Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Non esiste una sola danza del Novecento, ma tante danze diverse, che rispecchiano e talvolta anticipano il mutare della visione del corpo e il fervore artistico e sociale che pervade il secolo. Ci si chiede a più riprese che cosa sia "danza", cercando e fornendo risposte mutevoli, che oscillano tra formalismo ed espressione, autonomia e commistione dei generi artistici. Se da una parte si sviluppano scuole e tecniche nuove, come la danza moderna americana o quella espressionista tedesca della prima metà del secolo, o il Tanztheater dagli anni Settanta in poi, dall’altra anche il balletto si trasforma profondamente, seppure sulle spoglie del passato.
La continua sperimentazione
Isadora Duncan
La danza del futuro
Se ricerchiamo la vera origine della danza, se ritorniamo alla natura, troviamo che la danza del futuro è la danza del passato, la danza dell’eternità, che è sempre stata e sempre sarà la stessa. Il movimento delle onde, dei venti, della terra esiste da sempre nella stessa eterna armonia. Noi non andiamo sulla spiaggia a chiedere all’oceano come fosse il suo movimento in passato e come sarà in futuro. [...] Solo i movimenti del corpo nudo possono essere completamente naturali. L’uomo, giunto al termine della civilizzazione, dovrà tornare alla nudità: non alla nudità inconsapevole del selvaggio, ma a quella conscia e riconosciuta dell’Uomo maturo, il cui corpo sarà l’espressione armoniosa della sua vita spirituale.
Isadora Duncan, Lettere dalla danza, Firenze, La casa Usher, 1980
Il Novecento è, per la danza, un secolo di continui cambiamenti, nutriti sia da un fertile dibattito interno, che modula forme e poetiche, sia da un dialogo aperto con le altre arti e con la storia politica e sociale. Con il teatro essa condivide il costante sperimentalismo, acceso da una retorica dell’avanguardia, che si esprime nel ripetuto rifiuto della tradizione. Le spinte innovatrici, che già nel passaggio tra Ottocento e Novecento producono un ripensamento complessivo della danza, si traducono sia in lavori scenici, sia nella prassi laboratoriale e di ricerca. Accanto ai nomi di danzatori di fama o dei coreografi, spiccano dunque i pedagoghi, per i lasciti teorici, oltre che per il loro insegnamento pratico. Al centro della riflessione e del processo di revisione c’è il corpo del danzatore-interprete e una visione del movimento che oscilla tra formalismo ed espressione, tecnica e spontaneità, all’interno di un’arte combattuta fra due ideali opposti: quello di una totale autonomia e di una propria specificità, soprattutto rispetto alla musica, da un lato, e la grande utopia wagneriana di un’opera d’arte totale, sintesi di parola, gesto e musica nell’unione di spazio e tempo, dall’altro.
Alla fine dell’Ottocento il balletto romantico era ancora al massimo splendore ed esibiva, in particolare, dei corpi dal grande virtuosismo tecnico, fedeli ai codici di una danza accademica basata sull’equilibrio precario imposto dalle punte, su evoluzione, rotazione delle anche, destrezza di piedi e gambe e sul salto. La ballerina, protagonista incondizionata della scena, doveva essere innanzitutto un’esecutrice diligente al servizio di un progetto coreografico.
Il recupero di una visione olistica del corpo e la "ricerca delle origini", sentiti dalla società del tempo e voluti anche in ambito teatrale, trovano terreno fertile nella danza, incitando a una liberazione del corpo dalle costrizioni disciplinari della forma accademica e dalle convenzioni dell’abito sociale; alla scoperta, dunque, delle leggi naturali di movimento. La nuova consapevolezza fisica si spande dagli Stati Uniti all’Europa e, nel vecchio continente, si radica nella "cultura del corpo" (Körperkultur), che ha come epicentro la Germania. Il fuoco è acceso dall’azione dirompente delle tre "profetesse visionarie", Isadora Duncan, Ruth St. Denis e Loie Fuller, dal ricercatore e artista ungherese Rudolf Laban e dallo svizzero Émile Jaques-Dalcroze .
Nutrimento profondo, per le innovatrici visioni americane di un’arte fino ad allora ridotta a mero divertimento, è il nuovo umanesimo di François Delsarte che, nella sua teoria dell’espressione, promuove il credo nella natura trinitaria dell’uomo, come fusione di corpo, anima e spirito, e nella corrispondenza tra stati interiori ed esteriori, tra emozione e movimento.
Ostile all’estetica ballettistica, come al vaudeville, e desiderosa di fare della danza un’arte, Isadora Duncan si lascia ispirare dagli ideali del tempo: il mondo greco e la natura. La Duncan propone un modello dionisiaco di liberazione di corpo e spirito, attraverso un movimento spontaneo, morbido ed emozionale, mosso dal "plesso solare" e guidato dalla musica delle grandi composizioni classiche. Velata a stento da una tunica greca, dinanzi a un fondale azzurro e a piedi nudi, Isadora scuote e scandalizza il pubblico borghese di tutto il mondo ma al tempo stesso, nei suoi percorsi europei, si fa musa ispiratrice di poeti e artisti. La sua visione è racchiusa nell’opera postuma The Art of the Dance del 1928.
Di diverso genere è il tipo di spiritualità proposto da Ruth St. Denis, che in camminate auliche, giri vorticosi e ondeggiamenti sinuosi richiama ritualità e immagini orientali, alimentando l’esotismo già diffuso negli Stati Uniti e in Europa. Con Ted Shawn, la St. Denis fonda una compagnia e la scuola Denishawn, dove si insegnano diverse discipline improntate comunque all’insegnamento del sartiano e che sarà la fucina della modern dance americana. Tra le sue fila si formano infatti le pioniere di questo genere, Martha Graham e Doris Humphrey .
Evocazione simbolica e "illuminazione", puro segno che trascende il corpo, per farsi sogno agli occhi di un osservatore ammirato come Mallarmé, è, invece, Loie Füller. "Miracolo di scienza" più che di natura è, infatti, l’opera di quest’artista, che si riveste di amplissimi drappi e fasci di luce colorata, proiettata da riflettori elettrici – spesso ideati da lei stessa –, per tramutarsi attraverso il movimento in fiore, fiamma, farfalla o uccello, passando persino dall’una all’altra nel corso di una stessa esecuzione. La sua coreografia più conosciuta, oggetto di innumerevoli imitazioni, è la Serpentina, linea sinuosa creata dal ritmo di una danza che non mira tanto all’imitazione della natura quanto alla poesia evocatrice del movimento.
Nell’Europa che accoglie le danzatrici americane Duncan e Füller, l’esplosione delle scienze sociali (dalla sociologia all’antropologia e alla psicologia) trasforma la riflessione sull’arte in riflessione sull’essere umano nella sua interezza. L’anelito verso un uomo originario si esprime, soprattutto nella Germania della Körperkultur, nella propensione per gli spazi aperti e nell’attenzione al movimento ritmico della danza, come tramite tra corpo-anima e universo, strumento per riformare e liberare la vita dalle strette maglie della civilizzazione. Similmente alla visione di Georg Fuchs, che nel teatro scorge l’esperienza vitale, così Laban e Jaques-Dalcroze investigano l’esperienza, ritenuta totalizzante, della danza. In entrambi i casi, la ricerca ha innanzitutto uno sbocco pedagogico, terapeutico, etico e sociale, oltre e piuttosto che estetico e spettacolare.
Il musicista e compositore Jaques-Dalcroze, creatore della "ginnastica ritmica", individua nel ritmo lo stimolo dinamico in grado di armonizzare gesti, passi e atteggiamenti, attraverso l’affinamento dell’"orecchio interiore". Questa disciplina è sviluppata in un complesso sistema pedagogico che prende il nome di Euritmica. Modello ideale di equilibrio plastico-musicale è, per Jaques-Dalcroze, l’orchestica greca, mitica unione di parola, ritmo e danza. La concretizzazione spettacolare di questi studi si realizza in collaborazione con Adolphe Appia, che nella ritmica dalcroziana vede la traduzione in termini spaziali e corporei della musica e partecipa alla creazione dello spettacolo Orfeo ed Euridice di Gluck nel 1913, tenuto nella scuola di Jaques-Dalcroze ad Hellerau.
Seppure sulla base di presupposti diversi, la ricerca di Rudolf Laban richiama invece le indagini sull’azione reale, la biomeccanica o il mimo corporeo condotte in ambito teatrale. Il maestro ungherese produce, infatti, una riflessione scientifica accurata sulle leggi che regolano il movimento umano. Laban suddivide gli studi di danza in tre parti: coreosofia, relativa ai principi filosofici, etici ed estetici di quest’arte; coreografia, inerente al rapporto tra l’elaborazione complessiva del movimento e le sue possibilità di trascrizione; coreologia, che concerne la grammatica del movimento e, soprattutto, lo "sforzo" energetico (effort) che traduce l’impulso interiore in coordinate di spazio, tempo, peso e flusso. Il lascito teorico di Laban, passato soprattutto dalle pagine di The Mastery of Movement del 1950, alimenta ancora oggi la riflessione di danza.
Ballets Russes, modernismo ed espressionismo
In un mondo ballettistico che langue sulle spoglie del passato, i Ballets Russes, una compagnia guidata dall’impresario ed esteta Sergej Diaghilev , tra il 1909 e il 1929, realizzano in Europa una rivoluzione artistica, incarnando nell’ampio repertorio le molteplici vie al modernismo espresse nell’arte figurativa e nel teatro. Il vocabolario accademico non cade ma è tuttavia rielaborato, talvolta drasticamente, a partire dalla poetica espressiva di Michail Fokin, fino all’irriverenza iconoclasta di Vaclav Nižinskij de Le Sacre du Printemps (1913), che stravolge il linguaggio classico a partire da una postura asimmetrica e sgraziata, con ginocchia piegate e piedi in dentro. Meno scandalosi per il tempo appaiono i contributi successivi di Léonide Massine, che per Parade (1917) ottiene le scene futuriste di Picasso, e Bronislava Nijinska , sensibile alle spinte costruttiviste delle arti figurative. L’interdisciplinarietà tipica dei Ballets Russes si smorza in parte nel più astratto neoclassicismo di George Balanchine, esemplificato in Apollon Musagète (1928).
La spinta modernista si esplica nell’elaborazione di una tecnica corporea sia nella modern dance americana a partire dagli anni Trenta, sia nella danza tedesca, prima detta "espressiva" (Ausdruckstanz) poi "espressionista", nata successivamente alla prima guerra mondiale. L’approccio umanistico dei nuovi stili pone l’espressione al centro della danza. Il corpo si fa strumento flessibile di una corrispondenza tra il dentro e il fuori dell’essere umano, rappresentata e vissuta nelle pulsazioni ritmiche del respiro.
Corpi ossuti e straziati e figure grottesche popolano l’arte figurativa e le pellicole dell’espressionismo postbellico tedesco, così come forme angolose e dure, mosse da ritmi percussivi, abitano la danza di Mary Wigman. Formatasi con Jaques-Dalcroze e Laban, la Wigman mira alla stessa unità cosmica dell’essere umano, che appare però sempre inquieto e inquietante, come nella sua memorabile Hexentanz (Danza della strega, 1925). Il confronto con la storia è persino più esplicito nel lavoro di un altro labaniano d’origine, Kurt Jooss, che respira lo spirito critico del teatro tedesco dell’epoca di Weimar e si scaglia apertamente contro la guerra. Nel celebre Der Grüne Tisch (Il tavolo verde, 1932), Jooss ritrae infatti, alla maniera di Grosz, i padroni del mondo, intenti a decidere il destino di tutte le genti intorno a un tavolo da gioco. Costretto dal nazionalsocialismo a lasciare la Germania, Jooss vi ritorna nel 1949, quando riapre a Essen la Folkwang Tanzschule, linfa vitale del teatro-danza tedesco della seconda metà del secolo.
La danza come tramite di un messaggio estetico ed emozionale, se non propriamente politico e ideologico, è il luogo d’incontro dei "big four" della modern dance americana: Charles Weidman , Hanya Holm e le già citate Graham e Humphrey. Queste ultime sono le figure più rappresentative di un processo di "distorsione" del movimento naturale (in ascolto, abbandono e reazione alla gravità), che disegna sia nel corpo e che nello spazio, che rappresenta una sintesi di emozione e psiche. I principi tecnici di base sono per la Humphrey la caduta e il recupero, per la Graham la contrazione e la distensione. L’una li raccoglie in The Art of making dances (L’arte della coreografia, 1959), l’altra li manifesta nei cicli di una lunga carriera di danzatrice e coreografa, che la eleva a madrina della danza moderna americana.
Danze formaliste e mélange dei generi
Contro l’eccessiva introspezione e teatralità dell’ultima fase creativa della Graham, identificabile particolarmente nell’opera Clytemnestra (1958) e, più in generale, ostili alla concezione del corpo come strumento di espressione, Merce Cunningham e Alwin Nikolais elaborano, dalla fine degli anni Quaranta, una danza formalista, corrispondente alla svolta del balletto americanizzato di Balanchine. Accompagnato e guidato a sua volta dal compositore John Cage , Cunningham è il padre delle nuove generazioni. Invaso di pensiero orientale, egli abbraccia il caos naturale, detronizzando l’artista dalla sua posizione di conoscitore e tramite di verità nascoste. La danza di Cunningham è fine a se stessa, indipendente da musica e scene, si muove in uno spazio policentrico senza seguire un filo narrativo, ma giustapponendo gli elementi, spesso a partire da procedure di composizione aleatorie. L’inondazione plurisensoriale di elementi fra loro sconnessi rinvia alla scena dell’happening, inaugurata infatti nel 1952 da Cage e dallo stesso Cunningham.
Sulla scia di queste esperienze camminano i ribelli degli anni Sessanta, identificati soprattutto nel Judson Dance Theater, un collettivo che esprime estetiche diverse, accomunate, però, dal rifiuto del virtuosismo, dall’impostazione interdisciplinare, dal ripiego su movimenti quotidiani, da composizioni surreali, frutto di una ricerca a tutto campo che richiama lo sperimentalismo del Nuovo teatro, soprattutto nell’esplorazione della sensorialità. Da queste fila si sviluppa l’ondata analitica di ricerca, esemplificata in primis da Yvonne Rainer in Trio A (1966) e da lei esposta nei suoi scritti, raccolti soprattutto in Work 1961-1973 (1974). Si tratta di una danza oggettivata, costruita su giustapposizioni radicali stranianti e su azioni essenziali, prive di ogni psicologismo. In particolare, l’uso della ripetizione, nelle coreografie minimaliste degli anni Settanta di Trisha Brown e di Lucinda Childs , produce una percezione alterata del tempo e dell’azione scenica, come nell’opera di Richard Foreman o, per esempio, nell’ Einstein on the Beach (1976) di Robert Wilson.
Le spinte comunitarie e liberatorie della controcultura, improntate fortemente alle filosofie zen, si manifestano anche nello sviluppo di una "corporeità" danzante, riconoscibile nel linguaggio browniano e nella tecnica di Contact Improvisation avviata da Steve Paxton nel 1972. La costruzione di una nuova fisicità si basa sia sulle tecniche di danza occidentale, sia sulle pratiche orientali (come l’Aikido e il Tai chi chuan), sia sui nascenti approcci somatici al movimento, sempre più diffusi anche tra gli attori. Nutrimento per la danza e per il teatro sperimentale, sul piano laboratoriale e performativo, è inoltre la pratica dell’improvvisazione.
Negli anni Ottanta, all’immagine di un corpo atletico e muscoloso corrisponde un ritorno al tecnicismo, dato però da un mélange di generi e stili di movimento, coniugato, in ambigui pastiche, a musiche pop e punk e, persino, alla parola. L’impianto è narrativo ma decostruito, come il corpo, parcellizzato da movimenti policentrici e veloci. Questo cambiamento si riflette anche nel balletto di William Forsythe, un americano trapiantato in Europa, dal 1984 alla direzione del Ballet Frankfurt. Forsythe opera un’incisiva trasformazione dello stile accademico, che è stato definito postclassico e si pone sulla scia dell’insegnamento balanchiniano. Nelle sue coreografie il corpo del ballerino è disarticolato e costretto a equilibri estremi e a velocità vorticose.
Sia il balletto sia la danza moderna e postmoderna in America si sono alimentati, inoltre, degli ingredienti della cultura afroamericana relativamente a balli e musiche tradizionali e popolari, che hanno inciso tanto sul piano della messa in forma del corpo quanto sulle pratiche d’improvvisazione e a livello estetico. Tra le figure di afroamericani che hanno invece primeggiato nella danza teatrale, si ricordano Alvin Ailey e il coreografo postmoderno Bill T. Jones .
Il panorama europeo
L’Europa della seconda metà del secolo vede un’importante trasformazione nel balletto e la nascita di una danza "d’autore" di matrice teatrale con il Tanztheater tedesco.
Nel 1960, Maurice Béjart fonda il Ballet du XXe Siècle, una compagnia imponente che gli consente di dare sfogo alla sua visione di una danza di massa, eclettica, dove il linguaggio accademico si mescola con altre discipline fisiche, per farsi veicolo dei temi esistenziali dell’uomo, confrontato con la solitudine e la società. Oltre al già citato Forsythe, la scena ballettistica contemporanea subisce, da più parti, un ripensamento fertile a partire dagli anni Ottanta, facendosi più umana ed espressiva nelle mani di coreografi originali come Mats Ek e Jiri Kylian, che contaminano felicemente la tecnica accademica con i portati liberatori della danza contemporanea.
Ricettivo alle influenze americane, il Tanztheater mitteleuropeo affonda invece le sue radici nella scuola espressionista degli anni Trenta. I capiscuola del Tanztheater si formano infatti alla Folkwangschule e al Folkwang Studio, fondato nel 1961 a Essen, in Germania. L’interprete principale è Pina Bausch, dal 1973 alla direzione del Tanz Theater Wuppertal.
Nel teatro-danza della Bausch, i temi espressionisti dell’individuo e del suo disagio esistenziale, messo a confronto con la società e con la solitudine, sono ritemprati su di un sentire contemporaneo che parla una lingua frammentaria e intima. Come avviene ad esempio in Café Müller (1978), che presenta uno dei motivi centrali delle sue creazioni, cioè quello del rapporto tra uomo e donna e dell’incomunicabilità. Dopo le prime opere danzate, la Bausch si distacca dai metodi tradizionali di composizione a partire da un testo o da una musica, per diventare "autrice" a tutto tondo dei suoi Stücke, "pezzi". Questo processo riflette anche una progressiva emancipazione dalla specializzazione del corpo, che sulla scena danza ogni gesto, da quello più tecnico a quello più quotidiano, azioni fisiche che ampliano il vocabolario di movimento della danza e, al tempo stesso, assumono la valenza rappresentativa del gesto sociale brechtiano. Già con Blaubart (1978), e soprattutto da 1980 in poi, la Bausch costruisce i suoi spettacoli-fiume sulle improvvisazioni degli interpreti intorno a domande o temi da lei suggeriti. I danzatori-attori affondano nelle loro memorie di vita, per proporre materiali verbali e fisici, che sono in seguito selezionati, stilizzati e composti in micronarrazioni autonome, montate assieme a musiche dalle tinte fortemente emotive. Negli ultimi anni questa sensibilità è inoltre servita a rileggere e rendere in chiave personale il "sapore" di singole città di ogni parte del mondo.
L’unione tra autobiografia e vita sociale si esplica anche nei lirici "soli" di Susanne Linke; surreale e onirica è invece la coreografia di Reinhild Hoffmann; mentre è nel "teatro coreografico" di Hans Kresnik che ritroviamo la più stringente denuncia sociale e la più esplicita espressione politica del Tanztheater tedesco.
Tra gli anni Settanta e Ottanta, giunge in Europa dal Giappone il Buto, che ha inizio negli anni Sessanta con Tatsumi Hijikata. Kazuo Ohno , il massimo interprete di Buto, coniuga la personale formazione espressionista con la specifica ritualità giapponese in una forma d’arte a metà tra danza e teatro. Del Buto colpisce soprattutto l’intensità del corpo, svuotato e spersonalizzato, pura fisicità gridata in smorfie umane di dolore e vulnerabilità.
Sempre negli anni Ottanta, dall’integrazione tra i moduli ripetitivi della postmodern dance americana e l’approccio espressivo tedesco, nasce la nouvelle vague flamande, rappresentata dapprima da Anne Teresa de Keersmaeker, e, soprattutto negli anni Novanta, da Jan Fabre, Wim Wandekeybus e Alain Platel. Nonostante le differenze, questi coreografi (ma Fabre è anche drammaturgo, performer e artista visivo) condividono un approccio teatrale, dato dalla commistione di generi, e la presentazione di un corpo nuovo, spesso violento e sempre di grande impatto emotivo.
Sul finire del secolo, l’avanguardia artistica francese ha presentato le ricerche più estreme in ambito di danza, proponendo un ritorno alla quotidianità con tutte le sue contraddizioni e, conseguentemente, una "non-danza", già decantata dai maestri elettivi di questa generazione, identificati nelle avanguardie americane degli anni Sessanta.
La danza in Italia
L’Italia, da sempre paladina del balletto, la cui versione innovativa è rappresentata oggi dalla compagnia Aterballetto, attiva dagli anni Settanta, non ha spiccato per produzione e innovazione nella danza contemporanea. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, dall’insegnamento e dal lavoro con l’americana Carolyn Carlson sono emerse interessanti proposte di giovani coreografi. La Carlson, allieva di Nikolais, ha dato vita a uno stile di danza onirico e soggettivo, che consente alla personalità interpretativa del danzatore di manifestarsi totalmente. Nel 1980, fonda la compagnia Teatro Danza La Fenice a Venezia, mentre nel 1984 i suoi allievi e interpreti si riuniscono in un gruppo autonomo, Sosta Palmizi. Tra questi, le figure che si sono distinte nel panorama italiano, con una danza dall’impronta segnatamente teatrale, sono Raffaella Giordano, Giorgio Rossi, Roberto Castello, Michele Abbondanza, unito da un sodalizio artistico con Antonella Bertoni dal 1995.
Della stessa generazione, Enzo Cosimi e Virgilio Sieni costituiscono due universi coreografici a se stanti, a conferma dell’assenza di una scuola unitaria e dell’eterogeneità di una scena italiana di danza, alimentata esclusivamente dalle singole personalità. La scelta estetica di Cosimi lo avvicina a una performance forte, mirata innanzitutto a scuotere l’osservatore. Sieni è, invece, fra tutti, il più legato a un lavoro tecnico che elabora entro un linguaggio "sillabico" di disarticolazione corporea, messo al servizio sia di spettacoli più tradizionali, sia di un percorso narrativo originale all’interno dei topoi della fiaba, e presentato soprattutto in luoghi di rappresentazione non convenzionali.
Tra le ultime proposte, il gruppo toscano Kinkaleri, attivo dal 1995, è espressione di una tendenza alla commistione tra teatro e danza, anche sulla scia della Performance Art, e di un diniego della specificità tecnica dei corpi danzanti, riconoscibile in realtà come la principale cifra stilistica della danza contemporanea europea di fine secolo.