la purezza del rock, organizzano la Disco Demolition Night, bruciando pubblicamente esemplari di disco music in uno stadio di Chicago.
Proprio in questa città emerge invece la scena elettronica più rilevante dei primi anni Ottanta, di nuovo originatasi in un club, il Warehouse, nel quale musicisti locali realizzano minimali tracce ritmiche di basso e batteria elettronica, definite appunto tracks. L’elemento umano, cioè la voce e gli interventi strumentali, tende a scomparire per lasciare spazio a sonorità totalmente sintetiche. Bass-line e drum-machine, macchine computerizzate pensate per l’accompagnamento meccanico di musicisti tradizionali, divengono inconsapevole volano per la creazione della house music, la prima musica da ballo completamente elettronica. L’idea di canzone qui lascia progressivamente il posto a quella di “traccia”, di “base”, di groove. L’ispirazione per una simile trasformazione, che di lì a poco a Detroit vedrà un’ulteriore mutazione definita techno, proviene, per debita ammissione degli interessati, dall’elettronica europea: da quella colta, da forme sperimentali di rock, ma anche dal semplice techno-pop. Genere, quest’ultimo, esploso in Inghilterra nei primi anni Ottanta grazie a gruppi come Human League, Heaven 17, Soft Cell, Depeche Mode, New Order, con il contributo di altri nomi meno noti come i belgi Telex e i tedeschi D.A.F. (Deutsche Americanische Freundschaft).
La scena house e techno negli Stati Uniti farà però difficoltà a emergere dall’underground e dai club mentre attecchirà con rapido successo in Europa, generando, come è prevedibile in questo “ritorno alle origini”, una ennesima traduzione culturale. Un primo elemento di differenza nella scena europea è la diffusione dell’ecstasy, un’anfetamina sintetica (Mdma) altamente diffusa tra i frequentatori dei club inglesi, la quale altera le percezioni e i comportamenti collettivi. L’altro elemento è Ibiza, località balneare spagnola dove i giovani inglesi hanno imparato ad apprezzare una miscela musicale eterogenea a base di house primordiale, e dove il ballo a notte inoltrata e a cielo aperto si abbina al consumo di droghe e alcolici. Trasferito a Londra il “modello Ibiza”, l’house fuoriesce dall’underground gay. Quel tipo di ballo, che si configura come una sorta di trance individuale-collettiva, contagia la “coscienza corporea” dei ragazzi, soprattutto quelli provenienti dalle classi lavoratrici.
Gli anni Novanta e il fenomeno dei rave
Il successo dell’ecstasy è imputabile agli inediti effetti sinestetici che essa fa cogliere nelle sonorità della dance elettronica. Una farmacopea disinibitoria e transitoria che attenua temporaneamente le tensioni sociali e le rivalità tra gruppi giovanili. La fuoriuscita dai club della house si concretizza in una forma di party illegale, il rave party, all’aperto o in grandi capannoni industriali riadattati. I rave si moltiplicano rapidamente e non è inconsueto che vedano la partecipazione di più di 10 mila persone. Masse così ampie di giovani, molti dei quali sotto effetto di droga, gestite in modo non sempre ortodosso da organizzatori improvvisati se non criminali, portano a frequenti scontri con una polizia sempre più affannata a individuare e prevedere la localizzazione dei rave.
La musica elettronica viene ad affermarsi dunque come forma popular dominante nel ballo, incentivando la diffusione planetaria della cosiddetta club culture. Il fenomeno dei rave ha assunto nel tempo una pregnanza sociale e persino politica, soprattutto alla fine degli anni Novanta, tale da essere oggetto di interesse culturale e sociale nonché di reazioni allarmate di pari intensità. Se ne è sottolineato (ad esempio, da parte del sociologo Maffesoli) l’aspetto rituale dionisiaco, della festa collettiva, allo stesso tempo causa ed effetto di una effervescenza sociale pura. Allo stesso modo si è inneggiato al “diritto alla festa” da esercitarsi attraverso una dimensione microsociale, separata sul piano spaziale (come avviene nel suddetto caso del Loft), in diversi luoghi (freeparty, festival, club) più o meno dominati dall’anonimato, dalla temporalità indifferenziata (la scansione “continua” della techno), e in generale dalla sospensione delle regole. Una riappropriazione della fisicità sensibile condivisa attraverso una sorta di “sentire collettivo” carico di evidente valore politico. La reazione della Chiesa, soprattuto di fronte alle forme di legittimazione istituzionale che il rave ha ricevuto (vedi i casi di Parigi, Berlino e anche Bologna), è stata quella di una ferma condanna nei confronti di una forma d’espressione esclusivamente incentrata sul corpo senza la mediazione del logos, dunque senza possibilità di controllo razionale. Questi aspetti più fortemente politici si sono in parte attenuati con la diminuzione della rilevanza sociale che hanno assunto i rave e con il progressivo distacco della musica techno dalla sola dimensione propriamente festiva, verso una direzione anche prettamente estetica.
Un buon esempio di ricaduta su forme parallele di produzione e di ascolto è la raccolta-manifesto Artificial Intelligence, ideale capofila di un nuovo atteggiamento. Già nel 1992 essa propone una forma di elettronica dance evoluta verso brani strumentali non distanti dall’ambient di Brian Eno e orientati a un approccio estetico e contemplativo, mirato a un ascolto privato e individuale. La copertina raffigura un salotto con un robot umanoide sdraiato in poltrona e dischi dei Kraftwerk e dei Pink Floyd sparsi sul pavimento. Piuttosto che l’identità dei singoli autori dei brani (tra cui Aphex Twin, guru dell’ambient-techno, sotto pseudonimo) ciò che conta è l’etichetta, in questo caso la Warp. Ciò a dimostrazione del rilievo che, soprattutto per il genere elettronico, assumono le scene collettive, delle quali si coglie un corrispettivo nella politica editoriale dalle diverse etichette. Il tutto viene ricollegato all’elettronica sperimentale d’avanguardia, mentre della techno si conservano le intuizioni ritmiche e un’impostazione stratiforme, poco orientata allo sviluppo melodico.
L’elettronica ha complessivamente dominato la scena musicale degli anni Novanta, generando infinite derivazioni (tra cui jungle, drum’n’bass, ambient, glitch). Ha originato successi commerciali di rilievo internazionale con artisti inglesi come Underworld, Chemical Brothers, Goldie, Fatboy Slim, ma ha anche toccato meno noti momenti artisticamente ispirati, per poi mostrare un certo appannamento nella creatività. A conferma della pari rilevanza dell’elettronica mitteleuropea rispetto all’asse anglo-americano, segnaliamo artisti (tedeschi) come Thomas Brinkmann, Mouse on Mars, Atom Heart, tra i vari casi che, esibendo un approccio disincantato, sono riusciti a superare l’implosione di genere rilevabile in alcune derive ultra-minimaliste.
Anche la scena italiana, che già negli anni Ottanta con l’italian-disco si è posizionata a livello internazionale, con la dance elettronica ha nuovamente guadagnato notorietà internazionale, grazie al lavoro dei dj-musicisti, specie della scena romana e napoletana.