La difesa dell'impero
Si apre il Trecento, nel panorama della storia di Venezia, su un periodo doloroso. Domina incontrastato il re Polemos, e le società medievali, costantemente alla ricerca dell'eroe emblematico ed esemplare, obbedienti all'ideologia della vittoria, si appoggiano alla guerra, al tempo concetto positivo, per fissare dei valori fondanti. A Venezia la nobiltà consiste nella vita di mare: l'etica cavalleresca altrove stabilita dai campi di battaglia, riposa qui sul coraggio e la valentìa del marinaio. Dopo aver fissato le tavole astronomiche, il re di Castiglia Alfonso il Saggio poteva affermare che "le navi sono i destrieri di coloro che vanno per mare, così come i cavalli lo sono per coloro che vanno per terra". Disdetta, a Venezia, su chi non possa inalberare i titoli di gloria ottenuti in combattimento navale: pressoché tutti i dogi del Trecento derivano il proprio prestigio dalle azioni belliche contro i Genovesi, tanto che, più tardi, un beffardo Marino Sanudo non si impedirà di schernire il doge eletto "non per meriti maritime ne terrestri ma solum per esser nato bonis parentibus" e il cui potere discende dall'influenza del suo casato (1).
Il comune veneziano, che ha fondato la propria prosperità sulla forza delle sue squadre navali, per potersi mantenere in primo piano deve badare durante tutto il corso del secolo e ben oltre a tenere in vista due obiettivi: conservare la signoria dei mari per garantire la sicurezza dei convogli mercantili e perseguire l'espansione dell'impero coloniale, assicurando nel contempo un contatto permanente con le colonie più remote. Ancora nei Rerum Venetarum, di cronologia assai posteriore, Marc'Antonio Sabellico esprimeva la medesima volontà, "actum de possessione maris et de imperio credere [...> " (2).
L'esoterica cerimonia dello "Sposalizio del mare" dichiarava la sovranità che Venezia si arrogava sulle acque dell'Adriatico, divenuto il suo "Golfo", e le stesse stupefacenti parole della formula rituale pronunciata dal doge nell'atto di gettare nei flutti l'anello d'oro - "Desponsamus te, mare, in signum veri perpetui dominii" - riassumevano da sole il senso dell'azione da condurre. Nondimeno, malgrado la portata dei mezzi dispiegati e la costanza di iniziativa messa in campo dai governi succedutisi nel Trecento, la partita non era vinta. L'affermazione volontaristica del doge dominator di un elemento considerato indomabile, che mirava a porre Venezia quale unica potenza marittima egemonica, non lasciava indifferenti le forze politiche che si confrontavano con la talassocrazia marciana (3).
Il secolo si schiude dunque sui contraccolpi di una terribile guerra navale e si conclude con una guerra navale, segni gli uni e l'altra dell'importanza della posta in gioco.
Dopo la riconquista di Costantinopoli a opera di Michele VIII Paleologo e la stipula del trattato del Ninfeo, il 13 marzo 1261, fra questi e i Genovesi, Venezia vive momenti difficili in Oriente. I suoi convogli mercantili sono braccati e saccheggiati, i suoi ridotti commerciali devastati, la guerra di corsa si generalizza con effetti insopportabili per la sua economia. È così che, fra il 1294 e il 1298, prende forma la rivalità irriducibile fra gli espansionismi di Genova e di Venezia nei mari del Levante. La disfatta veneziana di Laiazzo, in Cilicia, dà il via a uno sforzo militare senza precedenti: sessanta galere saranno allestite e tutti gli armatori privati riceveranno delle lettere di rappresaglia che li autorizzano ad attaccare i Genovesi in qualsiasi acque si trovino. Ma ben presto Venezia si trova intrappolata nell'Adriatico, questo mare chiuso e rassicurante quando si sia in condizione di controllarne l'accesso e di precluderlo al naviglio ostile, ma temibile qualora una flotta nemica penetri tanto in profondità da avvicinarsi alla laguna. E la trappola del Golfo, sorta di nassa, si chiude sulle forze di Andrea Dandolo al largo di Curzola, il giorno 8 settembre del 1298. Nonostante le ottantotto galere schierate, il capitano generale da Mar è sconfitto e catturato, in compagnia - fra tanti prigionieri - di un certo Marco Polo. L'episodio storico svela la portata degli eventi. È che, innanzitutto, la sorte futura delle potenze mediterranee si disputa sul mare: nel 1284 Genova annienta le ambizioni pisane alla Meloria - colpo dal quale la città toscana non si risolleverà più.
Ma che ne è della città lagunare? Il disastro di Curzola non ne ha disperso la fierezza, soltanto, dopo quello scacco, essa ha accettato un cambiamento di tendenza, di orientamento, della propria politica economica. Ormai all'alba del Trecento, sembra che gli armatori veneziani si prefiggano di aumentare il volume del commercio di transito in laguna, facendo di Venezia il vero centro di distribuzione delle materie prime acquistate in Romània e nel mar Nero - vino, cera, olio, schiavi -, a tutto detrimento dell'emporio costantinopolitano e di altri scali orientali (4). E per realizzare tale obiettivo occorre più che mai garantire la sicurezza dei convogli attraverso il regolare collegamento fra il cuore del dispositivo commerciale marciano e le periferie, comprese quelle più sperdute. All'indomani della pace di Milano con i Genovesi, sottoscritta nel 1299, la flotta veneziana conta all'incirca cento galere, che saranno messe a disposizione dei responsabili delle forze militari e impiegate nella protezione della rete delle relazioni marittime onde scongiurare l'impoverimento della metropoli in seguito a un eventuale marasma degli affari (5).
Su tutti i fronti e tutt'intorno alle stazioni coloniali coagula in effetti il pericolo di un aggravamento dell'insicurezza delle rotte. Devono guardarsi, i Veneziani, dagli attacchi dei Greci, resi più motivati dalla riconquista di una parte almeno dell'Impero; cosicché l'Eubea diventa il movente di lotte incessanti, e il Peloponneso stesso è sottoposto a una forte pressione esercitata dai soldati del despota Andronico II di Mistrà, che da Monemvasia (Malvasia) vanno all'assalto dei navigli che innalzano il vessillo di San Marco. La testimonianza fornita dalle Decisiones piraticae è eloquente: vi sono infatti registrate, fra il 1269 e il 1277, duecento querele contro i Bizantini (6). Sarà poi lo sviluppo dell'arsenale di Calcide di Eubea a consentire nel 1302 ai corsari veneziani di partire "in cursum ad damnum Imperatoris et Gentis Grecorum" per risponder loro colpo su colpo (7). E però un ulteriore pericolo si affaccia proprio allora: è l'audacia dei Catalani che, padroni del ducato di Atene, rivendicano Negroponte facendo forza sul matrimonio contratto da Alfonso Fadrique con la figlia di un terziere dell'isola. Inquieta, nel 1308 la Signoria invia sul posto una squadra di dodici galere al comando di Marco Minotto e Giovanni Querini, armate a spese degli Angioini desiderosi di riprendersi il trono di Costantinopoli.
Nuove alleanze si instaurano: i Genovesi e gli almogaveri catalani di Ramon Muntaner prendono Focea e sbarcano a Negroponte, ma da quelle parti si trova anche la squadra veneto-angioina, che sorprende il nemico. Tuttavia gli abusi denunciati da Genovesi e Catalani per lunghi anni dopo quegli avvenimenti getteranno il discredito sui marinai veneziani (8) tanto che Ramon Muntaner, fatto prigioniero e successivamente liberato, riceverà un indennizzo finanziario e la prudenza diverrà regola a Venezia.
Altre forze ostili si approssimano tuttavia ai territori d'Oltremare, sicché il maggior consiglio, per evitare danni, prepara le prime spedizioni "pro terrore turchorum et conforto fidelium nostrorum". Da allora la repressione della pirateria turca si organizza in maniera sistematica e, anzi, la reazione della Signoria è sempre radicale: nel 1372 il Regimen di Creta riceve l'ordine di giustiziare Nicolo Thalassene, un rinnegato che, a capo di una flottiglia di pirati turchi, seminava il terrore nell'arcipelago delle Cicladi. Né talora, sollecitati da rovesci di fortuna, certuni cittadini veneziani esitano a impegnarsi in questa guerra strisciante: lo stesso Carlo Zeno fu uno stipendiato della Repubblica, prima di conoscere un destino fuori del comune grazie alla brillante azione condotta a Chioggia il 1° gennaio 1380, sotto gli occhi del doge Andrea Contarini.
Tutto permette di affermare che, all'epoca, Venezia era in condizione di mantenere la propria posizione nel novero delle potenze marittime, potendo disporre delle risorse indispensabili a tale scopo. Esaminiamo allora la situazione in dettaglio.
Vitale per l'economia veneziana, la linea di navigazione verso l'alta Romània (al di là degli Stretti fin nel mar Nero) si merita un'attenzione particolare da parte delle autorità, giacché "bonum est vigilare ad securitatem galearum nostrorum a mercato". Nel 1301 la Repubblica paventa l'intervento delle flotte siciliana e bizantina contro i convogli mercantili in partenza per l'Oriente, ma la combinazione delle forze navali a disposizione consente al senato di non cedere di fronte alla minaccia. La squadra del Golfo, tre unità, scorterà dunque le tre galere della "muda" di Cipro e Armenia, mentre altre sei galere salperanno alla volta dell'Egeo per respingere gli assalitori e recar danno alle loro installazioni portuali. Di ritorno, i mercantili verranno accompagnati dalle due squadre, e prima a Creta, poi a Modone, tutti i vascelli potranno imbarcare merci a collettame riempiendo le stive. La stessa organizzazione viene adottata con successo l'anno seguente, stante la versatilità della grande galera mercantile, che ammette questo uso polivalente (9).
È probabilmente qui che va rinvenuto l'abbozzo del sistema delle "mude", punta di lancia della marina mercantile veneziana alla metà del secolo. Giusta le affermazioni di Marino Sanudo il vecchio, all'alba del Trecento si produce il passaggio dalla bireme alla trireme, e sempre in questo torno temporale la galera leggera ("galia sottil") - più adatta al combattimento navale - si differenzia dalla galera grossa ("galia grossa di mercantia"), autentico gioiello del trasporto marittimo serenissimo (10). Il progresso tecnologico della costruzione navale dà alla città. lagunare un certo vantaggio, mettendola in grado di portare a buon fine i propri progetti politici, con galere più grandi e capaci che in condizioni di maggior sicurezza percorrono le rotte del Levante (11).
In questo contesto i mercanti trovano i mezzi per difendere i loro interessi. Dopo la guerra di Curzola (1294-1299), la pace di Milano non aveva dissipato la discordia tra le potenze regionali adriatiche. Nel 1301 i savi agli ordini mettono a punto una squadra navale permanente incaricata del pattugliamento in Adriatico "ad custodiam culfi", fino al canale d'Otranto; le disposizioni impartite al comandante sono chiare, attaccare quanti penetrino armati nel Golfo fino a che non siano neutralizzati e catturati. In effetti questi ordini delineano la figura di quegli che altrove viene detto "corsaro ", pure se a Venezia ci si rifiuta di operare qualsivoglia distinzione fra corsaro e pirata. Il comandante della squadra del Golfo dispone dunque di grande libertà di azione, chiamato a operare "pro honore nostro et persecutione piratarum in omnem partem" nell'ambito di applicazione del Mandatum de pyratis promulgato nel 1303 (12). Ma gli attacchi contro naviglio mercantile non sempre identificato con certezza rientrano nel campo della guerra di corsa: quando Pietro Zeno, capitano del Golfo, si impadronisce nel 1313 di una nave genovese all'àncora nel porto di Ravenna, egli agisce come un corsaro legittimato dalla commissio, ovvero la "lettera di marca", come la si designa in altri luoghi. Due anni più tardi, Giovanni Michiel, eletto a sua volta capitano del Golfo, riceve una lista di pirati cui dare la caccia, ma troppi vascelli neutrali vengono coinvolti per non innescare un crescendo di proteste, da Napoli a Genova alle città della Dalmazia. Fatto è che spesso i comandanti veneziani, forti della loro discrezionalità operativa, oltrepassano i limiti dei diritti loro confidati, e i litigi si accumulano. Dopo il 1330, questo servizio di polizia marittima viene fornito in permanenza dalla squadra del Golfo, che all'occorrenza si incarica della protezione e della scorta, al di là del canale d'Otranto, dei mercantili che si accingono alla traversata d'alto mare in direzione di Creta o di Negroponte, in zone nelle quali i pirati impongono il terrore in totale impunità.
Se per un verso l'evoluzione delle tecniche di navigazione e il progresso della carpenteria navale danno modo agli armatori di ridurre il personale di bordo, la ricerca del minor costo non va esente da rischi, poiché imbarcazioni sguarnite d'uomini sono una preda facile in caso di attacco. Data questa tendenza, bisognava reagire per assicurare la tranquillità dei trasporti. Se ne fa carico il senato che, finita la seconda guerra con Genova, emana norme che prevedono l'obbligo di imbarcare almeno trenta balestrieri su di un equipaggio complessivo di centottanta uomini ritenuto necessario alla manovra di una grande galera mercantile; inoltre, dopo aver per lungo tempo richiesto ai marinai di pagare da sé il proprio equipaggiamento militare, e preso atto della colpevole negligenza di costoro, ché infatti "le galere partono senza armi", le autorità impongono agli armatori di fornire le armi e le dotazioni difensive individuali. La presenza dei balestrieri, a integrazione dei pezzi di artiglieria leggera di bordo, corroborava la possibilità di intervento, in caso di necessità, contro i nemici della Repubblica (13).
Circa le modalità di applicazione di tale normativa, che pure scontenta gli armatori, la legislazione evolve, estendendosi quei provvedimenti anche alle navi tonde nel 1331. Misure tutte rese possibili dopo il 1321, quando un maggior consiglio spazientito rileva le perniciose esitazioni "che comportano gravi pericoli e danni per la città et per gli uomeni di Venezia i quali non osano piu fare i loro affari [...> con grave danno loro e grave rischio per chiunque si trovi in Viaggio, poiché le galere non tornano e non ripartono a tempo debito a Venezia" (14).
Per sviare le minacce, fare fronte alle accresciute esigenze di sicurezza e rafforzare le obbligazioni militari delle galere l'evoluzione giuridica degli anni 1305-1320 fu di capitale importanza, dettata dalla volontà di imporre il modello di armamento marittimo concepito dal comune; e, d'altra parte, era l'organizzazione statale dei mezzi di difesa a poter autorizzare risposte tempestive e innovative, per evitare di intervenire sotto la costrizione degli avvenimenti. Ecco dunque che tra il 1302 e il 1303 il maggior consiglio modifica a più riprese i regolamenti interni all'Arsenale, nel pieno di un periodo di trasformazioni che culmineranno nel 1313 con l'apertura dell'Arsenale Nuovo. Quanto all'impero coloniale, una delle priorità è la costruzione di basi portuali fortificate e completate dall'installazione di arsenali gestiti dalla metropoli - così a Candia dopo il 1305, a Negroponte nel 1319, alla Canea nel 1325 -, riflesso della preponderanza dei savi agli ordini in seno al governo veneto successivamente alla promulgazione dell'editto Ordinum galeorum armatorum, senza dubbio provvedimento di legislazione commerciale ma anche supporto alla politica di difesa della Repubblica (15). Certo, si è ancora distanti dall'idea di una spesa programmata, ma altrettanto certamente si fa strada man mano il criterio di tenere disponibili delle forze armate permanenti.
L'apparato legislativo, come pure i codici giuridici, si adattano alle occorrenze della guerra di corsa organizzata dagli stati e alla pirateria opportunistica di qualche mercenario. Il governo veneziano, che tratta il problema con estrema prudenza, dimostra una volta di più la propria specificità. Per cominciare, lungo tutto il Trecento il comune non permette ai sudditi di armare navi da corsa private, e ciò al fine di evitare rappresaglie indiscriminate. L'accordo concluso ai massimi livelli tra la Repubblica e la Provenza è a questo riguardo esemplare: il pagamento di una tassa forfettaria destinata ad alimentare un fondo di garanzia in caso di controversie è lo strumento più appropriato per scongiurare le esplosioni di eccessivo malumore (16). Questa linea di condotta sta alla base del perseguimento di relazioni costruite sulla fiducia reciproca e sul rispetto del diritto, non senza una evidente contropartita: così come Venezia deve stare attenta a disinnescare l'esasperazione dei propri cittadini, deve altresì predisporre una protezione efficace nei loro confronti.
In un secolo dominato dalla guerra navale, Venezia si dimostra capace, superando prove numerose, di cogliere i propri obiettivi. L'espansionismo genovese, che ha cancellato l'ostacolo pisano, deve fare i conti nel settore occidentale con avversari temibili, gli Aragonesi sul mare e i vicini Fiorentini in terra. E vede il Trecento, durante il quale si disegna una nuova mappa delle sfere di influenza peraltro contrassegnata dall'instabilità dei confini delle aree geografiche contese, l'accrescersi della potenza della compagine catalano-aragonese, ma specialmente di quella veneziana in Levante. Un equilibrio di forze fluttuante a seconda delle circostanze, che va a tutto vantaggio di Venezia, forte di un sistema di armamento marittimo concepito come un insieme coerente, non più formato da elementi eterocliti e disparati bensì strutturato in forza navale polivalente atta alla difesa di interessi economici e politici vitali. Una tappa capitale si colloca indubbiamente al volgere degli anni Quaranta, appena rimarginate le ferite della guerra veneto-genovese scoppiata nelle strade di Costantinopoli nel 1329. Ebbene, la Repubblica deve mantenere a ogni costo il flusso degli scambi con la Romània e il mar Nero, in testa l'esportazione massiccia di metalli preziosi e soprattutto di argento. Nel 1343 il capitano del Golfo viene comandato di scorta a un convoglio mercantile con destinazione Costantinopoli; ma poiché all'altezza dei Dardanelli le tre navi tonde da trasporto sono in difficoltà, nel timore di un attacco il loro carico, costituito per la gran parte da lingotti d'argento, è trasferito a bordo delle galere (17). È questa una situazione che dà alle autorità del comune veneziano l'opportunità di mettere mano al controllo dell'armamento libero: quella che Frederic C. Lane ha chiamato la "rivoluzione" degli anni 1344-1346 è stata in effetti una sequenza logica di eventi gravidi di conseguenze. Quando, dopo i terribili moti che li escludono dalla Tana, il grande emporio commerciale sul mare di Azov, i Veneziani si volgono al papa "ad exponendum nostram conditionem [...>, et supplicandum de gratiam et subventionem, id est de possendum ire ad Alexandriam et ad prohibitas terras", la riconversione dei circuiti marittimi è immediata, e ciò grazie alla disponibilità della squadra da guerra (18). Entro qualche mese le galere leggere partite per saccheggiare i litorali in mano turca e attaccarne i corsari "a modo pyratico" si mettono al servizio dell'attività mercantile, scortando due navi "di comun" cariche d'argento e importando merci a loro volta; la flotta di otto galere di stanza nel Golfo provvede alla sicurezza di un convoglio di rifornimenti che imbarca grani siciliani, autorizzata comunque a stivare frumento; e altre due galere di comun lasciano la laguna con destinazione Cipro, zeppe di ogni sorta di prodotti, argento compreso. In totale trentuno galere prendono parte a queste spedizioni, per il cui mezzo si impone il sistema dell'armamento comunale che, basato sui convogli delle galere di mercato, si dispiega su circuiti che ormai non ammettono alternative quanto ai terminali di approvvigionamento delle derrate orientali: il ritorno in Egitto e in Siria è definitivo (19).
A sentire Marino Sanudo, è nel 1349 che per l'ultima volta vengono allestite presso un cantiere privato, quello di Terra Nuova, vicino a San Marco, tre galere di mercato destinate al viaggio di Fiandra, armate da Pietro da Canal, Pierazzo Badoer e Andrea Morosini (20). E in breve volgere di tempo l'impostazione costruttiva delle galere di Fiandra si afferma anche per le "galere grosse da mercanzia", più voluminose rispetto al prototipo progettato da Demetrio Nadal nel 1294. La comparsa e lo sviluppo dell'artiglieria da fuoco non furono certamente estranei a tale decisione. La principale fonderia veneziana viene trasferita nel perimetro dell'Arsenale Nuovo, e si vedono ormai bombarde e colubrine piazzate nelle corsie delle navi. Nel corso di un secolo in cui gli uomini utili si diradano, nello scenario mediterraneo si fa decisivo il progresso tecnologico di certune potenze.
Negli anni Cinquanta, quando, sotto la pressione di eventi esogeni, il comune si vede costretto a promuovere un piano di investimenti nel settore delle costruzioni navali, pesante da sopportare dopo il passaggio della Peste Nera, e ad arruolare degli equipaggi ridotti malgrado l'apporto massiccio di manodopera dalle colonie, la contraddizione tra obiettivi divergenti appare evidente. La chiave del successo della politica di protezione degli scambi marittimi e della sorveglianza sull'impero coloniale sta dunque nell'irrobustimento delle forze navali della Signoria, ma anche nel riassetto di quelle private: il passaggio dalla gestione privata alla gestione mista, sotto la supervisione delle autorità e adattata alle galere di mercato di maggiore stazza e meglio armate, permette in molti casi di evitare la mobilitazione di una scorta; la "muda" deve badare da sola alla propria difesa, e in un periodo di tensione è questo sistema di navigazione a prevalere sull'armamento privato (21). La programmazione della messa in cantiere di nuove galere esclusivamente presso l'Arsenale consente il rilancio delle attività artigiane e commerciali nonché la formazione in loco di una forza lavoro specializzata e competente che sarà l'arma più efficace nei conflitti che Venezia attraverserà.
Pur diffidando di soldati e mercenari, che assoggetta alla vigilanza permanente dei provveditori, la Signoria si mostra generosa, per compensare la precarietà del reclutamento e i rischi di infedeltà; mai si lascia però tentare dall'idea di affidare le proprie navi, e soprattutto le galere, a ufficiali forestieri. Ardua responsabilità, questa, che si assumono solo e soltanto i patrizi veneziani, esibendo nell'insieme doti di coraggio e di abnegazione universalmente riconosciute.
Durante il Trecento l'impiego di ogni unità navale soggiace al controllo rigoroso delle autorità del comune. Spesso i convogli di galere mercantili vanno in battaglia come complemento della squadra del Golfo, e nel corso del tempo altre obbligazioni sono inserite nei capitolari degli Incanti: il trasporto di truppe, di materiali e di munizioni destinati agli arsenali coloniali, ma pure, se necessario, la caccia ai corsari lungo la rotta e, beninteso, la distribuzione del finanziamento in contanti, che le navi portavano con sé "per securum passagium" (22). A diverse riprese - e questo impiego si generalizzerà nel Quattrocento - le flotte di Stato diventano un deterrente economico, quando partecipano al blocco di questo o quel porto ovvero quando, in seguito a qualche rappresaglia, trascurano deliberatamente uno scalo per mettere in difficoltà l'economia della zona oggetto del boicottaggio. Certo, il comune va cauto prima di adottare misure siffatte, ma la vastità delle zone da sorvegliare e la molteplicità dei punti di contatto con nemici potenziali costringono il senato a mettere in moto ogni risorsa disponibile. Alle prese con un secolo che inizia con la guerra contro Genova e si conclude in analoga temperie, talvolta l'atonia degli scambi marittimi viene illustrata con particolare riferimento al numero dei bastimenti in partenza per le spedizioni commerciali, ma sarebbe opportuno non scordare che sovente quei navigli avevano un ruolo bellico, per completare poi la loro missione imbarcando mercanzie prima di fare ritorno a Venezia.
L'élite politica in seno al patriziato che governa Venezia sa bene che la forza della nazione sta essenzialmente nelle mani della flotta. Le città litoranee dell'Adriatico cercano di beneficiare della protezione veneziana, a prezzo di concessioni inevitabili: accettare di porsi "sub umbrae venetae" sottintende la sottomissione totale, nel segno del consolidamento dell'egemonia della potenza lagunare sul Golfo. E la flotta marciana dà sì protezione ai vicini, ma interviene direttamente per far rispettare le clausole di trattati commerciali sovente abusivi. La politica inaugurata nel 1141 dal patto con Fano e continuata senza interruzioni per mezzo degli accordi con le città pugliesi nel 1257 e con Ancona nel 1261 mirava allo stabilimento di una zona di esclusione che si sarebbe estesa progressivamente fino a realizzare un asse trasversale da Rimini a Pola nel 1358 (23).
Ebbene, questo dominio di fatto, ma giuridicamente non fondato, è reso possibile dall'onnipresenza delle forze navali veneziane nell'Adriatico(24). La squadra del Golfo è lì per scortare i convogli mercantili, respingere gli attacchi più audaci dei nemici e, in definitiva, imporre l'ordine veneziano; una pressione militare che risulta ancor più rafforzata dopo il 1331, con il dispiegamento di un dispositivo navale complementare. Sono le "navi armate da comun", vascelli d'alto bordo e bene armati il cui compito consiste nell'annientamento del naviglio ostile.
Contempla due obiettivi la polizia dei mari, debellare la pirateria e insediare il dominio di Venezia. In questo contesto Creta, base avanzata nel Levante, ha un ruolo essenziale: è a Candia che le forze navali veneziane si radunano. Il 3 aprile 1316 il maggior consiglio ordina al duca di Candia e al bailo di Negroponte di armare delle navi per garantire la "salvatio gentis nostris" (25). In effetti i bastimenti veneziani sono una preda facile dal momento che gli armatori, per contenerne i costi di esercizio, fanno viaggiare imbarcazioni pressoché inermi in caso di attacco. Perciò il senato - diventato ormai il gestore della flotta - decide nel 1339 di dotare di armi i marinai e di finanziare un programma per la costruzione di cocche di maggiore tonnellaggio. E alla metà del secolo l'inferiorità dovuta alla penuria di manodopera e di navi è superata grazie all'apporto suppletivo delle risorse attinte dai domini dell'impero coloniale, cosicché le due attività, militare e commerciale, possono procedere di conserva. Sovente il nucleo delle squadre navali veneziane è formato dalle galere finanziate ed equipaggiate nei porti dalmati, cretesi o greci, il cui concorso costituisce la condizione principale del successo delle armi di San Marco specie quando una spedizione ostile ne costringa le truppe nel Dogado: " [...> perciò al bisogno grandi erano le forze di quella Repubblica non meno in mare che per terra" (26).
Allorché una squadra di quindici galere di ogni tipo salpa dalla laguna, sono quasi tremila gli uomini imbarcati; uno sforzo militare destinato a intensificarsi qualora contemporaneamente si acuisca la tensione alle frontiere terrestri. Basti pensare alla congiuntura della guerra fluviale per Ferrara, che oppone Venezia a papa Clemente V dopo che la città era stata ceduta alla Signoria da Fresco d'Este, quando nel 1311 una nuova rivolta scoppia a Zara. La minima velleità di resistenza di una città assoggettata le attirava una punizione severa, ma sempre comportando per Venezia un onere elevato.
Ma la città lagunare seppe far tesoro degli episodi sanguinosi che scandirono drammaticamente quel periodo per modificare la sua politica militare? Non si può, al proposito, fare a meno di ricordare la guerra di Chioggia (1377-1381), che consente di misurare l'impatto delle decisioni prese in un frangente decisivo per la storia di Venezia (27).
Il doge Giovanni Soranzo (1312-1328), l'eroe delle lotte contro i Genovesi in Oriente, è circonfuso da un'aura di gloria guadagnata con le sue imprese sul campo, e altri capi valorosi, fulgidi protagonisti di eventi bellici, basano su quei fatti d'arme la propria carriera politica: così Andrea Contarini, doge dal 1368 al 1382, e Antonio Venier, doge dal 1382 al 1400, che si conquistano l'eterna riconoscenza della patria, e così pure Carlo Zeno, l'audace ammiraglio, "l'inesausto soldato dalle quaranta ferite". Ma l'ardore guerriero non basta quando la terribile battaglia di Negroponte, nel 1350, mette a nudo la debolezza del dispositivo navale veneziano, né quella vittoria riportata a caro prezzo da Nicolò Pisani sui Genovesi vale a nascondere l'insufficienza quantitativa delle truppe veneziane dopo la falcidia della Peste Nera, numericamente inadeguate per condurre a buon fine delle campagne sul suolo italiano e una guerra navale nell'impero coloniale.
È negli auspici del capitano generale da Mar Vettor Pisani, eletto nel 1378, trarre qualche giovamento dall'esperienza del suo predecessore nell'Egeo, ma intanto che i suoi sforzi sembrano trovare il proprio coronamento una minaccia tremenda si profila all'orizzonte(28). Già comandante di una "muda" nel 1362 e rappresentante consolare del comune "alla Tana e per tutto l'impero di Gazaria", Pisani è troppo coinvolto dai propri interessi finanziari negli empori del mar Nero per non essere altrettanto motivato nel portare a compimento le sue spedizioni belliche in Oriente. Ma i successi conseguiti in Levante contro i Genovesi impallidiscono a fronte del rovescio subito a Pola nel 1379: fatto è che, impegnati a grande distanza dalla metropoli e trascinati dal loro stesso slancio, i comandanti della flotta hanno tralasciato la più importante delle incombenze, il controllo dell'accesso al Golfo. Per quanto circondati da una fama eroica, Vettor Pisani, Michele Steno e Giovanni Trevisan, considerati i responsabili della disfatta, rischiano la pena di morte, ma come sempre il governo veneziano, dopo aver mostrato la propria esemplare fermezza, cede all'indulgenza, anche per non scoraggiare dei patrizi sempre più reticenti ad accettare incarichi troppo avventurosi (29). L'esiguità delle flotte schierate nell'occasione dai contendenti - ventiquattro galere veneziane contro ventidue genovesi - mette in luce la drammatica riduzione delle forze navali in un'epoca che ancora risente della depressione demografica seguita alla Peste Nera. E uno sforzo immane dovrà operare il doge Andrea Contarini, con l'aiuto di Carlo Zeno, per mettere insieme le trentaquattro galere che porteranno Venezia alla riscossa e alla vittoria, ma la mancanza delle unità andate distrutte nel conflitto si farà sentire tanto sul piano militare quanto su quello commerciale. Inoltre, alle perdite umane in battaglia si somma nel 1382 una recrudescenza del morbo che si porta via una parte non trascurabile degli uomini riuniti dalla coscrizione, mentre già si annunciano nuovi scontri con un altro assalitore al largo di Gallipoli (30).
Non solo la Signoria non cerca di mantenere a ogni costo le basi troppo esposte o troppo difficili da difendere nella Grecia orientale, ma perfino talune piazze assai più prossime alla laguna. Può sorprendere, in questo senso, la prudenza della politica veneziana di acquisizione territoriale in Adriatico, dinanzi alle richieste di una pletora di despotati locali serbi e albanesi in cerca di aiuto contro l'avanzata turca nei Balcani e disposti a rinunciare alla propria libertà in cambio della protezione militare serenissima. Di rado, tuttavia, la risposta di Venezia corrisponde alle speranze dei supplici. Una volta in possesso di scali sicuri sulle rotte d'Oriente e garantitasi l'accesso alle sponde del mar Nero durante il secolo XIII, la Repubblica modera le proprie ambizioni per uno scrupolo palese di sana gestione e di dosaggio dei bisogni militari in relazione alle esigenze della salvaguardia, sempre rischiosa, dei nuovi territori dello Stato da Mar. L'accordo così misurato e giudizioso sottoscritto nel 1386 con Carlo Topia, che offre Durazzo alla Signoria, si spiega con il fatto che tale annessione comporta l'assunzione del controllo su Alessio, Scutari e Valona, altrettante piazze da difendere in avvenire (31).
Tanto risolutamente Venezia si prodiga nell'annessione delle città dello "Stato da Terraferma", quanto esitante appare a farsi carico direttamente dell'amministrazione di centri lontani e minacciati, malgrado le reiterate sollecitazioni provenienti dagli alleati balcanici (32). D'altra parte, quel che si è soliti definire come il tracollo dei principati marinari albanesi in conseguenza del lento disimpegno veneziano dopo l'acquisizione - peraltro nominale - di Durazzo nel 1205, stava all'origine dell'animosità degli autoctoni nei confronti della città lagunare, il cui governo nel Trecento non teneva a rinnovare quell'esperienza. Senonché la congiuntura politica induceva all'intervento (33). La definitiva presa di possesso di Corfù nel 1386 rientra a pieno titolo nel processo di insediamento prefigurato dalle concessioni reclamate con la pace di Torino del 1381 e portato a compimento con la progressione sul litorale albanese in seguito all'abbandono di posizioni più settentrionali; e vi rientra, di lì a tre anni, il trattato stipulato con Carlo I Tocco, duca di Leucade e conte di Cefalonia e Zante, che permette alla Signoria di consolidare la presenza veneziana all'ingresso del Golfo. Stante poi l'avanzata delle truppe di Murad I su Gallipoli, suscettibile di compromettere il transito per gli Stretti, Venezia cerca di infoltire le proprie basi sulle coste greche - Argo e Nauplia nel 1394, Lepanto un anno avanti -, ma nulla riesce a rallentare la spinta del sultano, che intende impiantarsi in posizione strategica nell'Egeo, tanto più che la difesa dei territori entrati solo da poco a far parte dello Stato da Mar spesso travalica le possibilità finanziarie locali.
In quei luoghi l'armamento di una galera costa caro, e d'altronde l'argomento ricorrente nelle suppliche dei baili al senato, vale a dire l'ottenimento di sostegno finanziario da parte della madrepatria, è il sintomo evidente della parsimonia in materia delle autorità centrali. Se poi, come accade a Negroponte nel 1357, una galera viene catturata, la solidarietà delle colonie viene messa a dura prova. Fatto è che l'impero coloniale deve fruttare denaro senza comportare dispendi eccessivi; tuttavia le galere sono il solo legame con l'esterno e l'unica protezione dai ripetuti attacchi dei Turchi, e chiunque, anche a Venezia, non può non ammettere "quod galea est vita et salvus dicte insule".
Esaurita la fase delle conquiste del secolo XIII, la politica di acquisizione territoriale oltremare si stabilizza secondo un criterio che privilegia talune piazze essenziali, mentre le altre vengono tralasciate. Così nel 1321 il senato non cede alle richieste dei rappresentanti di Pteleo, piccolo centro della Tessaglia orientale, poiché la protezione di quel sito necessiterebbe di un investimento troppo ingente (34).
Sono ancora disponibili, all'epoca, gli equipaggi volontari dalmati, e però in un periodo di mobilitazione generale anche questa risorsa tende a inaridirsi e si moltiplicano le rivendicazioni (35), conseguenza fra le altre dell'allargamento dell'area marittima da sorvegliare, che non manca di porre seri problemi di organizzazione delle squadre navali, in primo luogo il riposo e l'avvicendamento degli equipaggi e la manutenzione del naviglio. Manca finora uno studio d'insieme sul dispositivo navale veneziano, ed è lacuna di non poco conto giacché la difesa dello Stato da Mar nel Trecento è assai più vitale per la Serenissima di quanto lo sarà quella dello Stato da Terraferma nel secolo seguente (36).
All'alba del Quattrocento, dopo un secolo di confronti bellici onerosi e distruttivi, la città lagunare mantiene a distanza dei nemici indeboliti, ma gli odi reciproci restano vivi. Se i Bizantini non sono più in grado di ostacolare la presenza dei Veneziani nell'Adriatico e nella Grecia continentale, se il re di Ungheria, beneficiario di qualche concessione, non può impedirne l'insediamento in Albania, i Turchi non allentano la loro pressione, specie dopo le vittoriose battaglie di Kosovo sui Serbi e di Tarnovo sui Bulgari, fino a farsi arbitri del confronto fra Genova e Venezia nell'Egeo. Quando il sultano ottomano Bayazid I sale al trono, il suo dominio scavalca gli Stretti. E una situazione nuova, che costringe la Repubblica a modificare certi suoi progetti serbando comunque intatte le aspettative di espansione della sua economia marittima grazie alla disponibilità della sua flotta e all'ardore dei suoi marinai.
Traduzione di Ernesto Garino
1. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903 (riprod. anast. Bologna 1989): IV, col. 141.
2. Marci Antonii Cocci Sabellici Rerum Venetarum ab urbe condita ad sua usque tempora libri XXXIII, Basileae 1516, p. 1032.
3. Michel Mollat - Philippe Braunstein - Jeanclaude Hocquet, Réflexions sur l'expansion vénitienne en Méditerranée, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I-II, Firenze 1973-1974: I, p. 517 (pp. 515-539).
4. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, p. 93, e Id., The Economie Meaning of the Invention of the Compass, in Id., Venice and History. The Collected Papers of F.G. Lane, Baltimore 1966, p. 341 (pp. 331-344).
5. Sergej P. Karpov, L'impero di Trebisonda, Venezia, Genova e Roma (1204-1461). Rapporti politici, diplomatici e commerciali, Roma 1986, p. 86.
6. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante, I-III, Wien 1856-1857 (Fontes Rerum Austriacarum, sez. II, XII-XIV) (rist. Amsterdam 1964): III, pp. 159-281.
7. Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato). Serie "Mixtorum", I, Libri I-XIV, a cura di Roberto Cessi - Paolo Sambin, Venezia 1960 (Monumenti storici pubblicati dalla Deputazione di Storia Patria per le Venezie, n. ser., 15), p. 51 n. 183.
8. Hippolyte Noiret, Documents inédits pour servir à l'histoire de la domination vénitienne en Crète de 1380 à 1485, Paris 1892, p. 40, e Jean Buchon, Chroniques étrangères relatives aux expéditions franraises pendant le XIIIe siècle, Paris 1841, cap. CCXXXV, p. 467.
9. Ugo Tucgi, La navigazione veneziana nel Duecento e nel primo Trecento e la sua evoluzione tecnica, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I-II, Firenze 1973-1974: I, p. 838 (pp. 821-841).
10. Ennio Concina, Les galères de Venise et l'Arsenal, in AA.VV., Quand voyageaient les galères, Paris 1990, p. 96 (pp. 94-117); Luigi Fincati, Le triremi, Roma 1881, p. 44.
11. Frederic C. Lane, JVavires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, p. 28. Si veda al proposito A.S.V., Senato, Secreta, Commissioni formulari, reg. 4, c. 3.
12. Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, I-II, Milano-Messina 1968: I, p. 218; Michel Mollat, De la piraterie sauvage à la course réglementée (XIVe-XVe s.), "Mélanges de l'Ecole Franéaise de Rome", 87, 1975, p. 9 (pp. 7-25).
13. Irene B. Katele, Piracy and the Venetian State: the Dilemma of Maritime Defense in the Fourteenth Century, "Speculum", 63, 1988, p. 874 (pp. 865-889); Frederic C. Lane, La balestra nella rivoluzione nautica del medioevo, in Id., Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, p. 246 (pp. 240-250).
14. Frederic C. Lane, Le galere di mercato, 1300-34: esercizio privato e di Comun, in Id., Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, p. 67 (pp. 49-81).
15. Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, p. 34; F.C. Lane, Le galere di mercato, p. 67.
16. Alberto Tenenti, Venezia e la pirateria nel Levante: 1300 c.-1460 c., in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I-II, Firenze 1973-1974: I, p. 714 (pp. 705-771); Duca di Candia, ducali e lettere ricevute (1358-1360; 1402-1405), a cura di Freddy Thiriet, Venezia 1978, p. 11.
17. A.S.V., Senato, Misti, reg. 21, c. 92; Frederic C. Lane, Le galere veneziane ad Alessandria, 1344, in Id., Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, p. 83 (pp. 82-90).
18. A.S.V., Senato, Misti, reg. 21, c. 83v.
19. Ibid., c. 86.
20. Marin Sanuto, Vitae ducum Venetorum (421-1493), in R.I.S., XXII, 1733, col. 618.
21. Si v. in questo volume l'altro mio capitolo.
22. Bernard Doumerc, Le rôle ambigu de la muda vénitienne: convoi marchand ou unité de combat, in Histoire maritime (Actes du Congrès national des Sociétés savantes, Avignon 1990), Paris 1991, p. 142 (pp. 139-154); Id., Les flottes d'Etat, moyen de domination coloniale, in Coloniser au Moyen-Âge, a cura di Michel Balard - Alain Ducellier, Paris 1995, p. 118 (pp. 115-126).
23. Antonio Battistella, Il dominio del Golfo, "Nuovo
Archivio Veneto", n. ser., 35, 1918, p. 42 (pp. 5-102).
24. Il patto con Fano, 1141, a cura di Attilio Bartoli Langeli, Venezia 1991 (Pacta Veneta, 3), p. 6.
25. Freddy Thiriet, Regestes des délibérations du Sénat vénitien concernant la Romanie, I-III, Paris-La Haye 1958-1961 (Documents et Recherches, I, II, IV): I, p. 41.
26. Ludovico Antonio Muratori, Annali della storia d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1749, I-XII, Milano [ma Venezia> 1744-1749: IX, p. 864.
27. Dalla guerra di Chioggia alla pace di Torino, 1377-1381, catalogo della mostra, Archivio di Stato di Venezia, Venezia 1981.
28. A.S.V., Senato, Misti, reg. 35, cc. 97-99, e reg. 36, c. 81.
29. Ibid., reg. 36, c. 81.
30. Camillo Manfroni, La battaglia di Gallipoli e la politica veneto-turca (1381-1420), "Ateneo Veneto", 25, 1902, pp. 3-34, 129-169.
31. Giuseppe Valentini, Appunti sul regime degli stabilimenti veneti in Albania nel secolo XIV e XV, "Studi Veneziani", 8, 1966, p. 199 (pp. 195-265).
32. Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953, p. 129.
33. Alain Ducellier, La façade maritime de l'Albanie au Moyen-Âge. Durazzo et Valona du Me au XVe siècle, Salonica 1981, p. 154, e Spiros AsoNTIS, Jacques de Baux Lord of Corfu, 1381-1382, "Balkan Studies", 28, 1987, p. 229 (pp. 223-235).
34. David Jacoby, Catalans, Turcs et Vénitiens en Romanie (1305-1322): un nouveau témoignage de Marino Sanudo Torcello, "Studi Medievali", ser. III, 15, 1974, p. 244 (pp. 238-256); Jean Longnon, L'Empire latin de Constantinople et la principauté de Morée, Paris 1949, p. 344.
35. Alberto Tenenti, Cristoforo da Canal. La marine vénitienne avant Lépante, Paris 1962, p. 69.
36. Michael E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, p. 26.