La demografia dei poveri. Pescatori, facchini e industrianti nella Venezia di metà Ottocento
Aronne S. era un povero "industriante", un manovale senza alcuna specializzazione: tale almeno veniva definito il suo mestiere, tanto nei registri dell'anagrafe comunale quanto in quelli della comunità ebraica veneziana, alla quale apparteneva. Nato a Verona nel 1815, si era trasferito ancora bambino a Venezia, e si era sposato con Nina M., la quale aveva già una figlia illegittima, Carolina. Come gran parte delle mogli ebree, Nina non lavorava; eppure, nonostante le ristrettezze economiche in cui dovevano vivere, lei e il marito riuscirono a tirare su una famiglia numerosa: ebbero infatti ben nove figli, quattro maschi e cinque femmine, un numero piuttosto ragguardevole, anche per quel tempo. L'ultima nata, Giulia, venne al mondo nel 1854, quando Nina aveva ormai 42 anni e la sua primogenita Carolina già 26. Fatto ancora più eccezionale, quasi tutti i figli sopravvissero agli "anni fatali"(1) - fatali per l'altissima incidenza della mortalità - dell'infanzia e della prima adolescenza. Solo Giulia morì a 7 mesi, a causa di un'infezione gastrointestinale. Un altro figlio, Davide, era morto a 6 anni nel 1852, per convulsioni che furono giudicate di natura epilettica; infine Elisa morì nel 1855, quando però aveva ormai compiuto 22 anni. Può sembrare, e in parte indubbiamente è, un bilancio piuttosto doloroso. Tuttavia bisogna considerare che a quei tempi a Venezia un terzo dei nuovi nati non arrivava a festeggiare il primo compleanno, e appena la metà superava i 5 anni(2). Nel complesso, Aronne e Nina potevano considerarsi molto fortunati.
Tre mesi prima che Nina partorisse Giulia, sua figlia Carolina aveva a sua volta dato alla luce un bambino illegittimo, Marco. Il nome del padre non si conosceva, o comunque non venne dichiarato né all'impiegato dell'anagrafe né al rabbino. Carolina rimase in famiglia altri quattro anni, poi se ne andò col suo bambino a vivere da sola; non risulta si sia mai sposata. Sempre nel 1854, si era aggiunta alla famiglia anche la madre vedova di Nina, Venturina F.: con due neonati da accudire, può essere che fosse venuta a dare il suo aiuto, anche se a 74 anni compiuti non ci si poteva aspettare molto da lei. Ma forse i motivi del suo arrivo erano diversi. Fino ad allora, Venturina aveva infatti vissuto con un altro figlio, David, ma dopo che la suocera di David si era a sua volta trasferita a casa del genero, non stupisce che Venturina avesse preferito trovare una diversa sistemazione: indubbiamente, la coabitazione delle due donne avrebbe messo a dura prova anche gli spiriti più accomodanti e pacifici, o forse era semplicemente troppo onerosa per il bilancio familiare di David, che era solo un modesto cantore alla Sinagoga e aveva egli stesso ben sei figli da crescere.
Nel 1855, proprio il giorno prima di partorire, si sposò un'altra figlia di Aronne, Enrichetta, e si sistemò in una casa vicina a quella dei suoi genitori. Enrichetta faceva la cucitrice, mentre il marito era un calderaio: ebbero 'solo' quattro figli, tutti sopravvissuti fino all'età adulta. Tre anni dopo era il turno di Emilia di sposarsi e di abbandonare la casa paterna. Anche Emilia lavorava come cucitrice, mentre il marito faceva il manovale come il suocero. Anziché stabilirsi per conto proprio, la nuova coppia preferì o fu obbligata ad andare a vivere presso Enrichetta e suo marito, dove fu presto raggiunta anche dalla nonna. Venturina e le due nipoti vissero assieme fino al 1861: in quell'anno il marito di Emilia morì prematuramente, a soli 32 anni, ed Enrichetta tornò con la sua famiglia dai genitori, lasciando la nonna e la sorella da sole. Nel 1864 l'intera famiglia si riunì di nuovo in casa di Emilia, ma si trattava ancora di una soluzione temporanea. Nel 1866 Aronne lasciò le figlie e la suocera, e tornò all'indirizzo dove risiedeva nel 1850: in 16 anni era l'undicesima volta che cambiava casa, ma non si mosse mai fuori dal Ghetto. Abitava ancora qui nel 1868, quando la famiglia fu allietata dalla nascita di Abramo, il figlio naturale che Lazzaro, primogenito di Aronne e "lavorante di conterie", ebbe da Bellina T.
La nostra fonte - l'anagrafe comunale - si ferma qui, e possiamo farlo anche noi. Ho riportato la storia di Aronne e dei suoi familiari non perché si tratti di un caso in qualche modo esemplare - al contrario, sotto molti aspetti, come vedremo, non lo è affatto - ma per mostrare come a volte basti ricomporre anche solo i momenti fondamentali di un'esistenza - la nascita di un figlio, la morte di un altro, un matrimonio, un cambio di residenza - per consentirci di cogliere, almeno in parte, la complessità e la ricchezza di una vicenda umana: anche quella di un anonimo manovale ebreo e dei suoi familiari nella Venezia di metà Ottocento. È un'avvertenza forse non del tutto superflua, nell'introdurre un'indagine demografica. Sono infatti questi eventi 'elementari' che costituiscono la materia prima della demografia: nascite, morti, matrimoni, migrazioni. Benché abbia a che fare con fatti in genere facilmente identificabili e numerabili, la demografia è tuttavia una disciplina piuttosto complessa, che ricorre a una serie di misure e di metodi statistici a volte anche molto sofisticati per descrivere i fenomeni di cui si occupa, ciò che ne rende talvolta difficile il dialogo con le altre scienze sociali, e in particolare con la storia. Forse ancor meno le giova il fatto di concentrarsi spesso su singoli aspetti del regime demografico - la fecondità, la mortalità, la nuzialità - finendo talvolta per smarrire il carattere multidimensionale delle realtà indagate: isolando le nascite dalle morti e dai matrimoni e riducendo tutto a fenomeni seriali, si rischia di trascurarne l'interazione reciproca, annullando il contesto che in molti casi contribuisce a darvi un senso. Per un'indagine specialistica, il ricorso a questa semplificazione è spesso inevitabile e persino utile(3). Tuttavia occorre sempre ricordare che processi demografici e processi sociali sono strettamente intrecciati, e che anche dietro le misure e i calcoli apparentemente più astrusi si cela una realtà intessuta di vicende umane spesso intense e movimentate.
Per quanto possibile, in questo capitolo si cercherà di tenere sempre presente questo intreccio. Il suo scopo è di presentare alcuni aspetti della demografia veneziana a metà Ottocento, sforzandosi soprattutto di mettere in luce la complessità dei fattori sociali che incidevano maggiormente su di essi. Più che di un vero e proprio saggio di demografia storica, si tratta dunque di uno sforzo di integrare demografia e storia sociale. Per questo, non tutte le diverse componenti del regime demografico verranno prese in considerazione, ma solo quelle che meglio consentono di mettere in luce l'interazione e l'intreccio tra queste due dimensioni.
L'indagine si concentra su tre aree della città: le parrocchie dell'Angelo Raffaele e di S. Eufemia, allora coincidente con l'intera isola della Giudecca, e l'antico Ghetto ebraico nel sestiere di Cannaregio. Come vedremo subito, si tratta di tre zone molto depresse, la cui scelta giustifica ampiamente il titolo di questo capitolo. Peraltro esse non erano abitate esclusivamente da poveri e diseredati, cosicché non mancherà l'opportunità di stabilire confronti anche con ceti più elevati. Tuttavia queste erano indubbiamente tra le zone più povere della città e non possono essere certo considerate rappresentative della più vasta realtà urbana. Viene da chiedersi pertanto in quale misura si possano estendere i risultati di questa indagine all'intera città. La risposta è: molto o poco, a seconda dei casi. Poco, se ci si riferisce ad alcune misure aggregate: non c'è dubbio per esempio che il tasso di mortalità infantile all'Angelo Raffaele o alla Giudecca fosse più elevato di quello calcolabile per l'intera Venezia. Molto, invece, se si considerano aspetti più specifici, connessi per esempio alla condizione sociale, al clima, all'andamento della congiuntura economica. In effetti, per quanto il loro peso relativo fosse differente che altrove, possiamo ritenere che i pescatori, gli artigiani, i bottegai di queste tre zone non fossero troppo diversi da quelli del resto della città, e che dunque, laddove riscontrassimo nei comportamenti demografici peculiarità legate alle diverse condizioni sociali, questi risultati possano essere tranquillamente generalizzati anche se ricavati da una realtà molto particolare. Lo stesso vale a maggior ragione per il contesto ambientale o quello economico. Anzi, pur facendo salva la particolarità di Venezia dal punto di vista urbanistico, ecologico, socioeconomico, è presumibile che considerazioni simili a quelle che si verranno sviluppando qui valgano per molte altre città italiane di quegli anni.
Tutte le notizie su Aronne S. e sui suoi familiari sono ricavate dall'anagrafe comunale attivata nel 1850 e aggiornata fino alla primavera del 1869. Gran parte dei dati utilizzati per questa ricerca provengono dalla stessa fonte. Converrà dunque darne una breve descrizione, per chiarire l'origine e il fondamento di quanto si verrà sostenendo in seguito.
Con buona approssimazione, l'anagrafe può essere definita come una sorta di censimento dinamico o, come si usa dire più correttamente, longitudinale(4). Il suo impianto inizia in effetti con un censimento vero e proprio, ma, a differenza di quest'ultimo, che si limita a fotografare lo stato della popolazione in un momento preciso, l'anagrafe viene aggiornata sistematicamente nel corso del tempo, man mano che avvengono cambiamenti nella sua composizione. È opportuno però sottolineare che si tratta solo della popolazione stabile: quanti risiedevano temporaneamente a Venezia ma non avevano qui il domicilio legale non vi compaiono(5). L'archivio dell'anagrafe preunitaria è costituito da due serie principali: i registri, dove la popolazione era descritta in ordine alfabetico, e i fogli di famiglia, che raccolgono invece gli individui in relazione all'aggregato domestico di appartenenza, riportandone i dati essenziali: nome, cognome, genitori, stato civile, luogo e data di nascita, professione, tempo di permanenza a Venezia. Quando un nuovo individuo entrava in famiglia, per nascita, matrimonio o trasferimento, questi veniva aggiunto all'elenco; se invece ne usciva, venivano indicati la data, il motivo dell'uscita, eventualmente il nuovo indirizzo e, se si trattava di un matrimonio, il nome del coniuge. Le stesse informazioni erano anche trascritte nei registri alfabetici. Inoltre, i fogli riportavano anche gli indirizzi dove la famiglia aveva abitato nel corso del tempo, con le relative date di trasferimento dall'uno all'altro. I fogli erano a loro volta conservati in cartelle-casa, corrispondenti all'indirizzo temporaneamente abitato. Ad ogni trasloco, anche il rispettivo foglio veniva spostato nella cartella relativa al nuovo indirizzo. Ne consegue che la situazione attuale dell'archivio rispecchia la distribuzione delle famiglie al 1869, quando venne effettuato un nuovo censimento e allestito un nuovo registro della popolazione, aggiornato fino al 1936 e tuttora in uso presso gli uffici comunali.
L'anagrafe costituisce dunque un capillare e per quei tempi sofisticato sistema di controllo, che consentiva all'amministrazione di conoscere in ogni momento la condizione e la collocazione degli abitanti nel territorio comunale: non stupisce che si tratti di un'invenzione del regime napoleonico, adottata poi da altri, come quelli austriaco e italiano, che ne hanno condiviso l'impianto politico-amministrativo. Per gli storici della società e della popolazione, essa rappresenta ora uno strumento davvero straordinario, benché non sia ovviamente del tutto priva di difetti(6). Come abbiamo visto, l'anagrafe permette infatti da una parte di ricostruire, almeno nelle loro tappe fondamentali, le biografie degli individui; dall'altra, consente di inquadrare queste stesse biografie nel contesto sociale - anch'esso mutevole nel corso del tempo - in cui si svolgono. Tale contesto riguarda anzitutto il gruppo familiare vero e proprio, descritto nel medesimo foglio di famiglia, ma può essere esteso anche al di fuori dell'ambito domestico, includendo la rete della parentela, il vicinato, l'intera comunità locale. In altre parole, possiamo sapere non solo con chi vive un individuo in un qualunque momento, ma anche, benché non sia affatto banale farlo, chi sono i suoi vicini, quali e quanti parenti ha e dove vivono, e così via.
Questa duplice dimensione - nel tempo e nello spazio sociale - comporta un arricchimento decisivo per l'indagine demografica. Da una parte i dati longitudinali permettono una misura più precisa dell'intensità dei fenomeni demografici. Dall'altra, la contestualizzazione degli eventi consente di cogliere la complessità e la molteplicità dei fattori che intervengono a determinarli. Il primo punto è un aspetto tecnico sul quale non è il caso di insistere qui, ma l'altro ha un rilievo sostanziale che merita di essere precisato. Per capirne concretamente il significato, torniamo ancora per un momento alla famiglia di Aronne, e in particolare alla breve esistenza della piccola Giulia. In un approccio tradizionale, fondato per esempio sui dati ricavati dai registri parrocchiali, dovremmo accontentarci di aggiungere la sua morte a quella di tanti altri bambini, e calcolare alla fine il tasso di mortalità infantile corrispondente: tanti i nati, tanti i morti entro il primo anno di vita, il conto è presto fatto. Al massimo, disponendo di un campione abbastanza numeroso, potremmo provare a calcolare dei tassi specifici, per esempio per sesso, o per gruppo sociale, o per religione, o per qualche altro carattere distintivo, e confrontarli tra loro. Ma già andare oltre questo primo livello, combinando assieme anche solo due di queste caratteristiche, risulta problematico: il numero dei tassi da calcolare diverrebbe subito elevato, gli eventi rilevati per ciascuna categoria corrispondentemente molto basso, la significatività statistica dei risultati minima o nulla. Ciò naturalmente pone un forte limite alle nostre possibilità interpretative.
Pur nella sua essenzialità, l'anagrafe ci racconta invece una storia molto più complicata di quanto questi indicatori singolarmente presi - sesso, gruppo sociale, religione - non possano dire. Sappiamo infatti che, al momento della nascita di Giulia, la famiglia stava attraversando un momento di particolare difficoltà: la madre aveva affrontato l'ennesimo parto in età ormai avanzata; una delle sue figlie aveva da poco partorito a sua volta un figlio illegittimo; la nonna settantacinquenne si era appena aggregata alla famiglia, aumentando la pressione sulle magre risorse disponibili. Come se non bastasse, proprio tra 1854 e 1855 si era abbattuta su Venezia una crisi economica gravissima, che aveva fatto raddoppiare i prezzi di tutti i generi alimentari e di prima necessità. Come spesso accadeva, la crisi economica era sfociata in un'epidemia di colera, mentre imperversava tra i più piccoli una non meno grave epidemia di morbillo. Giulia morì nel luglio del 1855, ad appena 7 mesi, di infezione gastrointestinale(7), dovuta all'assunzione di cibi o liquidi contaminati: benché in genere le madri ebree preferissero allattare a lungo i loro figli(8), Nina doveva averla dunque svezzata piuttosto presto, e oltretutto nel periodo estivo, il meno adatto per passare all'alimentazione artificiale o mista. Forse era stata spinta a farlo dal bisogno di arrotondare il bilancio domestico in un momento particolarmente critico con qualche lavoro fuori casa, e contava sull'aiuto della vecchia madre o della figlia maggiore per badare alla piccola: ma a pochi mesi le cure della madre e soprattutto la difesa rappresentata dal suo latte non sono facilmente sostituibili per un bambino.
Non si tratta dunque in questo caso solo e semplicemente di miseria, né questa agisce mai in modo puramente meccanico; c'è invece una molteplicità di elementi che concorrono a determinare l'esito di questa vicenda, in una reciproca interazione: la povertà 'strutturale', la particolare situazione familiare, la congiuntura economica eccezionale, il clima e l'igiene ambientale assumono un peso decisivo solo se visti in connessione gli uni con gli altri. L'anagrafe ci consente appunto di mettere in luce questa complessità e molteplicità di fattori: nessun'altra fonte permette una visione così articolata, soprattutto per quello che riguarda il contesto familiare che fa da sfondo ai comportamenti e agli esiti demografici e il cui ruolo è tanto fondamentale quanto difficile da cogliere. Naturalmente è pur sempre un'ipotesi interpretativa, per quanto ragionevole, che possiamo al massimo formulare: non arriveremo mai ad appurare cosa abbia effettivamente portato Giulia alla morte, né dal punto di vista di un'indagine storica o sociologica ci interesserebbe davvero saperlo. Ma anche ammettendo che si tratti di un'ipotesi corretta, come è possibile generalizzarne le conclusioni?
Fortunatamente, esistono alcuni strumenti statistici che consentono di rispondere efficacemente a questa domanda. Si tratta dei cosiddetti "modelli di rischio", usati nelle moderne indagini epidemiologiche, ma adottati ampiamente anche in molti altri campi, dalla sociologia all'ingegneria(9). In generale, questi metodi permettono di stimare contemporaneamente l'effetto di un numero anche ampio di fattori sulla probabilità che un qualsiasi evento si verifichi o meno. In epidemiologia, per esempio, si usano questi modelli per valutare il peso di diversi elementi concomitanti sul rischio che insorga una qualche malattia, come il cancro, che si considera provocata da un concorso di cause combinate tra loro. Ma lo stesso approccio può essere utilizzato nei campi più diversi, ogniqualvolta siano disponibili informazioni di tipo longitudinale. Nel nostro caso, quello che appunto si può fare è di verificare in che modo il fatto di trovarsi in una certa condizione, determinata complessivamente dallo stato sociale, la composizione familiare, la congiuntura economica, il contesto ambientale, la cultura, e così via, influisce sulla probabilità che un individuo sperimenti un qualche evento, come la morte, il matrimonio, un trasferimento, un parto. È un modo cioè di rendere sistematica e dunque quantitativamente apprezzabile l'analisi individuale abbozzata poco sopra per il caso della piccola Giulia.
Come è facile immaginare, questi metodi sono anche piuttosto complessi da un punto di vista tecnico e di difficile interpretazione per chi non abbia una competenza specifica in campo statistico. Nondimeno il loro interesse è tutt'altro che specialistico, e investe alcuni aspetti molto importanti della storia demografica e sociale. Per questo motivo, nelle pagine che seguono verranno presentati alcuni risultati principali di una serie di indagini effettuate su questo materiale, ricorrendo il meno possibile a tecnicismi e senza appesantire il testo di tabelle e di troppi numeri. Coloro che fossero interessati ad una verifica più precisa e dettagliata di quanto si verrà esponendo, potranno rifarsi a diversi lavori specifici che verranno di volta in volta indicati.
Ma prima di entrare finalmente nel merito delle dimensioni sociali della demografia veneziana verso metà Ottocento, converrà soffermarsi ancora brevemente sulle vicende della popolazione cittadina nel corso del secolo che ne costituiscono lo sfondo.
Quanti erano, cosa facevano, come vivevano i veneziani nel corso dell'Ottocento? Purtroppo una storia di Venezia dal punto di vista dei suoi cittadini non è ancora stata scritta. Non sono bensì mancati, in questi ultimi anni, gli stimoli e le occasioni per riflettere su cosa sia avvenuto di Venezia dopo la caduta della Repubblica, su come siano mutati il suo ruolo, la sua identità, la sua immagine dopo il fatale passaggio del 1797(10). Ma questo recupero alla memoria storica di un periodo cruciale per la ridefinizione, nel bene e nel male, della Venezia moderna, ha appena lambito coloro che di questo processo furono, se non protagonisti, almeno compartecipi. È come se la storia di Venezia e quella dei suoi abitanti si muovessero su piani separati, quasi fossero cose diverse: del resto, non si assiste forse ad un divorzio analogo nel dibattito politico attuale, dove il problema del drammatico spopolamento in atto nel cosiddetto "centro storico" viene tranquillamente e sistematicamente ignorato, negato, aggirato, o tutt'al più subìto come ineluttabile, quasi che la stessa identità urbana di Venezia non dipenda in primo luogo dalla persistenza e dalla vitalità della sua popolazione? Proprio la storia dell'Ottocento mostra invece con chiarezza quanto i due termini, pur mantenendo la loro specificità, siano strettamente e, verrebbe da dire, ovviamente, intrecciati. Il drammatico tracollo demografico che seguì la caduta della Repubblica, la prolungata depressione della prima metà del secolo, la timida e contrastata ripresa dei decenni centrali e quella più sostenuta ma non priva di ombre e di contraddizioni di fine secolo, riproducono ed esprimono fedelmente il processo di implosione prima e di faticosa e stentata ricomposizione poi del ruolo economico e politico della città, dandone la misura più immediata e genuina.
Purtroppo molti aspetti e passaggi di questa storia restano ancora oscuri. Per tutta la prima metà del secolo, anche solo la stima della popolazione complessiva risulta problematica. Benché le indicazioni sul numero totale degli abitanti siano relativamente numerose, sembra lecito dubitare della loro precisione e attendibilità, né è sempre chiaro se si riferiscano di volta in volta alla sola popolazione stabile o a quella presente e quale area territoriale includano. Di conseguenza, il quadro complessivo che ne risulta non è del tutto privo di incertezze e contraddizioni. Nondimeno alcuni momenti e meccanismi di fondo dell'evoluzione demografica della città emergono piuttosto distintamente.
Crisi e declino (1797-1838)
Lo snodo fondamentale resta senza dubbio il tracollo che seguì la fine del regime aristocratico. Alla vigilia della caduta della Repubblica, la popolazione veneziana si aggirava verosimilmente attorno ai 150.000 abitanti. Appena due anni dopo essa si era ridotta a 136.000 abitanti, per scendere ulteriormente a 122.000 nel 1805 e a 115.000 nel 1811. Gli anni successivi, segnati dalle drammatiche vicende del blocco della città nel 1813, il ritorno delle truppe austriache, la carestia e l'epidemia di tifo del 1816-1817, non furono certo propizi a una ripresa demografica: tra 1811 e 1818 Venezia perse altri 12.000 abitanti. La spirale dello spopolamento non si arrestò tuttavia neppure nel corso della 'pacificata' Restaurazione, inoltrandosi anzi ben oltre le soglie della modesta ripresa degli anni Trenta. Nel 1823 la popolazione si attestava appena sopra i 100.000 abitanti; 7 anni dopo era scesa ancora a 98.638, per toccare finalmente il minimo di 93.545 nel 1838: il livello più basso nella storia plurisecolare della Venezia medievale e moderna, non raggiunto neppure dopo la disastrosa peste del 1630-1631, quando perì circa un terzo degli abitanti, e solo ai nostri giorni purtroppo ampiamente valicato(11).
La dimensione precisa e l'andamento di questo processo possono anche variare lievemente a seconda delle stime utilizzate; tuttavia sembra difficile discordare sulla sua valutazione di fondo: ciò di cui ci parlano queste cifre è anzitutto un fenomeno di massiccio abbandono, un vero e proprio esodo, che nel giro di pochi anni svuotò la città di ben più di un terzo dei suoi abitanti. Proviamo ad azzardare qualche conto, anche se necessariamente molto approssimativo. Verosimilmente, questi anni per tanti versi drammatici furono anche segnati da un marcato aumento della mortalità generale, ulteriormente aggravata da ripetute emergenze epidemiche. Nel 1800 e 1801 un'epidemia di vaiolo colpì piuttosto duramente, aumentando di circa il 60% il numero di decessi rispetto agli anni precedenti(12). Il tifo che seguì invece la terribile carestia del 1816-1817 fu responsabile di quasi 4.000 decessi, raddoppiando il tasso di mortalità(13). Nel complesso, si può ipotizzare che nei primi quattro decenni del secolo in media le morti superassero le nascite di circa il 15-20%, grosso modo corrispondenti a un saldo naturale negativo di 15.000 unità per tutto il periodo. Per pareggiare il conto di un decremento di almeno 60.000 abitanti, occorre dunque ipotizzare che nello stesso periodo abbiano abbandonato la città 40.000, forse 50.000 persone.
Questo dato è tanto più impressionante quando si pensi che le emigrazioni non furono distribuite omogeneamente lungo tutto il quarantennio, ma dovettero concentrarsi in ondate successive e in un periodo molto più circoscritto. La più intensa e repentina seguì immediatamente la caduta della Repubblica, quando almeno 20.000 persone lasciarono la città nel giro di due anni: verosimilmente, doveva trattarsi di gran parte di quella popolazione fluttuante e di quei forestieri le cui attività erano in qualche modo legate alla sussistenza del complesso sistema politico-amministrativo aristocratico e alla centralità economica della Dominante; le vere e proprie fughe o gli allontanamenti motivati dalla ricerca di maggiore sicurezza e tranquillità o dal disgusto verso il nuovo stato di cose, se pure non mancarono, rappresentarono un fatto quantitativamente marginale, circoscritto a qualche famiglia aristocratica, e in genere temporaneo. Anche i successivi cambiamenti di regime dovettero dar luogo a deflussi consistenti, sia pure per diversi motivi. In generale, il ventennio che separa la caduta della Repubblica dal ritorno definitivo degli austriaci fu caratterizzato da un tasso di decremento demografico estremamente intenso, attestato mediamente attorno al 21‰ annuo. I due decenni successivi vedono invece un'attenuazione del processo di spopolamento, che segna tassi medi annui negativi rispettivamente di 3,7 e, con una ripresa dovuta al colera del 1836, quando perirono 2.066 persone(14), di 5,9‰. Mentre dunque nella prima metà di questo quarantennio si assiste a un vero e proprio svuotamento della città, nella seconda il declino sembra dovuto invece all'incapacità di attrarre nuove forze in grado di colmare i vuoti lasciati dal deficit del saldo naturale. In effetti, alcuni dati attestano - con quanto fondamento è purtroppo difficile dire - un costante surplus positivo del saldo migratorio tra 1817 e 1829: sempre però di modeste dimensioni, mediamente inferiore alle 70 persone all'anno, e del tutto insufficiente a pareggiare l'eccedenza dei decessi sulle nascite(15).
Come è ben noto, una tale eccedenza non era peculiare della sola Venezia né di questi anni in particolare, nonostante l'aumento di mortalità cui si è ora fatto cenno. Almeno fino alla fine dell'Ottocento, quando furono introdotti radicali miglioramenti nei sistemi sanitari e nelle condizioni igieniche e abitative(16), tutti i centri urbani, con pochissime eccezioni, registravano consistenti deficit dei saldi naturali. Per quanto alcuni studi si siano sforzati di dimostrare che la visione tradizionale delle città del passato come luoghi caratterizzati da una mortalità straordinaria vada ridimensionata e precisata(17), è indubbio che le differenze con i rispettivi bacini rurali fossero considerevoli. Inoltre, in ambito urbano nuzialità e natalità restavano spesso più bassi che in questi ultimi(18). Di conseguenza, il mantenimento e, a maggior ragione, la crescita della popolazione urbana dovevano essere alimentati dal costante contributo demografico delle campagne circostanti(19). Per esempio, nel caso di Londra tra Sei e Settecento si è sostenuto che per bilanciare l'eccesso di morti nella capitale e sostenere la sua crescita rispetto alla popolazione totale inglese fosse necessario assorbire (per poi in gran parte distruggere) almeno la metà del surplus di nascite che si verificava nel resto del paese: un contributo che ebbe nondimeno effetti equilibratori e positivi sullo sviluppo economico delle stesse aree rurali(20). Calcoli analoghi sono stati fatti per la Francia(21) e soprattutto per i Paesi Bassi, una regione caratterizzata da un altissimo tasso di urbanizzazione: a metà Settecento la domanda demografica provocata dall'insalubrità della vita cittadina era talmente alta che qualsiasi ulteriore crescita urbana avrebbe comportato un declino in termini assoluti della popolazione rurale(22). Benché un simile studio non sia stato fatto per Venezia e per il suo bacino demografico(23), non c'è dubbio che anch'essa abbia svolto per secoli una simile funzione, non solo durante la considerevole espansione bassomedievale e cinquecentesca, ma anche con la ripresa successiva alla peste del 1630-1631, quando, grazie all'arrivo di quasi 60.000 immigrati nel giro di un ventennio, la consistenza demografica raggiunta prima della crisi epidemica fu rapidamente ricostituita e perfino superata(24).
Dunque nel ventennio rivoluzionario Venezia non solo interrompeva quella secolare funzione di accoglienza, ma ne invertiva addirittura la direzione, espellendo un numero consistente dei suoi stessi abitanti. Questo drammatico rovesciamento e la successiva sostanziale interruzione nei flussi migratori rappresentano la misura insieme più cruda ed eloquente dell'eccezionalità della crisi che investì la città dopo il cambiamento di regime: un aspetto che sembra sfuggire a quanti ne propongono invece una lettura riduttiva, in chiave prevalentemente congiunturale. Se Venezia, come scrive Zannini, era "come un polmone che si riempie e si svuota di gente al ritmo delle stagioni e delle congiunture economiche"(25), bisogna allora riconoscere che per almeno un quarantennio essa smise del tutto di respirare, un fenomeno senza precedenti nella sua storia. A questo proposito le testimonianze di Girolamo Priuli nel primo Cinquecento e del prefetto Luigi Sormani Moretti sulla consistente presenza di forestieri in città nel 1880, riportate da Zannini a sostegno della sua tesi, appaiono singolarmente sfuocate rispetto al periodo in questione, e possono essere, almeno per quanto riguarda la seconda, ulteriormente precisate. Per quanto sia solo in parte indicativo, a fine 1869 la popolazione delle tre aree ricordate sopra - Giudecca, Angelo Raffaele, Ghetto - era costituita per l'82% da nati a Venezia, quando la percentuale analoga era solo di 36 a Parigi, di 44 a Vienna, di 45 a Marsiglia, di 50 a Berlino e di 51 a Bruxelles(26). Ancora agli inizi del nuovo secolo, quando, come si vedrà, il movimento migratorio era ormai da tempo ripreso intensamente, Venezia risultava, tra le città centrosettentrionali italiane, quella con la presenza di nati al di fuori del comune di gran lunga più bassa, inferiore ad un terzo del totale(27).
Beninteso, Venezia non fu la sola a subire un processo di declino demografico nel primo Ottocento. Con l'eccezione di Milano, tutte le maggiori città dell'Italia centrosettentrionale registrarono una diminuzione della popolazione nel corso del tormentato quindicennio napoleonico: Torino perse quasi un terzo degli abitanti, Roma poco meno, Bologna e Firenze un decimo(28). Né si trattò di un processo esclusivamente italiano: durante l'assedio del 1793 la popolazione di Lione diminuì di un quarto(29), e un analogo tracollo colpì Bordeaux, la cui economia, fondata sul commercio di prodotti coloniali, fu distrutta dalla rivoluzione di Santo Domingo, dal dilagare delle guerre rivoluzionarie e dal predominio marittimo britannico(30). Perfino Amsterdam conobbe un declino verso la fine del Settecento, conseguenza della crisi simultanea del commercio marittimo, delle costruzioni navali e delle raffinerie di zucchero(31). Tuttavia, per quanto in parte simili, nessuno di questi casi può essere messo sullo stesso piano della vicenda veneziana. Non solo il declino demografico fu perlopiù assai meno drammatico, ma il recupero fu in genere rapido e completo. A metà Ottocento, tutte le città italiane ricordate sopra avevano superato i livelli raggiunti alla fine del secolo precedente, mentre Venezia, come vedremo, ne era rimasta ancora ampiamente al di sotto(32). Inoltre, con l'eccezione di Amsterdam e Roma, gli altri centri urbani ricordati sopra erano tutti di medie dimensioni, il che li esponeva a subire maggiormente i contraccolpi delle oscillazioni congiunturali, specie se ad economia scarsamente differenziata, come nel caso di Bordeaux. Quanto più popolata è una città, tanto più diversificate e dotate di inerzia propria sono le sue attività economiche, e di conseguenza maggiori sono le sue capacità di superare le fasi di recessione di origine esogena. Secondo Chevalier, nel corso del primo Ottocento le crisi economiche si facevano sentire in modo molto meno acuto a Parigi che nelle città industriali del Nord(33). Considerazioni analoghe si possono fare per Londra, Berlino e Vienna, la cui economia era legata al settore terziario e alla produzione di lusso sostenuta dalla domanda interna, mentre Amsterdam, come si è visto, era più sensibile alle variazioni nel commercio internazionale(34).
Benché su di una scala minore rispetto a queste metropoli, anche Venezia possedeva molte caratteristiche che ne avevano garantito a lungo una sostanziale stabilità: le sue dimensioni erano piuttosto ragguardevoli, era un importante centro politico-amministrativo, la sua economia era diversificata, e i consumi interni, specie di beni di lusso, erano sostenuti dalle élites locali. Se alla fine del Settecento fu travolta da una crisi improvvisa quanto irrimediabile fu perché tutti questi fattori vennero contemporaneamente meno. Il blocco dei flussi commerciali internazionali, tanto per l'esportazione dei manufatti che per l'importazione di materie prime, annientò gran parte dell'organizzazione produttiva tradizionale, il cui peso economico complessivo era ancora estremamente rilevante, pur se da tempo versava in condizioni di declino(35). Gran parte del settore manifatturiero tradizionale fu investito da una crisi gravissima, esacerbata dalla concorrenza della produzione di terraferma e dallo scioglimento del sistema corporativo. Con la fine delle commesse pubbliche, un analogo tracollo colpì il settore privilegiato delle costruzioni navali. Le conseguenze in termini occupazionali furono devastanti: confrontando la situazione del 1808 con quella del 1780, la Camera di commercio rilevava che gli occupati nella fabbricazione dei panni si erano ridotti a soli 80, dai 3.220 di trent'anni prima; gli addetti alla lavorazione dei drappi di seta erano passati da 6.650 a 750; gli operai nelle corderie da 6.650 a 140; quelli nelle conterie da 4.264 a 80. Nel complesso, gli occupati si erano ridotti da 25.326 a 2.536(36).
Nello stesso tempo, con la dissoluzione di un apparato amministrativo alquanto complesso e ramificato e di tutte quelle funzioni di intermediazione e di rappresentanza di interessi particolari che ad esso erano collegate, si inaridì una fonte di reddito che interessava una considerevole quota della popolazione cittadina. Lo stesso drastico ridimensionamento di un sistema di vita e di relazioni legate al mondo aristocratico e alle sue forme di socialità e di conspicuous consumption dovette avere riflessi altrettanto drammatici, benché meno facilmente misurabili, sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi, con un'ulteriore moltiplicazione degli effetti depressivi. Lungi dal sostenere i redditi con la domanda di beni di lusso e di servizi, come facevano le élites delle altre metropoli, i patrizi veneziani si sottoposero a drastici piani economici, restrinsero i consumi all'osso e vendettero tutto quanto potevano per far fronte alla situazione di drammatico indebitamento in cui si trovavano(37). Non c'è da stupirsi se i gondolieri di famiglia si ridussero nei primi anni Venti a 297, rispetto ai 2.854 di prima del cambio di regime. Nel contempo, i gondolieri ai traghetti, che fungevano da fondamentale tessuto connettivo urbano, si erano quasi dimezzati, passando da 1.088 a 607(38). Sarebbe un errore considerare questi dati come un puro tratto di colore, perché ovviamente si trattava nel complesso di consistenti redditi e sostegni alle relative famiglie che così venivano meno. Ancora negli anni Sessanta, lo scrittore americano William D. Howells sottolineava "quanta ricchezza la città ricavava un tempo dall'essere felice. I poveri devono lamentare non solo la perdita delle loro feste, ma anche dei pingui impieghi e delle generose beneficenze che queste occasioni mettevano nelle loro mani"(39).
La stessa massiccia emigrazione finiva poi per avere un ulteriore effetto depressivo sull'intera economia cittadina; 40, forse 50.000 persone, che abbandonano la città in una ventina d'anni, sono un numero veramente enorme, circa i due terzi, per avere un ordine di raffronto, dell'intera popolazione attuale del centro storico. Sono famiglie intere che se ne vanno, abitazioni che restano vuote, negozi che chiudono, artigiani che cessano la loro attività, masse di produttori e consumatori che si sottraggono al processo economico, togliendogli alimento e vitalità. I risultati in termini urbanistici sono ben noti: il degrado urbano, specie dell'edilizia minore, i crolli e le demolizioni delle case rimaste sfitte, gli sventramenti, la depressione delle rendite e del mercato immobiliare, furono una diretta e ampiamente documentata conseguenza dell'emigrazione di massa(40).
Vi sono peraltro molti altri aspetti che solo una ricerca più approfondita potrà evidenziare. In particolare, sarebbe estremamente interessante sapere quali aree furono maggiormente colpite e con quali conseguenze sul sistema di relazioni sociali e familiari, così come quali componenti della popolazione, quali professioni o gruppi sociali, quali classi di età furono coinvolti dall'esodo. Certo non si trattò solo di frange marginali. Secondo un contemporaneo come Gaspare Federigo, professore di Clinica medica a Padova, furono soprattutto i piccoli possidenti e i negozianti a trasferirsi in terraferma dopo il 1797(41). In generale, sembra probabile che ad avviarsi lungo l'impervia strada dell'emigrazione siano state prevalentemente persone in età lavorativa, con buone prospettive di riuscire a guadagnarsi da vivere altrove; quanti avevano bisogno di appoggiarsi a istituzioni benefiche o caritative difficilmente avrebbero potuto seguirla. Di conseguenza, la composizione della popolazione rimasta dovette squilibrarsi ulteriormente, aumentando il peso relativo degli anziani e di quanti si trovavano in condizioni di precarietà e dipendenza. Nel suo Ricorso all'imperatore del 1825, il patriarca Ladislao Pyrker sosteneva che dal 1797 in poi le persone in grado di mantenersi autonomamente si erano ridotte da 90.000 a 40.000, mentre quasi altrettante facevano saltuario ricorso ai sussidi della commissione di beneficenza e oltre 2.500 ne venivano mantenute quotidianamente. Per quanto queste cifre, come del resto quelle della Camera di commercio richiamate sopra a proposito dell'occupazione, possano essere state esagerate allo scopo di ottenere provvedimenti a favore di Venezia, le linee generali del quadro che dipingono - efficacemente definito come "pauperismo di massa"(42) - sembrano del tutto credibili(43).
Riprese e ricadute (1839-1869)
Il 1839 è il primo anno in cui si registra un attivo, seppur modesto, del saldo naturale, saltuariamente ripetuto negli anni seguenti. Fino al '47, il surplus delle nascite sulle morti, secondo le statistiche ufficiali austriache, è nel complesso di 393(44): un risultato in sintonia con un processo più ampio di declino della mortalità che interessa l'intero territorio regionale(45). Il movimento della popolazione documentato dalle Tafeln austriache risulta tuttavia molto più ampio, passando dal minimo di 93.500 abitanti del '38 agli oltre 123.000 calcolati alla vigilia della rivoluzione. Ma che grado di attendibilità occorre riconoscere a questi dati? Se si analizza la serie annuale in dettaglio, si coglie immediatamente che gran parte di questo incremento si sarebbe verificato nel 1842, quando il totale passò di colpo da 94.000 abitanti a quasi 118.000, con un aumento di quasi 23.600 persone. Un ulteriore consistente aumento di oltre 8.000 individui venne registrato l'anno successivo, portando infine il totale a 128.615 abitanti. Dunque solo un massiccio flusso migratorio potrebbe spiegare una variazione di queste dimensioni. Non si vedono tuttavia validi motivi che possano giustificare un'inversione di tendenza così drastica e repentina. Nel corso degli anni Trenta si assiste bensì ad una ripresa che investe i principali settori dell'economia cittadina; l'estensione del portofranco si ripercosse in un certo risveglio dei traffici commerciali, con ricadute positive sulla cantieristica; alcuni importanti centri manifatturieri di proprietà pubblica, come l'Arsenale, la Manifattura Tabacchi, la Zecca, aumentarono la loro attività; le rendite immobiliari finalmente si risollevarono, i privati ripresero restauri ed edificazioni mentre si intensificarono gli interventi urbanistici(46). Benché indubbiamente il clima economico fosse profondamente mutato rispetto alla depressione degli anni Venti, si trattò tuttavia di un processo diluito nel tempo e di dimensioni circoscritte, che difficilmente può aver richiamato d'un tratto masse considerevoli di immigrati. Sembra dunque molto più realistico spiegare il brusco incremento come l'effetto contabile di una variazione nei criteri di enumerazione degli abitanti. In effetti, se si omettono dalla serie i due anni anomali del 1842 e 1843, quello che ne risulta è un trend nel complesso molto più credibile, con tassi medi annui di incremento del 2,2‰ dal 1838 al 1841 e del 2,9 dal 1843 al 1848, molto più aderenti ai presumibili ritmi di crescita del sistema economico generale.
Si trattò del resto di una ripresa, sia sul piano demografico che su quello socioeconomico, destinata a infrangersi precocemente contro una nuova serie di eventi drammatici che ne interruppero e ne compressero per un altro trentennio almeno le potenzialità di sviluppo. Nel '49 la morte di 3.839 persone per un'epidemia di colera pose il suo drammatico suggello alla rivoluzione; nel '54 il colera provocò altri 708 decessi, mentre contemporaneamente un'epidemia di morbillo mieteva le sue vittime tra i bambini più piccoli; altre epidemie coleriche si succedettero nel '55, '66, '69, '73, '86(47). Alle conseguenze economiche del lungo assedio si assommarono gli effetti della politica vessatoria austriaca. Di nuovo si assistette ad abbandoni di attività produttive, chiusure di negozi, case lasciate vuote, aumento del pauperismo(48). Ad aggravare una situazione già alquanto precaria, nel 1854 esplose una crisi agraria senza precedenti, che travolse due componenti fondamentali dei redditi agricoli, l'allevamento del baco e la coltura della vite. Tutti i prezzi dei principali prodotti subirono uno straordinario aumento. Al mercato di Legnago, uno dei principali della regione, il frumento toccò nel marzo 1854 le 42 lire austriache al quintale, contro una media inferiore alle 20 lire segnata nel triennio 1850-1852. Il granoturco crebbe in maniera ancor più vertiginosa, raggiungendo addirittura le 40 lire, rispetto ai precedenti valori medi che si aggiravano sulle 15 lire(49). I prezzi al dettaglio in città non poterono ovviamente non risentirne, nonostante l'introduzione del calmiere: nel dicembre 1854 il pane di semola raggiunse i 33 centesimi alla libbra, più del doppio dei 15 centesimi segnati nel '51; il pane bianco passò invece da 21 a 39 centesimi la libbra(50). Si trattò inoltre di una crisi particolarmente prolungata: i prezzi tornarono ai livelli precedenti solo nel '59. Comprensibilmente, furono le componenti più esposte e deboli della popolazione a risentirne maggiormente, gli anziani e soprattutto i bambini: nelle aree più povere della città, nel 1854-1855 la metà dei neonati morì prima di arrivare a compiere il primo anno di vita(51). Infine, la seconda guerra di indipendenza e il distacco dei territori lombardi portarono un nuovo colpo ai commerci, mentre il carico fiscale, già pesantissimo, si aggravò ulteriormente(52). Significativamente, le giornate di presenza alla Casa d'industria, che si erano ridotte a 114.000 nel 1845, salirono a 148.000 nel 1860 per toccare la punta massima di oltre 315.000 alla vigilia della riunificazione al Regno d'Italia(53).
Dal punto di vista economico e sociale, la situazione durante la terza dominazione austriaca non era migliore di quella registrata sul finire del dominio napoleonico e durante la Restaurazione. A un osservatore straniero come William D. Howells, Venezia appariva allora come una "città lugubre e malinconica", lo spirito degli abitanti avvelenato in eguale misura dalla depressione economica e dal profondo rancore politico verso gli austriaci: "in terra o in mare, non c'è un luogo con un maggiore abbattimento sociale e tristezza che nella Venezia contemporanea"(54). Sotto l'aspetto demografico, tuttavia, il bilancio era nel complesso assai meno negativo. Nel censimento per la nuova anagrafe del 1850 la popolazione stabile si attestava sui 105.484 abitanti, mentre il totale avrebbe toccato i 123.290 individui. Alla nuova rilevazione del 1857 i residenti risultavano superare i 113.525, mentre una flessione riguardava i forestieri, portando il totale a 120.414. Infine, nel censimento del 1869 si registrava un ulteriore incremento, che portava la popolazione stabile a 125.774 abitanti e quella totale a 133.037(55). Ancora una volta si tratta di dati incerti, sia per attendibilità delle rilevazioni, messa in dubbio dagli stessi contemporanei, sia per variabilità dei criteri nella definizione dei censiti. Tuttavia sembra evidente una rapida ricostituzione dei vuoti creati dal colera del '49 e l'avvio di una moderata crescita, al ritmo del 9‰ annuo.
La crescita postunitaria e i suoi limiti
È comunque solo con gli ultimi due decenni del secolo che prende finalmente corpo una ripresa più consistente e meno precaria. Volano principale fu la rinascita dell'attività portuale, che collocherà agli inizi del nuovo secolo lo scalo veneziano al secondo posto in Italia dopo quello di Genova. Nel 1880 si inaugurava la nuova Stazione marittima, che consentiva di realizzare la continuità di carico con lo scalo ferroviario, spostando rapidamente l'asse dei traffici dalla secolare collocazione in bacino S. Marco. Nel contempo, lo scavo delle bocche di porto di Malamocco e del Lido riapriva il traffico alle navi di grosso tonnellaggio. Dal 1881 al 1901 gli addetti alle attività portuali raddoppiarono, mentre si può calcolare che il lavoro indotto coinvolgesse circa un quinto della popolazione attiva. Incrementi considerevoli interessarono altri settori industriali e manifatturieri: l'Arsenale occupava oltre 3.800 persone a fine anni Ottanta, mentre i cantieri navali di Vincenzo Stefano Breda arrivavano a quasi 900; il Cotonificio Veneziano superava invece di poco questa cifra, anche se le prospettive erano state inizialmente molto più ottimistiche; mentre infine imprenditori stranieri avviavano numerose iniziative, nella siderurgia e nelle costruzioni meccaniche, nella molitura, nell'orologeria, anche i settori più tradizionali, come la lavorazione del vetro e dei merletti, che mantenevano una vasta se pur frammentaria occupazione, conoscevano una vigorosa anche se discontinua ripresa(56). Contemporaneamente, sul piano urbanistico prendeva avvio una vasta serie di interventi, col duplice intento di risanare le situazioni di maggiore degrado e di ridefinire le principali direttrici viarie, in funzione di una più 'moderna' concezione urbana e in relazione ai nuovi poli di attrazione determinati dalle stazioni marittima e ferroviaria(57).
Ancora una volta, la dinamica demografica rispecchia fedelmente questa nuova fase della storia cittadina. Tra 1871 e 1881 si registra infatti una sostanziale stasi della popolazione residente, che passa da 128.901 persone a 129.851, con un incremento medio annuo dello 0,7‰, mentre il ventennio successivo segna un progresso molto più marcato, portando il totale a 146.682, corrispondente a un tasso del 6,1‰ annuo(58). Il saldo naturale continua peraltro ad essere nettamente negativo, sicché tra 1871 e 1901 vi furono oltre 4.000 decessi in più rispetto alle nascite. Certo contribuirono a questo risultato alcune annate particolarmente negative, come il 1873 e il 1886, segnate da una ripresa del colera, e il 1882 e il 1889-1890, quando scoppiarono due gravi epidemie di vaiolo, nella seconda delle quali morirono ben 932 persone(59). Tuttavia lo squilibrio era evidentemente strutturale, anche se lentamente avviato a un cambio di segno: mentre durante tutto il decennio 1871-1880 si ebbe un saldo negativo tra nascite e decessi, in quello seguente gli anni con un saldo passivo furono sei, e si ridussero a due soli nell'ultimo(60).
Tutto il considerevole incremento di circa 17.000 abitanti registrato nell'ultimo ventennio del secolo andava dunque ancora ascritto a una forte ripresa dei movimenti migratori. Le statistiche comunali fondate sui movimenti anagrafici riportano un totale di circa 79.000 immigrati tra 1874 e 1904, contro i poco meno di 50.000 che emigrarono. Tuttavia queste cifre contrastano chiaramente con i risultati dei censimenti, e la stessa amministrazione comunale ne riconosceva la scarsissima attendibilità: data l'ampia evasione dell'obbligo di registrazione e cancellazione, senza dubbio tanto il numero di ingressi quanto soprattutto quello delle uscite si sarebbero dovuti accrescere sensibilmente(61).
Nell'ultimo quarto del secolo, Venezia venne dunque investita da un processo di intenso ricambio della popolazione, che la portava infine a raggiungere nuovamente i livelli toccati a metà Settecento. Nonostante un simile risultato sia di indubbia importanza, occorre però collocarlo nel contesto del più ampio sviluppo economico e demografico in atto in gran parte d'Italia, dove gli stessi processi si verificavano con intensità molto maggiore. Si è già avuto modo di notare come ancora nel 1901 meno di un terzo dei residenti veneziani risultasse nato fuori del comune, la quota di gran lunga più bassa tra le città dell'Italia centrosettentrionale (la situazione nel Meridione era più complessa e, quanto a contributo di saldo naturale e migratorio alla crescita urbana, in qualche modo opposta). Soprattutto, i ritmi di sviluppo erano molto più sostenuti che nella città lagunare: tra gli 11 comuni italiani con più di 100.000 abitanti, Venezia si poneva nettamente all'ultimo posto, con una crescita dal 1871 al 1901 inferiore al 16%, quando le altre città meno dinamiche del gruppo, Firenze e Napoli, erano aumentate di oltre un quarto: peraltro la prima era già cresciuta enormemente negli anni precedenti, con il temporaneo spostamento della capitale, mentre Napoli aveva ormai raggiunto una considerevole massa critica, superiore al mezzo milione di abitanti. Le altre città maggiori avevano invece conosciuto ritmi ben altrimenti accelerati: Roma e Milano erano aumentate quasi del 90%, Catania del 77, Torino del 57(62).
Certo Venezia non disponeva delle stesse opportunità di espansione edilizia, e vista con gli occhi di chi abita oggi una città ridotta a 66.000 abitanti(63), una popolazione più che doppia o addirittura tripla, come quella raggiunta nel secondo dopoguerra, potrebbe apparire già affollata oltre i limiti della tollerabilità. Di fatto, tuttavia, quanto a numero di abitanti per superficie edificata Venezia si trovava all'inizio del secolo in una posizione tutt'altro che sfavorevole, con una densità di 582 abitanti per ettaro, quando Milano, Roma, Napoli e Palermo erano tutte superiori agli 800 e Genova toccava addirittura i 1.728 abitanti per ettaro(64). Peraltro va anche sottolineato che l'aumento dei flussi migratori si era riflesso a Venezia in un ulteriore peggioramento delle condizioni abitative popolari, portando all'occupazione di abitazioni fatiscenti, prima deserte o destinate ad altro uso, e soprattutto di piani terreni, dove alloggiavano agli inizi del secolo circa 12.000 persone(65). Com'è noto, oltre che alimentare un inesauribile stereotipo letterario(66), il tema del degrado urbano rappresentò per tutto l'Ottocento una componente costante nelle riflessioni sulla decadenza economica e sociale della città. Tuttavia, se prima esso si proponeva più che altro in termini di abbandoni e demolizioni(67), sul finire del secolo la questione assunse i nuovi connotati di una emergenza sociale e igienico-sanitaria, motivata dall'urgenza di migliorare le condizioni disumane in cui una parte consistente della popolazione era costretta a vivere. Pur in sintonia con un più ampio movimento a favore dell'edilizia popolare e operaia(68), questa consapevolezza si alimentava direttamente di approfondite indagini sulle condizioni abitative veneziane. La più sistematica fu predisposta dal Comune dopo l'epidemia di colera del 1873, allo scopo di obbligare i proprietari delle case ad apportare i restauri necessari alla tutela dell'igiene e della sanità pubblica. In tutto si visitarono 29.000 edifici con 50.000 abitazioni, e ben 6.200 furono quelli ritenuti bisognosi di lavori(69). Chi scorra i verbali delle ispezioni ricava un quadro davvero impressionante delle situazioni abitative del tempo. Più circoscritta ma non meno significativa l'indagine condotta da Raffaele Vivante su 425 abitazioni, nell'ambito di uno studio sulla diffusione della tubercolosi polmonare: affollamento eccessivo e promiscuità, assenza di acqua potabile, latrine tutte senza dotazione di acqua, in tre quarti dei casi poste in cucina, umidità, pessime condizioni igieniche, mancanza di aerazione, costituivano le caratteristiche delle zone più povere, soprattutto nel sestiere di Castello. In queste aree, nel decennio 1892-1901 si contò un decesso per tubercolosi ogni quattro numeri anagrafici(70).
La Venezia che si presentava al nuovo secolo aveva dunque ricostituito la sua popolazione, ma non aveva ancora modificato significativamente i meccanismi che ne regolavano il regime demografico, come era avvenuto invece in gran parte delle altre realtà urbane, sia italiane che europee. Nonostante una tendenza al declino dal 1871 in poi, la mortalità rimaneva ancora estremamente elevata. Nel ventennio 1881-1900, Venezia aveva registrato il tasso generico medio annuo più elevato tra tutti i 56 distretti veneti: 283 morti ogni 10.000 abitanti, contro i 235 di Padova e Verona, i 236 di Vicenza, i 199 di Treviso(71). Anche tra le maggiori città italiane, Venezia si poneva ai vertici di questa poco invidiabile classifica, con tassi largamente superiori a quelli di centri come Milano, Torino, Roma, persino Palermo, di poco inferiore soltanto a Napoli, le cui condizioni di degrado urbano e sociale erano ben note(72). Un confronto ancora più significativo viene dalla mortalità infantile, più adatta a misurare il grado di sviluppo raggiunto da una popolazione, sia in termini economici che igienici e culturali. Dal 1880-1884 al 1900-1904 Venezia scendeva da 199 decessi infantili su 1.000 nati a 188 (dopo essere balzata addirittura a 277‰ nel 1890-1894, in concomitanza con l'epidemia di vaiolo), quando Torino era rimasta attorno al 151‰, Roma era scesa da 179 a 131, e Napoli era addirittura passata da 246 a 154‰. Quanto alle maggiori metropoli europee, basti solo ricordare che all'inizio del secolo Londra aveva un tasso di 144 decessi per 1.000 nati, Parigi di 111, Copenaghen di 160 e Budapest di 149; solo Berlino e Mosca superavano i livelli veneziani(73).
Inoltre, non solo a Venezia si moriva di più, ma ci si sposava meno e più tardi, e si facevano (complessivamente) meno figli. Nel 1881, quasi il 23% delle donne tra i 45 e i 49 anni risultava ancora nubile, rispetto a una media del 17,8% negli altri capoluoghi veneti, e del 10,1% in tutta la regione. Sempre in base al censimento del 1881, si può calcolare che l'età media al matrimonio per le donne fosse a Venezia di 26,9 anni, mentre era (in media) di 25 anni per le altre città venete, e di 24,3 per il Veneto(74). Allargando ulteriormente il confronto alle maggiori città italiane, Venezia si collocava ancora una volta nettamente all'ultima posizione, in una scala che vedeva Milano all'estremo opposto. Tra 1900 e 1903 il numero di matrimoni per 1.000 abitanti restava a Venezia stabilmente al di sotto di 6, mentre nella città lombarda era sempre superiore a 7, con un massimo di 7,6 nel 1900(75).
Ciò naturalmente non mancava di riflettersi sulla fecondità. Con riferimento al triennio 1880-1882, a Venezia ogni donna aveva in media 3,3 figli, un numero nettamente più basso di quello calcolato per tutti i 56 distretti veneti. Nel resto delle città capoluogo venete il tasso di fecondità totale era in media di 4,2, con differenze che andavano dall'11 al 42% in più rispetto a Venezia, mentre in tutta la regione il tasso era di 4,75. Ma mentre in questa misura incideva principalmente l'elevato numero di nubili (nonostante il contributo non trascurabile della natalità illegittima)(76), molto meno marcata era invece la differenza relativa alla fecondità coniugale, cioè al numero medio dei figli nati all'interno del matrimonio, per la quale lo scarto con le altre città venete restava compreso tra il 5 e il 14% in più(77). Quando tuttavia si sposti il confronto al contesto urbano nazionale, la peculiarità di Venezia emerge ancora per un tasso di fecondità coniugale piuttosto elevato. Tra 1881 e 1901 c'era stato bensì un declino del tasso di fecondità del 4,5%, una misura tuttavia di gran lunga inferiore a quella realizzata a Milano (−22%), Bologna (−18%), Firenze (−17%), Genova (−16%). Di conseguenza, da una posizione intermedia o di relativo vantaggio, Venezia si era trovata nettamente staccata da tutte le città del centro-nord nel 1901, e ancorata piuttosto agli alti livelli di fecondità che continuavano a caratterizzare le città meridionali(78).
Commentando questi ultimi dati, Aldo Contento rilevava opportunamente che "la scarsa discesa delle nascite legittime presso di noi, e la loro relativa elevatezza annuale sono veramente indizi di una diffusa imprevidenza morale dei genitori e quindi di una condizione arretrata nella civiltà generale del popolo"(79). Così come la strada della modernizzazione industriale seguiva a Venezia un percorso asfittico e stentato, anche quella della transizione demografica conosceva ritardi e difficoltà. Non sono tanto i livelli assoluti dei diversi parametri demografici, quanto la loro combinazione, la concomitanza di un'elevata mortalità, sia generale che soprattutto infantile, di una fecondità coniugale sostenuta, di un accesso limitato e tardivo al matrimonio, a delineare un quadro ancora più vicino al vecchio regime demografico che al nuovo. Agli inizi del nuovo secolo, quella di Venezia non è la demografia di un controllo consapevole ed efficace dei fattori che regolano la riproduzione e la morte; essa è ancora, in buona sostanza, una demografia dei poveri.
Nel 1869, la parrocchia dell'Angelo Raffaele aveva 4.427 abitanti, quella di S. Eufemia 2.795(80). Per quanto riguarda il Ghetto, le fonti non riportano una numerazione precisa in quanto il quartiere ebraico non costituiva più un'entità separata dal resto della città. All'indomani della sua apertura, nel 1797, vi vivevano 1.626 persone(81), ma nei decenni seguenti la situazione si era notevolmente modificata: da una parte, in contrasto con l'andamento generale cittadino, la comunità si era accresciuta in modo considerevole, giungendo a 2.415 membri nel 1869; dall'altra, un numero consistente di ebrei aveva approfittato della fine della segregazione per trasferirsi in zone più centrali e prestigiose. Sempre dal censimento del 1869 risulta che ben 568 abitavano nel sestiere di S. Marco, mentre altri 100 vivevano a Castello, quasi tutti nelle centrali parrocchie di S. Zaccaria e S. Maria Formosa, e solo 8 a Dorsoduro. Gli altri 1.739 abitavano ancora a Cannaregio, ma non tutti all'interno del Ghetto: molti avevano infatti preferito spostare la loro residenza nelle sue immediate vicinanze, continuando a mantenere uno stretto contatto col loro antico quartiere. Come è facile immaginare, questo processo di distacco era stato tanto più rapido e deciso quanto più facoltosi ne erano i protagonisti. Mentre gli esponenti della borghesia ebraica più benestante, rapidamente integrata nelle élites cittadine, si erano trasferiti per primi in lussuosi palazzi a S. Marco o lungo il Canal Grande, commercianti e piccoli artigiani si erano allontanati con maggiore ritardo e circospezione, aggregandosi in piccole 'isole' ebraiche all'interno della maggioranza cattolica(82).
Alla fine della anni Sessanta, in Ghetto erano dunque rimasti ormai solo i più poveri, verosimilmente meno di un migliaio di persone. La composizione professionale era però piuttosto varia. Le informazioni sulle occupazioni sono purtroppo tra le meno attendibili dell'anagrafe, in quanto solo sporadicamente venivano aggiornate: ne risulta comunque che il gruppo più numeroso era quello degli 'industrianti', che rappresentava un quinto dei maschi occupati; ma solo di poco inferiori erano i venditori di generi alimentari (17% degli occupati), in gran parte pollaioli e macellai, mentre un altro gruppo consistente era rappresentato dai venditori girovaghi (11%); il resto era frammentato tra lavoranti nelle conterie, tessitori, piccoli artigiani, bottegai, agenti di commercio, addetti al culto. Pochissime sono le donne per le quali è riportata un'occupazione.
Cominciavano appena allora ad affacciarsi in Ghetto i primi non ebrei, attirati dai bassi affitti delle case abbandonate e fatiscenti, ma il processo che agli inizi del Novecento avrebbe portato i cristiani a rappresentare i due terzi degli abitanti non era che agli inizi(83). I forestieri che vi si avventuravano in cerca di sensazioni forti, promesse dal sovrappiù di esotismo orientale offerto dal quartiere ebraico, non ne restavano in genere delusi e avevano facile gioco a marcarne la radicale alterità rispetto ai canoni dell'Occidente civilizzato, peraltro già malfermi nel resto della città. Théophile Gautier, per esempio, a suo dire giunto per caso in Ghetto, racconta come fosse rimasto colpito dalle "figure bizzarre e furtive" che "scivolavano silenziosamente lungo i muri con un'aria timorosa": uomini dai "nasi ricurvi, occhi di carbone in un pallore verdastro, lineamenti affilati, menti appuntiti", coperti di "stracci […] striminziti, pietosi, lucidi di sudiciume". Le case corrispondevano pienamente ai loro abitanti: "Tutte le malattie dimenticate dai lebbrosari d'Oriente sembravano corrodere quei muri rognosi […]. Nessuna linea si manteneva in perpendicolare… un piano rientrava e l'altro sporgeva…"(84). Con minore slancio letterario, ma simile disgusto, William D. Howells descrisse una rapida gita al Ghetto di pochi anni dopo: tali erano la sporcizia e il fetore che dominavano dappertutto incontrastati da spingere lo scrittore e i suoi amici ad andarsene subito, limitandosi a una frettolosa visita a una sinagoga. Il gondoliere che li accompagnava si era persino rifiutato di stendere il suo tappeto per agevolare, come d'uso, la discesa dei clienti dalla barca, riscuotendo peraltro il plauso dei suoi ospiti per tanta cautela. Howells non riusciva a comprendere come qualcuno potesse ancora vivere in un posto così degradato, suggerendo - con dubbia, anche se forse non malevola, ironia - che per i suoi abitanti occorressero secoli di permanenza al cimitero ebraico del Lido, carezzato dalle dolci brezze marine, per ripulirsi di tanta sporcizia. Egli riteneva che dal luridume del Ghetto si fosse sviluppata in passato ogni sorta di malattia contagiosa, propagandosi subito al resto della città, inconsapevole vendetta della natura per le condizioni inumane in cui gli ebrei erano stati costretti a vivere per secoli(85).
È stata giustamente rilevata, in queste e in altre descrizioni simili, anche da parte di visitatori di religione ebraica, la presenza di una componente estetizzante e a tratti antisemita(86). Sarebbe tuttavia improprio ridurre queste testimonianze a una pura collezione di stereotipi negativi. Le condizioni di grave degrado urbanistico in cui si trovava il Ghetto a metà Ottocento sono infatti confermate da fonti numerose e non sospette(87), ed era in primo luogo per il desiderio di trovare una collocazione più accettabile e confortevole che molti ebrei se ne erano allontanati; desiderio cui forse si aggiungeva, specie da parte delle famiglie più ricche, anche l'esigenza di una più completa integrazione sociale con il resto delle élites cittadine. Allontanando ebrei ricchi per accogliere cristiani poveri, il Ghetto finiva così per trascolorare da luogo di segregazione religiosa a quartiere di segregazione sociale, divenendo a suo modo una 'periferia' innestata nel cuore più popoloso della città.
Periferie - e 'ghetti' a loro modo - erano anche l'Angelo Raffaele e la Giudecca: non perché aree di espansione residenziale o di rilocalizzazione di funzioni economiche e sociali espulse dai quartieri centrali - un processo che in effetti le investirà solo qualche decennio dopo - ma perché rappresentavano, sia pure in un contesto urbano dalla forte connotazione popolare, sacche storiche di degrado e di emarginazione, aree marcate da un radicato stigma sociale, che ne faceva, e in parte ancora ne fa, quartieri 'diversi' dal resto della città, in qualche modo inquietanti e pericolosi.
Sulla Giudecca gravava anche l'equivoco di un nome evocatore di un primitivo insediamento ebraico, sì che a Chateaubriand, durante una visita nel 1833, bastava la bellezza esotica di alcune donne per convincersi di aver di fronte gli ultimi rappresentanti degli antichi abitatori dell'isola(88). All'Angelo Raffaele più prosaicamente era l'estremo degrado di un gruppo di case di calle Barbarigo a meritare il nome di ghetto, "perché troppo identico, nella rifiutabile condizione, a quel famoso fabbricato dei secoli che furono": dove è significativo che le condizioni attuali del Ghetto ebraico, che solo quattro anni prima tanto erano spiaciute a Howells, non sembrassero adeguate a descrivere lo stato penoso di quella zona. A scrivere in questi termini era il medico Luigi Scoffo, membro della Giunta sanitaria istituita nel 1865, e protagonista di una vivace polemica con l'autorità municipale sui problemi igienico-sanitari di S. Marta, il quartiere più povero e derelitto della parrocchia(89). Viste di lontano, a Chateaubriand le "catapecchie" dei pescatori di S. Marta erano poeticamente apparse "come quelle di Olpis e di Asfalione, in Teocrito", che avevano "come unico vicino il mare da cui sono bagnate", ma il pregiudizio letterario lo aveva forse tratto in inganno(90). Anche il medico le definiva delle vere e proprie catapecchie, composte "spessissimo [di] un solo locale, camera e cucina insieme" e "prive assolutamente di cessi", dove si assiepavano nondimeno "intere famiglie". Tuttavia né la laguna né i canali erano abbastanza vicini da consentire alle donne di scaricarvi i buglioli, come si usava nel resto della città. Per giungere all'acqua, era necessario percorrere una "lunga e dirupata via" che le "femminucce" preferivano evitare, sicché succedeva che "le lordure e gli escrementi giacessero […] notti e giornate intere esposte in vasi aperti e rotti, entro a quelle stanze o a quei magazzini ove si accumulano anche fino a otto e dieci persone per ciascheduna. E quando che sia, a capriccio vengono asportate a mano fuori di quei tuguri, per essere […] deposte o abbandonate sul prato a poca distanza dalle case stesse […], o nella lunga strada pozzangherosa detta Camatta, vero sterquilinio pubblico anziché ambulacro, e roggia paludosa nei tempi pluviali e nevosi". I vigili urbani confermavano la denuncia del medico: tutte le abitazioni di S. Marta erano "sprovvedute del cesso […], restando quelle calli e contrade tante latrine scoperte, esalando un fettidissimo odore, perché è uso inveteratto di gettare lo sterco fuori dalle porte e dalle finestre". Ma il rimedio proposto dal Comune di obbligarne i proprietari a costruire almeno un gabinetto per edificio non sembrava praticabile, sia perché il costo avrebbe superato il valore delle stesse miserabili abitazioni, per le quali non c'era modo di farsi pagare affitti, sia perché comunque le fosse non avrebbero avuto sfogo in condotte fognarie che il Comune stesso si guardava dallo scavare, nonostante l'assenza totale di pavimentazione rendesse il lavoro meno oneroso(91).
L'insalubrità e la miseria di queste zone si riflettevano sull'aspetto stesso dei loro abitanti. Nei primi anni Trenta, costoro erano apparsi malaticci e catatonici al medico Gaspare Federigo: "Il colore degli abitanti dalla parte di S. Nicolò [dei Mendicoli], dell'Angelo [Raffaele], di S. Marta non è sì bello e vivace, né gli uomini del popolo paiono tanto robusti, stizzosi e di pronta lingua come osservasi nei due sestieri di Canal Regio e di Castello"(92). I patriarchi che nel corso del secolo visitarono la parrocchia, mentre trovavano che "per il numero e la povertà esigesse uno zelo veramente sacerdotale", non mancavano di rilevare che era abitata da un "popolo materiale", incline al disordine, che viveva in un clima di "immoralità diffusa"(93).
S. Marta era in gran parte abitata da pescatori di laguna: più della metà dei maschi esercitava questo mestiere, specialmente nelle paludi circostanti di Fusina e dei Bottenighi. Non di rado essi si scontravano violentemente con pescatori di altre zone, soprattutto chioggiotti e buranelli, accusati di usare "serragli" e "cogoletti" vietati dalla legge e di rovinare il fondale con la pesca dei crostacei, a quanto pare con poca differenza da quanto avviene tutt'oggi. Nel 1865 alcuni di loro si offersero di accompagnare gratuitamente con le loro barche la polizia municipale in servizi di ronda per reprimere gli abusi, rispolverando un'antica prerogativa di vigilanza della comunità dei nicolotti(94). La proposta venne accolta, ma le prime ispezioni misero in luce che anche molti pescatori dell'Angelo Raffaele violavano le norme, in particolare i pescatori di anguille, sicché ne scaturì uno scontro di fazioni locali altrettanto violento(95).
Il resto della parrocchia aveva una composizione professionale più varia, anche se sempre legata a mestieri lagunari: in gran parte si trattava di barcaioli e di "burchiai", cioè di addetti al trasporto acqueo di persone e merci, e di facchini. Considerevole era anche il numero dei calafati, impiegati nei numerosi cantieri per la costruzione e la riparazione di imbarcazioni medio-piccole. Le donne erano occupate soprattutto come impiraresse (infilzaperle). Seguivano distanziate di poco le berrettaie, le cucitrici, le tessitrici, e infine le operaie della vicina Manifattura Tabacchi(96). La varietà delle occupazioni dichiarate non deve comunque trarre in inganno circa l'estrema indigenza che caratterizzava gran parte della popolazione. In una nota informativa alla prefettura del 1867, il commissario di polizia di Dorsoduro ribadiva che la parrocchia dell'Angelo Raffaele era la più misera di Venezia, stimando che gli iscritti nel registro dei poveri fossero oltre 3.500. La grande frequenza con cui il parroco rilasciava attestati di povertà aveva insospettito la nuova amministrazione, ma il commissario aveva appurato che si trattava purtroppo di concessioni del tutto giustificate, anche quando a beneficiarne erano persone di condizione meno disagiata, come operai specializzati, artigiani, negozianti. D'altronde, la questua era così diffusa e importuna da costituire un problema di ordine pubblico: i mendicanti si concentravano in massa dalle parti di S. Barnaba, e pretendevano con la forza e le minacce l'elemosina dai passanti. Il loro numero era tale che neppure la polizia osava intervenire(97).
Come è facile immaginare, all'Angelo Raffaele il numero di analfabeti era estremamente elevato: secondo il censimento del 1869, appena un quinto dei maschi e una quota ancora più bassa delle femmine era in grado di leggere; nel complesso gli alfabeti non superavano il 18% del totale. I dati sulla capacità di leggere e scrivere vanno sempre usati con grande circospezione; tuttavia in questo caso la distanza rispetto alle altre parrocchie è tale da lasciare pochi dubbi sul loro significato. L'Angelo Raffaele era infatti la parrocchia veneziana con i tassi di alfabetismo di gran lunga più bassi. La media per l'intera popolazione cittadina era del 51%, con punte superiori al 70% per S. Marco, S. Maria del Giglio, S. Luca. Dopo l'Angelo Raffaele, la parrocchia che si trovava nella situazione peggiore era quella di S. Giovanni in Bragora, anche a causa del numero elevato di bambini in età prescolare ospitati all'Istituto della Pietà: nondimeno, la percentuale degli alfabeti era qui superiore a 29. Alla Giudecca, che pure si trovava tra le parrocchie più sfavorite, il 44% degli abitanti sapeva leggere. Purtroppo, per i motivi già ricordati, non disponiamo di dati relativi agli abitanti del Ghetto né per la comunità ebraica nel suo complesso. Non c'è dubbio, tuttavia, che tra gli ebrei il livello di istruzione fosse sensibilmente più elevato che nel resto della città. Mentre le famiglie più ricche disponevano di propri istitutori, in Ghetto le scuole religiose e numerosi istituti privati consentivano anche ai più poveri l'accesso a una formazione scolastica particolarmente efficace e capillare, estesa sin dal primo Ottocento anche alle ragazze(98).
Le condizioni urbanistiche della Giudecca erano differenti da quelle sia del Ghetto che dell'Angelo Raffaele. Gran parte dell'isola era coperta di giardini, ortaglie e terreni incolti, e la densità abitativa era estremamente bassa: appena 123 abitanti per ettaro di superficie edificata, quando la media per l'intero comune era di 518. Con 800 abitanti per ettaro, l'Angelo Raffaele si poneva invece al quarto posto tra le parrocchie a maggiore densità, molto al di sopra della media cittadina(99). Quanto al Ghetto, nonostante il processo di spopolamento in atto, si può ritenere che continuasse a mantenere un grado di affollamento piuttosto elevato nei suoi peculiari edifici, alti fino a sette, otto piani. Tuttavia la bassa densità della Giudecca non significa necessariamente che le condizioni igienico-ambientali fossero molto migliori. I verbali della commissione istituita nel 1873 per verificare lo stato di salubrità delle case offrono resoconti impressionanti della situazione esistente nell'isola, con il consueto quadro di abitazioni prive di gabinetti, e di immondizie ed escrementi accumulati in angoli e calli, talvolta deposti vicino a pozzi le cui acque venivano inquinate dai liquami che colavano attraverso il terreno(100).
Se la popolazione del Ghetto era prevalentemente costituita da giornalieri o da piccoli artigiani e venditori al dettaglio, e quella dell'Angelo Raffaele era dedita in gran parte alla pesca, gli abitanti della Giudecca avevano invece un profilo operaio più marcato. I pescatori erano anche qui piuttosto numerosi, ma non superavano l'8% della popolazione maschile attiva. Più importanti gli addetti allo scarico delle merci e al loro trasporto acqueo, che trovavano lavoro nei molti magazzini e depositi merci collocati nell'isola: i facchini superavano l'11% del totale, e i barcaioli il 10. Ma era considerevole anche il numero di operai nel settore manifatturiero, che nel complesso rappresentava un terzo dell'occupazione maschile: in particolare, la fabbricazione delle gomene impiegava quasi un quinto del totale, specialmente per la pettinatura della canapa. Un altro 8% era impegnato nella lavorazione del cuoio, mentre quote minori lavoravano in fornaci e nella tessitura del cotone. Quest'aspetto più marcatamente proletario trovava conferma nella composizione dell'occupazione femminile: ben il 27% delle donne occupate lavorava nella pettinatura della canapa, mentre le impiraresse rappresentavano il 21% del totale. Le domestiche arrivavano al 13%. Seguivano le cucitrici, le tessitrici, le sarte e le tabacchine. Benché i dati sull'occupazione femminile siano ancor meno affidabili di quelli relativi agli uomini, può essere interessante notare che nel censimento del 1869 la Giudecca era una delle parrocchie con il tasso più alto di occupazione femminile: circa il 38% della popolazione, rispetto al 29% dell'intera città(101). Ma ancora una volta occorre evitare di tradurre automaticamente le informazioni sulle occupazioni in termini di relativo benessere. Howells testimonia che i mendicanti della Giudecca erano conosciuti come i più aggressivi e violenti, e che non esitavano a trasformarsi in ladri appena ne avevano l'occasione. All'inizio era rimasto sconcertato di fronte a tanti sfaccendati questuanti, ma poi aveva capito che "in molti casi essi sono oziosi per la disperazione di trovare lavoro, e che l'indolenza è tanto il loro destino quanto la loro colpa". E continuava: "Non c'è lavoro né denaro; la gente deve pur fare qualcosa; così ruba"(102).
Ovviamente, i temuti mendicanti giudecchini non esercitavano la questua nella loro isola, dove poco avrebbero potuto raccogliere, ma si spostavano dalle parti di S. Marco e Rialto, nelle zone più frequentate dai turisti, così come quelli dell'Angelo Raffaele si insediavano in massa a S. Barnaba. Fra gli abitanti delle rispettive parrocchie, i mendicanti erano verosimilmente coloro che con maggiore frequenza e regolarità ne varcavano i confini. Il sistema urbano-residenziale veneziano appariva come un conglomerato di isolati sociali scarsamente comunicanti tra loro: la modesta propensione alla mobilità, soprattutto per gli strati sociali più poveri, costituiva una proverbiale caratteristica della popolazione, di cui permane ancora qualche debole eco nella cultura popolare. Del resto, la stessa morfologia cittadina, largamente dipendente dai traghetti, rendeva gli spostamenti molto più difficoltosi che nei centri di terraferma. Secondo Madame de Staël, ancora nel primo Ottocento "a Venezia ci sono uomini del popolo che non si sono mai mossi da un quartiere all'altro, che non hanno mai visto piazza S. Marco, e per i quali la vista di un cavallo e di un albero sarebbe una vera meraviglia"(103). L'albero era probabilmente un'esagerazione, anche se la città di allora non era così popolata di ippocastani come l'attuale, ma certo non lo era il cavallo e forse neppure la Piazza. Tra i tanti aspetti straordinari del crollo del campanile di S. Marco, il 14 luglio 1902, pare ci sia stato anche il fatto che abbia attirato a vederne le macerie molti che non erano mai stati in centro prima di allora(104).
È presumibile che soprattutto in aree marginali come l'Angelo Raffaele e la Giudecca, e in parte anche per gli ebrei del Ghetto, le opportunità di varcare i confini di un microcosmo chiuso tra poche calli e campielli fossero piuttosto limitate. Purtroppo la mobilità urbana è un aspetto delle relazioni sociali tanto interessante quanto difficile da documentare nelle sue cadenze quotidiane. Tuttavia non mancano indicazioni indirette che sembrano confermare come la vita degli abitanti si svolgesse in gran parte all'interno di un orizzonte sociale molto ristretto. In particolare, come si è visto, l'anagrafe comunale riporta con una buona attendibilità(105) gli indirizzi presso i quali hanno abitato le famiglie nel corso del tempo, con le relative date di trasferimento, il che consente di seguirne gli spostamenti attraverso la città. Nel complesso, il campione utilizzato per questo studio riporta oltre 34.000 trasferimenti, un numero davvero elevato, come avremo subito modo di vedere. Ebbene, l'87% risulta di tipo intraparrocchiale, resta cioè all'interno della stessa parrocchia di provenienza. Come è lecito attendersi, questa quota è leggermente diversa tra le tre aree considerate: maggiore alla Giudecca, dove tocca 9 casi su 10, e minore per il Ghetto (71%), mentre all'Angelo Raffaele riguarda l'84% del totale(106). Nel complesso comunque quello che ne deriva è una sostanziale stabilità, o continuità, della popolazione nel corso del tempo. In effetti, se si fa un confronto tra la parrocchia di abitazione all'inizio della rilevazione e quella alla fine della stessa, vale a dire vent'anni dopo, si trova che gran parte della popolazione non aveva cambiato affatto: ancora, la stabilità era ovviamente maggiore alla Giudecca, dove il 92% delle famiglie era rimasto nella parrocchia dove risiedeva nel 1850, e solo lievemente inferiore all'Angelo Raffaele, dove riguardava l'84% del totale, e nel Ghetto (82%). Un risultato che conferma e completa il dato rilevato più sopra circa la scarsa presenza tra gli abitanti di persone nate fuori del comune: quanto e forse più di una comunità rurale, queste zone cittadine appaiono sorprendentemente come dei villaggi urbani(107), piuttosto racchiusi in se stessi che disposti ad accogliere nuove forze dall'esterno e soggetti a un continuo ricambio della popolazione, come ci si aspetterebbe da una società urbana. Anche questo aspetto testimonia dunque in modo molto eloquente la depressione attraversata da Venezia a metà Ottocento(108).
Nello stesso tempo, a fronte di questa sostanziale stabilità, gli abitanti di queste aree mostrano una non meno inaspettata propensione alla mobilità residenziale. Si può calcolare che in media ogni famiglia cambiasse casa ogni dieci anni o poco meno. Questi valori medi riassumono però situazioni molto diverse tra loro. La frequenza dei traslochi era infatti distribuita in modo alquanto diseguale. Delle 2.254 famiglie prese in esame, circa un terzo non cambiò mai casa durante i vent'anni documentati dall'anagrafe, un quarto traslocò una volta sola, un sesto 2 volte, un decimo 3 volte. Dal lato opposto, 13 famiglie cambiarono residenza più di 10 volte, 1 ben 17 volte. Tuttavia bisogna considerare che, allo stesso modo degli individui, non tutte le famiglie sono presenti per l'intero periodo preso in considerazione: alcune nuove si formano o immigrano mentre altre si estinguono o emigrano. Pertanto per avere una misura più corretta occorre pesare la frequenza dei cambi di residenza con la durata del periodo di osservazione. Ne risulta che il 20% delle famiglie più mobili cambiava casa in media ogni 3 anni, il quarto più mobile ogni 4 anni, la metà ogni 6.
Comunque lo si misuri, si tratta certamente di un ritmo alquanto elevato, specie se paragonato alla staticità che contraddistingue la situazione odierna. Purtroppo, salvo poche eccezioni(109), gli storici non hanno dedicato molta attenzione alla mobilità residenziale intraurbana, e confronti precisi con situazioni analoghe non sono possibili. L'analisi più dettagliata riguarda Montreal nel secondo Ottocento, dove sono stati rilevati tassi equivalenti a quelli veneziani. Tuttavia bisogna considerare che la città canadese stava sperimentando allora un intenso processo di industrializzazione e uno sviluppo demografico sostenuto, che fece triplicare la sua popolazione nel giro di quarant'anni(110), sicché anche i fattori che sottostavano a questo comportamento erano presumibilmente molto diversi.
Cosa spingeva a cambiare casa così di frequente? Gli studi sulle città contemporanee hanno evidenziato i fattori che influenzano maggiormente la mobilità residenziale. Molti di questi sono legati al ciclo di vita della famiglia(111). Ovviamente gli anziani si muovono meno volentieri dei giovani; anche i genitori di bambini piccoli preferiscono evitare di turbare il processo di socializzazione dei figli con un cambio di residenza, a meno che non si tratti di trovare un quartiere più favorevole alla loro crescita. Le famiglie sovraffollate tendono invece a spostarsi più spesso, in cerca di sistemazioni più adatte alla loro dimensione(112). Educazione e condizione sociale incidono positivamente sulla propensione alla mobilità, mentre l'inserimento in reti di relazione particolarmente forti e in gruppi socialmente e culturalmente omogenei risulta un potente fattore di freno(113).
Fino a che punto le caratteristiche della mobilità residenziale nella società contemporanea possono estendersi anche a una realtà urbana e sociale così diversa e peculiare come quella veneziana di metà Ottocento? L'anagrafe consente di verificare in quali condizioni familiari i cambi di residenza erano più frequenti, e sorprendentemente il quadro che ne emerge conferma in gran parte i modelli di comportamento contemporanei. Per esempio, la propensione alla mobilità è chiaramente collegata all'età del capofamiglia, declinando bruscamente man mano che questa aumenta. Una giovane coppia appena formata, diciamo attorno ai 25 anni, ha una propensione a cambiare casa doppia rispetto a una famiglia il cui capo abbia tra i 46 e i 65 anni di età, e più che doppia se l'età del capo è superiore ai 65 anni(114). Egualmente, sia i salariati che gli artigiani e i negozianti tendono a spostarsi con maggiore frequenza rispetto ai più poveri, industrianti, giornalieri o pescatori che siano. Ancora, le famiglie più numerose si muovono di più di quelle di piccole dimensioni; basta anzi che i membri di una famiglia aumentino di una unità perché la probabilità che questa cambi casa cresca di un quarto.
Vi sono però anche altri due aspetti che merita evidenziare. Il primo riguarda la relazione tra mobilità e congiuntura economica. Un aumento dei prezzi si ripercuote infatti in modo molto marcato sulla volatilità della residenza. Come sappiamo, il ventennio preso in considerazione fu colpito da una crisi economica particolarmente drammatica: tra 1854 e 1859 i prezzi dei generi di prima necessità crebbero enormemente, mantenendosi su livelli doppi rispetto a quelli precedenti; come vedremo tra breve, anche la mortalità aumentò in modo considerevole, specie ai danni delle fasce di età più deboli, bambini e anziani, anche a causa di due epidemie di colera e di morbillo. Il fatto che i cambi di casa arrivino quasi a triplicare di intensità(115), verosimilmente per la difficoltà di pagare l'affitto, indica chiaramente come la mobilità intraurbana possa essere espressione di un forte disagio sociale.
L'altro aspetto riguarda l'effetto che la presenza di parenti nel quartiere può esercitare sulla probabilità di cambiare casa. Ci si può aspettare infatti che la dimensione e la composizione della rete parentale influiscano sulla mobilità, generalmente in termini di freno(116). Nei quartieri neri delle metropoli americane, uno dei motivi che scoraggiano la mobilità è proprio il desiderio di stare vicini a parenti ed amici, il che si riflette negativamente sulla stessa mobilità sociale(117). Nelle società asiatiche contemporanee, la vicinanza ai genitori tende a sostituirsi alla tradizionale coabitazione tra generazioni diverse(118). D'altronde le risorse informative e relazionali di una vasta rete parentale possono ampliare l'arco delle opportunità e rendere la mobilità più facile(119). In effetti, anche alla Giudecca e all'Angelo Raffaele chi può far conto su di una parentela numerosa dimostra una mobilità più intensa(120). Ma l'aspetto più importante riguarda senza dubbio l'influenza dei legami intergenerazionali. A questo proposito, è interessante notare che questi influiscono in modo significativo solo attraverso le relazioni femminili, sia pure agendo curiosamente in direzioni opposte: in sostanza, le madri che hanno figlie presenti si muovono di meno, mentre le figlie la cui madre sia presente si muovono invece di più. È difficile formulare un'interpretazione coerente di questi risultati, ma resta il fatto che sono soprattutto le donne a determinare la strategia residenziale, se possiamo chiamarla così, delle famiglie: un risultato coerente con molti studi che sottolineano la preminenza delle reti femminili nel controllo e nel mantenimento delle relazioni sociali nelle comunità urbane(121).
Resta comunque il fatto che, in questo come in molti altri aspetti demografici e sociali, le vicende delle famiglie e degli individui che ne fanno parte sono fortemente condizionate dal contesto relazionale in cui sono inserite. È questo un aspetto abbastanza ovvio alla nostra esperienza quotidiana, ma spesso trascurato o disatteso da un approccio storico e sociologico che tende piuttosto a considerare le famiglie come unità autonome e chiuse in se stesse. Una conseguenza necessaria di un simile punto di vista atomistico è l'attenzione preminente per la classificazione delle tipologie familiari, definite in base alla composizione del gruppo coresidente e alle relazioni che ne legano i membri. Questo presuppone a sua volta che una famiglia sia sempre chiaramente definibile e identificabile, e che evolva nel tempo seguendo un preciso ciclo di vita, dalla formazione all'estinzione. Tuttavia, per quanto in taluni contesti, soprattutto rurali, un simile approccio possa anche apparire appropriato, in molti altri casi esso comporta invece un appiattimento eccessivo della realtà. L'esempio di Aronne, riportato all'inizio di questo capitolo, mostra chiaramente come le famiglie ricorressero a continui aggiustamenti nella loro composizione, organizzazione e abitazione. A seconda dei casi o delle esigenze, esse si spostavano, si riunivano e si dividevano incessantemente. Specie quando tali riconfigurazioni sono ripetute e frequenti, pretendere di definire i confini di una famiglia può rivelarsi un'operazione arbitraria anche se formalmente ineccepibile. Certo è pur sempre possibile determinare coloro che, di volta in volta, "vivevano sotto lo stesso tetto", come del resto le fonti stesse ci spingono fortemente a fare, e su questa base operare le consuete classificazioni; tuttavia c'è ragionevolmente da dubitare che anche Aronne pensasse alla sua famiglia in termini così circoscritti ed esclusivi(122).
Uno dei motivi per cui si studiano le strutture familiari è perché si ritiene che diverse forme di organizzazione dell'aggregato domestico rispecchino anche diversi tipi di relazioni tra le generazioni: strette e cooperative dove prevale la coabitazione, allentate e autonome nel caso contrario. Pur partendo da punti di vista e sistemi di valori differenti, le principali 'teorie' sulle strutture familiari concordano nel considerare il predominio assoluto della famiglia nucleare, autosufficiente e fortemente segregata, con scarse relazioni di parentela e deboli legami tra membri di generazioni diverse, come una caratteristica peculiare della moderna società occidentale, urbanizzata e industrializzata(123). Peter Laslett ha poi corretto questa visione, sostenendo che il predominio delle famiglie nucleari era molto più ampio e precoce rispetto al processo di industrializzazione: sin dalla prima età moderna, in gran parte dell'Europa occidentale i legami tra le famiglie erano molto deboli, l'indipendenza individuale era molto più importante della solidarietà di gruppo, le relazioni tra genitori e figli venivano interrotte molto precocemente e definitivamente; la cura per gli anziani, i malati, i membri più deboli della società era lasciata alle istituzioni pubbliche, anche perché parenti che potessero assumersene l'obbligo o semplicemente non erano presenti o comunque non erano disposti a farlo(124).
Tuttavia un numero considerevole di ricerche empiriche ha smentito sistematicamente gran parte di queste ipotesi. Per esempio, in molti casi le famiglie estese, anziché sparire, hanno accresciuto notevolmente la loro importanza durante il processo di industrializzazione(125). Inoltre, si è riscontrato che tra le famiglie operaie urbane il controllo dei genitori sui figli era altrettanto se non più stretto di quanto non fosse nelle campagne: non solo i figli coabitavano a lungo con i genitori, talvolta anche dopo il loro matrimonio, ma anche quando li abbandonavano per andare a servizio, restavano legati alla famiglia di origine, non se ne allontanavano troppo, tornavano spesso a casa e vi mandavano gran parte dei loro risparmi(126). Quanto alle reti parentali, si è visto che queste non solo erano presenti e ben ramificate, specie nelle comunità rurali, ma che venivano regolarmente utilizzate come fonte di aiuto e sostegno reciproco(127).
Si può dire lo stesso per le famiglie veneziane? Gli studi ora rapidamente richiamati si riferiscono quasi esclusivamente all'Europa nordoccidentale e agli Stati Uniti, mentre ancora poco si sa su questo tema per l'Italia, specie in ambito urbano. Da una parte, le culture latine e mediterranee sono state spesso contrapposte a quelle dell'Europa settentrionale proprio per la forza persistente dei legami familiari che le caratterizzerebbe(128). Dall'altra, le condizioni sociali veneziane sembrano favorire un sistema di relazioni piuttosto allentato. Anche senza accogliere la tesi degli osservatori contemporanei sulle minacce che dalla vita urbana venivano alla solidità e all'integrità delle famiglie(129), non c'è dubbio che una grande città come Venezia offrisse molte opportunità di sfuggire all'autorità dei genitori e degli anziani. La stessa estensione del settore 'informale' dell'economia - l'accattonaggio, il contrabbando, la pesca, il facchinaggio, o altre attività 'irregolari' - che interessa le fasce più marginali della popolazione dovrebbe facilitare l'instaurarsi di relazioni familiari fragili e volatili(130). Inoltre, le occupazioni prevalenti nel settore manifatturiero non sembrano richiedere un controllo rigoroso del capofamiglia sull'attività di tutti i suoi membri, come accade invece dove l'intero gruppo è coinvolto nel processo produttivo, in particolare nei centri in cui si sviluppa l'industria tessile(131). Infine, la presenza di un sistema ramificato ed efficiente di assistenza pubblica dovrebbe garantire un sostegno sostitutivo agli anziani e ai bisognosi, liberando da questo impegno figli e parenti(132).
La natura delle relazioni all'interno dei gruppi parentali costituisce dunque una chiave di lettura molto importante del funzionamento di un sistema sociale, osservato al suo livello più elementare e fondamentale. Purtroppo, specie per i ceti sociali più poveri, disporre di una documentazione diretta in merito è molto difficile. Se si guarda a un'evidenza indiretta, come quella fornita dalle strutture familiari, l'impressione che si ricava sembra confermare l'ipotesi di un sistema caratterizzato da legami deboli. Come è facile aspettarsi, anche nel caso veneziano la proporzione delle famiglie nucleari è alquanto elevata, superando il 60% del totale; molto consistente è anche il numero dei solitari e dei gruppi coresidenti non classificabili come famiglie, che raggiunge nel complesso un quarto del totale. Una quota relativamente piccola, inferiore al 10%, riguarda le famiglie estese, mentre quelle multiple si aggirano attorno al 5%. La dimensione media delle famiglie è di conseguenza piuttosto piccola, attestandosi sulle 3,6 persone(133).
Come si è detto, tuttavia, le strutture dei gruppi coresidenti sono spesso un indicatore piuttosto povero della natura delle relazioni familiari. Può essere che, quando si muore piuttosto presto e ci si sposa piuttosto tardi, la coresidenza di genitori e figli sposati risulti improbabile, anche laddove fosse ritenuta desiderabile(134). Inoltre, la stessa struttura nucleare può essere del tutto compatibile con forme di sostegno intergenerazionale: è il caso, per esempio, di un figlio, o più spesso una figlia, che non si siano mai sposati ma abbiano continuato a vivere con uno o entrambi i genitori, ormai anziani, proprio per poterli assistere. Senza contare che un tale sostegno può essere fornito anche da figli o altri parenti vicini, senza che questi debbano necessariamente coabitare. In generale, tutti questi aspetti vengono meglio evidenziati se ci si pone da un punto di vista individuale anziché familiare(135).
Un primo punto che occorre verificare riguarda dunque proprio l'effettiva disponibilità di parenti all'interno di una comunità. Gli abitanti delle nostre aree campione avevano in genere parenti cui fare riferimento, o ne erano privi, come vorrebbe Peter Laslett? L'ipotesi che gli accidenti demografici e la mobilità contribuiscano all'isolamento dei nuclei coniugali è stata più volte smentita in ambito rurale, ma la situazione potrebbe essere diversa in città. Come si è visto, tuttavia, nel caso veneziano la popolazione appariva fortemente radicata e stabile, il che avrebbe dovuto favorire la costituzione di ampie reti parentali. In effetti, una ricostruzione della parentela di tutti gli individui presenti nel nostro campione alla fine del 1869 restituisce un quadro dove parcellizzazione e atomismo appaiono più un'eccezione che una regola. Il numero medio di parenti su cui ciascun individuo poteva contare era infatti superiore a 21(136). C'era peraltro una certa variabilità attorno a questo valore medio: il 6% del totale non aveva alcun parente, e il quarto dei presenti più poveri di parentela ne aveva al massimo 5; dall'altra parte, il quarto con più parenti ne contava almeno 24, e il 10% più ricco ne aveva almeno 36. Il numero massimo raggiunto era di ben 91.
Una simile variabilità suggerisce l'esistenza di forti differenze tra famiglie stabili e ben radicate nella comunità, e altre la cui posizione era molto più precaria. In queste differenze esercitava comunque un ruolo rilevante lo stesso ciclo di vita degli individui: mentre infatti il numero medio di parenti restava stabilmente superiore a 20 fino ai 40 anni, diminuiva poi bruscamente nelle età più anziane, fino a ridursi a 9 per gli ultrasettantenni.
Con l'età cambiava ovviamente anche la composizione della parentela. Ma qui, più che seguirne l'evoluzione per i diversi tipi di parenti, conviene concentrarsi sulla relazione chiave, quella tra genitori e figli. Ne emergono alcuni aspetti di grande interesse e in parte inattesi(137). Per esempio, risulta che almeno la metà dei trentenni censiti aveva le madri presenti nelle stesse aree oggetto di studio. La maggior parte di queste donne (il 60%) coabitava con almeno uno dei figli, ma molte altre vivevano nelle vicinanze, nella stessa parrocchia(138). La proporzione rimane piuttosto alta con l'invecchiare degli individui: circa un quarto dei quarantenni ha ancora la madre presente, proporzione che si riduce al 13% per i quarantacinquenni. Quanto ai padri, la maggiore mortalità maschile si riflette in valori sostanzialmente più bassi, già dai 25 anni in poi.
Questi risultati combinano però assieme due forme sostanzialmente diverse di coabitazione, a seconda dello stato civile dei figli. In realtà, la grande maggioranza dei figli che convivono coi genitori non sono sposati: a qualsiasi età, la loro proporzione è da 4 a 5 volte quella dei coniugati. Questo sembra indicare che i figli non sposati generalmente vivono coi genitori fino alla loro morte. Ma c'è un secondo aspetto che merita rilevare. Tra i figli coniugati che coabitano con i genitori, i maschi prevalgono nettamente sulle femmine nei primissimi anni di vita della nuova coppia, mentre successivamente la convivenza riguarda in prevalenza le figlie sposate. Per i maschi, infatti, specie coloro che si sposavano precocemente, la coabitazione poteva rendersi necessaria per l'incapacità di sostenere le spese di un ménage autonomo, piuttosto che scaturire dalla volontà di fornire un supporto ai genitori; una volta messe assieme le risorse necessarie, i figli li abbandonavano e si sistemavano per conto proprio(139). Per le figlie sposate, al contrario, la stabilità sostanziale nelle proporzioni di coloro che convivono coi genitori dai 20 ai 40 anni indica che le ragioni su cui si basavano le loro scelte abitative non erano temporanee, probabilmente perché consideravano il sostegno o i vantaggi che potevano così offrire o ricevere come una caratteristica permanente della loro situazione.
Se passiamo ora a considerare il punto di vista dei genitori, la forza dei legami intergenerazionali emerge con ancora maggiore evidenza. Infatti la grande maggioranza delle persone sposate o vedove vive con i propri figli. Quando almeno un figlio (o una figlia) risulta presente nella popolazione, in 9 casi su 10 i genitori vivono con lui (o con lei): è insomma eccezionale che chi ha dei figli presenti non abiti con uno di loro. Prendendo poi in considerazione lo stato civile dei figli, la coabitazione con figli non sposati appare di gran lunga la soluzione preferita, anche se il suo peso declina con l'età dei genitori. La proporzione di genitori che vivono con un figlio o una figlia coniugati diviene importante solo dopo i 65 anni, e rappresenta la maggioranza dei casi solo quando i genitori raggiungono i 75 anni. È anche interessante notare che le vedove sono molto più propense dei vedovi a vivere con un figlio sposato. Probabilmente gli uomini preferiscono mantenere la loro indipendenza, che potrebbe essere messa in discussione dalla convivenza con un figlio o un genero padri di famiglia. Ma quando il vedovo raggiunge i 75 anni i casi di coabitazione crescono bruscamente: a questa età la dipendenza è ormai acuta e ogni conflitto con la generazione più giovane dovrebbe essere ormai fuori questione.
La grande maggioranza dei genitori viveva insomma assieme o almeno vicino ai figli durante l'intero corso della loro vita. Anche in un contesto urbano e socialmente degradato come quello veneziano, apparentemente favorevole alla volatilità e alla frammentazione delle relazioni di parentela, un solido legame continuava a tenere unite le diverse generazioni, assicurando un reciproco appoggio la cui intensità e direzione variavano col ciclo di vita degli individui coinvolti. Nonostante a Venezia fosse presente un diffuso e ramificato sistema di assistenza sociale, gli abitanti di queste aree continuavano ad avere nella famiglia il loro fondamentale punto di riferimento.
Come si è visto, per essere efficace il sistema delle relazioni di parentela richiedeva continui aggiustamenti nella collocazione, composizione e organizzazione dei gruppi domestici. Tuttavia il matrimonio costituiva indubbiamente uno dei momenti principali della vita familiare. Attraverso di esso si definiva chi tra i figli doveva sposarsi, dove avrebbe vissuto la nuova coppia, su quali risorse poteva contare, che tipo di relazioni avrebbe avuto nei confronti di entrambe le famiglie di origine, come dovevano essere ridistribuiti compiti e funzioni all'interno di queste ultime. Si trattava insomma di un vero e proprio affare di famiglia, la cui gestione andava assai al di là dell'ingerenza nella scelta del coniuge, come si pensa in genere contrapponendolo al matrimonio d'amore, più vicino alla nostra sensibilità. Quale che fosse l'oggetto di tale scelta, ogni matrimonio era comunque il risultato di una complessa interazione di aspirazioni individuali, relazioni autoritative e norme culturali, prodotte, elaborate e mediate all'interno del gruppo domestico.
Lo studio della nuzialità ha finora trascurato il peso di questi condizionamenti familiari e il modo in cui essi operavano. In campo demografico si tende piuttosto a considerare il matrimonio come un'aspirazione sostanzialmente universale, la cui soddisfazione è condizionata da fattori di natura socioeconomica. È implicita in questo punto di vista l'idea di un 'mercato matrimoniale' dove domanda e offerta si incontrano a un livello determinato da aspetti aggregati quali il rapporto (numerico) tra maschi e femmine, la pressione demografica, la congiuntura economica, la disponibilità di abitazioni, e così via. Quando le condizioni del 'mercato' si presentavano in modo sfavorevole, poteva risultare necessario posporre o rinunciare del tutto a sposarsi. Secondo la nota concezione di Malthus(140), il controllo della nuzialità e, per conseguenza, della fecondità coniugale, costituiva la chiave per una crescita equilibrata della popolazione, in armonia con le risorse disponibili: quanto meno e quanto più tardi ci si sposava, tanti meno figli si sarebbero messi al mondo. Al contrario, dove il matrimonio era generalizzato e precoce, erano le inevitabili crisi di mortalità a riportare l'equilibrio tra risorse e popolazione. Malthus riteneva che questo tipo di "controllo positivo" (positive check) predominasse nelle società asiatiche(141), laddove invece quella europea appariva caratterizzata da una limitazione rigorosa dell'accesso al matrimonio: secondo il modello delineato da John Hajnal in due famosi saggi(142), in Europa occidentale ci si sposava tardi perché occorreva prima mettere da parte le risorse necessarie alla costituzione di un nuovo ménage indipendente, mentre una quota considerevole della popolazione era costretta a rinunciare del tutto al matrimonio. Nelle città, in particolare, dove il costo della vita era più elevato, questo comportamento sarebbe stato seguito ancora con maggior rigore che nelle campagne(143).
Benché costituisca tuttora un punto di riferimento fondamentale, questo modello appare tuttavia poco realistico e inadeguato a definire il regime della nuzialità in ampie aree europee. In tutta la zona mediterranea, e particolarmente in Italia, coesisteva una varietà di sistemi di formazione della famiglia e di accesso al matrimonio che male si adattano ai rigidi parametri stabiliti da Hajnal(144). Inoltre, presupporre che vi sia un'aspirazione generalizzata al matrimonio, frenata solo da ostacoli esterni di natura economica, appare troppo semplicistico, specie quando, a partire dall'Ottocento, i vincoli di tipo malthusiano dovrebbero essersi allentati(145). Molte altre considerazioni, individuali e familiari, potevano spingere verso matrimoni tardivi e livelli di celibato definitivo ancora elevati(146).
Come si è già avuto modo di vedere, proprio Venezia sembrerebbe rappresentare un chiaro esempio di autolimitazione malthusiana: nel 1881, quando la ripresa economica era appena agli inizi, età al matrimonio e celibato definitivo restavano di gran lunga i più alti di tutta la regione. Tuttavia la semplice constatazione che erano comunque gli appartenenti ai ceti più poveri a sposarsi con maggiore frequenza lascia intendere come una spiegazione puramente economica della nuzialità risulti inadeguata. Per esempio, a Venezia il peggioramento della congiuntura non sembra avere avuto alcuna influenza sulla propensione al matrimonio, come ci si aspetterebbe. D'altra parte, sono proprio i membri del ceto sociale più basso, quello degli industrianti, pescatori, facchini, che si sposano con maggiore frequenza e più precocemente. L'età media al matrimonio per i maschi di questo gruppo è infatti di 27,7 anni, contro i 30,4 dei membri del ceto medio; per quanto riguarda le donne, la differenza è invece di soli 6 mesi, passando dai 25,5 anni ai 26,1(147). Ma ancor più che i tempi di accesso al matrimonio, era soprattutto il celibato definitivo a marcare la differenza nei comportamenti nuziali. Ancora limitando il confronto ai due estremi delle gerarchie sociali, mentre a 45 anni quasi un quarto delle donne di condizione borghese risultava ancora nubile, oltre 9 donne su 10 degli strati più poveri risultavano sposate. Similmente, per quanto riguarda gli uomini la percentuale dei celibi alla stessa età era di solo 15 per i giornalieri e di ben 34 per gli appartenenti al ceto medio. Fosse per imprevidenza, o perché avviare una nuova famiglia non risultava poi così costoso, o più probabilmente perché comunque l'appartenenza a un nucleo familiare garantiva una qualche forma di reciproco sostegno che risultava difficile surrogare altrimenti, resta il fatto che proprio i più poveri e diseredati risultavano lungi dal seguire i comportamenti 'virtuosi' raccomandati da Malthus. Al contrario, proprio quanti si trovavano in condizioni meno precarie tendevano maggiormente a sfuggire al matrimonio, ritardandolo o evitandolo del tutto: un fenomeno che non era sfuggito agli osservatori contemporanei, i quali l'avevano associato ora all'emulazione della cultura aristocratica settecentesca, incline piuttosto a una concezione libertina e godereccia della vita, aliena dall'assunzione di responsabilità coniugali, ora invece alla profonda depressione morale diffusa nella città, per cui la disperazione per il futuro avrebbe dissuaso molti dal costruirsi una famiglia(148): due spiegazioni a ben vedere piuttosto complementari che antitetiche.
Nel modello di Hajnal, il peso assunto dai condizionamenti economici deriva dal presupposto che predomini un sistema di formazione degli aggregati domestici in cui ogni nuova coppia forma una famiglia autonoma al momento della sua costituzione: a questo scopo, essa deve accumulare risorse maggiori di quelle che servirebbero nel caso di una coabitazione, anche temporanea, coi genitori di uno degli sposi. Di qui la necessità per i giovani di entrambi i sessi di trascorrere lunghi periodi di lavoro fuori casa come apprendisti, domestici o garzoni - secondo il sistema del cosiddetto life-cycle service - spesi a mettere da parte quanto occorreva per sposarsi. In realtà, tuttavia, il modello neolocale era ben lungi dal rappresentare ovunque un imperativo assoluto: non solo in Italia, dove esisteva una varietà di forme alternative di formazione della famiglia(149), ma anche in un paese come l'Inghilterra, dove il life-cycle service era caduto largamente in disuso già dal primo Ottocento(150), e dove addirittura oltre il 40% delle coppie di nuova formazione trascorreva un certo periodo presso i genitori prima di costituire un ménage autonomo(151).
Come si può immaginare ripensando al rilievo assunto dalla coabitazione tra genitori e figli, anche a Venezia la situazione non era molto differente, anche se purtroppo non è facile darne un riscontro preciso. La pratica seguita dagli impiegati dell'anagrafe di compilare talvolta un foglio di famiglia separato per la nuova coppia, anche se questa coabitava in realtà con un altro nucleo(152), fa infatti apparire come autonome anche coppie che in realtà non lo sono affatto. In tutto, la fonte riporta notizia di 702 matrimoni. Nel 17% dei casi la moglie raggiunge il marito nella casa dei suoi genitori, e solo nel 6% avviene il contrario; per il restante 77% il matrimonio avrebbe portato alla costituzione di una coppia indipendente. Tuttavia, basta controllare l'indirizzo della nuova coppia al momento del matrimonio con quello dei rispettivi genitori, per ricavare un quadro alquanto differente: infatti, nei 230 casi in cui tale controllo è possibile, risulta che solo un terzo delle nuove coppie si stabilì effettivamente per conto proprio, mentre gli altri andarono a vivere presso i genitori di uno dei due sposi, preferibilmente del marito. In definitiva, una quota molto alta, anche se purtroppo imprecisata, di coppie trascorreva almeno una parte della sua vita coniugale coabitando con i genitori.
Rispetto al problema del matrimonio, individui e famiglie avevano dunque di fronte varie soluzioni possibili, che rispondevano in modo diverso ad esigenze e aspettative degli uni e degli altri. Per esempio, sposarsi in casa consentiva in media di anticipare il matrimonio, di qualche mese per gli uomini ma di ben un anno e mezzo per le donne. Ma i fattori che incidevano sulle diverse scelte od opportunità erano ovviamente molto più vari e complessi(153). Se per esempio il variare della congiuntura economica non sembra influire significativamente sulla probabilità di sposarsi, risultano invece avere un grande peso aspetti legati alle risorse sociali sulle quali ciascuna famiglia può fare conto. In particolare, per gli immigrati le probabilità di sposarsi e mettere su casa per conto proprio risultano la metà di quelle dei veneziani, tanto maschi che femmine, a meno che non si adattino a stare con il coniuge presso i genitori(154). D'altra parte, poter contare su di una vasta rete parentale facilita considerevolmente l'organizzazione di un matrimonio, e in misura maggiore per gli uomini che per le donne. A parità delle altre condizioni, i maschi che appartenevano al 20% di famiglie più ricche di parentela (almeno 20 parenti) avevano una probabilità di sposarsi che era maggiore di oltre 2 volte e mezza rispetto a quanti si trovavano nel 20% più povero di parenti (al massimo 4). Lo stesso valeva per le donne, ma in misura sensibilmente minore, il che sembrerebbe indicare che le risorse, sia materiali che relazionali, messe a disposizione dalla rete della parentela erano usate preferibilmente per maritare un figlio, mentre non erano necessarie od opportune quando la cosa riguardava una figlia(155).
Ma ovviamente era soprattutto la situazione interna alla famiglia stessa a influenzare modalità e opportunità di un matrimonio. Vediamo in primo luogo gli aspetti legati alla condizione dei genitori, vale a dire alla loro presenza, al loro stato, alla loro età(156). Apparentemente, nessuno di questi aspetti sembra influire sulla probabilità di sposarsi, il che è almeno in parte inaspettato. Vi sono però alcuni casi particolari ed estremamente significativi che merita sottolineare. Da una parte, infatti, l'assenza dei genitori riduce del 40% la probabilità di sposarsi portandosi la moglie in casa. In effetti, chi si trova in queste condizioni in genere vive da solo, o in aggregati 'non familiari', composti da gruppi di fratelli o parenti, spesso immigrati, oppure fa parte di un ramo collaterale di una famiglia estesa, tipicamente cognati o figli di fratelli: in tutti i casi, queste persone non possono permettersi di accogliere in casa un coniuge, un privilegio o una forma temporanea di sostegno ovviamente riservata ai figli del capofamiglia. Probabilmente, si tratta di persone che mancano anche del sostegno sociale che i genitori possono generalmente garantire.
D'altro lato, è ancor più interessante notare come le possibilità di sposarsi si riducano enormemente quando una donna abiti con una madre anziana e vedova anziché con entrambi i genitori. Questo condizionamento è particolarmente evidente qualora si tratti di un matrimonio che comporti l'abbandono della casa materna: in tal caso le probabilità si dimezzano addirittura. Invece, la presenza della madre vedova risulta leggermente favorevole a un matrimonio che non richieda l'abbandono della madre stessa. Tuttavia soluzioni di questo tipo sono piuttosto rare. Nel caso invece il genitore vedovo sia il padre, le conseguenze sono molto più nette: sulla figlia si esercita allora una forte pressione perché si sposi, a condizione che porti il marito nella casa paterna. Rispetto alle ragazze che vivono con entrambi i genitori, per quante si trovano in questa condizione le possibilità di combinare un matrimonio in cui la coppia si stabilisca presso la casa paterna della sposa sono più che doppie, e crescono ulteriormente nel caso il padre abbia più di 55 anni.
Nel complesso, il quadro che emerge è dunque abbastanza chiaro. La presenza e lo stato dei genitori non influiscono sensibilmente sul matrimonio dei maschi; solo l'assenza di entrambi si rivela un forte ostacolo per i matrimoni in cui la sposa raggiunga il marito nella sua casa. Al contrario, le donne ne sono fortemente condizionate: quando uno dei genitori muore, tocca a una delle figlie prendersi cura del sopravvissuto, continuando ad abitare con lui. Ciò avviene in genere in due modi antitetici: da una parte, se si tratta della madre vedova, almeno una delle figlie dovrà probabilmente rinunciare del tutto all'idea di sposarsi; dall'altra, se invece a sopravvivere è il padre, una figlia dovrà sposarsi, restando però nella casa paterna. È inoltre interessante notare come anche l'età dei sopravvissuti abbia una diversa funzione nei due casi: mentre il sostegno nei confronti della madre è soprattutto richiesto quando questa è già avanti con gli anni, il contrario avviene per il padre, il quale ha bisogno di una sostituta della moglie scomparsa anche prima di raggiungere la vecchiaia. In definitiva, anche l'analisi della nuzialità conferma chiaramente il ruolo primario delle donne nel sistema di relazioni e di sostegno intergenerazionale che già lo studio della mobilità residenziale e delle forme di coabitazione aveva messo in luce.
Il quadro stesso non sarebbe completo, tuttavia, se non si prendesse in considerazione anche il punto di vista dei figli: in che modo anche la composizione familiare, lo stato, l'età, influivano sulla possibilità di sposarsi di ciascuno di essi? Anche qui, occorre tenere conto di un complesso sistema di reciprocità e condizionamenti. Per esempio, in famiglie dove ci siano altri fratelli più giovani, la probabilità di organizzare un matrimonio in cui il fratello maggiore si porti a casa la moglie, sono ridotte di circa un terzo: un chiaro segno di come la logica della 'famiglia-ceppo' sia qui del tutto assente. Allo stesso tempo, tuttavia, quando l'interessato è l'unico maschio rimasto in famiglia, le possibilità di un simile matrimonio aumentano del 70%(157). Sposarsi e restare a casa dei genitori non è insomma affatto un modo di precostituire la successione ai genitori, bensì una sorta di privilegio offerto da costoro a sostegno della nuova coppia, di solito praticabile solo per un periodo di tempo limitato: una differenza radicale che la semplice ricognizione delle strutture familiari non consentirebbe di cogliere. Tuttavia un simile aiuto può essere più difficile da offrire o imporre quando altri fratelli sono ancora a casa. Al contrario, come si è appena visto, per le figlie il matrimonio in casa rappresenta una forma di supporto del padre vedovo.
A parte il caso particolare del matrimonio in cui la coppia si stabilisca presso i genitori del marito, i maschi non devono comunque preoccuparsi troppo della loro posizione nel gruppo dei figli quando vogliono sposarsi: apparentemente, potevano farlo quando preferivano. Ancora una volta, non può dirsi lo stesso per le femmine, che sono tenute invece a rispettare precise regole di priorità sulla base dell'età. La presenza in famiglia di fratelli maggiori ancora celibi riduceva la possibilità di sposarsi di una ragazza di oltre un quarto; se poi c'era almeno una sorella più vecchia ancora nubile, tale possibilità si dimezzava addirittura (si intende: rispetto ai casi in cui non c'erano fratelli o sorelle più vecchi e ancora da sposare). Nondimeno, c'era una chiara incompatibilità tra fratelli (o sorelle) già sposati e ancora da sposare. Non solo le famiglie congiunte erano quasi inesistenti, ma anche la coabitazione era minima. Nei rari casi in cui questa si verificava, figlie e figli non sposati abbandonavano ben presto la famiglia, in genere per sposarsi a loro volta. Questo effetto di spinta o di espulsione era particolarmente forte per i maschi, per i quali la presenza di una sorella sposata in casa aumentava da 2 a 3 volte la probabilità di una loro uscita per matrimonio. In minor misura ciò valeva anche per le figlie, le cui possibilità di uscita per sposarsi aumentavano dell'80%. Ovviamente, quando un fratello o una sorella sposati già vivevano nella casa paterna, non c'era più spazio per l'aggiunta di ulteriori coppie.
In questo quadro, già di per sé piuttosto complesso, manca però ancora una delle determinanti fondamentali per l'accesso al matrimonio, vale a dire l'evenienza di un concepimento prematrimoniale. Per avere un'idea di quanto potesse pesare questo fattore, basti pensare che quasi un terzo dei primogeniti registrati nel nostro campione risultano concepiti prima della celebrazione delle nozze. Come è noto, un simile comportamento sessuale era tutt'altro che peculiare della sola Venezia(158). Dalla seconda metà del Settecento, in tutta Europa si era registrato un tale aumento nei tassi di illegittimità da far pensare ad una vera e propria "rivoluzione sessuale", che sarebbe intervenuta a liberare dai vecchi freni inibitori i comportamenti e la morale dei ceti popolari(159). Altri hanno invece visto in questo fenomeno un aggravamento dell'alienazione e della condizione femminile(160): con l'instaurarsi di un doppio standard morale, mentre per gli uomini avere rapporti sessuali fuori del matrimonio costituiva un motivo di vanto, le donne erano poste invece di fronte all'imbarazzante dilemma se rifiutare, rischiando di perdere un potenziale marito, o accettare, rischiando di incorrere in una gravidanza senza alcuna garanzia di un successivo matrimonio 'riparatore'.
L'alta percentuale di primogeniti legittimi ma concepiti fuori del letto nuziale sembrerebbe suggerire che gli uomini veneziani tendessero ad assumersi le loro responsabilità verso le donne che lasciavano incinte; tuttavia, prima di giungere ad una simile conclusione, occorrerebbe avere qualche idea anche sulle dimensioni dell'illegittimità. Nel campione oggetto di questo studio, i tassi di illegittimità risultano alquanto moderati, fermandosi poco al di sotto del 5%: un livello talmente esiguo da riuscire sospetto, vista anche la composizione sociale di queste aree. Nel 1874-1880 a Venezia gli illegittimi furono il 9,9% dei nati(161), restando comunque molto al di sotto di tante altre città europee: basti pensare che negli anni Quaranta e Cinquanta a Vienna risultava illegittima addirittura la metà dei bambini, mentre Stoccolma si attestava sul 40-45%, Parigi attorno al 35, Berlino appena sotto il 20(162).
Bisogna però tenere presente che i dati veneziani riguardano solo quei bambini illegittimi che le madri avevano deciso di trattenere con sé: è tuttavia probabile che solo una minoranza delle madri fosse disposta a sopportare il fardello di un figlio e il disagio dello stigma sociale che ne derivava. L'aborto e soprattutto l'infanticidio, molto meno pericoloso per la salute della madre, costituivano una semplice soluzione alternativa, ma naturalmente non sapremo mai in che misura si facesse effettivamente ricorso a mezzi così estremi e contrastanti con le pulsioni più profonde dell'istinto materno. In realtà, come vedremo tra breve, non mancano motivi per dubitare che tale istinto fosse allora così radicato e diffuso, quanto la nostra sensibilità e cultura ci porterebbero oggi a credere. In linea di massima, si può comunque condividere l'opinione di quanti sottolineano che un ricorso all'infanticidio, in una misura anche solo lontanamente paragonabile a quello praticato per esempio in Cina e in Giappone(163), non solo era incompatibile con principi e valori morali e religiosi ampiamente condivisi, ma era anche del tutto inutile, in quanto esisteva la possibilità di ricorrere a sistemi almeno all'apparenza meno drastici e crudeli, come l'abbandono dei figli non voluti a un qualche istituto od ospedale(164). A Venezia si trovava una tra le più antiche strutture istituite per accogliere l'infanzia abbandonata, l'ospedale di S. Maria della Pietà, cui si ricorreva con indubbia frequenza: tra 1800 e 1830 vi furono abbandonati oltre 14.000 bambini, in media più di 450 all'anno, che corrispondevano grosso modo al 10-15% di tutti i nati(165). Se è vero che poi molti di questi, certamente non meno della metà, morivano quasi subito, trasformando oggettivamente l'abbandono in una forma di infanticidio indiretto, occorre anche riconoscere che presumibilmente le madri non ne avevano allora piena consapevolezza(166).
Sarebbe comunque azzardato considerare l'andamento degli abbandoni come un indicatore diretto del fenomeno dell'illegittimità a Venezia, sia perché a gonfiarne il numero concorrevano in qualche misura anche bambini provenienti dalle campagne circostanti, sia soprattutto perché è da escludere che venissero abbandonati solo i figli illegittimi. Purtroppo dobbiamo ancora accontentarci di formulare in merito solo supposizioni: era raro che quanti portavano i bambini alla Pietà ne dichiarassero lo stato, anche se l'abbandono di figli legittimi era consentito nel caso i genitori fossero manifestamente incapaci di allevarli. Per alcuni anni nei quali un computo dei legittimi è stato possibile, questi arrivavano a rappresentare sino a un quarto del totale(167); tuttavia anche in questi casi non c'è alcuna certezza che gli illegittimi fossero tutti effettivamente tali. Vi sono in effetti buoni motivi per sospettare che la quota dei figli legittimi fosse anche maggiore di un quarto. Come sosteneva un osservatore attento quale Gaspare Federigo, "generalmente parlando non sono le pubbliche meretrici che popolano la maggior parte degli ospizi degli esposti"; al contrario, "sinceri contrassegni attestano che una grandissima parte dei bambini che si portano agli ospizi sono coperti dai cenci della miseria"(168). A ulteriore riprova, Federigo sottolineava la correlazione tra annate particolarmente cattive e aumento nel numero degli esposti, già suggerita da Malthus e da Melchiorre Gioia per Milano, e confermata da numerosi studi contemporanei(169). Anche a Venezia, la punta massima nell'abbandono si ebbe nel terribile periodo tra 1813 e 1817, con un aumento del 20% circa rispetto agli anni precedenti. Per qualche altra città è stato però possibile conoscere con precisione la provenienza degli esposti, e il quadro che ne emerge è a dir poco sconvolgente. Nel quarto decennio del secolo, a Milano veniva abbandonato poco meno di un terzo dei neonati, quasi la metà dei bambini della popolazione povera. Volker Hunecke ha dimostrato che, "anche calcolando con prudenza", circa l'80% di questi erano legittimi(170). Negli anni Sessanta a Brescia i legittimi erano almeno la metà degli esposti(171). La "ruota" di Firenze fu chiusa nel 1876 proprio in risposta all'abuso di collocarvi prevalentemente figli legittimi. Attorno al 1830 oltre il 40% dei battezzati in città veniva abbandonato. Negli anni Quaranta vi fu ricoverato il 10% di tutti i nati nel Granducato di Toscana, anch'essi in maggioranza legittimi(172). Nel riportare questi dati, David Kertzer ritiene che si trattasse però di eccezioni, seppur cospicue: nella sua interpretazione l'abbandono in Italia riguardava quasi esclusivamente gli illegittimi, ed era provocato dalla radicale condanna della morale cattolica nei confronti delle relazioni sessuali fuori del matrimonio. Tuttavia non solo questa spiegazione non trova alcun riscontro nella lunga storia delle istituzioni assistenziali in Italia e in Europa(173), ma viene anche smentita dalle evidenze empiriche disponibili e da numerose testimonianze di contemporanei, specie per l'Italia centrosettentrionale. Quanto a Venezia, sembra del tutto plausibile che il fenomeno dell'abbandono vi assumesse caratteristiche simili a quelle milanesi e fiorentine, se non per intensità, almeno per il peso relativo assunto dall'esposizione di figli legittimi.
Questa premessa, basata purtroppo su supposizioni e analogie più di quanto non sarebbe desiderabile, serve non solo a dare conto, fin dove è possibile, di una pratica sociale che convogliava 100.000 bambini all'anno negli istituti per trovatelli di tutta Europa, ma anche a suscitare un atteggiamento di prudente sospetto nei confronti dei dati sulla fecondità coniugale o legittima che verranno presentati di seguito. La possibilità che un numero non trascurabile di nascite sfugga all'osservazione rischia infatti di falsare molti dei parametri utilizzati nello studio dei processi riproduttivi, specie se, come pare alquanto probabile, tali eventi non erano distribuiti in modo casuale. Né si tratta solo di una questione di misure inadeguate. L'entità dell'abbandono pone anche problemi di interpretazione della stessa fecondità coniugale. Tutti i maggiori modelli teorici assumono che la fecondità fosse determinata da comportamenti razionali e da decisioni consapevoli: anche nel passato, le famiglie 'producevano' figli finché i benefici che si aspettavano di ricavarne erano maggiori dei costi richiesti dal loro allevamento. Tuttavia un simile modello trascura appunto quello che in qualsiasi consultorio appare sin troppo ovvio, e che cioè un figlio può essere anche l'esito inaspettato e indesiderato di una relazione sessuale. Il numero di bambini variamente espulsi dalle famiglie evidenzia che una riproduzione consapevole, se esisteva, doveva passare prevalentemente attraverso il vaglio di pesanti regolazioni postnatali, spostando cioè il comportamento 'razionale' non a prima ma a dopo le nascite(174). Se insomma lo studio della nuzialità è facilitato dal suo aspetto fondamentalmente volontario, e quello della mortalità dalla sua (quasi) totale involontarietà, il carattere in qualche misura indefinito della fecondità la rende un fenomeno di difficile interpretazione.
Quanto ai dati veneziani, un ultimo problema va ricordato: i limiti del periodo di tempo coperto dalla documentazione. Vent'anni sono appena sufficienti per seguire una coppia lungo l'intero arco della sua capacità riproduttiva. Delle 1.628 coppie documentate in questo periodo, quelle 'complete', rimaste cioè sotto osservazione sino al compimento del quarantacinquesimo anno di età da parte della moglie, sono appena 50. Ciò rende impossibile ricostruire uno degli aspetti principali della fecondità, come il numero totale di figli. Tuttavia molte altre componenti possono essere calcolate, come l'età all'inizio e alla fine del processo riproduttivo, l'intervallo tra le nascite, e i tassi di fecondità specifici per età.
In corrispondenza all'elevata età al matrimonio, anche l'età alla nascita del primo figlio è alquanto tardiva: in media 25,3 anni. Vi sono però significative differenze tra i diversi ceti sociali: mentre infatti nelle famiglie dei giornalieri l'età media si abbassa a 24,2, per tutti gli altri resta superiore ai 25 anni, superando i 25 anni e mezzo per le madri del ceto medio e per quelle sposate a operai e salariati. Una tale differenza viene poi ulteriormente esaltata dall'età in cui l'attività riproduttiva si conclude. In media questa si colloca alquanto avanti, a 40 anni e mezzo, in linea con l'esperienza di gran parte delle popolazioni europee, dove si aggira tra i 39 e i 41 anni(175). Tuttavia in questo caso le differenze per ceto sociale si fanno ancora più marcate: mentre infatti le donne del gruppo più povero hanno in media il loro ultimo parto quando hanno già superato i 42 anni, sul lato opposto della scala sociale questo avviene a 39 anni. Nel complesso, dunque, mentre la carriera riproduttiva di una donna borghese dura 14 anni, quella di una donna povera è di oltre un terzo più lunga, protraendosi per quasi 18 anni.
Inoltre, questa è anche sensibilmente più intensa. L'intervallo medio tra il matrimonio e la nascita del primo figlio è infatti di 12,3 mesi per l'intero campione, una misura di per sé già alquanto ridotta(176), ma si abbassa addirittura a soli 9,8 mesi per le donne del sottoproletariato, chiaramente riflettendo la frequenza di concepimenti prematrimoniali in questo gruppo. In realtà l'intervallo tra matrimonio e prima nascita risulta alquanto breve anche per i borghesi (10,5 mesi), mentre l'attesa più elevata riguarda le madri del gruppo operaio, con 13,7 mesi. Ma l'equilibrio si ristabilisce considerando gli intervalli tra le nascite di parità superiore, dalla seconda alla quinta. In questo caso l'intervallo medio è di 22,8 mesi; le mogli degli operai segnano l'attesa minima, con neppure 21 mesi, seguite da sottoproletari e artigiani con 23; a grande distanza le madri del ceto medio, il cui tempo medio di attesa tra una nascita e l'altra si attesta addirittura oltre i 32 mesi(177).
Misure più specifiche della fecondità confermano e precisano ulteriormente quanto emerge già molto chiaramente da questi dati(178). Mentre il tasso di fecondità totale resta piuttosto ridotto - appena 3,9 figli per donna - in conseguenza dei bassi livelli di nuzialità, il tasso di fecondità coniugale è invece alquanto elevato, arrivando addirittura a una media di 12 figli per una ipotetica donna che abbia completato la sua carriera riproduttiva. Tuttavia in questo calcolo pesano in modo esagerato i tassi estremamente elevati calcolati per le età più giovanili: dai 15 ai 19 anni, e in minor misura anche dai 20 ai 24, chi si sposa lo fa quasi sempre perché aspetta un bambino, il che innalza artificiosamente i relativi tassi specifici di fecondità coniugale. Il numero medio di figli si riduce in effetti a 7,9 se calcolato per un'ipotetica donna che si sposi a 20 anni, e ulteriormente a 5,2 qualora il matrimonio si celebri a 25 anni, come avveniva nella maggior parte dei casi. Vale d'altro canto la pena di sottolineare come i tassi specifici per età rimanessero elevati fino ai 40 anni, indicando un uso quasi integrale degli spazi riproduttivi disponibili, in linea del resto con i risultati di analoghe indagini su popolazioni italiane di questo periodo(179). Ma soprattutto si conferma il considerevole divario che separa i diversi gruppi sociali: i tassi di fecondità coniugale totale e specifici per età delle donne del sottoproletariato superano di un terzo i valori corrispettivi calcolati per le donne borghesi. Mentre per esempio una madre di questo gruppo che si sposi a 20 anni avrà in media 6 figli, una del ceto più povero ne avrà invece 8,4; i corrispondenti valori per donne sposate a 25 anni sono di 4 figli contro 5,5.
L'entità di questa differenza appare tanto più notevole quando si pensi poi che proprio le donne più povere erano verosimilmente anche le più propense a ricorrere all'abbandono, cosicché le stime che le riguardano dovrebbero essere ulteriormente ritoccate al rialzo. Tutto concorre dunque ad indicare l'esistenza di due regimi nettamente contrapposti della fecondità e della riproduzione: uno, che connota gli strati sociali più poveri, non particolarmente precoce quanto ad inizio, ma esteso a gran parte della popolazione grazie a un accesso piuttosto ampio al matrimonio, e intenso, cadenzato da ritmi quasi 'naturali', con intervalli inferiori a due anni tra una nascita e l'altra, e protratto sino ad oltre i quarant'anni; l'altro, tipico invece dei gruppi relativamente più agiati, caratterizzato da un accesso ancora più tardivo e limitato al matrimonio, da una interruzione più precoce e da ritmi decisamente più dilatati. Laddove il primo appare del tutto estraneo a pratiche di controllo consapevole della fecondità, il secondo sembra invece partecipe di un tentativo di limitarne gli esiti, secondo quanto avveniva del resto tra i ceti borghesi di diversi paesi europei(180). Quanto agli altri due gruppi sociali, quello degli operai e degli artigiani e bottegai, essi si pongono in una posizione intermedia tra questi due estremi.
Occorre dire anche che quello sociale non era l'unico fattore di differenziazione dei comportamenti riproduttivi. Un aspetto interessante, anche se di difficile interpretazione, riguarda le famiglie di immigrati, che mostrano tassi di fecondità sensibilmente inferiori rispetto ai veneziani, forse esprimendo in tal modo - ma è difficile dirlo con certezza - un atteggiamento particolarmente prudente nell'adattarsi a un ambiente estraneo, come suggeriscono del resto anche alcune indicazioni tratte dall'analisi della nuzialità e della mobilità residenziale. Un altro aspetto riguarda invece il peso di una diversa cultura religiosa, quale quella ebraica: ed è qui motivo di una certa sorpresa rilevare appunto che gli ebrei hanno tassi sensibilmente più elevati rispetto alla popolazione cattolica, un risultato questo che contrasta con l'idea che proprio le comunità israelite sarebbero state tra i precursori nel processo di declino della fecondità(181). In effetti, un'ipotetica donna ebrea sposata a 25 anni avrebbe avuto in media 5,4 figli, contro i 5,2 di una donna cattolica. Nello stesso periodo, le donne ebree di Pitigliano, in Toscana, e di Firenze avrebbero avuto in media solo 3,7 figli(182). Occorre ricordare peraltro che il calcolo per Venezia riguarda solo le donne più povere e quindi propense ad una fecondità maggiore. Quali siano i motivi dell'anomalia veneziana, se tale si può definire, non è comunque facile dire.
In apparenza, il fatto di vivere presso i genitori del marito sembra aumentare considerevolmente - precisamente del 27% in confronto alle coppie indipendenti - la probabilità di avere un figlio. Può anche essere che si tratti di un contesto particolarmente protettivo, o dove la pressione per un erede è più forte. Tuttavia potrebbe anche trattarsi di un caso di inversione di causa. Verosimilmente si recavano infatti a vivere presso i genitori del marito proprio le coppie costrette a sposarsi in seguito ad una gravidanza prematrimoniale. Questo risultato sembrerebbe dunque confermare la funzione di temporaneo sostegno garantita da questa sistemazione, e spiegarne anche la notevole frequenza.
Ancora più interessanti sono gli aspetti relativi alla composizione della famiglia. In che modo la presenza di figli precedenti influiva sulla probabilità di averne altri? Secondo la teoria economica della fecondità, l'utilità marginale di ogni nuovo figlio dovrebbe diminuire non in funzione della parità, vale a dire del numero di quelli che sono già nati, bensì in funzione di quanti tra questi ne sono sopravvissuti. In effetti, è interessante notare che mentre la parità non ha di per sé alcun effetto sulla probabilità di una nuova nascita, la sopravvivenza di altri figli esercita invece una funzione chiaramente dissuasiva. Tale effetto è peraltro rilevante e statisticamente significativo solo quando i figli precedenti, non fa differenza se maschi o femmine, abbiano già superato la fase critica della prima infanzia. Ciò sembra indicare che era diffusa una propensione a limitare le dimensioni della famiglia, ma che questa si manifestava in modo efficace solo quando le prospettive di sopravvivenza dei figli già disponibili risultavano ragionevoli. In effetti, la mortalità nei primi anni di vita era tale che, su 10 nati, appena la metà riusciva ad arrivare ai 5 anni; ma chi ce la faceva aveva poi ottime probabilità di giungere sino all'età adulta. Anche se indicare una precisa soglia 'di sicurezza' sarebbe pretestuoso, è però plausibile che i genitori si basassero su una qualche forma di valutazione di questo tipo nel regolare le loro scelte riproduttive. Come vedremo, questo aspetto poteva forse avere conseguenze inaspettate sulla stessa mortalità infantile.
Un fortissimo e drammatico intreccio legava direttamente fecondità e mortalità infantile. Non c'è dubbio infatti che il fattore che più potentemente influenzava la probabilità di una nuova gravidanza era la morte del figlio precedente. Rispetto ai casi in cui l'ultimo figlio era ancora in vita, un simile evento moltiplicava addirittura per 4 volte e mezza il rischio per la madre di restare di nuovo incinta. Tale effetto eccezionale durava tuttavia solo per un periodo limitato - un anno, forse meno - dopo di che scompariva del tutto, mettendo chiaramente in luce come la nuova gravidanza non scaturisse dal desiderio consapevole di sostituire il figlio perduto, bensì rappresentasse la conseguenza non voluta della ripresa dell'ovulazione, che l'allattamento di norma ritarda. Così la morte di un figlio finiva per ripercuotersi sulla salute della madre, costretta a sottoporsi alla fatica di una nuova gravidanza prima ancora di essere riuscita a riprendersi dallo stress della precedente. E ne avrebbe risentito inevitabilmente anche il figlio successivo, nato da una madre sempre più esausta e prostrata, e verosimilmente destinato lui stesso a una morte prematura - la morte del figlio precedente è in effetti uno dei fattori che meglio predicono anche quella del successivo - perpetuando così un terribile circolo vizioso di miseria e di degrado.
Scorrendo i fogli dell'anagrafe, capita di imbattersi in famiglie che hanno avuto 7, 8, 9 figli, tutti morti durante gli "anni fatali" dell'infanzia o dell'adolescenza. Antonio I., facchino alla Giudecca, e la moglie Fortunata B. ebbero 11 figli in quattordici anni: solo 2 riuscirono a superare l'anno di vita. Gaetano B., battellante alla Giudecca, e la moglie Elena C., filatrice, ebbero 12 figli in sedici anni: tutti, tranne 3, morirono a meno di tre anni. Si può capire perché Aronne e Nina, che persero solo uno dei 9 figli durante l'infanzia e un altro durante l'adolescenza, si possano considerare fortunati, almeno da questo punto di vista. La loro esperienza costituì senza dubbio più un'eccezione che la regola.
A Venezia, lo si è notato più volte, la mortalità perinatale e infantile era estremamente elevata, una delle più alte di tutta la penisola. Come si può facilmente immaginare, all'Angelo Raffaele e alla Giudecca - la situazione per gli ebrei, come vedremo subito, era molto differente - le condizioni erano ancora peggiori rispetto alla media cittadina. Dei 5.147 bambini nati nelle due parrocchie tra 1850 e 1869, 1.637, corrispondenti al 32%, morirono entro il primo anno di vita. In queste due comunità, le morti infantili rappresentavano il 40% di tutti i decessi. Sono cifre talmente elevate da mettere a dura prova la nostra capacità di immaginazione. Per quanto le rispettive condizioni non siano comparabili, nei paesi del mondo in cui oggi la mortalità infantile è più elevata, come il Ruanda, il Malawi e le altre aree dell'Africa subsahariana, non si supera la quota del 13%, con la sola punta negativa ma del tutto isolata del 19% per il Niger(183). Abbiamo tutti presente il dramma umano che si cela dietro queste cifre. Se questa è la situazione nei paesi più disperati del mondo, occorre davvero uno sforzo di fantasia per immaginare cosa accadeva nella pur civilissima Venezia di metà Ottocento, dove nei momenti di peggiore crisi, come nel 1854-1855, la mortalità infantile arrivava a portarsi via 1 bambino su 2(184).
Il rischio di morte era particolarmente elevato nelle prime fasi di vita. Oltre il 13% delle morti infantili si verificava entro 24 ore dalla nascita, poco meno di un terzo entro la prima settimana di vita, oltre la metà entro il primo mese; solo un quarto dei decessi si collocava nel secondo semestre. Le principali cause di morte rispecchiano questa distribuzione. Esclusi i decessi nel primo giorno per difficoltà legate al parto, malattia della madre, malformazioni congenite, prematurità o immaturità, le due cause più frequenti erano le convulsioni e il marasma, che rappresentavano rispettivamente il 42 e il 26% del totale. Purtroppo non è così semplice dare un'interpretazione non equivoca di queste diagnosi(185). Le convulsioni infantili non costituiscono di per sé una vera e propria causa di morte: potevano derivare da traumi, da intossicazioni provocate da pratiche alimentari e 'terapeutiche' a dir poco deplorevoli(186), da infezioni quali per esempio la meningite, l'encefalite, la pertosse, e soprattutto il tetano, spesso causato dall'uso di strumenti sporchi nel taglio del cordone ombelicale(187). In genere, le morti per convulsioni erano più frequenti nei primi tre mesi di vita, ed erano caratterizzate da un decorso molto breve, di un paio di giorni al massimo. Il marasma consiste invece in uno stato di grave carenza nutrizionale e rappresenta tuttora la principale causa di morte perinatale ed infantile nel mondo intero(188). La denutrizione porta ad un deficit immunitario che facilita l'insorgere di infezioni respiratorie, malattie virali, gastroenteriti, le quali a loro volta aumentano le necessità metaboliche e riducono l'appetito, instaurando un circolo vizioso che porta a maggiore malnutrizione e più grave immunodeficienza. Il marasma riportato nelle fonti può essere dunque sia causa che conseguenza di altre patologie, senza che si possa sapere quale criterio sia stato privilegiato nell'identificare la causa, finale o principale, del decesso. Si tratta comunque di uno stato patologico chiaramente legato all'arretratezza, alla miseria e alla scarsa igiene. Nel caso veneziano, la sua incidenza era abbastanza uniforme nel primo anno di vita, ad esclusione del primo mese, e il marasma era generalmente associato ad un decorso piuttosto lungo, di norma un paio di mesi. Quanto alle altre cause di morte, le malattie dell'apparato gastrointestinale, in prevalenza diarrea, rappresentavano il 14% dei casi, ed erano strettamente legate al marasma stesso. Le malattie infettive riguardavano il 6% dei casi, la tubercolosi il 4 e le malattie dell'apparato respiratorio il 3.
Basta tener conto della diversa distribuzione dei decessi infantili per età e per causa per capire come i quozienti di mortalità ricordati sin qui non rappresentino che una sintesi sommaria di un fenomeno estremamente complesso, sulle cui differenti componenti poteva agire in modo diverso un'ampia serie di fattori, di natura biologica, epidemiologica, ambientale, familiare, economica, sociale, culturale. Per certi aspetti, per esempio, la condizione sociale poteva risultare determinante nel differenziare il rischio di morte, per altri riuscire del tutto indifferente. Le stesse condizioni climatiche che potevano favorire l'insorgere di convulsioni erano invece protettive rispetto al rischio di malattie gastrointestinali; il loro effetto dipendeva inoltre dall'età in cui si affrontavano. Insomma, al di là della misura del fenomeno, una comprensione più approfondita dei meccanismi che portavano alla morte 1 bambino veneziano ogni 3 nati richiede che si tenga conto di queste differenze, scomponendo la mortalità infantile nei molti pezzi da cui è formata.
Vediamo in primo luogo proprio il peso delle differenze sociali. Indubbiamente queste giocavano un ruolo di grande rilievo, anche se a prima vista si potrebbe pensare che, soprattutto nelle prime fasi di vita, la dipendenza quasi assoluta del bambino dalle cure materne avrebbe dovuto almeno attutirne le conseguenze. In effetti, per i primi 6 mesi di vita non risultano esserci differenze sostanziali tra giornalieri, salariati, artigiani e bottegai. Queste si fanno sentire tuttavia in modo molto marcato già nel secondo semestre di vita, e proseguono poi immutate durante la prima adolescenza: lo svantaggio relativo dei giornalieri, in questi gruppi di età, varia infatti dal 25 al 40% rispetto agli altri gruppi. Ma se il confronto si estende anche ai bambini del ceto medio, il divario si presenta in modo ancora più marcato, e riguarda anche la mortalità neonatale: a tutte le età, il rischio di morte sperimentato nelle famiglie benestanti si mantiene attorno alla metà rispetto a quello dei giornalieri, con una piccola attenuazione solo nel secondo semestre. Lo stato di degrado che caratterizzava queste aree era tale che non c'era cura materna che potesse annullarne gli effetti.
Anche prescindendo dalla condizione sociale, il clima rappresentava uno dei fattori che incidevano maggiormente nel differenziare i rischi di morte. Per i neonati di tutti i ceti nascere in inverno significava correre un rischio addirittura quadruplo rispetto all'estate e doppio rispetto all'autunno. È questo un aspetto tipico della mortalità neonatale nell'Italia centrosettentrionale, i cui inverni brevi e relativamente miti inducevano a non preoccuparsi troppo di difendersi dal freddo, con stufe e serramenti adeguati. Howells non cessava di stupirsi del fatto che i veneziani sembravano considerare l'inverno "come un'estate di cattivo umore" e preferivano vivere all'aperto o nei caffè piuttosto che riscaldare le loro case(189). È vero anche che la legna da ardere era estremamente cara: un chilo di frumento costava quanto 7,8 chili di legna dolce, e appena 3 chili di carbone(190). Il risultato era comunque che chi doveva stare a casa o era più fragile, come i neonati e gli anziani, moriva per malattie da raffreddamento, paradossalmente con frequenza maggiore di quanto non accadesse in Svezia o in Russia, dove i pericoli dell'inverno non erano sottovalutati(191). Superato l'impatto dei primi giorni, la situazione cambiava però radicalmente: dal secondo al sesto mese di vita nessun pericolo particolare appariva legato al clima, mentre dal secondo semestre in poi era la volta dell'estate a rappresentare il momento di gran lunga più rischioso. Dopo un precoce svezzamento, i bambini passavano infatti all'alimentazione artificiale o mista, esponendosi così al pericolo di gastroenteriti e diarree per l'ingestione di cibi e di acqua infetti, e il rischio di morte ne risultava più che raddoppiato. Per i bambini che avevano superato i 6 mesi, la stagione più favorevole si rivelava addirittura l'inverno.
Alcuni aspetti biologici giocavano indubbiamente un ruolo importante. Come spesso accade, le femmine erano in genere avvantaggiate rispetto ai maschi, lungo tutto il primo anno di vita. Nascere da una madre anziana, diciamo dai 35 anni in poi, aumentava di un terzo il rischio di morte nel primo mese di vita. Quando si pensi al fatto che le donne più povere continuavano a partorire ben oltre i 40 anni, si può ben capire quali conseguenze sulla mortalità infantile poteva avere una carriera riproduttiva protratta così a lungo. Si è anche accennato al legame esistente tra frequenti gravidanze e mortalità. Un bambino che fosse nato a meno di 2 anni di distanza dal precedente correva in effetti un rischio di morire molto più alto rispetto ad uno che fosse nato dopo un intervallo maggiore: precisamente, del 25% se il figlio precedente era ancora vivo, e di oltre il 50% se questi era a sua volta deceduto. L'incremento del rischio di morte era particolarmente elevato nel primo mese di vita (+72%), ma restava considerevole anche lungo tutto il primo anno, il che lascia intendere come non si trattasse di fattori di natura congenita, il cui effetto si manifestava soprattutto nella mortalità neonatale, bensì del protrarsi da una nascita all'altra di una situazione di grave disagio e di prostrazione. Come si è appena visto, la morte del figlio precedente rendeva molto probabile l'insorgere di una nuova gravidanza; sappiamo ora che il bambino che ne sarebbe nato correva un rischio molto elevato di morire a sua volta, riavviando il circolo vizioso descritto poco sopra.
Anche la composizione della famiglia influiva sulla mortalità dei bambini. Come è facile attendersi, l'assenza della madre più che triplicava il rischio di morte nel primo mese, e lo raddoppiava nel primo semestre; ma anche durante l'adolescenza gli orfani di madre si trovavano in una situazione di considerevole svantaggio. Apparentemente, l'assenza del padre era meno dannosa per i bambini; tuttavia gli orfani di padre risentivano in modo molto più marcato delle differenze legate alla condizione sociale, aumentando ulteriormente lo svantaggio dei ceti più poveri. È anche interessante notare come in genere la presenza dei nonni risulti irrilevante per la sopravvivenza dei nipoti; tuttavia nel caso degli orfani di padre la presenza della nonna paterna si rivela indispensabile per migliorarne la condizione.
L'aspetto più significativo della composizione familiare riguarda comunque il ruolo di altri fratelli o sorelle più anziani. In generale, si direbbe che la loro presenza non abbia alcun rilievo. Tuttavia la situazione cambia se si considerano specificamente i fratelli e le sorelle che abbiano superato l'adolescenza, o almeno, diciamo, per avere un punto di riferimento, dai 6 anni in poi. Da una parte, infatti, la presenza di una sorella già un po' cresciuta ha un effetto indubbiamente positivo per la sopravvivenza dei più piccoli, specie dopo il primo mese di vita: senza dubbio perché offre alla madre un sostegno prezioso per la loro cura, come attestano numerose testimonianze contemporanee, sia letterarie che iconografiche(192). Quanto ai fratelli maggiori, questi appaiono invece sorprendentemente 'pericolosi' per i nuovi nati, specie se di sesso femminile. L'aumento del rischio è in questo caso del 60% e interessa solo il primo mese di vita: un risultato di difficile spiegazione, ma che potrebbe derivare da un atteggiamento di negligenza, se non celare un vero e proprio infanticidio. In effetti, non si può escludere che una madre o dei genitori i cui obiettivi, in termini di riproduzione, apparivano già soddisfatti, potessero guardare alla prospettiva di una nuova bambina da allevare come a un aggravio indesiderabile, tanto più che l'investimento di risorse affettive e materiali richiesto rischiava comunque di andare disperso per una morte prematura(193). Nello stesso tempo, si è appena visto che avere figli già grandi costituiva anche un considerevole fattore di freno al concepimento di nuovi bambini: in definitiva, avere dei figli maschi già cresciuti da una parte spingeva ad evitare nuove gravidanze, dall'altra poneva in condizioni di maggiore pericolo i nuovi nati. È pur vero che, in casi simili, esisteva comunque la soluzione meno crudele dell'abbandono; tuttavia occorre anche considerare che, per una coppia sposata e soggetta a qualche forma di controllo sociale, far sparire nel nulla un neonato portandolo alla Pietà poteva risultare più vistoso e imbarazzante, per così dire, di un evento, come la morte di un bambino di appena pochi giorni, che era comunque ampiamente nell'ordine delle cose.
L'ipotesi di un ricorso diffuso a forme di 'negligenza mortale', se non direttamente all'infanticidio, svela un lato inquietante quanto significativo per la comprensione della mortalità infantile nel passato. Le madri veneziane amavano i loro piccoli o, in certe condizioni almeno, li lasciavano o facevano morire? È abbastanza diffusa l'opinione che nel passato i genitori fossero sostanzialmente insensibili di fronte al destino dei loro figli, e in primo luogo dei neonati, per evitare di farsi coinvolgere emotivamente in una lotta per la loro sopravvivenza destinata troppe volte a rimanere frustrata. Essi finivano però così per sottrarre ai loro piccoli le cure e attenzioni indispensabili per superare le fasi più critiche della loro crescita. Sulla base di questa ipotesi, alcuni studiosi hanno sostenuto che molti decessi infantili del passato erano in realtà "evitabili", nel senso che le conoscenze mediche, la tecnologia, le risorse economiche erano in grado di scongiurarle, se solo i genitori avessero fatto la loro parte(194).
In effetti, quando si considerino i fattori che influivano maggiormente sul rischio di morte a Venezia, ci si accorge che molti di questi erano connessi a comportamenti soggettivi più che a costrizioni esterne. Aspetti come lo stato sociale, o il peggioramento della congiuntura economica, costituivano una sorta di condizionamento oggettivo; ma altri fattori come il clima, la lunghezza dell'intervallo tra le nascite, la composizione della famiglia, potevano avere efficacia solo in quanto non adeguatamente controbilanciati dall'azione protettiva degli adulti. Bastava per esempio avere una maggiore consapevolezza del pericolo rappresentato dal freddo per i neonati per garantire loro la protezione necessaria per sopravvivere, né certo la questione può ridursi solo al problema della spesa per il riscaldamento, come testimonia chiaramente Howells. E basta del resto leggere le testimonianze dei medici contemporanei sui metodi di nutrizione e di svezzamento per capire quanto poco "fatali" fossero le conseguenze che ne scaturivano.
Occhio ai bambini! era appunto la semplice e perentoria raccomandazione che Cesare Musatti, uno dei primi pediatri veneziani, rivolgeva ai genitori nel 1876(195). Musatti era ebreo, e non è forse del tutto gratuito scorgere, in questo suo manuale di igiene pratica popolare, oltre che l'espressione della scienza medica del tempo e di un'esperienza terapeutica maturata in gran parte al servizio dei ceti più poveri, anche un'eco della peculiare cultura cui egli apparteneva(196). L'esperienza della comunità ebraica costituiva infatti una clamorosa controprova di come un'attitudine più sollecita e partecipe alla cura e al benessere dei bambini fosse sufficiente a ridurre in modo estremamente significativo il peso della mortalità nell'infanzia e nella prima adolescenza. A Venezia il quoziente di mortalità infantile degli ebrei non superava il 14% (contro il 32% dei cattolici); i decessi infantili rappresentavano meno del 20% del totale delle morti (contro il 40% dei cattolici), e mentre la speranza di vita di un bambino ebreo alla nascita era di quasi 50 anni, quella di un cattolico veneziano toccava appena i 30. Beninteso, questa condizione di vantaggio non era peculiare della sola Venezia. Una casistica ricca di centinaia di esempi, che spaziano dall'Europa orientale agli Stati Uniti alle colonie olandesi in Sud America, e vanno dal Settecento ai giorni nostri, mostra che i tassi di mortalità infantile degli ebrei erano regolarmente inferiori del 50, 60, anche 80% rispetto a quelli delle popolazioni ospiti(197).
Gli abitanti del Ghetto e quelli dell'Angelo Raffaele e della Giudecca condividevano molti aspetti fondamentali della vita quotidiana: le condizioni climatiche, il tessuto urbano, il quadro epidemiologico, lo stato delle conoscenze mediche, la congiuntura economica, le strutture familiari, in gran parte la stessa composizione socioprofessionale; perfino nuzialità, fecondità, illegittimità erano le stesse. Come è possibile dunque che l'incidenza della mortalità infantile fosse invece così diversa? Tra le tante ipotesi formulate per spiegare il vantaggio ebraico non sono mancati riferimenti a fattori di natura razziale e genetica; tuttavia la maggioranza degli studiosi ha sottolineato piuttosto l'importanza di aspetti comportamentali legati al peculiare stile di vita ebraico, da quelli derivati direttamente da prescrizioni religiose in materia di igiene personale, alle norme dietetiche, a una particolare morigeratezza dei costumi, fino all'esistenza di efficaci sistemi comunitari di assistenza e di sostegno nei confronti dei più bisognosi. Per quanto importanti, si tratta tuttavia di aspetti parziali, il cui effetto può interessare solo alcune particolari componenti della mortalità infantile, ma non certo tutte. L'analisi del caso veneziano rivela invece che, benché i livelli di mortalità fossero molto più bassi, i fattori relativi alla mortalità ebraica erano straordinariamente simili a quelli riscontrati nei cattolici: i quozienti specifici per mese, le cause di morte, l'influsso delle variazioni stagionali, i divari legati alle differenze sociali, non solo seguivano lo stesso andamento, ma risultavano addirittura più accentuati per gli ebrei che per i cattolici. Per esempio, l'effetto delle differenze sociali era tutt'altro che cancellato, come ci si dovrebbe attendere se il sistema di beneficenza comunitario fosse stato davvero efficace; al contrario, lo svantaggio relativo dei bambini poveri ebrei nei confronti degli ebrei ricchi era perfino maggiore di quello che intercorreva tra poveri e ricchi cattolici. Lo stesso può dirsi per le variazioni stagionali.
In definitiva, nella lotta contro la mortalità infantile, gli ebrei veneziani non erano specializzati, per così dire, in qualche settore particolare: per esempio la tubercolosi, secondo un'antica ma infondata convinzione(198), o le gastroenteriti. L'esposizione alle malattie era esattamente la stessa per gli ebrei e per i cattolici: solo, la resistenza dei primi era, su tutti i fronti, molto maggiore. Come spiegare dunque quest'abilità indifferenziata, capace cioè di agire allo stesso modo su tutte le minacce che gravavano sulla sopravvivenza dei bambini? A meno che non si faccia di nuovo ricorso a eventuali caratteristiche genetiche, che restano ancora tutte da dimostrare, sembra in definitiva molto più plausibile ipotizzare che fossero una più sollecita cura dei bambini, un'attenzione e una sensibilità più vive e partecipi al loro benessere e al loro stato di salute, a garantire quella protezione decisiva che nelle famiglie cattoliche veniva invece spesso a mancare.
In un libro di straordinario interesse, l'antropologa Nancy Scheper-Hughes ha dimostrato come nelle realtà urbane più degradate del Brasile contemporaneo predomini una cultura in cui la morte di un bambino può apparire non come una disgrazia ma come una necessità, cui le madri ritengono di dover adempiere in modo del tutto consapevole. In un contesto di miseria, carenza di strutture assistenziali, iperfertilità, assenza di allattamento, esse decidono da sole del destino dei loro figli, abbandonando a se stessi quelli che ai loro occhi mostrano i segni di una fragilità che li renderebbe incapaci di superare le difficoltà della vita: ne fanno così dei "piccoli angeli", il cui sacrificio varrà a proteggere i fratellini sopravvissuti(199).
Possiamo ritenere che una cultura in qualche modo analoga fosse condivisa anche dagli strati più poveri della popolazione veneziana nell'Ottocento? Prendendo spunto dall'indagine della Scheper-Hughes, Katherine Lynch ha criticato duramente la teoria delle "morti evitabili", sostenendo che nelle società europee del passato, sia per motivi morali e religiosi, sia per la presenza di una ramificata rete assistenziale, il ricorso a forme più o meno indirette di infanticidio era inconcepibile(200). Tuttavia quanto appena visto sulla mortalità infantile veneziana sembra suggerire il contrario. Benché le condizioni di Venezia non fossero certo equiparabili a quelle di una bidonville del terzo mondo, le zone più povere della città erano segnate da una situazione non meno grave di miseria e di profondo degrado, che gli stessi contemporanei non mancavano di denunciare apertamente. Quanto alla cultura popolare, quale per esempio si può cogliere nei proverbi e nelle credenze più diffuse, essa appariva dominata in modo incontrastato dall'idea della morte, un'idea che mille segni ed eventi preannunciavano, provocavano, o attiravano inconsapevolmente. Comprensibilmente, data la frequenza con cui si presentava, la morte dei bambini aveva un ruolo predominante in questa visione alquanto lugubre e fatalista dell'esistenza(201). Può essere che concezioni del genere servissero a rendere più tollerabile il pesante tributo che la morte esigeva, costellando con le sue minacce la vita quotidiana. Ma può anche essere che in questa stessa cultura trovassero alimento e giustificazione quegli atteggiamenti di incuria letale che sarebbero all'origine di tante "morti evitabili". La stessa religione cattolica spesso considera la morte come una liberazione dalle pene terrene e come la premessa per la beatitudine eterna, specialmente garantita ai poveri e ai bambini in ricompensa delle loro sofferenze e della loro innocenza. Per le madri cattoliche era probabilmente una ragione di sollievo pensare ai loro bambini deceduti come piccoli angeli, esattamente come fanno tuttora le madri brasiliane. Di certo la cultura ebraica è invece estranea a simili concezioni, essa guarda non alla morte ma alla salute e alla preservazione della vita come a uno dei doveri primari di ogni ebreo.
Queste considerazioni assumono un particolare rilievo se viste nella prospettiva della transizione demografica. Agli ebrei è stato più volte riconosciuto il ruolo di 'precursori' nella storia demografica: per l'adozione di un controllo consapevole della fecondità, e prima ancora per la riduzione della mortalità infantile(202). Sotto questi aspetti, essi acquisirono risultati che le popolazioni non ebraiche presso le quali vivevano avrebbero raggiunto solo diversi decenni dopo. A Venezia, per esempio, fu necessario attendere fino alla vigilia della prima guerra mondiale perché la mortalità infantile scendesse ai livelli che la comunità ebraica aveva già fatto propri attorno al 1850. Vi sono diverse ipotesi sui processi che hanno dato origine alla cosiddetta transizione demografica, vale a dire al passaggio verso un regime demografico moderno, grazie alla riduzione della mortalità infantile e al successivo controllo della fecondità. Alcuni sottolineano il ruolo decisivo svolto dal miglioramento nella nutrizione; altri sostengono invece che il merito vada al progresso raggiunto nelle condizioni di igiene pubblica e privata, derivato da una maggiore consapevolezza dei meccanismi di diffusione delle malattie; altri ancora ipotizzano una diminuzione autonoma nella virulenza degli agenti patogeni(203). Nessuna di queste spiegazioni sembra però adattarsi al caso veneziano: in effetti, gli agenti patogeni che falcidiavano i cattolici erano gli stessi che risparmiavano gli ebrei; quanto alla nutrizione, essa poteva essere diversa nella qualità, non certo nella quantità; se per l'igiene personale potevano esserci delle differenze, quella pubblica era invece la stessa per entrambi. Del resto, per quanto nell'ultimo ventennio del secolo Venezia abbia conosciuto miglioramenti di un certo rilievo tanto nelle condizioni economiche che in quelle urbanistiche, questo sviluppo non sembra così drastico da potersi riflettere in modo decisivo e diretto sui comportamenti demografici. Questi miglioramenti non avrebbero potuto essere efficaci, se non fossero stati accompagnati da un profondo processo di trasformazione culturale, che in qualche modo finì per rendere i cattolici - almeno dal punto di vista delle concezioni dell'infanzia, del benessere dei bambini, della salute - più simili agli ebrei.
In termini di generazioni, una distanza minima ci separa dal regime demografico che abbiamo descritto in queste pagine: i nostri nonni e bisnonni hanno ancora fatto in tempo a conoscerlo e sono stati abbastanza fortunati da uscirne indenni. Da un punto di vista culturale, la distanza che ci separa da quel mondo è invece abissale. Occorre purtroppo riconoscere che poco o niente si sa dell'antropologia culturale di quegli anni e del modo in cui questa è venuta cambiando nel giro di pochi decenni. La vicinanza cronologica contribuisce forse a creare un inganno prospettico, inducendoci a ritenere ormai simile a noi e 'moderno' un mondo che invece, sotto molti aspetti, tale non era. In modo forse inaspettato, l'indagine demografica lascia invece indovinare una sua radicale alterità, che attende di essere esplorata. Come nota Robert Darnton, a volte i migliori punti di accesso attraverso i quali penetrare in una cultura a noi estranea sono quelli che a prima vista sembrano i più opachi(204).
1. Il riferimento è al noto studio di Samuel H. Preston-Michael R. Haines, Fatal Years. Child Mortality in Late Nineteenth-Century America, Princeton, N.J. 1991.
2. Renzo Derosas, La fortuna di nascere ebrei. Fattori culturali nei differenziali di mortalità infantile, in Per Marino Berengo. Scritti degli allievi, a cura di Livio Antonielli-Carlo Capra-Mario Infelise, Milano 2000, p. 746 (pp. 743-777); Id., Appesi a un filo. I bambini veneziani di fronte alla morte (1850-1900), in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 39-53.
3. V. ad esempio le considerazioni di Massimo Livi Bacci, Popolazione e alimentazione. Saggio sulla storia demografica europea, Bologna 1987, p. 10.
4. Una presentazione in Renzo Derosas, Un esempio di applicazione dell'informatica alla ricerca storica: basi di dati e fonti anagrafiche, "Quaderni Storici", 24, 1989, nr. 70, pp. 297-319. V. inoltre le esaurienti note archivistiche di Sergio Barizza, Il Comune di Venezia 1806-1946. L'istituzione, il territorio, guida-inventario dell'Archivio Municipale, Venezia 19872, pp. 172-180. Tra gli esempi di uso delle fonti anagrafiche, v. étienne van de Walle, Household Dynamics in a Belgian Village 1847-1866, "Journal of Family History", 1, 1976, pp. 80-94; George Alter, Family and the Female Life Course: the Women of Verviers, Belgium, 1849-1880, Madison 1988; Olivier Faron, La ville des destins croisés. Recherches sur la société milanaise du XIXe siècle (1811-1860), Rome 1997.
5. Per avere un'idea dell'entità degli esclusi, si pensi che nel censimento del 1869 i residenti con domicilio in altro comune e gli "avventizi" ammontavano a circa 23.000 persone, su un totale di 133.000 abitanti: v. Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869 per religione, condizioni, professioni, arti e mestieri, Venezia 1871. Si trattava in gran parte di forestieri, domestici, militari, ricoverati, detenuti e così via. Capita di trovare registrate persone in possesso solo di una "precaria dimora", una sorta di permesso temporaneo di residenza in attesa di ottenere il domicilio legale, ma certo la maggioranza sfuggiva a qualsiasi rilevazione. Per esempio, almeno la metà delle 4.600 "serve" censite nel 1869, di gran lunga la categoria professionale femminile più numerosa, proveniva da fuori Venezia. La prima rilevazione del 1850 le aveva escluse dai ruoli di popolazione. Con la revisione 'a tavolino' dell'anagrafe seguita al censimento del 31 ottobre 1857 un certo numero era stato invece individuato e aggiunto ai registri, tuttavia le relative schede non avevano poi subito ulteriori aggiornamenti, a dimostrazione che ogni pretesa di controllo su questa parte di popolazione fluttuante era stata subito abbandonata.
6. In particolare, alcune date sono imprecise o mancano del tutto. Eventuali variazioni nella professione sono segnalate raramente o comunque non sono datate. Rara è l'indicazione dell'occupazione delle donne. Ancora più grave è la mancata registrazione di alcuni eventi. Un confronto coi registri parrocchiali rivela che talvolta si trascurava di denunciare all'anagrafe bambini morti immediatamente dopo la nascita. Infine bisogna considerare che a volte l'anagrafe dà un'immagine ingannevole dell'effettiva composizione degli aggregati domestici. Infatti succedeva che delle famiglie coabitassero per qualche tempo senza che i rispettivi fogli-famiglia fossero a loro volta riunificati, dando l'impressione di continuare a stare ciascuna per conto proprio. In effetti, all'amministrazione comunale interessava molto più poter rintracciare le persone che sapere esattamente con chi vivevano. Tuttavia attraverso un confronto tra legami di parentela, indirizzi e date di trasferimento si può inferire che in realtà due o più nuclei coabitavano. Ciò detto, va ribadito che nel complesso la qualità dei dati è comunque piuttosto buona, anche perché soggetta a continue verifiche da parte dell'amministrazione. Un'analisi attenta dei documenti mostra infatti chiaramente che, quando erano chiamati a registrare qualche cambiamento nella composizione della famiglia, gli impiegati ne approfittavano per verificare con gli interessati la completezza dei dati a loro disposizione, apportando eventuali correzioni o integrazioni.
7. La causa di morte è riportata nel registro dei morti conservato in Venezia, Archivio della Comunità Ebraica, b. 56 D.
8. Cf. R. Derosas, La fortuna di nascere ebrei, e la bibliografia ivi riportata.
9. Paolo Vineis, Modelli di rischio. Epidemiologia e causalità, Torino 1990; Paul D. Allison, Event History Analysis, Beverly Hills, Cal. 1984.
10. Tra i contributi di maggior rilievo, v. Venezia e l'Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999; Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999; Il Veneto austriaco 1814-1866, a cura di Paolo Preto, Padova 2000; Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell'Ottocento veneto, a cura di Donatella Calabi, Venezia 2001.
11. Gaspare Federigo, Topografia fisico-medica della città di Venezia, delle sue isole, estuarii e lagune, dei cangiamenti nati e dei mezzi profilattici d'igiene, II, Padova 1832, p. 69, indica un totale di 149.476 abitanti per il 1797 (alle pp. 66 ss. dati annui sulla consistenza demografica di Venezia e sul movimento naturale dal 1816 al 1830). Le Anagrafi del 1795 riportano 137.240 abitanti: v. Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, p. 59. Più recente e tecnicamente sofisticato il saggio di Alessandro Rosina, La popolazione di Venezia, 1633-1797: una ricostruzione delle dinamiche evolutive, in Il sistema demografico alla fine delle grandi epidemie. Venezia, il Dogado, Chioggia tra Seicento e Settecento, a cura di Id.-Fiorenzo Rossi, Padova 2000, pp. 39-61. Massimo Costantini, L'albero della libertà economica. Il processo di scioglimento delle corporazioni veneziane, Venezia 1987, p. 46, ipotizza in 20-24.000 il numero dei non residenti, stimando una popolazione totale di 160.000 abitanti. Il dato del 1799 risulterebbe da un censimento austriaco non conservato: cf. Renato Zangheri, La popolazione italiana in età napoleonica, Bologna 1966, p. 133, ed è riportato anche da Costantini, p. 46. Una pubblicazione ufficiale indica invece che già nel 1800 la popolazione sarebbe scesa addirittura a 96.000 abitanti (v. Municipio di Venezia-Giunta Comunale di Statistica, Statistica del settennio 1874-80, Venezia 1881, p. LXXXIV), un livello decisamente troppo basso per risultare attendibile, mentre più realistici anche se forse sovrastimati sono i 134.398 abitanti riportato da Karl Julius Beloch, Storia della popolazione d'Italia, Firenze 1994, p. 398. I dati del 1805 e 1811 derivano da rilevazioni effettuate rispettivamente dalle amministrazioni austriaca e napoleonica, e sono riportati in S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 132, 172. Se si aggiungono forestieri, militari e abitanti delle isole il totale del 1811 sale a 123.340, che si discosta significativamente dai 106.038 abitanti indicati per il 1810 da Zangheri (pp. 131-132). Anche Beltrami (p. 59) indica peraltro per il 1807 un totale di soli 100.400 abitanti (popolazione presente).
12. La stima, necessariamente approssimativa, si basa sullo spoglio dei registri dei decessi di 35 parrocchie veneziane.
13. G. Federigo, Topografia fisico-medica, p. 66. Sulla crisi del 1816-1817 cf. Giulio Monteleone, La carestia del 1816-1817 nelle province venete, "Archivio Veneto", ser. V, 86-87, 1969, pp. 23-86.
14. Giovanni Duodo, Prospetti dimostranti l'andamento diviso per decadi di tutte le 9 epidemie choleriche avutesi in Venezia, Venezia 1874.
15. G. Federigo, Topografia fisico-medica, pp. 66 ss.
16. Cf. ad esempio Urban Disease and Mortality in the Nineteenth Century, a cura di Robert Woods-John Woodward, London 1984; Frances Bell-Robert Millward, Public Health Expenditures and Mortality in England and Wales 1870-1914, "Continuity and Change", 13, 1998, pp. 221-249.
17. Allan Sharlin, Natural Decrease in Early Modern Cities: a Reconsideration, "Past and Present", 1978, nr. 79, pp. 126-138; Ad M. van der Woude, Population Developments in the Northern Netherlands (1500-1800) and the Validity of the 'Urban Graveyard' Effect, "Annales de Démographie Historique", 1982, pp. 55-75; Johan Söderberg-Ulf Jonsson-Christer Persson, A Stagnating Metropolis: the Economy and Demography of Stockholm, 1750-1850, Cambridge 1991, pp. 197-198. Un bilancio complessivo in Jan de Vries, European Urbanization 1500-1800, London 1984, pp. 179-198.
18. Questo aspetto in particolare è sottolineato da A. Sharlin, Natural Decrease, e collegato al fatto che gli immigrati in città generalmente non si sposavano e dunque non contribuivano alla riproduzione della popolazione urbana mentre incidevano sulla mortalità complessiva.
19. Cf. per l'Italia Lorenzo Del Panta, Evoluzione demografica e popolamento nell'Italia dell'Ottocento, Bologna 1984, pp. 119-120.
20. Edward A. Wrigley, A Simple Model of London's Importance in Changing English Society and Economy 1650-1750, "Past and Present", 1967, nr. 37, pp. 45-49; Id., Urban Growth and Agricultural Change: England and the Continent in the Early Modern Period, "Journal of Interdisciplinary History", 15, 1985, pp. 683-728; Id., Brake or Accelerator? Urban Growth and Population Growth before the Industrial Revolution, in Urbanization in History. A Process of Dynamic Interactions, a cura di Ad van der Woude-Akira Hayami-Jan de Vries, Oxford 1990, pp. 101-112.
21. Maurice Garden, La démographie des villes françaises du XVIIIe siècle: quelques approches, Lyon 1977, pp. 43-85.
22. Jan de Vries, The Dutch Rural Economy in the Golden Age, 1500-1700, New Haven-London 1974, pp. 107-118.
23. Un accenno ai flussi dal Friuli verso Venezia in Fernand Braudel, Le strutture del quotidiano, Torino 1982, p. 460. Per un'articolata ricostruzione delle componenti del regime demografico veneziano in età moderna, v. A. Rosina, La popolazione di Venezia, 1633-1797.
24. Richard T. Rapp, Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986, p. 41.
25. Andrea Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi. La società veneziana nell'Ottocento asburgico, in Venezia e l'Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, p. 176 (pp. 169-194).
26. Cf. i dati riportati in J. Söderberg-U. Jonsson-C. Persson, A Stagnating Metropolis, p. 23.
27. L. Del Panta, Evoluzione demografica e popolamento, p. 120.
28. R. Zangheri, La popolazione italiana, pp. 144-147.
29. J. Söderberg-U. Jonsson-C. Persson, A Stagnating Metropolis, p. 28.
30. Jean-Pierre Poussou, Bordeaux et le Sud-Ouest au XVIIIe siècle, Paris 1983, p. 247.
31. Peter Jansen, Poverty in Amsterdam at the Close of the Eighteenth Century, "Acta Historiae Neerlandica", 10, 1978, pp. 98-114.
32. Utilizzo qui i dati riportati in Paul Bairoch-Jean Batou-Pierre Chèvre, La population des villes européennes. Banque de données et analyse sommaire des résultats. 800-1850, Genève 1988. Per l'Italia, cf. Eugenio Sonnino, Bilanci demografici di città italiane: problemi di ricerca e risultati, in Società Italiana di Demografia Storica, La demografia storica delle città italiane. Atti del convegno, Bologna 1982, pp. 47-108.
33. Louis Chevalier, La formation de la population parisienne au XIXe siècle, Paris 1950, pp. 104-106.
34. J. Söderberg-U. Jonsson-C. Persson, A Stagnating Metropolis, pp. 21-26, e la bibliografia qui ricordata.
35. Bruno Caizzi, Industria e commercio della Repubblica veneta nel XVIII secolo, Milano 1965.
36. M. Costantini, L'albero della libertà economica, pp. 53-59.
37. Renzo Derosas, Aspetti economici della crisi del patriziato veneziano tra fine Settecento e primo Ottocento, "Cheiron", 6-7, 1989-1990, nrr. 12-13, pp. 11-61.
38. I dati sono riportati nel Ricorso presentato nel 1825 dal patriarca Ladislao Pyrker all'imperatore, e ampiamente riassunto in Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L'architettura, l'urbanistica, Venezia 19882, pp. 140-143. Sull'organizzazione dei traghetti è ricco di informazioni Guglielmo Zanelli, Traghetti veneziani. La gondola al servizio della città, Venezia 1997.
39. William D. Howells, Venetian Life, Leipzig 1883 [London 1866], p. 23. La traduzione è mia.
40. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 136-147.
41. G. Federigo, Topografia fisico-medica, p. 66.
42. Angelo Gambasin, Poveri e beneficenza nel Veneto tra la fine del '700 e il primo '800, in Stato e Chiesa di fronte al problema dell'assistenza, a cura del Centro Italiano Storia Ospitaliera, Roma 1982, pp. 207-208 (pp. 203-282).
43. G. Romanelli, Venezia Ottocento, p. 141, anche per attestazioni dell'attendibilità di Pyrker. Cf. anche Silvio Tramontin, Il patriarca Pyrker e la sua visita pastorale, in La visita pastorale di Giovanni Ladislao Pyrker nella diocesi di Venezia (1821), a cura di Bruno Bertoli-Silvio Tramontin, Roma 1971, pp. XLIII-CXXVII.
44. Tafeln zur Statistik der österreichischen Monarchie, 1-21, Wien 1828-1848.
45. Alessandro Rosina, La popolazione del Veneto durante la dominazione austriaca. Un tentativo di ricostruzione (1816-1865), "Bollettino di Demografia Storica", 23, 1995, pp. 101-103 (pp. 97-118).
46. Kent R. Greenfield, Commerce and New Enterprise at Venice, 1830-1848, "The Journal of Modern History", 11, 1939, pp. 313-333; Giovanni Zalin, Aspetti e problemi dell'economia veneta dalla caduta della Repubblica all'annessione, Vicenza 1969, pp. 121-169; A. Zannini, Vecchi poveri e nuovi borghesi, pp. 171-172; G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 146-147, 184-204, 257-261.
47. G. Duodo, Prospetti.
48. G. Zalin, Aspetti e problemi dell'economia veneta, pp. 171 ss.; G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 257 ss.; Bruno Caizzi, La crisi economica del Lombardo Veneto nel decennio 1850-59, "Nuova Rivista Storica", 42, 1958, pp. 205-222.
49. Questi dati si basano sui prezzi stabiliti settimanalmente al mercato di Legnago e riportati nella "Gazzetta di Venezia" (mia rilevazione).
50. A.S.V., Camera di Commercio, bb. 221, 255. Sulla crisi cf. G. Zalin, Aspetti e problemi dell'economia veneta, pp. 171-186.
51. R. Derosas, Appesi a un filo, p. 43.
52. G. Zalin, Aspetti e problemi dell'economia veneta, pp. 187-200.
53. Emilio Morpurgo, Saggi statistici ed economici sul Veneto, Padova 1868, p. 342.
54. W.D. Howells, Venetian Life, pp. 15, 23. La traduzione è mia.
55. I risultati dei censimenti sono riportati in S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 176-177. Totali annui sono riportati anche, con qualche discordanza e senza distinzione tra popolazione stabile e mutante, in Municipio di Venezia, Statistica del settennio 1874-80, p. LXXXIV.
56. Maurizio Reberschak, L'economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 229-237 (pp. 227-298); Id., L'industrializzazione di Venezia (1866-1918), in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 369-404; Nicola Randolfi, Trasformazione urbana e produzione industriale nella Venezia dell'Ottocento, in Venezia città industriale. Gli insediamenti produttivi del 19° secolo, Venezia 1980, pp. 11-28.
57. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 363 ss.
58. I dati si riferiscono alla popolazione della città storica. La popolazione presente superava di circa 3.000 individui quella residente. È escluso il comune di Malamocco, di circa 1.800 abitanti, aggregato a Venezia nel 1883. Come è noto, nel 1891 non venne effettuata la rilevazione censuaria per motivi di economia. I dati annui sulla popolazione ricavati dai registri di popolazione sono inattendibili per la consistente sottoregistrazione dei flussi migratori: cf. Aldo Contento, La popolazione veneziana dopo il 1871 comparata con quella delle maggiori città italiane, Venezia 1906, pp. 15-17.
59. Comune di Venezia-Giunta Comunale di Statistica (poi Ufficio di Statistica), "Rassegna Statistica Trimestrale" (poi "Bollettino Mensile"), 1881-1901, ad annum.
60. A. Contento, La popolazione veneziana dopo il 1871, pp. 92, 118.
61. Ibid., pp. 14-17, 128; Municipio di Venezia, Statistica del settennio 1874-80, p. CLXXVI. Sugli aspetti economici e le conseguenze sociali del processo di immigrazione a fine Ottocento v. Diego Rallo, Immigrazione, sviluppo industriale e composizione della manodopera, in Lavoro ed emigrazione minorile dall'Unità alla Grande guerra, a cura di Bruna Bianchi-Adriana Lotto, Venezia 2000, pp. 187-213.
62. A. Contento, La popolazione veneziana dopo il 1871, p. 21. Cf. anche Carlo Carozzi-Alberto Mioni, L'Italia in formazione. Lo sviluppo urbanistico del territorio nazionale. Antologia critica, Bari 1980, pp. 21-56.
63. Dato riferito al cosiddetto centro storico, isole escluse, al 30 aprile 2001.
64. A. Contento, La popolazione veneziana dopo il 1871, pp. 28-29.
65. Ibid., pp. 34-36. Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 334-354 (pp. 323-380).
66. John Pemble, Venice Rediscovered, Oxford 1996.
67. G. Romanelli, Venezia Ottocento, p. 402.
68. V. i saggi raccolti in La politica della casa agli inizi del ventesimo secolo. Atti della prima giornata di studio 'Luigi Luzzatti' per la storia dell'Italia contemporanea, a cura di Donatella Calabi, Venezia 1995.
69. S. Barizza, Il Comune di Venezia, pp. 193-194. Una nuova indagine dello stesso tipo fu decisa nel 1906.
70. Raffaele Vivante, La tubercolosi polmonare a Venezia, sua diffusione e profilassi, Venezia 1904.
71. Gianpiero Dalla Zuanna-Marzia Loghi, Popolazione e popolazioni. Studi territoriali preliminari alla storia della popolazione veneta. 1856-1911, Padova 1997, pp. 120-121.
72. A. Contento, La popolazione veneziana dopo il 1871, pp. 122-124.
73. R. Derosas, Appesi a un filo, pp. 42-43.
74. G. Dalla Zuanna-M. Loghi, Popolazione e popolazioni, pp. 122-123. L'età media si riferisce qui alla SMAM (Singulate Mean Age at Marriage).
75. A. Contento, La popolazione veneziana dopo il 1871, pp. 84-88.
76. Il Municipio di Venezia, Statistica del settennio 1874-80, pp. CXXII-CXXIII, calcola per il 1874-1880 un totale di 4.474 nascite illegittime, corrispondenti al 17,5% dei nati. Di questi, però, 1.932 erano esposti, parte dei quali era certamente legittima. Questi aspetti verranno ripresi con maggiori dettagli più avanti nel testo.
77. Quest'ultimo calcolo si basa sul confronto dell'indice Ig di Coale, misura standardizzata della fecondità coniugale rispetto all'età. V. G. Dalla Zuanna-M. Loghi, Popolazione e popolazioni, p. 49, che utilizzano le elaborazioni di Maria Castiglioni-Gianpiero Dalla Zuanna-Salvatore La Mendola, Differenze di fecondità tra i distretti del Veneto attorno al 1881. Analisi descrittiva e ipotesi interpretative, in La transizione demografica nel Veneto. Alcuni spunti di ricerca, a cura di Fiorenzo Rossi, Venezia 1991, pp. 145-146 (pp. 73-150).
78. A. Contento, La popolazione veneziana dopo il 1871, pp. 100-102.
79. Ibid., p. 102.
80. Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869.
81. Questo dato risulta dal censimento eseguito per ordine della Municipalità nel settembre 1797. Cf. Gino Luzzatto, Un'anagrafe degli ebrei di Venezia del settembre 1797, in Scritti in memoria di Sally Mayer (1875-1953). Saggi sull'ebraismo italiano, Gerusalemme 1956, pp. 194-198; e, più estesamente, Marino Berengo, Gli ebrei veneziani alla fine del Settecento, in Italia Judaica, III, Roma 1989, pp. 9-30.
82. Donatella Calabi, Gli ebrei veneziani dopo l'apertura delle porte del ghetto: le dinamiche insediative, in 1797. Le metamorfosi di Venezia. Atti del seminario internazionale di alta cultura presso la Fondazione Cini a Venezia, a cura di Gaetano Cozzi, in corso di stampa; Gadi Luzzatto Voghera, in questo volume.
83. Simon Levis Sullam, Una comunità ebraica 'immaginata', dal ghetto alla grande guerra, "Studi Storici", 41, 2000, p. 623 n. 15 (pp. 619-645).
84. Théophile Gautier, Italia, Paris 1860, pp. 311-313, cit. ibid., pp. 622-623 (la traduzione è di Levis Sullam).
85. W.D. Howells, Venetian Life, pp. 187-193.
86. V. in proposito l'acuta analisi di S. Levis Sullam, Una comunità ebraica 'immaginata'.
87. Donatella Calabi, La città e le sue periferie: le case, i ponti, le strade, in Dopo la Serenissima. Società, amministrazione e cultura nell'Ottocento veneto, a cura di Ead., Venezia 2001, pp. 491-505 (pp. 471-511); Ead., Il Ghetto e la città, in Ennio Concina-Ugo Camerino-Donatella Calabi, La città degli ebrei. Il Ghetto di Venezia: architettura e urbanistica, Venezia 1991, pp. 284-291 (pp. 201-301).
88. François-August-René de Chateaubriand, Memorie d'oltretomba, a cura di Ivana Rosi, II, Torino 1995, pp. 954-955, cit. da S. Levis Sullam, Una comunità ebraica 'immaginata', p. 622.
89. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, IV-5-25, cit. da Antonio Clera, La parrocchia dell'Angelo Raffaele a Venezia. Struttura sociale e demografica (1850-1869), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1985-1986, p. 21.
90. F.-A.-R. de Chateaubriand, Memorie d'oltretomba, p. 944.
91. Per tutta la vicenda delle fognature v. A. Clera, La parrocchia dell'Angelo Raffaele, pp. 21-26.
92. G. Federigo, Topografia fisico-medica, p. 7.
93. Le citazioni sono tratte dalle visite dei patriarchi Flangini (1803) e Monico (1843), riportate da Roberto Zago, I Nicolotti. Storia di una comunità di pescatori a Venezia nell'età moderna, Abano Terme 1982, p. 47 n.
94. Sui privilegi dei nicolotti e le antiche normative che regolavano la pesca in laguna, v. ibid., pp. 129-143.
95. A. Clera, La parrocchia dell'Angelo Raffaele, pp. 38-39.
96. Traggo queste indicazioni da Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869.
97. A. Clera, La parrocchia dell'Angelo Raffaele, pp. 12-14.
98. Gadi Luzzatto Voghera, Educazione e scolarità fra gli ebrei di Venezia nell'età della Restaurazione, relazione inedita presentata al seminario su Gli ebrei veneziani nell'Ottocento: la scuola, i mestieri, le condizioni familiari, Fondazione Cini, XXVIII Corso internazionale di alta cultura, Venezia, settembre 1996. Id., Cenni sulla presenza ebraica a Venezia durante la dominazione austriaca, in Venezia e l'Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 195-212; Id., in questo volume; R. Derosas, La fortuna di nascere ebrei, p. 760.
99. Municipio di Venezia, Statistica del settennio 1874-80, p. XCII.
100. I verbali della Commissione sono conservati presso l'Archivio Storico Comunale di Venezia.
101. Mio calcolo sulla base di Comune di Venezia, Rilievo degli abitanti di Venezia 1869.
102. W.D. Howells, Venetian Life, pp. 154, 302, 310-312, 318. La traduzione è mia.
103. Madame de Staël, Corinne ou l'Italie, in Œuvres complètes, I, Paris 1838, p. 801. La traduzione è mia.
104. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 383 (pp. 381-482).
105. I registri delle sepolture della parrocchia di S. Eufemia riportano anche l'indirizzo del defunto al momento del decesso. Su 937 casi controllati, l'86% coincide con l'indirizzo risultante all'anagrafe. Un quarto delle differenze riguarda il 1869, quando la vecchia anagrafe venne abbandonata.
106. Per questi dati e quelli che seguono, rinvio al mio Residential Mobility in Venice, 1850-1869, "Annales de Démographie Historique", 1999, nr. 1, pp. 35-61.
107. Herbert J. Gans, The Urban Villagers: Group and Class in the Life of Italo-Americans, New York 1962; Ulf Hannerz, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, Bologna 1994, passim.
108. Nel suo studio su Torino nel primo Novecento, Gribaudi ha mostrato che gli immigrati dalle campagne circostanti seguivano due tipi diversi di mobilità intraurbana: coloro che cambiavano casa più spesso e si stabilivano in quartieri socialmente diversificati e meno segregati avevano maggiori probabilità di migliorare rapidamente la loro posizione sociale: v. Maurizio Gribaudi, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino 1987, pp. 75-96.
109. V. i saggi pubblicati nel numero monografico degli "Annales de Démographie Historique", 1999, nr. 1.
110. Jason A. Gilliland, Modeling Residential Mobility in Montreal, 1860-1900, "Historical Methods", 31, 1998, pp. 27-43.
111. Peter Henry Rossi, Why Families Move?, Beverly Hills, Cal. 1955; Alden Speare jr.-Sidney Goldstein-William H. Frey, Residential Mobility, Migration and Metropolitan Change, Cambridge, Mass. 1975.
112. Larry Long, The Influence of Number and Ages of Children on Residential Mobility, "Demography", 9, 1972, pp. 371-382; Id., Migration and Residential Mobility in the United States, New York 1988; Jeanne Brooks-Gunn-Greg J. Duncan-Pamela Kato Klebanov-Naomi Sealand, Do Neighborhoods Influence Child and Adolescent Development?, "American Journal of Sociology", 99, 1993, pp. 353-395; Kevin E. McHugh-Patricia Gober-Neil Reid, Determinants of Short- and Long-Term Mobility Expectations for Home Owners and Renters, "Demography", 27, 1990, pp. 81-95.
113. Per esempio, molti afroamericani risultano restii ad abbandonare il loro quartiere di origine, anche a prescindere dai fattori di segregazione che ne vincolano le scelte: v. Scott J. South-Kyle D. Crowder, Residential Mobility between Cities and Suburbs: Race, Suburbanization, and Back-to-the City Moves, "Demography", 34, 1997, pp. 525-538.
114. Ci si riferisce qui al rischio relativo di cambiare casa entro un anno, stimato con i metodi dei modelli di rischio cui si è fatto riferimento agli inizi di questo lavoro. In particolare si è utilizzato qui un modello a tempi discreti stimato con una regressione logistica multivariata. Maggiori dettagli tecnici in R. Derosas, Residential Mobility in Venice, pp. 45-47.
115. Più precisamente, un aumento di un'unità nel logaritmo naturale del prezzo del frumento si riflette in un aumento del rischio relativo di cambiare casa di 2,83.
116. Robert E. Bieder, Kinship as a Factor in Migration, "Journal of Marriage and the Family", 35, 1973, pp. 429-439.
117. Timothy J. Madigan-Dennis P. Hogan, Kin Access and Residential Mobility among Young Mothers, "Social Science Quarterly", 76, 1991, pp. 615-622.
118. Fuqin Bian-John R. Logan-Yanjie Bian, Intergeneration Relations in Urban China: Proximity, Contact and Help to Parents, "Demography", 35, 1998, pp. 115-124. Linda G. Martin-Noriko O. Tsuya, Interactions of MiddleAged Japanese with their Parents, "Population Studies", 45, 1991, pp. 299-311.
119. Judit Bodnár-József Börölz, Housing Advantages for the Better Connected? Institutional Segmentation, Settlement Type and Social Network Effects in Hungary's Late State-Socialist Housing Inequalities, "Social Forces", 76, 1998, pp. 1275-1304.
120. La difficoltà di identificare con sufficiente completezza la rete parentale rende poco attendibile una simile verifica per gli abitanti del Ghetto ebraico.
121. Elizabeth Bott, Family and Social Networks; Roles, Norms, and External Relationships in Ordinary Urban Families, London 1971, specialmente alle pp. 52-96; Ellen Ross, Survival Networks: Women's Neighbourhood Sharing in London before World War One, "History Workshop", 15, 1983, pp. 4-27.
122. Sul carattere ingannevole delle fonti censuarie contemporanee per lo studio dei sistemi familiari svolgono considerazioni di grande interesse John Knodel-Chanpen Saengtienchai, Studying Living Arrangements of the Elderly: Lessons from a Quasi-Qualitative Case Study Approach in Thailand, "Journal of Cross-Cultural Gerontology", 14, 1999, pp. 197-220. Faron ha rilevato nell'anagrafe preunitaria milanese una netta tendenza alla "nuclearizzazione amministrativa", vale a dire a descrivere come separate famiglie che di fatto coabitavano assieme, un fenomeno certamente presente anche nel caso veneziano: O. Faron, La ville des destins croisés, pp. 291-294.
123. Se per esempio Frédéric Le Play, L'organisation de la famille selon le vrai modèle signalé par l'histoire de toutes les races et de tous les temps, Paris 1871, rimpiangeva la fine di una società patriarcale fortemente idealizzata e in gran parte immaginaria, Talcott Parsons vedeva invece nella rottura dei legami intergenerazionali una condizione indispensabile alla diffusione di un sistema di relazioni industriali: Talcott Parsons-Robert F. Bales-James Olds, Family, Socialization and Interaction Process, Glencoe, Ill. 1955.
124. Peter Laslett, Family, Kinship, and Collectivity as Systems of Support in Preindustrial Europe: a Consideration of the 'Nuclear Hardship Hypothesis', "Continuity and Change", 3, 1988, pp. 153-175. Una riconferma della debolezza dei legami familiari nell'Europa nordoccidentale e negli Stati Uniti in David S. Reher, Family Ties in Western Europe: Persistent Contrasts, "Population and Development Review", 24, 1998, pp. 203-234. Per Michel Verdon, Rethinking Households: An Atomistic Perspective on European Living Arrangements, London-New York 1998, la cultura europea sarebbe caratterizzata da una pulsione insopprimibile per la costituzione di famiglie autonome e indipendenti, che solo sistemi sociali basati su rigidi controlli patrimoniali da parte delle generazioni anziane possono riuscire a coartare.
125. Michael Anderson, Family Structure in Nineteenth-Century Lancashire, Cambridge 1971; Tamara K. Hareven, Family Time and Industrial Time: Family and Work in a Planned Corporation Town, 1900-1924, in Family and Kin in Urban Communities, 1700-1930, a cura di Ead., New York 1977, pp. 289-356; Steven Ruggles, Prolonged Connections. The Rise of the Extended Family in Nineteenth-Century England and America, Madison 1987; Angelique Janssens, Family and Social Change. The Household as a Process in an Industrializing Community, Cambridge 1993.
126. M. Anderson, Family Structure, passim; Michelle Perrot, La gioventù operaia: dal laboratorio alla fabbrica, in Storia dei giovani, II, L'età contemporanea, a cura di Giovanni Levi-Jean-Claude Schmitt, Bari 1994, pp. 93-160; Louise A. Tilly, Linen Was Their Life: Family Survival Strategies and Parent-Child Relations in Nineteenth-Century France, in Interest and Emotion. Essays on the Study of Family and Kinship, a cura di Hans Medick-David W. Sabean, Cambridge-Paris 1984, pp. 300-316; Colin G. Pooley-Jean Turnbull, Leaving Home: the Experience of Migration from the Parental Home in Britain since c. 1770, "Journal of Family History", 22, 1997, pp. 390-424; Hilde Bras-Jan Kok, Naturally, Every Child Was Supposed to Work. Family Determinants of the Leaving Home Process in The Netherlands, 1850-1940, The Hague, June 1999 (Paper for the European Science Foundation Conference "The Leavers and Stayers in the Household in EurAsian Societies", NIDI); Howard P. Chudacoff-Tamara K. Hareven, From the Empty Nest to Family Dissolution: Life Course Transitions into Old Age, "Journal of Family History", 4, 1979, pp. 69-83; G. Alter, Family and the Female Life Course, passim.
127. Barry Reay, Kinship and the Neighborhood in Nineteenth-Century Rural England: the Myth of the Autonomous Nuclear Family, "Journal of Family History", 21, 1996, pp. 87-104; Jean Robin, From Childhood to Middle Age: Cohort Analysis in Colyton, 1851-1891, Cambridge s.a. (Cambridge Group for the History of Population and Social Structure, Working Paper Series, nr. 1); Keith Wrightson, Kinship in an English Village: Terling, Essex 1500-1700, in Land, Kinship and Life-Cycle, a cura di Richard M. Smith, Cambridge 1984, pp. 313-332; Richard Wall, Beyond the Household: Marriage, House- hold Formation and the Role of Kin and Neighbours, "International Review of Social History", 44, 1999, pp. 55-67; Sherri Klassen, Old and Cared for: Place of Residence for Elderly Women in Eighteenth-Century Toulouse, "Journal of Family History", 24, 1999, pp. 35-51. Per un esempio relativo all'Europa orientale, v. Hans-Peter Kohler-Eugene A. Hammel, On the Role of Families and Kinship Networks in Pre-industrial Agricultural Societies: An Analysis of the 1698 Slavonian Census, "Journal of Population Economics", 14, 2001, pp. 21-49.
128. D.S. Reher, Family Ties in Western Europe; Jack Goody, The European Family. An Historico-Anthropological Essay, Oxford 2000; ma cf. le osservazioni di Stuart J. Woolf, The Southern European Family Again. Some Perspectives of Research, in Familia, casa y trabajo, a cura di Francisco Chacón Jiménez-Llorenç Ferrer i Alòs, Murcia 1997, pp. 37-47.
129. Michael Mitterauer-Reinhard Sieder, The European Family, Chicago 1982, pp. 25-26; Marco Fincardi, Fuori dal matrimonio. Costumi sessuali dei giovani nella Padania bracciantile, "Annali dell'Istituto 'Alcide Cervi'", 17-18, 1995-1996, p. 270 (pp. 259-283).
130. Per esempio, nella prima metà dell'Ottocento a Stoccolma la crisi del settore tessile tradizionale e l'espansione di un'economia 'informale', che consentiva soprattutto alle donne di provvedere da sole al loro mantenimento, portò a un aumento delle nascite illegittime e della formazione di famiglie extraconiugali: J. Söderberg-U. Jonsson-C. Persson, A Stagnating Metropolis, pp. 59-60.
131. M. Anderson, Family Structure, pp. 68 ss.; L.A. Tilly, Linen Was Their Life.
132. Pierluigi Bembo, Delle istituzioni di beneficenza nella città e provincia di Venezia. Studii storico-economico-statistici, Venezia 1859; Bruno Bertoli, Assistenza pubblica e riformismo austriaco a Venezia durante la Restaurazione: i 'luoghi pii', "Ricerche di Storia Sociale e Religiosa", 1977, nr. 12, pp. 25-69; Casimira Grandi, in questo volume.
133. Questi dati si riferiscono alla situazione risultante dall'anagrafe al momento della sua istituzione (1850). Per un confronto con altre città contemporanee, v. Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna 1984, pp. 55-63; Id., Sistemi di formazione della famiglia in Italia, in Società Italiana di Demografia Storica, Popolazione, società e ambiente. Temi di demografia storica italiana (secc. XVII-XIX), Bologna 1990, pp. 3-43; Fabio Giusberti, Poveri in casa. Analisi familiare della povertà, ibid., pp. 161-174; Giovanni Gozzini, Firenze francese. Famiglie e mestieri ai primi dell'Ottocento, Firenze 1989, pp. 55-69; Carla Ge Rondi, Per lo studio delle trasformazioni della famiglia attraverso il ruolo della popolazione, "Bollettino di Demografia Storica", 1994, nr. 20, pp. 123-130; O. Faron, La ville des destins croisés, pp. 286-303.
134. Lutz K. Berkner, The Stem Family and the Developmental Cycle of the Peasant Household: an Eighteenth-Century Austrian Example, "American Historical Review", 77, 1972, pp. 398-418; William G. Skinner, Family Systems and Demographic Processes, in Anthropological Demography. Toward a New Synthesis, a cura di David I. Kertzer-Tom Fricke, Chicago 1997, pp. 53-94.
135. Miriam King-Samuel H. Preston, Who Lives with Whom? Individual versus Household Measures, "Journal of Family History", 15, 1990, pp. 117-132.
136. Questo conteggio include: i genitori, gli zii, i suoceri, i nonni; i fratelli e i cugini di primo grado; i figli, i nipoti (sia figli di fratelli che di figli); i rispettivi coniugi dei parenti, se sposati. Data la possibilità di mancate identificazioni, si tratta comunque di una valutazione per difetto. Per un maggiore dettaglio v. Renzo Derosas, Fatherless Families in Nineteenth-Century Venice, in When Dad Died. Individuals and Families Coping with Family Stress in Past Societies, a cura di Id.-Michel Oris-Osamu Saito, Ginevra 2001. Per un confronto con distribuzioni di parentela basate su microsimulazioni, cf. Daniel Devolder, Effects of the European Late Marriage Pattern on Kinship. A Study Using a Microsimulation Model, ibid.; per simili risultati empirici su scala molto più ampia, v. Wendy Post-Frans Van Poppel-Evert Van Imhoff-Ellen Kruse, Reconstructing the Extended Kin-Network in the Netherlands with Genealogical Data: Methods, Problems, and Results, "Population Studies", 51, 1997, pp. 263-278, e Catherine Bonvalet-Dominique Maison-Hervé le Bras-Lionel Charles, Proches et parents, "Population", 48, 1993, pp. 83-110.
137. Questi risultati e quelli che seguono sono esposti con maggiore dettaglio in Renzo Derosas, A Family Affair: Marriage, Mobility, and Living Arrangements in Nineteenth-Century Venice, The Hague, June 1999 (Paper for the European Science Foundation Conference "The Leavers and Stayers in the Household in EurAsian Societies", NIDI).
138. È il caso di sottolineare che, poiché si adotta qui il punto di vista dei figli, la stessa persona può essere la madre coresidente di un figlio, e vicina di un altro.
139. Si tratta del sistema della "rampa di lancio" (launching-pad) descritto da William G. Skinner, Family Systems and Demographic Processes, in Anthropological Demography. Toward a New Synthesis, a cura di David I. Kertzer-Tom Fricke, Chicago 1997, p. 62 (pp. 53-95), e diffuso in diversi paesi europei, dall'Inghilterra all'Islanda, al Belgio e alla Spagna: cf. C.G. Pooley-J. Turnbull, Leaving Home, pp. 416-419; George Rich, The Domestic Cycle in Modern Iceland, "Journal of Marriage and the Family", 40, 1978, pp. 173-183; George Alter, The European Marriage Pattern as Solution and Problem: Households of the Elderly in Verviers, Belgium, 1831, in Les systèmes démographiques du passé, a cura di Alain Bideau et al., Lyon 1996, pp. 3-19.
140. Thomas R. Malthus, An Essay on the Principle of Population, London-New York 1958 [1803].
141. Ma v. la revisione critica di questa convinzione, tuttora ampiamente diffusa, in James Z. Lee-Wang Feng, One Quarter of Humanity. Malthusian Mythology and Chinese Realities, 1700-2000, Cambridge, Mass.-London 1999; Wang Feng-James Lee-Cameron Campbell, Marital Fertility Control Among the King Nobility: Implications for Two Types of Preventive Check, "Population Studies", 49, 1995, pp. 383-400.
142. John Hajnal, European Marriage Patterns in Perspective, in Population in History, a cura di David V. Glass-David Eversley, London 1965, pp. 101-146; Id., Two Kinds of Preindustrial Household Formation System, "Population and Development Review", 8, 1982, pp. 449-494.
143. Katherine A. Lynch, The European Marriage Pattern in the Cities: Variations on a Theme by Hajnal, "Journal of Family History", 16, 1991, pp. 79-96.
144. Massimo Livi Bacci, On the Frequency of Remarriage in Nineteenth-Century Italy: Methods and Results, in Marriage and Remarriage in Populations of the Past, a cura di Jacques Dupâquier et al., London 1981, pp. 347-361. Rosella Rettaroli, L'età al matrimonio, in Storia della famiglia italiana 1750-1950, a cura di Marzio Barbagli-David I. Kertzer, Bologna 1992, pp. 63-102. Marzio Barbagli, Three Household Formation Systems in Eighteenth- and Nineteenth-Century Italy, in The Family in Italy from Antiquity to the Present, a cura di David I. Kertzer-Richard P. Saller, New Haven-London 1991, pp. 250-270.
145. Cf. le considerazioni di George Alter, New Perspectives on European Marriage in the Nineteenth Century, "Journal of Family History", 16, 1991, p. 4 (pp. 1-5).
146. È il caso per esempio dell'Irlanda del primo Novecento, dove una popolazione decrescente e salari reali in aumento non spiegano la persistenza di matrimoni tardivi e limitati. Secondo Timothy Guinnane, Re-thinking the Western European Marriage Pattern: the Decision to Marry in Ireland at the Turn of the Twentieth Century, "Journal of Family History", 16, 1991, pp. 47-64, l'esistenza di forme alternative di supporto durante la vecchiaia, pubbliche e private, contribuiva a rendere meno impellente la necessità di sposarsi. Cf. in merito anche Liam Kennedy-Edoardo Otranto-Lucia Pozzi, Avversione al matrimonio? L'esperienza della popolazione irlandese dopo la Grande Carestia (1851-1911), "Popolazione e Storia", 2000, nr. unico, pp. 75-95.
147. Per questi e gli altri dati presentati in seguito, rinvio ancora al mio A Family Affair.
148. G. Federigo, Topografia fisico-medica, pp. 81-83; W.D. Howells, Venetian Life, pp. 15-25, 333. Per Federigo la diminuzione dei matrimoni tra i ceti agiati era una delle cause del declino demografico veneziano.
149. M. Barbagli, Three Household Formation Systems; David I. Kertzer-Dennis P. Hogan, Reflections on the Euro- pean Marriage Pattern: Sharecropping and Proletari- anization in Casalecchio, Italy, 1861-1921, "Journal of Family History", 16, 1991, pp. 31-45. Per la Spagna, v. David S. Reher, Marriage Patterns in Spain, 1887-1930, ibid., pp. 7-30.
150. Simon Szreter-Eilidh Garrett, Reproduction, Compositional Demography, and Economic Growth: Family Planning in England Long Before the Fertility Decline, "Population and Development Review", 26, 2000, p. 54 (pp. 45-80). L'uso del life-cycle service era invece ancora assolutamente prevalente nella Svezia rurale dell'Ottocento: v. Martin Dribe, Leaving Home in a Peasant Society. Economic Fluctuations, Household Dynamics and Youth Migration in Southern Sweden, 1829-1866, Lund 2000, e Christer Lundh, Servant Migration in Sweden in the Early Nineteenth Century, "Journal of Family History", 24, 1999, pp. 53-73.
151. C.G. Pooley-J. Turnbull, Leaving Home, pp. 416-419. Il dato si riferisce a un campione di maschi nati tra 1750 e 1819. Un esempio analogo per il Belgio in G. Alter, The European Marriage Pattern.
152. V. supra, n. 6.
153. Le considerazioni che seguono danno un resoconto semplificato dei risultati di analisi compiute con l'impiego di modelli di rischio, come già fatto più sopra con riferimento alla mobilità residenziale. Le valutazioni si riferiscono dunque a rischi relativi di sperimentare un evento, in questo caso il matrimonio. Si espongono qui solo le stime statisticamente significative. Per maggiori dettagli su modelli e metodi utilizzati rinvio al mio A Family Affair.
154. A. Sharlin, Natural Decrease in Early Modern Cities, pp. 126-138, ritiene che i tassi di nuzialità più bassi degli immigrati in città rispecchiassero la loro marginalità sociale, dovuta a minori capacità lavorative e alle scarse risorse relazionali. Cf. anche S. Szreter-E. Garrett, Reproduction, Compositional Demography, and Economic Growth, p. 65, e J. de Vries, European Urbanization, p. 190.
155. Per una conferma della rilevanza delle reti di parentela, v. Martine Segalen, Mean Age at Marriage and Kinship Networks in a Town under the Influence of the Metropolis: Nanterre 1800-1850, "Journal of Family History", 16, 1991, pp. 65-78.
156. Per quanto riguarda l'età, nei modelli si distinguono i casi in cui i genitori hanno più o meno della soglia convenzionale dei 55 anni.
157. Si intende: rispetto al rischio calcolato per chi si trova ad essere il maschio più anziano nel gruppo dei fratelli e sorelle. Va tenuto in mente che si tratta di posizioni relative e pro tempore: per esempio, il secondogenito diventa il figlio più anziano in famiglia dopo che il primogenito se ne è eventualmente allontanato.
158. Cf. le osservazioni di G. Alter, Family and the Female Life Course, pp. 112-140, e l'ampia bibliografia ivi riportata. Per la situazione nelle campagne padane, v. M. Fincardi, Fuori dal matrimonio.
159. L'espressione è stata coniata da Edward Shorter, The Making of the Modern Family, New York 1975, p. 103; John A. Blaikie, Illegitimacy, Sex, and Society: Northeast Scotland, 1750-1900, Oxford 1993, pp. 13-17.
160. Louise A. Tilly-Joan W. Scott-Miriam Cohen, Women's Work and European Fertility Patterns, "Journal of Interdisciplinary History", 6, 1976, pp. 447-476.
161. Municipio di Venezia, Statistica del settennio 1874-80, pp. CXXII-CXXIII.
162. Cf. i dati riportati in J. Söderberg-U. Jonsson-C. Persson, A Stagnating Metropolis, pp. 155-156.
163. Alcuni studi recenti hanno stimato che nella Cina del XVIII e XIX secolo dal 15 al 20% delle bambine erano uccise alla nascita: v. James Lee-Cameron Campbell, Fate and Fortune in Rural China. Social Organization and Population Behavior in Liaoning, 1174-1873, Cambridge 1997, pp. 69-70; James Lee-Wang Feng-Cameron Campbell, Infant and Child Mortality among the Qing Nobility: Implications for Two Types of Positive Check, "Populations Studies", 48, 1994, pp. 395-411. Per il Giappone nell'era Tokugawa, William G. Skinner, Infanticide as Family Planning in Tokugawa Japan, in Sex and Gender Hierarchies, a cura di Barbara Miller, Cambridge 1993, pp. 236-270; Osamu Saito, Infanticide, Fertility, and Population Stagnation: the State of Tokugawa Historical Demography, "Japan Forum", 4, 1992, pp. 369-381; Laurel Cornell, Infanticide in Early Modern Japan? Demography, Culture, and Population Growth, "Journal of Asian Studies", 55, 1996, pp. 22-50.
164. Katherine Lynch, Infant Mortality, Child Neglect, and Child Abandonment in European History: A Comparative Analysis, in Population and Economy. From Hunger to Modern Economic Growth, a cura di Tommy Bengtsson-Osamu Saito, Oxford 2000, pp. 133-164.
165. Entrambi i dati sono ricavati da G. Federigo, Topografia fisico-medica, pp. 66 ss., 78-80. Sulla Pietà v. Franca Cosmai, L'infanzia abbandonata a Santa Maria della Pietà nell'Ottocento. Strategie assistenziali e condizioni di vita, in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999, pp. 3-21.
166. Il calcolo della mortalità degli esposti è complicato dal fatto che molti venivano affidati a balie al di fuori degli istituti. La valutazione offerta qui si basa sui calcoli prudenziali di Carl Ipsen, Legal Infanticide: Foundling Mortality and its Measurement in Turn-of-the-Century Italy, with Special Reference to the Casa dell'Annunziata of Naples, "Popolazione e Storia", 2000, nr. unico, pp. 123-150, al quale rinvio anche per l'amplia bibliografia in merito. Cenni sull'elevata mortalità riscontrata anche alla Pietà, ma senza precise misure, nel saggio di F. Cosmai, L'infanzia abbandonata, pp. 15-16.
167. F. Cosmai, L'infanzia abbandonata, p. 6.
168. G. Federigo, Topografia fisico-medica, pp. 90, 91.
169. Cf. in merito Volker Hunecke, I trovatelli di Milano. Bambini esposti e famiglie espositrici dal XVII al XIX secolo, Bologna 1989, pp. 24-26.
170. Ibid., p. 182
171. David I. Kertzer, Sacrificed for Honor. Italian Infant Abandonment and the Politics of Reproductive Control, Boston 1993, pp. 80-81.
172. Ibid., p. 81. Carlo Corsini, Una 'inondante scostumatezza'. Gli esposti dell'Ospedale degli Innocenti di Firenze, 1840-1842, in 'Benedetto chi ti porta, maledetto chi ti manda'. L'infanzia abbandonata nel Triveneto (secoli XV-XIX), a cura di Casimira Grandi, Treviso 1997, pp. 3-22, identifica come legittimi il 33,6 % degli esposti fiorentini, una quota che come sempre va intesa approssimata per difetto.
173. Cf. in proposito le lucide osservazioni di Volker Hunecke, L'invenzione dell'assistenza agli esposti nell'Italia del Quattrocento, in 'Benedetto chi ti porta, maledetto chi ti manda'. L'infanzia abbandonata nel Triveneto (secoli XV-XIX), a cura di Casimira Grandi, Treviso 1997, pp. 273-286.
174. Il dibattito sulle teorie della fertilità, sulle ragioni del suo declino nei paesi occidentali, sulle ragioni per cui si mantiene ancora elevata nei paesi in via di sviluppo, è ovviamente sterminato e non può essere riassunto in una nota. Nel testo riprendo alcune delle critiche alla teoria economica della fecondità esposte con grande chiarezza da Warren Robinson, The Economic Theory of Fertility Over Three Decades, "Population Studies", 51, 1997, pp. 63-74. Interessanti indicazioni anche in John Caldwell, The Delayed Western Fertility Decline: An Examination of English-Speaking Countries, "Population and Development Review", 25, 1999, pp. 479-513. Sulle determinanti della fecondità, il lavoro teorico di riferimento è quello di John Bongaarts-Robert G. Potter, Fertility, Biology and Behavior: an Analysis of the Proximate Determinants, New York 1983.
175. Ansley Coale, The Decline of Fertility in Europe Since the Eighteenth Century as a Chapter in Human Demographic History, in The Decline of Fertility in Europe, a cura di Id.-Susan Watkins, Princeton 1986, p. 11.
176. Attorno alla metà del Settecento l'intervallo protogenesico medio era di 16 mesi in Francia e di 14 in Inghilterra: v. Michael W. Flinn, The European Demographic System, 1500-1820, Baltimore 1981, p. 33. Intervalli più elevati, attorno al 15,3 mesi, sono calcolati per Milano a metà Ottocento da O. Faron, La ville des destins croisés, p. 410.
177. M.V. Flinn, The European Demographic System, p. 33 n. 22, riporta che l'intervallo medio dalla prima alla seconda nascita variava in Inghilterra dai 28 ai 31 mesi, in Francia dai 23 ai 26 (ibid., n. 20). A Venezia varia dai 20,5 degli operai ai 32,7 dei borghesi. Per un confronto con alcune località italiane, v. Massimo Livi Bacci, Donna, fecondità e figli. Due secoli di storia demografica italiana, Bologna 1980, p. 23.
178. Per i dati riportati qui di seguito, v. Marco Breschi-Renzo Derosas-Matteo Manfredini-Rosella Rettaroli, Family, Economy and Reproductive Behaviour: Three Case-Studies From Pre-Transitional Italy, Dipartimento di Scienze Statistiche "Paolo Fortunati", Università degli Studi di Bologna, Serie Ricerche 2000, nr. 5.
179. Massimo Livi Bacci-Marco Breschi, Italian Fertility: An Historical Account, "Journal of Family History", 15, 1990, pp. 398-408.
180. Massimo Livi Bacci, Ebrei, aristocratici e cittadini: precursori del declino della fecondità, "Quaderni Storici", 18, 1983, pp. 919-939.
181. Ibid. Cf. anche Susan C. Watkins-Angela D. Danzi, Women's Gossip and Social Change: Childbirth and Fertility Control Among Italian and Jewish Women in the United States, 1920-1940, "Gender and Society", 9, 1995, pp. 469-490.
182. Massimo Livi Bacci, Una comunità israelitica in un ambiente rurale: la demografia degli ebrei di Pitigliano nel XIX secolo, in Studi in memoria di Federigo Melis, V, Napoli 1978, pp. 132-133 (pp. 99-137); Deanna Sardi Bucci, La comunità ebraica di Firenze durante la prima metà del XIX secolo: caratteristiche demografiche, economiche e sociali, "Genus", 32, 1976, p. 107 (pp. 75-113).
183. United Nations Secretariat, Levels and Trends of Sex Differentials in Infant, Child and Under-Five Mortality, in United Nations-Department of Economic and Social Affairs-Population Division, Too Young to Die: Genes of Gender?, New York 1998, pp. 84-108. I dati si riferiscono alla fine degli anni 1980. La diffusione epidemica dell'Aids ha purtroppo aumentato notevolmente i tassi di mortalità infantile in questi paesi.
184. Questi e i dati che seguono sono stati da me presentati in diversi lavori, ai quali rinvio per maggiori dettagli: R. Derosas, Appesi a un filo; Id., La fortuna di nascere ebrei; Marco Breschi-Renzo Derosas Matteo Manfredini, Infant Mortality in Nineteenth-Century Italy. Interactions between Ecology and Society, in Population and Economy. From Hunger to Modern Economic Growth, a cura di Tommy Bengtsson-Osamu Saito, Oxford 2000, pp. 457-489; Idd., Fatal Seasons in Children's Survival. Italy, 19th Century, in De l'usage des seuils. Structures par âge et âges de la vie, a cura di Alain Bideau-Patrice Bourdelais-Jacques Légaré, "Cahiers des Annales de Démographie Historique", 2000, nr. 2, pp. 73-89; Marco Breschi-Renzo Derosas, The Contribution of the EurAsian Project to the Demographic History of Italy: Results and Perspectives on Infant and Child Mortality, in Family Structures, Demography and Population. A Comparison of Societies in Asia and Europe, a cura di Muriel Neven-Catherine Capron, Liège 2000, pp. 211-235; Idd.-Corrado Lagazio-Matteo Manfredini, L'influenza del contesto familiare sulla sopravvivenza dei bambini. Risultati di indagini microdemografiche sull'Italia dell'Ottocento, "Bollettino di Demografia Storica", 1999, nrr. 30-31, pp. 187-211.
185. Sul problema dell'interpretazione delle cause di morte, v. George Alter-Ann Carmichael, Studying Causes of Death in the Past. Problems and Methods, "Historical Methods", 29, 1996, pp. 44-48, e Idd., Classification of Causes of Death, "Continuity and Change", 12, 1997, pp. 161-315. Le informazioni usate qui sono tratte sia dai registri parrocchiali delle sepolture, sia dai registri del medico comunale, dove è indicata di norma anche la durata del decorso della malattia.
186. Per Andrea Valatelli, Della topografia fisico-medica di Venezia. Dissertation […], Venezia 1803, pp. 140, 144, già a 40 giorni i bambini venivani nutriti con pappe cotte con olio bruciato e brodo, purgati in continuazione con olio di mandorle e manna, addormentati con soporiferi "come la teriaca, le requie di Nicolò, il diascordio, e simili".
187. J. Ties Boerma-George Stroh, Using Survey Data to Assess Neonatal Tetanus Mortality Levels and Trends in Developing Countries, "Demography", 30, 1993, pp. 459-475; Celeste M. Smucker-George B. Simmons-Stan Bernstein-Bhaskar D. Misra, Neo-Natal Mortality in South Asia: the Special Role of Tetanus, "Population Studies", 34, 1980, pp. 321-335.
188. Manuale Merck di diagnosi e terapia, Milano 1995, p. 330. Per gli aspetti demografici, è fondamentale lo studio di B. van Norren-H.A.W. Van Vianen, The Malnutrition-Infections Syndrome and its Demographic Outcome in Developing Countries, The Hague 1986. Ancora, l'esplodere dell'epidemia dell'Aids è purtroppo destinata a modificare questa gerarchia.
189. W.D. Howells, Venetian Life, pp. 36-48.
190. Municipio di Venezia, Statistica del settennio 1874-80, p. CXCVI. I prezzi si riferiscono al 1876-1880.
191. Marco Breschi-Massimo Livi Bacci, Le mois de naissance comme facteur de survie des enfants, "Annales de Démographie Historique", 1994, pp. 169-186.
192. V. per esempio il quadretto di genere tratteggiato da W.D. Howells, Venetian Life, pp. 57-58, con la madre intenta a lavorare seduta fuori dell'uscio di casa, la figlia sulla soglia, occupata a spidocchiare il fratellino, mentre all'interno si intravede il bagliore della testa calva della nonna, che non smette di parlare un istante. Per la documentazione iconografica, numerosi esempi sono riportati in La scoperta dell'infanzia. Cura, educazione e rappresentazione. Venezia 1750-1930, a cura di Nadia M. Filippini-Tiziana Plebani, Venezia 1999.
193. Sui costi e lo spreco di risorse associati ad alti livelli di mortalità infantile, v. David Reher, Wasted Investments: Some Economic Implications of Childhood Mortality Patterns, "Population Studies", 49, 1995, pp. 519-536.
194. Sheila R. Johansson, Neglect, Abuse, and Avoidable Death: Parental Investment and the Mortality of Infants and Children in the European Tradition, in Child Abuse and Neglect: Biosocial Dimensions, a cura di Richard J. Geller-Jane B. Lancaster, New York 1986, pp. 57-93; E. Shorter, The Making of the Modern Family, pp. 175, 192.
195. Cesare Musatti, Occhio ai bambini!, Milano 1876.
196. A Musatti, che nel 1877 fu tra i promotori della Società Italiana di Igiene, si devono diverse pubblicazioni per l'adozione di pratiche igieniche corrette. V. ad esempio Dello insegnamento dell'igiene specialmente per le classi operaie. Lezione popolare tenuta al Veneto Ateneo nel dicembre 1874, Venezia 1875, e I presepii in Italia. Proposta di nuovamente fondarne almeno uno in Venezia. Discorso letto al Veneto Ateneo il giorno 14 giugno 1877, Venezia 1877. Sul suo impegno politico, e in generale sul ruolo della famiglia Musatti a Venezia, Giannantonio Paladini, Politica e cultura a Venezia tra Ottocento e Novecento: i Musatti, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, p. 434 (pp. 431-448).
197. La più ampia raccolta di dati disponibile in Uziel O. Schmelz, Infant and Early Childhood Mortality among the Jews of the Diaspora, Jerusalem 1971. Per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. il mio La fortuna di nascere ebrei.
198. L'ipotesi era stata sostenuta ad esempio da Livio Livi, Gli ebrei alla luce della statistica, I, Firenze 1918, pp. 149 ss., e ripresa da Giuseppe Sanarelli, Tubercolosi ed evoluzione sociale, Milano 1913. Cf. inoltre la discussione di Roberto Bachi, La resistenza degli Ebrei alla tubercolosi, "La Rassegna Mensile di Israel", 6, 1932, pp. 344-350. La posizione di Livi era stata ampiamente anticipata dal medico e antropologo americano Maurice Fishberg: cf. in particolare il suo The Jews: A Study of Race and Environment, New York 1975 [New York 1911], e Id., Health and Sanitation of the Immigrant Jewish Population of New York, "Menorah", 33, 1902, pp. 73-82. Per una revisione critica, L.A. Sawchuk-D.A. Herring, Respiratory Tubercolosis Mortality among the Sephardic Jews of Gibraltar, "Human Biology", 56, 1984, pp. 291-306.
199. Nancy Scheper-Hughes, Death Without Weeping: The Violence of Everyday Life in Brazil, Berkeley, Cal. 1992; Ead., Demography without Numbers, in Anthropological Demography. Toward a New Synthesis, a cura di David I. Kertzer-Tom Fricke, Chicago 1997, pp. 201-222.
200. K. Lynch, Infant Mortality, Child Neglect, and Child Abandonment, pp. 148-152.
201. Un'interessante raccolta di esempi in Domenico G. Bernoni, Credenze popolari veneziane, Venezia 1874.
202. M. Livi Bacci, Ebrei, aristocratici e cittadini; Sergio Della Pergola, La trasformazione demografica della diaspora ebraica, Torino 1983, pp. 130-134.
203. Il maggior sostenitore dell'importanza della nutrizione è Thomas McKeown, The Modern Rise of Population, London 1976. Per una discussione e una critica dell'interpretazione di McKeown, v. Simon Szreter, The Importance of Social Intervention in Britain's Mortality Decline c. 1850-1914: a Re-interpretation of the Role of Public Health, "Social History of Medicine", 1, 1988, nr. 1, pp. 1-38, e Frances Bell-Robert Millward, Public Health Expenditures and Mortality in England and Wales 1870-1914, "Continuity and Change", 13, 1998, pp. 221-249. Per l'ipotesi virale v. Jonathan D. Chambers, Population, Economy and Society in Pre-Industrial England, Oxford 1972.
204. Robert Darnton, The Great Cat Massacre and Other Episodes in French Cultural History, New York 1984, p. 78.