La definizione della dottrina cristiana e le eresie
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le comunità che si richiamano all’insegnamento di Cristo non hanno all’inizio fonti di riferimento scritturale, a parte quella ebraica e una moltitudine di scritti di incerta composizione, che pongono seri problemi di autenticità e di attribuzione, tanto è vero che la stragrande maggioranza di questi testi verrà successivamente respinta perché apocrifa. Contemporaneamente la Chiesa è travagliata da una lunga serie di deviazioni dottrinarie di vario genere, che spaziano dalla interpretazione del messaggio di Cristo al modo di concepirne la persona e la divinità, e ai grandi temi che ricorreranno nella storia della Chiesa, quali la grazia e la predestinazione, confutate dai Padri e dagli Apologisti, e condannate nelle deliberazioni sinodali. L’eresia tuttavia svolge una funzione per così dire maieutica, perché attraverso il suo rigetto si va formando e precisando l’ortodossia dottrinaria del cristianesimo: lo stesso Paolo (I Cor., XI, 19) aveva osservato che oportet et haereses esse, ut et qui probati sunt, manifesti fiant in vobis (“è opportuno che le divisioni vengano alla luce, in modo che i veri credenti si manifestino in mezzo a voi”).
Le prime comunità cristiane non dispongono di un proprio autonomo corpus dottrinario di riferimento; nata come costola dell’ebraismo, la nuova religione ha fin dall’inizio come fonte scritturale cui attingere la Torah, a cui si aggiunge gradualmente una pluralità di testi che si richiamano più specificamente all’insegnamento di Gesù, il quale peraltro nulla aveva lasciato di scritto.
Accanto alle Scritture ebraiche, nelle comunità dei fedeli circolano e si leggono svariati Protovangeli, Vangeli dell’infanzia, Vangeli propriamente detti, Apocalissi, Lettere e Atti attribuiti a questo o a quell’apostolo o ad altri personaggi più o meno autorevoli; ma già alla fine del I secolo sono oggetto di particolare e diffusa venerazione, tra gli altri, i Vangeli di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, redatti a partire dal 60 (che si richiamano a fonti ancora più antiche e ormai disperse), i quali entreranno più tardi a far parte del Canone neotestamentario.
Il primo ad avvertire la necessità di porre ordine nella congerie di scritti che circolano tra i fedeli e di individuare i testi sacri di riferimento specifico del cristianesimo, è Marcione, originario del Ponto, figlio del vescovo di Sinope e forse vescovo egli stesso. Marcione intende rivendicare la peculiarità della nuova religione, differenziandosi nettamente dal giudaismo, nell’ambito del quale erano sorte molte sette che si richiamavano ambiguamente a Cristo. Molti cristiani provenienti dall’ambiente giudaico infatti non hanno il coraggio di rompere i ponti con la tradizione mosaica, e alcuni gruppi danno luogo a contaminazioni rituali e culturali. Fra costoro, gli ebioniti – “poveri”, in lingua ebraica; Eusebio di Cesarea li definisce nella sua Storia ecclesiastica, III, 27, “poveri anche d’intelletto” –, al pari dei nazarei (termine generico per indicare i cristiani giudaizzanti e ai quali è riconducibile un vangelo apocrifo), negano la divinità di Cristo; gli elcesaiti a loro volta ritengono lecito rinnegare la fede, se in cuore però la si conserva, come del resto aveva fatto lo stesso Pietro. A queste sette che si stagliano sullo sfondo confuso del giudeo-cristianesimo bisogna aggiungere i simoniani, forse da identificare coi seguaci del Simon Mago menzionato negli Atti degli Apostoli (8, 9), il quale, dopo aver ricevuto il battesimo, sostiene la mortalità della carne e il libero amore; i menandriani e i saturniniani, dai nomi di alcuni discepoli dello stesso Simon Mago, e un profluvio di sette quali i cainiti, che adorano Caino, gli ofidi, che ritengono Cristo un Dio-serpente, i nicolaiti, menzionati anche nell’Apocalisse, e dediti a pratiche libertine (nicolaiti nel Medioevo saranno definiti i preti concubinari).
Per Marcione il feroce e vendicativo dio giudaico vetero-testamentario è un semplice e rozzo demiurgo di secondo rango, mentre la vera divinità è quella del Nuovo Testamento, il cui imminente Regno è stato annunciato da Cristo. Marcione, oltre all’astinenza sessuale, propugna la sobrietà e il rigore nell’alimentazione, l’indifferenza nei confronti dello Stato, a cui contrappone la fratellanza universale. Del messaggio di Gesù accoglie solo quello insegnato direttamente da lui, accettando in pratica solo alcune parti del Vangelo di Luca e una selezione degli scritti paolini, che raccoglie in un proprio vangelo antitetico, ora perduto, chiamato appunto Antitesi. La predicazione di Marcione ha grande diffusione, e provoca anche uno scisma a Roma, dove egli si reca intorno al 140; chiese ispirate al suo insegnamento sopravvivono per parecchi secoli nell’area mesopotamica e nella penisola arabica prima dell’avvento dell’Islam. Perfino Tertulliano, che scrive un Contra Marcionem, alla fine della sua vita confluisce sulle posizioni che aveva combattuto, abbracciando il montanismo, che ha parecchi punti di contatto col marcionismo.
Condannate da scrittori autorevoli fra i quali Giustino martire e sant’Ireneo di Lione, vescovo di Lione ma originario di Smirne, e autore di un fondamentale trattato Adversus haereses, le tesi di Marcione tuttavia pongono l’urgenza di precisare i fondamenti scritturali della nuova religione. Il processo di formazione dottrinaria del cristianesimo – che agli inizi vede protagoniste soprattutto le chiese orientali – è peraltro lento, accidentato e poco documentato; tappe fondamentali sono le battaglie contro le eresie, che avvengono attraverso la confutazione apologetica e la condanna dei sinodi, che purtroppo non hanno lasciato, almeno per il periodo più antico, allorché venivano convocati con una certa frequenza, nessuna traccia di atti, verbali o testimonianze coeve.
Risale alla seconda metà del II secolo circa il cosiddetto frammento del Muratori (scoperto dal grande erudito modenese nel 1724 in un codice della Biblioteca Ambrosiana) che contiene un primo abbozzo di Canone neotestamenatrio: l’ignoto autore, appartenente alla Chiesa di Roma, distingue i libri che sono universalmente considerati sacri, come i Vangeli di Luca, Matteo, Marco e Giovanni, i quali vengono letti nella liturgia; i libri che invece non godono di questo universale consenso, come l’Apocalisse di Pietro, ma che vengono tuttavia letti in alcune chiese; altri, come Il Pastore di Erma, che possono leggersi privatamente ma non annoverarsi tra quelli profetici, e infine i testi da rigettare perché eretici, come quelli di Basilide o dei marcioniti. Analoga quadripartizione, nella Storia ecclesiastica, (III, 25), opererà Eusebio di Cesarea, inserendo tuttavia l’Apocalisse di Giovanni tra i libri antilegumeni, cioè contestati e contrapposti agli omologumeni, vale a dire quelli universalmente accettati.
Da queste premesse è stato forse troppo riduttivamente dedotto che nel II secolo le varie raccolte neotestamentarie usate nell’antica liturgia possono considerarsi “una piccola biblioteca di base proposta ad ogni chiesa, le cui opere erano le sole raccomandate per la lettura pubblica” (Trocmé, in Puech H., Storia del cristianesimo, 1983).
Possiamo tuttavia considerare come terminus ad quem della lenta fase di costruzione dei riferimenti scritturali cristiani l’anno 360, allorché l’articolo 59 del Sinodo di Laodicea proibisce la lettura in chiesa di testi non canonici. Qualche anno dopo troviamo per la prima volta, nella Epistola Pascalis 39 del corpus epistolare di Atanasio di Alessandria, scritta nel 367, l’elenco canonico definitivo dei 27 libri del Nuovo Testamento, confermato nel sinodo di Ippona (393) e nel sinodo di Cartagine (397), e mai più rimesso in discussione. Alla fine del V secolo infine, sotto il nome probabilmente spurio di Decreto gelasiano – attribuito erroneamente, appunto, a papa Gelasio –, noto anche col titolo De libris recipiendis et non recipiendis, vero antenato dell’Index librorum prohibitorum, troviamo un elenco di parecchie decine di libri da non includere fra i canonici; accanto a testi apocrifi sono enumerate anche le opere di Tertulliano, Lattanzio, Arnobio, e cioè di scrittori cristiani che, pur difendendo l’ortodossia, incorrono a loro volta in errori dottrinari.
Si osservi che il primo rogo di libri nella storia del cristianesimo è menzionato in occasione della visita di Paolo a Efeso: negli Atti degli Apostoli (19, 19), si precisa che si trattava di libri di magia, di considerevole valore commerciale.
Accanto alle prime eresie giudaizzanti, oggetto della contestazione di Marcione, ne troviamo altre più sofisticate, che si inseriscono nel grande filone della filosofia greca classica con propaggini teosofiche ed esoteriche, quali ad esempio, quella gnostica, con la quale lo stesso Marcione aveva punti di contatto.
Gli gnostici, fra i quali l’alessandrino Basilide, riprendono il dualismo cosmico manicheo tra bene e male; Cristo è una divinità (eone) discesa su un umile figlio di falegname chiamato Gesù nel momento stesso in cui Giovanni gli impartisce il battesimo, lo guida fino al Golgota, abbandonandolo quando esala l’ultimo respiro, e i suoi insegnamenti segreti devono essere trasmessi a pochi iniziati. Altra eresia di notevole diffusione è quella di Montano, originario della Frigia, che si proclama il Paracleto (l’Invocato, il Consolatore) venuto a ristorare il popolo cristiano.
Questi, a sentire Eusebio di Cesarea, “a motivo dello smisurato desiderio della sua anima di primeggiare […] divenuto all’improvviso ossesso e preso da una falsa estasi […] cominciò a parlare e a pronunziare parole straniere, facendo profezie [...]”, raccogliendo proseliti che lo accompagnano nel suo girovagare, fra cui due donne, Priscilla e Massimilla, che si danno anch’esse arie da profetesse. Su Montano e la sua setta di catafrigi, come anche venivano chiamati i suoi seguaci, è da registrare il polemico ritratto di un suo ex discepolo, Apollonio di Efeso: “Dimmi: si tinge i capelli un profeta? Si trucca di nero le sopracciglia? Un profeta ama il lusso? Un profeta gioca agli scacchi, ai dadi? Un profeta presta denaro?” (Eusebio, Storia ecclesiastica, V, 6, 13 e 18). In realtà, sembra che Montano fosse animato da grande rigore morale; egli predica, tra l’altro, l’ascetismo e la rinuncia alla generazione (egli stesso si era evirato, come il suo conterraneo Attis, amante e sacerdote della dea Cibele).
L’elaborazione del corpus dottrinario del cristianesimo procede di pari passo con la confutazione dell’eresia. Ireneo di Lione scrive non solo l’Adversus haereses contro le numerose sette che minavano l’unità dei cristiani, ma anche una Demonstratio apostolicae praedicationis per esporre la vera dottrina; Agostino d’Ippona scriverà, accanto ai libri contro manichei, donatisti e pelagiani, un elenco impressionante di opere che hanno per oggetto l’esegesi biblica, la morale, l’immortalità dell’anima; qui ricordiamo solo due fondamenti della letteratura patristica, quali il De doctrina christiana e il De Civitate Dei.
Nel grande dibattito teologico e intellettuale di quei primi, decisivi secoli di costruzione dottrinaria, il confine tra eresia e ortodossia è tuttavia facile da valicare; è il caso di Taziano il Siro, discepolo di san Giustino, il quale nel Diatesseron cerca di armonizzare in un unico testo i quattro Vangeli, ma finisce poi per abbracciare l’eresia gnostica degli encratiti, per molti versi gli antenati dei catari, o dello stesso Tertulliano, che da apologeta finisce montanista, e perfino di Agostino, che compie però il percorso inverso dal manicheismo al cristianesimo.
La nuova religione, all’origine diffusasi tra gli umili, riesce a coinvolgere anche intellettuali, retori, filosofi, i quali, dopo essersi convertiti, mettono al servizio della causa il proprio bagaglio culturale, contribuendo all’elaborazione dottrinaria del cristianesimo e combattendo con uguale ardore il paganesimo e le deviazioni ereticali. In quest’opera si segnalano in particolare gli apologisti africani; citiamo qui solo l’Adversus nationes di Arnobio, e il De mortibus persecutorum del suo sodale Lattanzio, entrambi di Sicca Veneria, da localizzare nell’odierna Tunisia. Gli dei falsi e bugiardi usurpano il titolo divino: si tratta infatti di uomini, a cominciare da Saturno, idolatrati da altri uomini, come scrive il cartaginese Tertulliano nell’Apologeticum, (10, 9). Nel De errore profanarum religionum (12, 4), il siculo Firmico Materno scrive che Giove, oltre a essere un parricida, è la quintessenza dell’immoralità, incestuoso in tutti i gradi di parentela: cum matre concubuit, sororem suam duxit uxorem, et ut integrum facinus impleret incesti, filiam quoque animo corruptoris adgressus est (“giacque con sua madre, sposò la sorella, e, per completare la nefandezza dell’incesto, cercò di violentare la figlia”).
All’elaborazione dottrinaria contribuiscono in maniera decisiva i Padri della Chiesa, titolo che comincia ad apparire già alla fine del IV secolo per indicare eminenti autori (fra i quali, contraddittoriamente, si annoverano personaggi non del tutto e non sempre ortodossi come Tertulliano) e pastori d’anime (molti infatti sono vescovi). Il già citato Decreto gelasiano precisava i caratteri e le qualità proprie dei Padri della Chiesa: doctrina orthodoxa, sanctitas vitae, approbatio ecclesiae, antiquitas, eminens eruditio. Molti di loro saranno definiti, a distanza di secoli (dal 1298 in poi), anche Dottori della Chiesa; più di un terzo, sui 33 che sono stati riconosciuti tali in duemila anni di teologia, appartengono al IV secolo, ma la personalità più importante è senza dubbio Agostino d’Ippona.
La definizione del non facile dogma trinitario passa per la condanna di Ario, un presbitero di Alessandria, secondo il quale Cristo non può identificarsi col Padre, che è eterno e indivisibile (“ci fu un tempo in cui il Figlio non c’era”, suona la sua celebre formula). Il Padre e Figlio dunque non sono fatti della stessa sostanza. Ciò porta a svalutare non solo la figura del Crocifisso, ma anche la sua opera redentrice, e in definitiva la stessa Chiesa, che ne ha raccolto l’eredità e la missione. Scomunicato nel 321 dal proprio vescovo Alessandro, che convoca un apposito sinodo, e costretto a fuggire, Ario trova riparo e protezione presso Eusebio, vescovo di Nicomedia, ascoltato e influente consigliere di Costantino; le sue dottrine si diffondono a tal punto che l’imperatore, il quale ha dal 313 concesso libertà di culto ai cristiani, convoca nel 325 il concilio di Nicea, considerato il primo ecumenico, per quanto fosse composto quasi esclusivamente da vescovi orientali, e il papa avesse inviato solo due preti in propria rappresentanza. Ario, contro il quale si segnala per particolare virulenza il diacono Atanasio, destinato poi al patriarcato di Alessandria, viene esiliato assieme al suo protettore Eusebio, i suoi libri bruciati, la sua dottrina condannata; il concilio stabilisce che Cristo è cosustanziale (omoousios) al Padre, da lui generato e creato. Tuttavia i sostenitori di Ario riescono a riprendere il sopravvento: Eusebio riacquista il favore a corte (sarà lui a battezzare Costantino sul letto di morte), Ario è richiamato dall’esilio in vista di una riabilitazione, ma muore durante il viaggio, nel 336 – in una latrina di Costantinopoli, precisa la tradizione a lui ostile. Nondimeno la fortuna dell’arianesimo non si esaurisce con la morte dell’eresiarca, e anzi si diffonde sempre più; è un vescovo ariano, il goto Wulfila a convertire i suoi connazionali, gli stessi che si sarebbero resi responsabili del sacco di Roma dopo pochi decenni.
Altre tematiche eretiche che, per quanto al momento debellate, si sarebbero ripresentate nella storia della Chiesa, e che vengono vigorosamente combattute da sant’Agostino, sono quella donatista e quella pelagiana. Il numida Donato, per alcuni anni vescovo contestato di Cartagine, sostiene che i sacramenti sono inefficaci se amministrati da chierici indegni e traditori come coloro che in tempo di persecuzioni (nella fattispecie, quella scatenata da Diocleziano tra il 303 e il 305) avevano abiurato o si erano mostrati pavidi consegnando i testi sacri ai persecutori che poi li bruciavano. Da allora in poi infatti tradere, che originariamente significava appunto consegnare, assumerà la specifica valenza di tradire che ancora oggi conserva. L’indegno non può dunque battezzare, come ribadisce Petiliano, seguace di Donato, e come avrebbero sostenuto tanti altri, si trattasse degli eretici medievali o dei protestanti. Il donatismo fu ripetutamente condannato al concilio di Cartagine del 411 e a quello di Arles nel 431, mentre il concilio di Trento avrebbe ribadito che l’efficacia del sacramento non dipende da chi lo amministra (ex opere operantis), ma vale di per sé (ex opere operato).
L’eresia, che sfocia piuttosto in uno scisma, di Nestorio, nativo di Antiochia e dal 427 patriarca di Costantinopoli, ha fondamentalmente carattere cristologico: per lui in Cristo sussistono due nature, quella divina e quella umana e a Maria non può essere attribuito il nome di “madre di Dio”, nè il titolo di Theotokos (Deipara), ma solo di madre di Cristo. Rivalità, intrighi di palazzo e strumentale difesa dell’ortodossia si confondono in questo conflitto; il potente vescovo di Alessandria, Cirillo, appoggiato dal vescovo di Roma e da quello di Efeso ottiene dall’imperatore Teodosio II la convocazione del concilio di Efeso (431). Qui con un colpo di mano Cirillo, approfittando del ritardo dei sostenitori di Nestorio, scomunica quest’ultimo. Ma al suo arrivo Giovanni I (patriarca di Antiochia dal 428 al 442), amico di Nestorio, scomunica a sua volta Cirillo. In questo convulsa situazione l’imperatore destituisce sia Nestorio che Cirillo, ma il conflitto prosegue. Il successivo concilio di Calcedonia (451) respinge il monofisismo, e proclama che Cristo è una sola persona avente due nature, l’umana e la divina, aprendo alle tesi di Nestorio. I seguaci di quest’ultimo, tuttavia, insoddisfatti, costituiscono una chiesa autonoma destinata a grande diffusione prima dell’avvento dell’islam: in Persia, dove diviene chiesa nazionale, in Arabia, in Siria, in India, e perfino in Cina dove per vari secoli sopravvivono varie comunità cristiane. Calcedoniani e monofisiti si combatterono da allora in poi “con tanto accanimento che molti preferivano l’esilio e persino la morte alla comunione con i loro correligionari, e il loro fanatismo li spingeva incendiare le chiese e a profanare i sacramenti degli avversari. Questa animosità si diffuse a tal punto che quando i maomettani invasero l’Impero, i monofisiti li accolsero come liberatori, e aprirono a quei nemici del cristianesimo le porte delle loro città” (Zernov Nicholas, Il cristianesimo orientale, 1990).
L’eresia di Pelagio, confutata con particolare asprezza da Agostino, tocca il tema della salvezza e del peccato originale, pilastri della Chiesa e fondamenti dell’Incarnazione. Il monaco Pelagio, proveniente dalla Britannia, soggiorna a lungo a Roma, dove sviluppa le sue riflessioni sulla grazia divina con sorprendente modernità, e non è un caso che la Chiesa abbia manifesto tentennamenti e incertezze nei suoi confronti prima di condannarlo definitivamente. Centrale, nel pensiero del monaco britannico, è l’esaltazione del libero arbitrio, essenza e radice della dignità dell’uomo, un concetto che il Rinascimento avrebbe ripreso con orgoglio: Hinc, inquam, totus naturae nostrae honor consistit; hinc dignitas. Tanto inestimabile è il valore della libertà di scegliere che, paradossalmente il fatto stesso di poter fare il male è un bene (hoc quoque ipsum, quod etiam mala facere possumus, bonum est; sono due passi della prima lettera alla vergine Demetriade, in Patrologia latina, XXX, col. 18 e 19 dell’edizione parigina del 1865). Il fondamentale ottimismo di Pelagio sulla natura umana lo spinge a ritenere che l’uomo possa ascendere alla salvezza senza l’intervento della grazia divina, con i suoi soli mezzi. Secondo Pelagio il peccato originale riguarda unicamente Adamo che ne era stato artefice; l’umanità venuta dopo di lui è innocente e dunque il battesimo non purifica l’uomo da un peccato che non ha commesso, ma sancisce soltanto il suo ingresso nella comunità cristiana. Furono probabilmente considerazioni opportunistiche più che una seria analisi del suo pensiero a far condannare un pensatore originale e coraggioso come Pelagio. Se l’uomo può salvarsi da solo, a che servono la Chiesa e i suoi sacerdoti? E perché Cristo sarebbe morto sulla croce, se non per scontare il peccato originale e stipulare un nuovo patto con l’umanità? L’ottimismo di Pelagio si scontra con la concezione prevalente (e fondamentalmente sessuofobica, perché questa è una delle questioni in gioco) di un’umanità massa damnationis, inclinata ontogeneticamente al male, che avrebbe trovato, a distanza di più di mille anni, il suo più deciso assertore in un monaco sassone, Lutero. Vari sinodi, fra cui quello di Cartagine (sinodo di Cartagine, 418) condannano le dottrine di Pelagio e ribadiscono il dogma del peccato originale.
Contemporaneamente alla formazione di un comune corpus dottrinario, si verifica una lenta e costante divaricazione fra la Chiesa di rito latino e quelle di rito greco e orientale. Le rivalità tra le prime chiese erano sempre esistite, ma la divisione dell’Impero nel 395 le accentua; i due principali centri di gravitazione del potere, Roma e Costantinopoli, cercano di imporre, non senza resistenze, il loro primato alle sedi patriarcali di Antiochia e di Alessandria, mentre altre chiese (maronita, copta, armena, caldea, giacobita, maronita e così via) godono di una malferma e sofferta autonomia che sopravviverà fino ai nostri giorni.
Impropriamente eresia è definita l’iconoclastia. Nel 726 l’imperatore Leone III Isaurico, appoggiato da un gruppo di riformatori, proibisce la fabbricazione, il commercio e la venerazione delle immagini sacre, che considera idolatriche perché danno luogo a superstizione e fanatismo. Naturalmente questi provvedimenti incontrano ostilità e resistenza da parte del clero e dei monaci, colpiti nel prestigio e nei guadagni. Leone finisce con l’espellere i ribelli incamerandone i beni, e cercando di estendere il divieto anche a Roma, dove peraltro da più di un secolo Gregorio Magno aveva dichiarato ammissibile il culto delle immagini (“Le immagini sono il libro di quelli che non conoscono le Scritture”: Lettere IX, 209), che sarà poi solennemente confermato nel Tridentino. Molti dissidenti, rifugiatisi in Italia, dove fondano parecchi monasteri, trovano un insperato alleato nel Papa, il quale, contrapponendosi a Costantinopoli, ne accentua la propria relativa autonomia, che sarebbe stata suggellata nell’800 con l’incoronazione di Carlo Magno a imperatore del Sacro Romano Impero.
Tra le deviazioni dottrinarie merita infine menzione il bogomilismo – da un prete bulgaro di nome Bogomil, che non è altro che il calco del greco Teofilo –, sorto a metà del X secolo, che avrebbe varcato i confini dell’impero bizantino attecchendo in alcune zone dell’Italia settentrionale della Francia meridionale, ispirando il movimento dei catari. Fonti dirette della dottrina, nota solo attraverso i suoi detrattori, non esistono; ma in sostanza i bogomiliti non riconoscono la Chiesa ufficiale ortodossa e pretendono di essere i veri seguaci di Cristo, rigettando culto, liturgia e preghiere, salvo il Pater Noster, negando la Trinità, i sacramenti, la venerazione dei santi, delle icone e delle reliquie, e richiamandosi al manicheismo (Angelov Dimitar, Bogomilismo. Un’eresia medievale bulgara, 1979).