La dimensione demografica e sociale
A partire dal tardo secolo XI la presenza veneziana nel Mediterraneo orientale crebbe in modo costante, esprimendosi soprattutto in un aumento della portata geografica e del volume dei commerci marittimi (1). Dai territori bizantini, la cosiddetta Romània, l'attività economica dei Veneziani si allargò agli stati crociati del Levante, fondati negli ultimi anni del secolo XI nel corso della prima crociata, e si intensificò in Egitto. Nel corso dello stesso secolo, Venezia consolidò i suoi avamposti commerciali in quelle regioni. La quarta Crociata, cui Venezia offrì un contributo decisivo, diede nuovo impulso al processo nel decennio successivo alla conquista di Costantinopoli, nel 1204: la creazione dell'Impero latino e, poco tempo dopo, la fondazione di un vero e proprio impero veneziano oltremare, la costituzione di nuovi avamposti in Romània, e infine la conquista da parte di cittadini veneziani di numerose isole dell'Egeo consentirono a Venezia di estendere e consolidare le posizioni lungo le principali rotte marittime del Mediterraneo orientale. Da questo punto di vista assume particolare rilievo l'imposizione del dominio veneziano in alcuni territori della Romània, che rappresentò un fattore di continuità e stabilità creando condizioni sostanzialmente diverse da quelle cui si informò in larga misura l'evoluzione degli avamposti commerciali di Venezia in terra straniera. Il commercio, i trasporti marittimi, gli avamposti e l'impero d'Oltremare furono fuor di dubbio le manifestazioni più cospicue della presenza veneziana nel Mediterraneo orientale, e in quanto tali sono state oggetto di ripetute indagini; assai minore è stata, invece, l'attenzione dedicata ai fenomeni demografici e sociali che ne derivarono, e al costante rapporto di interazione tra questi e i processi più immediatamente evidenti. Di quei fenomeni e del loro impatto, che ebbe ampie variazioni secondo i contesti in cui essi si verificarono, si occuperà dunque in modo specifico questo capitolo.
Il movimento di navi e merci, tanto sulle lunghe distanze, tra Venezia e il Mediterraneo orientale, quanto nell'ambito di questa regione, seguiva per lo più un ritmo ciclico, stagionale, dettato dai fattori naturali: erano i venti e le correnti stagionali del Mediterraneo a decidere la navigazione dei convogli primaverili e autunnali che collegavano Venezia con l'Egitto, il Levante e la Romània. L'arrivo delle merci d'Oriente alle coste di quelle regioni dipendeva dal sistema dei monsoni nell'oceano Indiano, o veniva ritardato dalla neve e dal ghiaccio sui passi dell'Asia centrale. Le medesime condizioni atmosferiche sulle Alpi impedivano il passaggio delle merci di scambio, soprattutto tessuti di lana, dirette in Italia dai centri di produzione nell'Europa del Nord-Ovest. Nel secolo XIII la diffusione nel Mediterraneo di nuovi strumenti di navigazione e i miglioramenti nelle costruzioni navali prolungarono il periodo annuale per i viaggi, ma il trasporto marittimo, da cui dipendevano le dinamiche commerciali, conservava una natura essenzialmente ciclica e stagionale.
Oltre alle merci, però, le navi portavano lungo gli stessi itinerari anche le migrazioni dei mercanti, determinando tempi e modi della loro mobilità. Di regola tutte le intraprese commerciali, regionali o interregionali che fossero, condividevano un importante elemento comune: i Veneziani, come tutti gli altri mercanti e vettori, ritornavano sempre alla base di partenza, e dunque seguivano uno schema di migrazione circolare che li portava da un centro urbano al successivo. Così avveniva sempre, indipendentemente dal mezzo di trasporto e dalla rete commerciale e navale che utilizzavano, dalla distanza percorsa, dal tipo di transazione, nonché dal lasso di tempo richiesto, che a volte imponeva un soggiorno prolungato in terre lontane in attesa della ripresa primaverile della navigazione (2).
Nel corso del secolo XII si affermò invece per i Veneziani un nuovo tipo di mobilità, che seguiva peraltro le stesse rotte di quella ciclica, stagionale e circolare che abbiamo testé descritto. Anche questa faceva capo esclusivamente ai centri urbani, ma era una migrazione lineare, non circolare, rivolta all'insediamento oltremare, che poteva essere temporaneo, per qualche anno (e quindi comunque oltre i limiti di una singola stagione di navigazione), o permanente. Il mercante sceglieva la sua nuova residenza sulla scorta della propria esperienza personale, talvolta basata su precedenti soggiorni prolungati oltremare, oltre che sulle informazioni raccolte dai colleghi. Questo tipo di emigrazione e insediamento spontaneo e individuale era in stretto rapporto con l'incremento quantitativo del commercio marittimo e con la crescente regolarità del suo andamento: è evidente che gli affari non potevano che trarre vantaggio da una presenza costante, per tutti i mesi dell'anno, nelle città straniere che costituivano importanti centri di produzione e consumo collegati a un entroterra rurale, o servivano come mercati, empori commerciali e stazioni di scalo lungo le principali rotte marittime del Mediterraneo orientale. Città come Costantinopoli e Salonicco nell'Impero bizantino, o Acri e Tiro nel Levante crociato corrispondevano in parte o appieno a questi requisiti. Una volta installato nella nuova sede, l'emigrante poteva raccogliere agevolmente ogni informazione sulle merci, sui prezzi, sulle monete, sulle forme di credito, sui movimenti di mercanzie, sui servizi di trasporto e sulla gente del luogo o di passaggio, traendone poi vantaggio per se stesso o per i suoi soci residenti altrove, e poteva esplorare la regione circostante alla ricerca di prodotti e occasioni d'affari. La conoscenza delle condizioni locali e regionali unita alla sua esperienza precedente costituiva un importante punto di forza sul piano del commercio, dell'attività bancaria e di prestito, e dell'imprenditorialità: l'attività dell'emigrante ebbe uno sviluppo parallelo a quella del mercante viaggiatore e del vettore con funzioni affatto complementari.
Oltre che dai fattori economici e dai flussi commerciali, però, lo schema geografico della migrazione e la distribuzione dell'insediamento dei Veneziani sulle coste del Mediterraneo orientale e poi, dopo il 1268, anche su quelle del mar Nero, furono in larga misura determinati dalle condizioni particolari di cui godevano gli avamposti commerciali di Venezia. L'insediamento non era necessariamente legato al miglioramento delle condizioni commerciali, ma nondimeno risultava indubbiamente favorito, sia per l'entità che per la durata, laddove Venezia otteneva concessioni dai governi stranieri. Si trattava innanzitutto di alloggi e magazzini - o meglio ancora di un intero quartiere -, poi del libero scambio e delle esenzioni fiscali, e infine dell'autonomia amministrativa, fiscale e giudiziaria all'interno del quartiere: gli avamposti commerciali veneziani divenivano di fatto, nei casi migliori, delle enclaves extraterritoriali. Venezia ottenne alcuni di questi privilegi a Bisanzio dal 1082, negli stati crociati del Levante dai primi anni del secolo XII, in altre regioni nel corso del Duecento, ma una rassegna degli avamposti oltremare rivela ampie variazioni quanto alla loro natura giuridica e alle condizioni di cui godevano. Tutti condividevano comunque un tratto fondamentale: la loro stessa esistenza fu sempre essenzialmente precaria, determinata com'era dal consenso dei governi stranieri e dai rapporti che con essi intratteneva Venezia. Tanto più che nemmeno i privilegi più estesi incidevano in alcun modo sulla posizione dei residenti veneziani, che rimanevano stranieri indipendentemente dalla durata della loro permanenza. Fattori, questi, che trovarono immancabile conferma nei momenti critici: la quinta Crociata (1218-1221), ad esempio, e quella guidata da Luigi IX di Francia contro l'Egitto (1249-1250) produssero uno stallo completo dei commerci veneziani, bloccando temporaneamente lo sviluppo dell'avamposto in Alessandria, mentre quello a Costantinopoli cessò di esistere per tutta la durata della guerra che contrappose Venezia all'Impero bizantino dal 1296 al 1302.
Se la migrazione circolare dei mercanti portò alla creazione degli avamposti commerciali, quella lineare e l'insediamento furono i fattori decisivi per la costituzione delle comunità veneziane che li occupavano. Anche quando il soggiorno dei singoli mercanti non si protraeva oltre l'anno o poco più, l'effetto cumulativo della loro presenza temporanea concorreva comunque alla creazione di un nucleo permanente di residenti. Così avveniva, ad esempio, a Costantinopoli e ad Acri nel secolo XII, e il porto egiziano di Alessandria nel Duecento costituisce un caso emblematico, sul quale ritorneremo più avanti. Le condizioni privilegiate di cui godevano gli avamposti e la presenza permanente di mercanti residenti stimolavano l'insediamento di altri Veneziani appartenenti a gruppi occupazionali diversi, che arrivavano da Venezia, dalle sue colonie o da altri avamposti. Indipendentemente dalle circostanze, gli uomini costituivano la stragrande maggioranza dei residenti negli avamposti veneziani: le donne erano escluse dalla conduzione del commercio marittimo, ben di rado accompagnavano nell'emigrazione i parenti maschi, e il numero di quelle che raggiungevano i residenti, rendendo così possibile la vita di famiglia, fu sempre esiguo. La scarsa presenza in Oltremare di donne veneziane, e più generalmente latine, comportò modelli comportamentali diversificati, che dipendevano dalla previsione di un insediamento temporaneo o permanente e, come vedremo più avanti, dalle specifiche condizioni in cui si sviluppavano gli avamposti. Il rapporto numerico sfavorevole tra i sessi, ovvero del numero degli uomini per cento donne, risulta particolarmente pronunciato nei primi due decenni dopo la fondazione dell'insediamento veneziano, o dopo la sua rifondazione a seguito di un'interruzione forzata, ma è comunque un tratto demografico costante, che limitò il tasso di crescita naturale all'interno di quelle comunità.
L'esistenza di nuclei permanenti di Veneziani nei principali centri commerciali oltremare, in piena coincidenza con gli interessi economici e politici del comune, impose alcuni importanti mutamenti di indirizzo nell'atteggiamento dello stato. La sua presenza negli avamposti era stata dapprima saltuaria e rudimentale; nel secolo XII si era trattato soprattutto di qualche occasionale e rapida visita di ambasciatori e funzionari, o dell'elezione di un mercante viaggiatore a temporaneo rappresentante dei colleghi, e in questi termini rimase anche successivamente laddove l'attività veneziana non era permanente ed era limitata a pochi mercanti di passaggio. Costoro erano spesso accompagnati da chierici, i quali, oltre a svolgere le funzioni ecclesiastiche, fungevano anche da notai (3); in qualche caso, inoltre, come a Bisanzio e a Tiro (4), preti o monaci appartenenti a istituzioni ecclesiastiche veneziane fornivano un embrione di amministrazione, che si prendeva cura dei beni del comune e ne esercitava alcune mansioni. A lungo andare, comunque, la comunità veneziana permanente richiese i servizi continuativi di ecclesiastici e notai residenti, temporaneo o permanente che fosse il loro insediamento negli avamposti commerciali. Ma soprattutto, le divennero indispensabili strutture governative più complesse e stabili. Come vedremo più avanti, a queste si provvide in Levante dopo la terza Crociata, conclusa nel 1191, in Romània poco dopo la quarta Crociata, e altrove nel corso del secolo XIII. Era essenziale garantire agli avamposti, e in particolare a quelli che ospitavano una comunità permanente, la presenza continua di un rappresentante dello stato responsabile per le questioni amministrative, fiscali e giudiziarie interne, e per i rapporti del comune con i governi e le autorità locali.
Questi funzionari venivano scelti tra gli esponenti delle famiglie patrizie di Venezia, e ottenevano la nomina dal doge. Dal 1205 al 1261, per la durata dell'occupazione latina di Costantinopoli, tutti gli affari di Venezia nell'Impero latino furono affidati a un podestà assistito da consiglieri; dopo il 1268 questo funzionario ebbe il titolo di "bailo", previsto anche per Negroponte e per tutte le comunità più importanti nel Levante. Nella seconda metà del secolo XIII la durata della carica era in genere di due anni. Lo assistevano due consiglieri - che con lui costituivano un organismo ispirato al minor consiglio che assisteva il doge a Venezia - e inoltre disponeva di personale fisso. In alcuni avamposti esisteva anche un maggior consiglio composto da dodici membri, di regola patrizi, che il bailo convocava in caso di necessità (5). Venezia distaccava consoli, per uno o due anni, in centri commerciali importanti come Soldaia, Clarenza, Tunisi e Alessandria, alcuni dei quali ospitavano una popolazione veneziana residente. In mancanza di un incaricato ufficiale i mercanti veneziani di passaggio eleggevano un console a rappresentarli per brevi periodi, come sembra essere avvenuto a Salonicco e in Albania tra il 1270 e il 1280, ma costui non percepiva alcun salario dal governo (6). La presenza attiva di istituzioni governative ed ecclesiastiche permanenti negli avamposti ebbe conseguenze dirette sull'evoluzione demografica e sociale delle comunità d'Oltremare, assai diversificata da una località all'altra, che peraltro ci è possibile ricostruire approssimativamente solo in pochi casi ben documentati.
I quartieri veneziani ad Acri e a Tiro, nel Regno latino di Gerusalemme, erano i più grandi in Oltremare, e quelli che godevano di maggiori privilegi. Nel 1123 e di nuovo nel 1125 Venezia ottenne piena giurisdizione sul loro territorio e sugli abitanti - fatta eccezione per la giustizia penale - con un'estensione di autorità che, su questo piano almeno, precedette di molti anni le analoghe evoluzioni in favore delle altre potenze marinare in Levante. I vasti privilegi commerciali e fiscali di cui Venezia godeva, per quanto non sempre rispettati dai funzionari regi, la virtuale extraterritorialità dei due quartieri, e tutta una serie di incentivi economici favorirono il commercio e l'insediamento veneziano in Acri e Tiro sin dalla prima metà del secolo XII. La presenza della comunità in Acri fu interrotta per quattro anni dall'occupazione musulmana, dal 1187 al 1191, mentre nello stesso periodo a Tiro la sua continuità fu garantita dalla permanenza del governo latino. Riconquistata dai Latini, Acri poté godere per un intero secolo, fino alla caduta nel 1291, della sua nuova posizione di capitale politica ed ecclesiastica, oltre che di massimo centro economico, del Regno di Gerusalemme. Ancor più di prima la città fu il fulcro dell'attività economica di Venezia in Levante, e i mercanti viaggiatori, i vettori e i sempre più numerosi residenti veneziani recarono un contributo decisivo alla sua prosperità. Poco dopo il 1191 Venezia nominò un bailo ad Acri, suo massimo rappresentante nel Levante crociato, con estesa autorità sugli altri funzionari veneziani nella regione, e competenze relative alla difesa degli interessi di Venezia in un'area ancor più vasta. Il suo rango elevato all'interno della gerarchia dei funzionari veneziani oltremare nella seconda metà del secolo XIII è dimostrato dall'entità del salario annuale, superiore a quelli del duca di Creta e del bailo di Negroponte (7).
La presenza veneziana ad Acri nel Duecento è meglio documentata che in qualunque altro avamposto commerciale contemporaneo. Richiede quindi la massima attenzione, in quanto fornisce indicazioni sulla natura e le funzioni di altre comunità e quartieri veneziani, nonostante le numerose differenze che li distinguevano. La relazione compilata da Marsilio Zorzi, bailo veneziano ad Acri dal 1242 al 1244, ci offre la descrizione fisica più esauriente di un quartiere veneziano oltremare nel Duecento (8). Dà atto soltanto delle proprietà del comune, non di quelle private, ma nondimeno presenta un quadro abbastanza accurato della topografia del quartiere, ricostruibile sulla scorta di due mappe della città disegnate intorno al 1320 ma basate su informazioni precedenti, oltre che dei dati deducibili dalle ricerche archeologiche. Dalla relazione risulta che il quartiere disponeva di un fondaco proprio, un complesso di edifici di proprietà del comune che comprendeva alloggi, magazzini e botteghe disposti intorno a un campus o piazza. Questi servizi venivano locati ai mercanti di passaggio o ai pellegrini su base mensile, mentre ai residenti si concedevano locazioni annuali a canoni in proporzione assai più contenuti. Le merci arrivavano al fondaco veneziano via mare o via terra passando il controllo delle dogane regie rispettivamente nel porto o alle porte della città. C'era anche una chiesa, dedicata al santo patrono di Venezia, san Marco, il cui parroco, veneziano, estendeva la propria autorità all'intero quartiere, che faceva parrocchia a sé. Altro importante punto di riferimento era la residenza del bailo, dove questi teneva corte. Nel 1286 il maggior consiglio di Venezia decise di inviare ad Acri circa 72 tonnellate di conci e di modiglioni, e una certa quantità di pece, per la manutenzione e la decorazione del fondaco e di altre proprietà comunali all'interno del quartiere. L'aspra rivalità tra Venezia, Genova e Pisa, che nella prima metà del secolo XIII ebbe come teatro Acri, indusse il comune a circondare il suo quartiere con forti mura intercalate da porte e torri; le fortificazioni avrebbero avuto modo di dar prova della loro efficacia tra il 1256 e il 1258, quando proprio in Acri esplose la prima guerra veneto-genovese. Sconfitta Genova nel 1258, fino alla conquista musulmana di Acri nel 1291 Venezia perseguì una sistematica politica di espansione territoriale, accompagnata da ripetuti aggiustamenti del sistema difensivo (9). Oltre alla loro funzione militare, però, le mura che circondavano il quartiere ebbero forte influenza anche sulla vita sociale della comunità veneziana.
La composizione della comunità era molto più eterogenea di quanto potrebbe risultare a un primo sguardo. Innanzitutto i cittadini veneziani, appartenenti a tutti gli strati sociali: esponenti dell'élite sociale di Venezia, "case vecchie" o "case nuove", come i Querini, i Venier, i Vassano e i Vidal, o "popolani" come i Brizi, insediati ad Acri sin dalla seconda metà del secolo XII, e i Marmora. Queste ultime due famiglie, particolarmente abbienti, e altre di ceto "popolano" come i Barisan, i Benedetto, i Bondumier, i Boninsegna, i Lion, i da Molin e i Surian, avrebbero offerto contributi finanziari consistenti per il consolidamento della posizione veneziana in Acri, tanto che, dopo la caduta della città in mano ai Musulmani nel 1291, furono tutte premiate con l'iscrizione nel maggior consiglio di Venezia, alcune prima, altre subito dopo la "serrata" di quell'organismo politico nel 1297. Erano famiglie legate tra loro dalle imprese d'affari comuni e dai rapporti sociali - non ultimi i matrimoni - e tali rimasero anche dopo la fuga da Acri. I cittadini veneziani residenti possedevano immobili nel quartiere del comune ma anche altrove in Acri. Oltre ai Veneziani di nascita, la comunità comprendeva stranieri cui il comune aveva concesso la nazionalità veneziana, che garantiva loro la protezione di Venezia pur non offrendo tutti i vantaggi della cittadinanza, con la quale non va confusa (1'). Con la prima guerra veneto-genovese, nel 1256, Venezia fu indotta a riconoscere quali Veneziani numerosi nobili franchi il cui sostegno politico era fondamentale in quel momento critico, e anche altri Latini, Cristiani orientali indigeni - allora noti col nome di Siriani -, Armeni e Ebrei furono naturalizzati per considerazioni di carattere economico e fiscale.
Come si è già detto, non tutti i "Veneziani" di Acri risiedevano entro i confini del quartiere, ma nella seconda metà del secolo XIII il comune decise di promuoverne la concentrazione in quell'area per meglio controllare le loro attività economiche incrementando così le entrate fiscali: nel 1272 il bailo fu autorizzato ad imporre ai Veneziani più ricchi, ma anche ad altri, la residenza nel quartiere, esentando dal provvedimento soltanto i nobili naturalizzati e gli Ebrei. Nel 1286 la residenza obbligatoria fu estesa anche a tutti i mercanti di passaggio, che erano tenuti ad affittare alloggi e magazzini dal comune prima di poter fare altrettanto al di fuori dei confini del quartiere. Quattro anni prima il maggior consiglio di Venezia aveva provveduto al rimborso dei prestiti concessi in passato al comune da circa 700 burgenses o residenti di Acri, ma non è chiaro il periodo cui risalivano questi prestiti, né se l'onere fosse stato condiviso da tutte le famiglie veneziane presenti in Acri, né ancora se nel numero siano compresi esponenti di tutti i sotto-gruppi che componevano la comunità. È possibile identificare con certezza più di cento profughi veneziani da Acri che nel 1300 circa vivevano con le famiglie a Cipro: erano probabilmente più numerosi, poiché non tutti i profughi dichiaravano la città di provenienza, e perdipiù il dato ci viene da fonti genovesi, che sottovalutano la presenza veneziana (11). È dunque impossibile desumere da queste due cifre una stima della popolazione veneziana in Acri in un qualsiasi momento dato, ma può essere giustificato ritenere che si trattasse di diverse centinaia di persone, al di sotto del tetto delle mille (12).
Venezia esercitava su un terzo della città e della signoria di Tiro la piena autorità conferitale poco dopo la loro caduta in mano ai Latini nel 1124. Dalla relazione di Marsilio Zorzi e da altre fonti apprendiamo che il quartiere urbano conteneva strutture laiche ed ecclesiastiche, oltre a servizi come bagni e forni. In cambio delle sue proprietà, il comune era tenuto a fornire ai re di Gerusalemme il servizio militare di alcuni uomini a cavallo, e a questo aveva provveduto infeudando a titolo personale la metà circa dei suoi possedimenti rurali a Veneziani: questi feudatari furono tra i primi Veneziani ad insediarsi a Tiro, e tra essi compare anche un Rolando Contarini, esponente di una grande famiglia di Venezia. Oltre ai residenti arrivati da Venezia e da Costantinopoli, il quartiere veneziano era abitato anche da Siriani indigeni ed Ebrei, sudditi del comune e dunque non naturalizzati come ad Acri. Tiro rimase latina senza interruzioni fino al 1291, ma la composizione e le dimensioni della comunità veneziana locale fluttuavano in concomitanza con gli sviluppi politici dai quali dipendeva la posizione di Venezia in città. Negli anni compresi tra il 1187 e il 1191 il comune fu illegittimamente privato dei suoi beni in città e soprattutto nelle campagne, e per due volte perdette il suo quartiere e i sudditi, compresi i tessitori siriani: dal 1229 al 1242, quando la città fu sottoposta all'imperatore Federico II, e ancora dal 1258 al 1277, quando Venezia fu cacciata da Tiro da Filippo di Montfort; fino al 1258 dunque, quando furono costretti ad andarsene, e di nuovo dopo il 1277, quando furono riammessi, è certa la presenza a Tiro di residenti veneziani (13). I fratelli Giovanni e Marco Dandolo sono tra i pochi di cui conosciamo il nome; poco dopo il 1209 costruirono una casa nel quartiere del comune, la cui proprietà trasferirono poi alla chiesa di San Marco, e continuarono a commerciare da Tiro con Venezia anche dopo che Giovanni lasciò, come sembra, l'incarico di vicecomes veneziano ad Acri e Tiro (14).
Residenti veneziani sono attestati nella città cipriota di Pafos in periodo bizantino, tra il 1173 e il 1175 (15), ma solo dopo la conquista latina del 1191 si formò nell'isola una vera e propria comunità. Con gli anni '30 del Duecento la maggioranza dei Veneziani risiedeva a Limassol, allora principale porto cipriota, dove disponevano di una chiesa, San Marco, e dove il comune possedeva un bagno; altri erano insediati a Nicosia, sede della corte reale, e a Pafos. Come apprendiamo dalla relazione di Marsilio Zorzi (16), possedevano case e botteghe in quelle città, e terreni agricoli in zone a vocazione vinicola. Tra i residenti compaiono i nomi di esponenti dell'élite veneziana, come i da Canal, i Michiel, i Querini, gli Zancaruol e gli Zeno. Ad un certo punto, prima del 1243, la confisca dei beni pubblici e privati dei Veneziani inferse un duro colpo alla comunità, inducendo buona parte, se non la totalità, dei residenti ad andarsene: è significativo che nessuna delle summenzionate famiglie compaia tra i residenti di Cipro in epoca successiva. Nel 1242-1244 un certo Giacomino Barbaro, veneziano di Cipro, fu sorpreso a rubare canna da zucchero nella zona di Tiro' 17); non è chiaro se vivesse ancora a Cipro, il che implicherebbe una continuità della presenza veneziana nell'isola in quel periodo, o se si fosse trasferito a Tiro. I Veneziani erano molti, tra i profughi arrivati a Cipro nel 1291, con la caduta in mano musulmana delle ultime roccheforti crociate in Levante; come si è già detto, è possibile identificare con sicurezza più di cento famiglie di Acri, principale avamposto veneziano nella regione, ma indubbiamente erano molte di più: tra queste compare il gruppo di famiglie "popolane" menzionate più sopra.
Se la maggioranza dei profughi veneziani si stabilì in modo permanente a Famagosta, città di cui avrebbero costituito il gruppo nazionale più consistente, altri ritornarono a Venezia dopo qualche anno. C'erano Veneziani a Nicosia e a Limassol, ma a Cipro fu sicuramente Famagosta a vederne la concentrazione più numerosa, e anche ai mercanti viaggiatori e ai residenti veneziani la città dovette il suo rapido sviluppo urbano ed economico, che negli anni '90 del Duecento l'avrebbe portata a superare Limassol, divenendo il primo porto cipriota. Nella ristrutturazione del sistema commerciale marittimo veneziano avvenuta in quel periodo, Cipro assunse il nuovo ruolo di base avanzata per il commercio con la Cilicia o Piccola Armenia, con il Levante e con l'Egitto. Intorno al 1300 richiamava mercanti viaggiatori da Venezia, da Creta e dagli avamposti in Romània come Negroponte, tra i quali compaiono esponenti di diverse famiglie patrizie veneziane: un elenco di tutto rispetto, coi nomi dei Cappello, dei da Molin, dei Gabriel, dei Lombardo, dei Longo, dei Magno, dei Morosini, dei Michiel, dei Polo, dei Sanudo, dei Signolo, dei Trevisan, dei Vendelino. Nessuno di loro, peraltro, con l'eccezione di Stefano Magno, si sarebbe stabilito a Cipro. Tra i residenti veneziani a Famagosta compaiono anche artigiani provenienti da Venezia e da Acri. La comunità veneziana a Cipro comprendeva cittadini, sudditi delle colonie e stranieri naturalizzati, come risulta chiaramente dalle richieste presentate da Venezia nel 1302 a re Enrico II di Lusignano e dal trattato veneto-cipriota del 1306 (18). Diversamente che nelle città crociate del Levante, né Venezia né le altre potenze marinare ottennero mai un quartiere privilegiato o una giurisdizione territoriale a Cipro, ma pare comunque che a Famagosta molti Veneziani risiedessero in una zona specifica della città, intorno alla loggia del comune (19). Il bailo veneziano in Famagosta curava tutti gli interessi veneziani nell'isola, esercitando la sua giurisdizione nelle cause tra Veneziani, indipendentemente dalla loro condizione, ancor prima che re Enrico II gliene concedesse l'autorità, nel 1306.
La presenza veneziana in Egitto aumentò gradatamente nel corso del secolo successivo alla terza crociata, dal 1192 circa al 1291, seguendo un percorso sostanzialmente diverso da quello già osservato nel Levante crociato o a Cipro (20). Ad Alessandria, principale emporio egiziano, i Veneziani erano costretti, come gli altri mercanti occidentali, a risiedere e commerciare all'interno di un fondaco murato, messo a loro disposizione dal governo, che però ne conservava la proprietà. Questa politica restrittiva e coercitiva, applicata con grande rigore, garantiva una segregazione residenziale e sociale istituzionalizzata dalla popolazione locale, costituita soprattutto da Musulmani e da una consistente minoranza di Cristiani orientali; ad essa i sultani si attennero con la massima coerenza, pur concedendo fondaci a tutte le maggiori potenze marinare dopo il secolo XII. Si ritiene che i Veneziani ottenessero il loro fondaco nel 1172, ma fino al 1254 le autorità locali potevano alloggiarvi anche altri Latini. A partire dal 1200 circa il numero dei mercanti veneziani di passaggio per Alessandria prese ad aumentare, e nel 1215 essi costituivano la stragrande maggioranza dei 3.000 Italiani che risultavano in città. Qualche anno prima, nel 1208, questa constatazione e l'intensificarsi dei loro viaggi per Alessandria avevano indotto Venezia non soltanto a recuperare il suo vecchio fondaco, ma a chiederne quindi e ottenerne, un altro, più piccolo (21). Prima del 1238, inoltre, al comune fu concesso l'uso di una chiesa e di un bagno, entrambi situati al di fuori dei fondaci. La presenza di un console che esercitava giurisdizione sui Veneziani, attestata dal 1208, fu il primo passo verso la costituzione di una struttura amministrativa permanente con molteplici funzioni negli spazi a disposizione del comune, che peraltro non acquisirono mai l'extraterritorialità di cui godevano i quartieri veneziani altrove.
Dal 1254 il console fu autorizzato a limitare la residenza nei fondaci a quanti potessero vantare la nazionalità veneziana, che i sultani riconoscevano indifferentemente ai cittadini, ai sudditi dell'impero coloniale e ai Veneziani naturalizzati provenienti da altre regioni. È comunque significativo che, per evitare contrasti con i sultani, Venezia si astenesse dal concedere la naturalizzazione ai membri delle comunità indigene, una prudenza che si distaccava alquanto dalla sua condotta in altri stati dove disponeva di quartieri propri, e occupava una posizione molto più forte.
Il miglioramento delle condizioni di vita e il progressivo conseguimento di un certo grado di autonomia all'interno dei fondaci di Alessandria, un processo iniziato nel 1208 e portato a termine nel 1254, indussero un numero crescente di mercanti veneziani a prolungare la durata dei loro soggiorni nella città egiziana, anche se non si trattò mai di nulla più che una residenza temporanea che si protraeva al massimo per qualche anno. La caduta degli stati crociati nel 1291 e l'embargo imposto poco dopo dal papa al commercio con i territori dell'Egitto mamelucco non interruppero l'afflusso di mercanti veneziani ad Alessandria, sebbene sia presumibile che ne limitassero la portata. La permanenza dei due fondaci, la richiesta nel 1302 di sostituirne uno con un altro complesso meglio attrezzato, e la nomina di nuovo di un console in quello stesso anno bastano comunque a dimostrare che mercanti veneziani continuarono a risiedere nel porto egiziano. Gli spazi limitati dei fondaci in Egitto e l'andamento prettamente circolare del commercio cui servivano escludevano la pratica dell'artigianato, preclusa comunque dalle condizioni economiche in Egitto. Ed escludevano anche l'immigrazione femminile, fatta eccezione per le prostitute, e dunque la costituzione di nuclei familiari. La segregazione imposta dalle autorità egiziane impediva peraltro il matrimonio o il concubinato con le donne locali. Condizioni analoghe a quelle vigenti in Egitto si davano anche nel Maghreb, ad esempio a Tunisi. Quanto alle caratteristiche sociali e demografiche l'evoluzione dei fondaci veneziani in Egitto e a Tunisi differì dunque in modo marcato da quella dei quartieri occupati da Venezia a Bisanzio e nel Levante crociato.
La costituzione di un quartiere veneziano a Costantinopoli nel 1082 era stata originariamente intesa a fornire alloggi e magazzini ai soli mercanti viaggiatori. Vi si perpetuava, in una certa misura, la segregazione residenziale già precedentemente imposta agli stranieri, che garantiva all'imperatore un minimo di controllo su quei Veneziani. Il quartiere non godeva della posizione privilegiata concessa a quelli di Acri e di Tiro, come dimostra il fatto che soltanto nel 1198 Venezia riuscì a ottenere nell'Impero una giurisdizione limitata sulle cause civili che riguardavano i Veneziani (22). Cionondimeno non passò molto tempo dalla costituzione del quartiere che alcuni Veneziani si insediarono temporaneamente entro i suoi confini. Lo conferma per implicazione la presenza di tre donne in un gruppo di Veneziani che ritornarono nel 1110 da Costantinopoli a Venezia. Risulta evidente che quelle donne avevano raggiunto dei parenti, con i quali avevano convissuto per qualche tempo nella capitale imperiale: non si occupavano infatti di commercio sulle lunghe distanze, né si erano messe in viaggio per diporto o per un pellegrinaggio (23). Qualche veneziano, che pure considerava temporaneo il proprio soggiorno a Costantinopoli, si registrò comunque come habitator della città. Non vi si trattenevano per più di qualche anno, come nel noto esempio di Romano Mairano, che fece di Costantinopoli la base delle sue operazioni dal 1155, quando affittò una casa per quattro anni, al 1158, se non oltre. La permanenza di alcuni notai che fungevano anche da preti nelle istituzioni religiose veneziane fu più lunga (24). Il numero crescente di mercanti viaggiatori e residenti stabilitisi intorno al quartiere originario indusse Venezia a chiederne l'ampliamento, che ottenne nel 1148. Si aprì, probabilmente in quel periodo, una terza fase in cui alcuni Veneziani intenzionati a stabilirsi in modo permanente a Costantinopoli non soltanto presero alloggio al di fuori del loro quartiere, ma sposarono donne greche e acquisirono immobili in città. Di fatto costoro univano i privilegi e le esenzioni di cui godevano come cittadini veneziani con i diritti dei sudditi bizantini, una situazione alla quale si oppose l'imperatore Manuele I Comneno, che finì per imporre loro, prima del 1171, la scelta tra Venezia e l'Impero. Quelli che si consideravano bourgesioi o burgenses dell'Impero, cioè residenti permanenti e dunque sudditi imperiali, fecero dunque un passo decisivo verso l'assimilazione nella società greca (25). Di alcuni di questi Veneziani divenne amico il cronista bizantino Niceta Coniate, che narra come nel 1204, dopo la conquista latina di Costantinopoli, uno di loro avesse cercato rifugio presso di lui con la famiglia e gli averi. Più avanti si trasferirono tutti in una casa già abitata da altri Veneziani, che però dovette essere evacuata in quanto sita in un quartiere assegnato ai cavalieri francesi: era dunque chiaramente all'esterno del quartiere veneziano (26). La maggioranza dei residenti, alcuni dei quali vivevano in città con le famiglie, optò comunque per conservare la cittadinanza veneziana, indipendentemente dal fatto che risiedessero o meno nel quartiere di Venezia. Stando a una fonte, nel marzo 1171 erano presenti a Costantinopoli 10.000 Veneziani, una cifra comprensiva dei mercanti di passaggio, dei marinai e dei residenti. Non possediamo dati quantitativi, ed è purtroppo impossibile ipotizzare una stima attendibile della popolazione di Venezia in quel periodo, ma non è irragionevole pensare che non superasse il tetto dei 50.000: l'indicazione di 10.000 presenze riferita al 1171 può quindi essere tranquillamente scartata, in quanto ne conseguirebbe che in quel momento la maggioranza dei maschi adulti di Venezia si trovasse nella capitale imperiale. Nella migliore delle ipotesi, in un qualunque momento dato della seconda metà del secolo XII si trattò al più di qualche migliaio di presenze (27). Nel corso di quel secolo piccoli gruppi di Veneziani si insediarono temporaneamente anche in altre città bizantine, come Rodosto e Abydos sui Dardanelli, e Salonicco, Halmyros, Tebe, Corinto e Durazzo. L'esistenza di chiese veneziane in alcune di queste località presuppone quantomeno la presenza di preti, ma sappiamo anche di habitatores veneziani e di altre presenze laiche (28).
La quarta Crociata spianò la strada alla migrazione e all'insediamento di tipo lineare, con carattere eminentemente urbano, in una misura e secondo modalità senza precedenti in Romània come altrove. Ne fu fattore fondamentale l'imposizione dell'autorità di Venezia su una parte dell'Impero latino, e della sua signoria esclusiva su altri territori già bizantini. In termini generali, il mantenimento del predominio politico di Venezia bastò largamente a garantire continuità e sicurezza alla migrazione, all'insediamento e alla residenza delle comunità veneziane in queste regioni, in netto contrasto con la precarietà che contraddistingueva gli avamposti in terra straniera. Alla prova dei fatti, comunque, queste condizioni di favore si rivelarono effimere nell'Impero latino, riducendosi alla sola Costantinopoli già sul finire degli anni '30 a seguito della riconquista bizantina delle provincie, mentre invece nell'impero coloniale di Venezia sopravvissero per parecchi secoli. In entrambe le aree riscontriamo l'insediamento individuale e spontaneo, dettato soprattutto da considerazioni economiche private, che è tipico di tutti gli avamposti veneziani; ma in questo caso ci troviamo di fronte anche a un processo di insediamento estremamente strutturato e istituzionalizzato, promosso, incoraggiato e organizzato dallo stato per favorire i suoi interessi politici ed economici.
Nell'Impero latino la prima ondata di coloni veneziani venne dalle fila di coloro che avevano preso parte alla crociata inquadrati nel contingente militare e navale di Venezia, nel quale si erano arruolati, a quanto sappiamo, di loro spontanea volontà. Il contributo decisivo del comune alla spedizione gli garantiva, in linea di principio, la signoria su tre ottavi dell'Impero latino, in cambio dei quali si impegnava a fornire assistenza militare. Il servizio militare si configurava all'interno del modello di governo feudale trapiantato dall'Occidente in Romània dai capi dei contingenti non veneziani: in pratica, il governo veneziano concedeva in feudo porzioni del territorio ad esso spettante, il cui possesso, e la cui rendita, comportavano degli obblighi militari e finanziari nei confronti del comune e un giuramento di fedeltà al doge. I feudatari veneziani costituivano un contingente militare a sé il quale, come quello che aveva preso parte alle spedizione, faceva capo al comune, rappresentato dal 1205 dal podestà di stanza a Costantinopoli. Questo funzionario decideva la località di insediamento dei detentori di feudi veneziani, e rispondeva dell'esecuzione collettiva degli obblighi militari che ciascuno di essi si era assunto individualmente, sotto giuramento, nei confronti dell'imperatore. È possibile che la strutturazione sostanzialmente analoga imposta nel 1124 o 1125 alla porzione veneziana della signoria di Tiro, cui si accennava più sopra, fosse servita come precedente (29). In circostanze particolari, comunque, Venezia allentava il rigido nesso tra infeudazione, servizio militare e insediamento. Nel 1214 Lampsaco, un isolato e poco redditizio feudo veneziano nell'Anatolia occidentale, fu concesso congiuntamente a tre Veneziani residenti a Costantinopoli, i fratelli Paolo e Giberto Querini e Giovanni Succugulo, dai quali il comune si contentava di riscuotere una rendita. Nel 1207 e nel 1208 Leonardo Vendelino e Domenico Signolo, che a quanto sappiamo avevano preso parte alla spedizione in un contingente dei sestieri, tenevano beni in Costantinopoli dal patriarca di Grado, e Giacomo Gradenigo, esponente di una grande famiglia veneziana, risiedeva fin dal 1205 nella capitale pur risultando registrato, al momento della sua morte nel 1221, come feudatario a Gallipoli (30).
Una lettera inviata nel 1219 da Giacomo Tiepolo, podestà veneziano a Costantinopoli, rivela con precisione la natura del modello di infeudazione e insediamento applicato dal comune nei primi anni dell'Impero latino. Il podestà riferisce sui cambiamenti da lui introdotti nell'amministrazione di Rodosto, e parla a questo proposito di milites o feudatari veneziani con residenza permanente in quella città, organizzati in gruppi sulla base del rispettivo sestiere di Venezia da cui provenivano (31). È giustificato ritenere che questa suddivisione riprendesse e confermasse la struttura di base del contingente militare che partì da Venezia per la crociata nell'ottobre 1202. E annunciava da vicino il raggruppamento, di poco successivo, imposto dalle autorità ai coloni in partenza per Creta nel 1211, che prevedeva infeudazioni e insediamenti ripartiti secondo i sestieri di origine, in cambio del servizio militare (32). Possiamo quindi ritenere che il territorio rurale di Rodosto fosse suddiviso in porzioni corrispondenti ai sestieri di Venezia, e che questo modello venisse applicato anche altrove nella porzione veneziana dell'Impero. Lo deduciamo, ad esempio, da un elenco dei beni recuperati dal comune nel 1205 o 1206 nella penisola di Gallipoli: ogni gruppo di villaggi vi compare sotto l'intestazione della città in cui risiedevano i feudatari veneziani, pur detenendo le loro cavallarie - feudi soggetti all'obbligo del servizio militare a cavallo - nella zona rurale (33). È significativo il carattere urbano dell'insediamento dei feudatari. Anche i benefici militari distribuiti dal comune a Creta, forse a partire dal 1209 e comunque dal 1211, erano costituiti da fondi nelle campagne e da una casa a Candia o Canea, dove i feudatari risiedevano (34). Possiamo quindi postulare che nel primo caso come nel secondo, sul quale siamo meglio informati, i detentori di feudi fossero suddivisi in due gruppi, a grandi linee corrispondenti alla stratificazione sociale di Venezia: i milites, cavalieri, esponenti del patriziato, cui spettavano le cavallarie o militie, e i pedites, fanti, provenienti per lo più dai ranghi inferiori della società veneziana, detentori delle assai più esigue serventarie o sergentarie. Sarebbe però sbagliato ritenere, sulla sola scorta del modello dell'infeudazione e degli obblighi che esso comportava, che nella sua porzione dell'Impero latino o a Creta, Venezia avesse istituito un sistema di governo feudale: se attinse liberamente dall'ambiente feudale il linguaggio e le formule, oltre che le procedure legate alla concessione dei benefici militari, si guardò bene dall'adottare il rapporto di subordinazione prettamente personale derivante dall'omaggio. In termini più generali, c'era una differenza fondamentale tra il regime imposto da Venezia nei territori ad essa sottoposti e quello vigente nelle regioni feudalizzate dell'Occidente e della Romània. Il regime feudale era affatto estraneo al sistema politico, sociale e giuridico di Venezia, fondato sull'idea dello stato e privo di una struttura sociale gerarchica sanzionata dalla consuetudine o dal diritto. Ed era estraneo anche alla mentalità dei Veneziani. Nella porzione veneziana dell'Impero latino e nelle colonie oltremare, l'infeudazione non limitava l'autorità dello stato, né comportava alcuna privatizzazione delle sue prerogative giudiziarie o fiscali. Venezia si atteneva rigorosamente alla distinzione tra la sfera privata e quella statale (35).
L'intervento dello stato nel processo dell'insediamento in Romània rispondeva agli interessi vitali di Venezia. L'adempimento dell'obbligo militare nei confronti dell'imperatore latino non contribuiva soltanto alla difesa di un Impero in cui Venezia aveva acquisito, dopo il 1204, una posizione economica predominante: rafforzava anche la posizione politica del comune all'interno di quello stato, e la sua presa sulla porzione dell'Impero ad esso soggetta, che comprendeva una parte della penisola di Gallipoli e il suo porto principale, Rodosto, una posizione di fondamentale importanza strategica per la sicurezza dei traffici marittimi veneziani da, e per, Costantinopoli. Anche a Creta la procedura dell'infeudazione e dell'insediamento era finalizzata a molteplici scopi, in particolare all'imposizione e al consolidamento del dominio veneziano sull'isola, oltre che allo sfruttamento delle sue risorse economiche. La riuscita applicazione nell'Impero latino del modello organizzativo fondato sui sestieri, promosso dallo stato e altamente strutturato, ebbe un'evidente funzione di precedente, utilizzato appieno qualche anno dopo quando Venezia pianificò la colonizzazione militare di Creta (36). I due casi presentano comunque alcune rilevanti differenze: se nell'Impero latino il sistema si era riferito a unità militari già esistenti, proponendosi come soluzione ad hoc al problema dell'insediamento, nel 1211 la pianificazione preventiva del processo di colonizzazione a Creta ne rese possibile l'estensione, in modo da includere tanto l'emigrazione da Venezia, sovvenzionata dal governo, quanto l'insediamento nell'isola. Lo stesso avvenne successivamente, quando il comune organizzò ulteriori contingenti di coloni per Creta, nel 1222, 1233 e 1252. La colonizzazione militare di Creta ebbe dunque implicazioni più vaste sul piano demografico: non fu limitata agli uomini, come nell'Impero latino, e comportò il trasferimento da Venezia di intere famiglie. Il comune concesse feudi militari anche nei territori di Modone e Corone, ma non sulla base dei sestieri (37).
Tenendo conto delle ancor limitate risorse demografiche di Venezia, è evidente che la città non poteva bastare da sola a fornire tutti gli equipaggi necessari ad armare l'enorme flotta che salpò per l'Oriente nel 1202, né alla creazione di una grande forza militare ben addestrata. Lo dimostra anche l'esiguità del numero di uomini d'arme che il comune intendeva insediare a Creta nel 1211, un tema sul quale ritorneremo più avanti. Di conseguenza, per la crociata si dovettero arruolare marinai e uomini d'arme stranieri (38). Sostanzialmente analogo si presenta il quadro della distribuzione dei feudi nella porzione veneziana dell'Impero latino: poiché non era disponibile un numero di cittadini sufficiente, anche "alios homines qui venerant in fidelitate et servitio domini Venecie ducis" furono infeudati, e con ogni probabilità formalmente integrati nei contingenti dei sestieri (39). Venezia aveva tutto l'interesse ad incrementare il numero dei suoi detentori di feudi nell'Impero latino assorbendo stranieri, ad alcuni dei quali avrebbe concesso la nazionalità veneziana dopo un certo numero di anni di servizio (40). Ad analoghi problemi di scarsità di personale militare il comune dovette far fronte per la colonizzazione di Creta. Nel 1211 aveva progettato di trasferire da Venezia a Creta 540 famiglie, pari a circa 2.500 persone, ma l'emigrazione effettiva rimase sostanzialmente al di sotto delle previsioni: nemmeno la somma totale dei coloni trasferiti nel 1211 e nelle successive ondate del 1222, 1233 e 1252 riuscì a conseguire quell'obiettivo. Che il numero dei coloni militari veneziani fosse alquanto esiguo trova conferma anche in altre indicazioni: in origine i feudi dovevano essere concessi esclusivamente a cittadini veneziani, a ciascuno dei quali poteva essere attribuito un solo beneficio, ma già pochi anni dopo l'avvio del processo di colonizzazione militare troviamo alcuni coloni veneziani in possesso contemporaneo di diversi benefici militari, e parecchi Latini non veneziani tra i detentori di feudi. Dai documenti duecenteschi risulta la presenza in Creta di feudati originari dell'Istria, del Veneto e di altre regioni dell'Italia settentrionale e centrale, integrati a fianco dei milites e sergenti di schiatta veneziana nell'organizzazione militare esistente, fondata sui sestieri (41). Significativo, ad esempio, è il caso di tre individui di Oderzo, nel Trevigiano, che nel 1224 si impegnarono per contratto a rimanere a Creta per sei anni come sergenti con obblighi militari nei confronti di un feudatario veneziano (42), un accordo privato che fu poi sicuramente ratificato dall'amministrazione veneziana a Creta. Riassumendo, il processo della colonizzazione militare di Creta e i suoi esiti demografici e sociali furono assai più complessi di quanto in genere si presuma. Oltre all'immigrazione e all'insediamento collettivo di Veneziani promossi dallo stato, vi fu un movimento individuale e spontaneo di Veneziani e stranieri, per i quali la residenza e l'infeudazione a Creta non furono necessariamente definitive, e in qualche caso anzi durarono soltanto pochi anni.
Accanto all'insediamento veneziano promosso e organizzato dallo stato, si riscontra dunque nell'Impero latino e a Creta lo stesso tipo di immigrazione individuale spontanea, spinta da incentivi economici, diffuso in Romània prima della quarta Crociata. Dopo il 1204 l'importanza di Costantinopoli come centro di consumo diminuì a seguito dell'emigrazione della corte bizantina, dell'élite sociale e di parte della popolazione locale greca, ma la città non tardò a riassumere il suo ruolo di grande centro commerciale. I mercanti viaggiatori e i coloni veneziani vi accorrevano in numero assai maggiore che in precedenza, e andavano ad aggiungersi ai residenti permanenti che, sull'onda della conquista latina, avevano ritrovato l'antica identità veneziana. Ancora una volta risulta impossibile ipotizzare con qualche fondamento le effettive dimensioni della comunità veneziana a Costantinopoli. Nell'autunno 1204 il quartiere veneziano fu considerevolmente esteso, e gli immigrati vi acquistarono case e terreni, o li ottennero in affitto dal comune o dal patriarca di Grado, cui il comune aveva ceduto una parte del suo quartiere nel 1207, oppure ancora da altre istituzioni ecclesiastiche latine (43). Non sorprende certo che fra i primi a farlo ci fossero coloro che avevano commerciato o risieduto a Costantinopoli prima della Crociata, e dunque conoscevano già la situazione locale (44), e che fecero della città la nuova base della loro attività nel commercio marittimo. Le testimonianze frammentarie e disperse di cui disponiamo non ci consentono di ricostruire l'itinerario e le attività dei singoli individui, se non in pochissimi casi (45). Il meglio documentato è quello di Zaccaria Staniario, il cui nonno Dobramiro, uno schiavo emancipato, aveva operato nel commercio bizantino fino, al più tardi, al 1135. Zaccaria seguì le orme del padre e dei fratelli: è attestato a Venezia dal 1175, visitò Costantinopoli nel 1199 e nel 1200, ma era di nuovo a Venezia nel 1202, mentre fervevano i preparativi per la partenza della flotta della quarta Crociata (46). Non si può escludere che prendesse parte alla spedizione, per poi ritornare a Venezia, dato che nel febbraio 1205 lo ritroviamo come comandante di una nave in partenza per Costantinopoli. Qui si insediò, e nel 1207 fu consigliere del bailo. L'anno dopo investì in scambi commerciali con Soldaia, nella Crimea sudorientale, e in altre operazioni con Venezia nel 1207, 1210, 1212 e 1217. Nel 1219, ormai vecchio dopo quasi quarantacinque anni di attività, decise di ritornare definitivamente a Venezia e delegò un compatriota a riscuotere i suoi crediti e a cedere in affitto o in vendita i terreni, le case e i suoi altri beni in Costantinopoli (47). Una carriera di questo tipo, e il ritorno finale a Venezia, erano tutt'altro che rari, come vedremo più avanti. Va ricordato che i feudatari non dovevano necessariamente limitarsi alle rendite dei loro benefici: alcuni di loro si insediarono a Costantinopoli, dove praticavano il commercio e altre redditizie attività. Così fecero, ad esempio, i tre feudati di Lampsaco, due dei quali rientrarono a Venezia dopo aver risieduto per molti anni nella capitale imperiale (48).
Dal 1204 al 1261 il flusso migratorio da Venezia a Costantinopoli fu costante, intensificandosi probabilmente dopo il 1240, quando il consolidamento del dominio mongolo sulla Russia meridionale provocò un incremento dei commerci veneziani nel mar Nero e, di conseguenza, a Costantinopoli. Nonostante il rientro a Venezia di alcuni emigrati, come il summenzionato Zaccaria Staniario, il numero dei cittadini veneziani residenti era certo consistente, e alcuni tra loro si fecero raggiungere dalle mogli ed ebbero figli a Costantinopoli (49). La comunità veneziana locale comprendeva anche sudditi dell'impero coloniale, stranieri latini e greci che avevano ottenuto la nazionalità e, in qualche raro caso, persino la cittadinanza veneziana, e infine i figli dei matrimoni misti veneto-greci, detti vasmuli o guasmuli: la scarsa presenza di donne veneziane, e più in generale latine, induceva infatti alcuni al matrimonio o al concubinato con donne greche. È degno di nota che tra il 1234 e il 1255 alcuni Greci risultassero residenti nel quartiere veneziano di Costantinopoli, e dopo il 1261 la posizione dei vasmuli, che ereditavano dal padre la nazionalità veneziana, e quella dei Greci naturalizzati divennero oggetto di contenzioso tra Venezia e Bisanzio (50). La riconquista bizantina di quell'anno provocò l'esodo di circa 3.000 Latini, la maggioranza dei quali rientrava nei vari sotto-gruppi della comunità veneziana, insieme con quei mercanti viaggiatori cui capitò di trovarsi in città in quel momento. In particolare erano proprio i cittadini veneziani e coloro che con essi avevano i legami più stretti a nutrire i timori più giustificati per il ritorno dei Bizantini in città (51). La situazione nell'Impero migliorò comunque dal 1268: la ripresa e l'incremento del commercio veneziano a Costantinopoli e nel mar Nero, l'estesa protezione diplomatica offerta dal bailo a chi aveva la nazionalità veneziana, e la ricostituzione del quartiere nella capitale favorirono il reinsediamento dei Veneziani nell'Impero. Sicuramente i primi a ritornare a Costantinopoli vi avevano già risieduto prima del 1261. I mercanti viaggiatori affittarono alloggi e magazzini nel quartiere, e altri mercanti, artigiani e donne appartenenti agli stessi sotto-gruppi di Veneziani del periodo latino vi ripresero residenza. A quanto risulta, nel tardo Duecento ai sudditi veneziani si aggiunsero Ebrei bizantini, alcuni dei quali facevano i conciatori (52). Va comunque sottolineato che il contesto in cui si trovò a vivere la comunità veneziana era affatto diverso da quello degli anni 1204-1261. Dopo il 1277 il quartiere veneziano divenne virtualmente una zona extraterritoriale e franca, ma di fatto la sua posizione era analoga a quella in cui versava prima del 1204: un avamposto commerciale in uno stato straniero, che dunque dipendeva in tutto dai rapporti tra quest'ultimo e Venezia. Come già si è detto, ne fu l'esempio migliore la sorte della comunità veneziana durante la guerra veneto-bizantina del 1296-1302.
A Creta, come nell'Impero latino, la presenza veneziana non si limitava alla colonizzazione militare. La composizione della popolazione veneziana nell'isola si andò diversificando a seguito di un costante flusso migratorio individuale e spontaneo, che peraltro ebbe sempre dimensioni piuttosto modeste; una tendenza, questa, che risulta ancor più marcata a Modone, Corone e Negroponte. Nel 1302 i rappresentanti dei coloni militari veneziani a Creta lamentavano che la Canea era poco popolata, se non quasi deserta (53). L'anno prima il comune aveva trasferito da Venezia a Modone e Corone ventiquattro coloni con le loro famiglie, circa cento individui in tutto, promettendo loro sovvenzioni per un intero anno, metà delle quali anticipate; erano panettieri, cimatori, sarti, calzolai, pellicciai, marangoni, falegnami, tagliapietre, armaioli e balestrieri. A questo insediamento di natura principalmente non militare promosso e organizzato dallo stato ne seguirono altri analoghi (54), con due obiettivi evidenti: incrementare la popolazione latina, indispensabile se si voleva consolidare il dominio veneziano, e fornire ai due territori, oltre che ai mercanti e alle navi di passaggio, i necessari servizi economici e militari. A quest'ultimo proposito, il trasferimento degli artigiani si proponeva il medesimo obiettivo della naturalizzazione degli artigiani negli avamposti in terra straniera (55). Nel principato franco di Morea, che occupava una parte del Peloponneso, incontriamo mercanti, ma anche feudatari, veneziani; tra questi, nel 1262, Lorenzo Tiepolo, figlio di un doge e lui stesso eletto al dogado nel 1268.
Le condizioni nelle isole dell'Egeo soggette al dominio latino erano in parte diverse. Per la maggior parte erano state conquistate nei primi anni del Duecento a titolo personale da patrizi veneziani, mentre altre furono occupate o rioccupate dal comune tra la fine del secolo e l'inizio del Trecento. Piccoli gruppi di Veneziani presero parte a queste iniziative e si insediarono nelle isole dopo avervi ottenuto un feudo, o dopo essersene impossessati con la forza, costituendo così nuclei sparsi in tutta la regione. Insieme con le consuete considerazioni di carattere economico, la loro presenza indusse altri Veneziani, tra i quali molti artigiani, a trasferirsi in quei territori, mentre gli stretti legami economici e politici della Romània occidentale con Venezia e, in misura minore, con il Regno di Sicilia, favorivano l'immigrazione da molte regioni d'Italia (56). Non tutti i coloni, però, rimanevano definitivamente oltremare. È indicativa, a questo proposito, la vicenda di Matteo de Manzolo, che in qualche misura richiama quella, riferita più sopra, di Zaccaria Staniario. Nel 1214 Matteo risiedeva a Venezia, da dove commerciava con Creta e con l'isola egea di Melo, appartenente al ducato di Nasso retto dal 1207 da un ramo della famiglia Sanudo. Ad un certo punto, prima del 1219, la sua attività lo indusse a stabilirsi a Melo, ma nel 1222 era di nuovo a Venezia; più avanti si impegnò nel commercio con Negroponte, dove risiedeva forse dal 1239, e sicuramente nel 1242, con ogni probabilità nel locale quartiere veneziano; nel 1239 operò forse quale agente di Angelo Sanudo duca di Nasso; nel 1245, comunque, era di nuovo residente a Venezia (57). I nuclei veneziani in Romània furono sempre piccoli, e anche tenendo conto degli altri immigrati occidentali i Latini costituivano una minoranza in mezzo alla popolazione greca indigena, una situazione che pone un problema di carattere più generale, meritevole di un attento esame: la coesistenza in Oltremare dei Veneziani con gli altri Latini, e soprattutto con la popolazione non latina.
La nostra rassegna delle comunità veneziane in terra straniera lungo le coste del Mediterraneo orientale nel secolo XIII ne ha evidenziato due aspetti fondamentali. Relativamente al contesto politico in cui vivevano, esse costituivano organismi sociali a sé stanti, definiti dalla loro identità legale collettiva. Chi vi apparteneva, riconosciuto da Venezia come veneziano, era protetto e governato dal comune, indipendentemente dall'origine e dalla condizione. Di tanto in tanto però, come a Bisanzio dopo il 1261, l'appartenenza alla comunità di taluni individui veniva contestata dalle autorità locali. L'esistenza, la coesione e la continuità delle comunità erano favorite da una serie di fattori: i privilegi di cui godevano collettivamente i loro membri, l'apporto di un'amministrazione veneziana permanente, che non soltanto affermava la presenza concreta dello stato ma infondeva anche il senso della continuità, e il concentramento residenziale in una specifica zona urbana. In taluni casi il concentramento era enfatizzato dalla struttura fisica di un fondaco, in cui i Veneziani vivevano segregati, come in Alessandria, e dall'esclusione degli stranieri, come avvenne sempre ad Alessandria dal 1254. Le medesime funzioni potevano essere svolte da un quartiere, specie se munito di mura e dotato di una condizione privilegiata, come in Acri. Tanto il fondaco nei paesi musulmani quanto il quartiere in altre località rappresentavano un fulcro dell'attività economica e della vita sociale, che nel quartiere si svolgeva perlopiù intorno e dentro agli edifici pubblici, come il fondaco, la loggia comunale e la residenza in cui il podestà, duca o bailo, teneva corte. A questi fattori potremmo aggiungere gli interessi economici comuni dei cittadini, nonostante la concorrenza che li contrapponeva, e le comuni prese di posizione nei confronti di comunità o potenze rivali o ostili, come Genova e l'Impero bizantino. Se però passiamo ad esaminare le comunità veneziane dall'interno, scopriamo in esse una notevole varietà etnica e una marcata stratificazione sociale e legale.
Al cuore di ciascuna vi era un gruppo di cittadini veneziani, la cui composizione rispecchiava la stratificazione vigente nella società di Venezia. Di regola soltanto i patrizi potevano far parte degli organismi governativi che affiancavano i funzionari responsabili degli interessi veneziani oltremare, anche se eccezionalmente veniva accettato qualche "popolano" (58). I cittadini appartenevano a diverse categorie occupazionali: oltre a quelli impegnati per periodi prolungati e continui nelle imprese mercantili e nei trasporti navali, c'erano artigiani, personale amministrativo professionale, notai e chierici, le cui attività non impedivano loro di concedersi qualche affare redditizio come il prestito di denaro (59). I cittadini veneziani all'estero, come quelli di altre nazioni, tendevano all'aggregazione: erano legati dall'origine comune, il più delle volte dalle stesse scelte di parte politica, dagli interessi economici e dalla posizione elevata di cui godevano in quanto cittadini, rispetto a quella degli altri membri della comunità. Una fitta rete di rapporti d'affari e personali, anche confermata dai matrimoni, rinforzava il legame tra i residenti, come nel caso già citato delle diverse famiglie "popolari" insediate in Acri prima del 1291 e poi a Famagosta. La coesione tra i cittadini era ulteriormente sottolineata dalla comunità di linguaggio, di cultura e di fede religiosa. L'importanza del fattore linguistico come elemento di identità individuale e solidarietà collettiva è bene illustrata dalla vicenda di Isacco Venier, esponente di una grande famiglia veneziana. Nato ad Acri, era ancora bambino quando la città cadde in mano ai Musulmani nel 1291; quando arrivò a Venezia, nel 1328, dopo circa trentasette anni trascorsi in territorio mongolo, la sua richiesta di poter godere della cittadinanza fu dapprima respinta, in quanto non parlava il dialetto veneziano. Riuscì comunque a dimostrare di essere figlio di Giovanni Venier, residente ad Acri, e dunque il doge Giovanni Soranzo gli rilasciò un diploma che lo confermava "noster verus cives et Venetus". Si tenga comunque conto del fatto che i continui contatti con altri Latini e orientali produssero un processo di osmosi per cui il dialetto veneziano finì per assorbire molti elementi stranieri (60). La fede comune distingueva i cittadini veneziani e gli altri Latini dal resto della comunità veneziana, ma rimane tuttavia significativo che ovunque si fondasse un nuovo avamposto, Venezia si affrettava a chiedere, o a costruire, una chiesa che dedicava al suo santo patrono. La locale chiesa di San Marco, in cui officiavano chierici veneziani, rappresentava ad un tempo la proiezione ecclesiastica e politica di Venezia oltremare, il fulcro della pietà religiosa veneziana, e dunque rafforzava il legame tra i cittadini, oltre quello con la madrepatria; una funzione svolta, sia pure in misura minore, anche da altre chiese e monasteri veneziani. I medesimi fattori promuovevano la coesione e la solidarietà nazionale tra i cittadini che risiedevano nelle colonie veneziane, oltre che tra tutti i nuclei di cittadini sparsi nelle più disparate località.
A questi legami contribuivano inoltre taluni tratti comportamentali piuttosto comuni, a partire dai primi anni del secolo XIII, tra i cittadini espatriati che facevano parte dell'élite sociale ed economica di Venezia. Pur risiedendo all'estero, in genere conservavano stretti contatti con i parenti del proprio ramo della famiglia a Venezia o altrove, e spesso intraprendevano con loro operazioni commerciali congiunte. La dispersione dei membri della stessa famiglia mercantile, a volte un padre con i figli o i fratelli, su tutta l'area del Mediterraneo orientale e del mar Nero, ne favoriva l'attività commerciale, estendendo la sua portata geografica. E i legami sociali ed economici con i parenti a Venezia servivano anche per trovare appoggio politico all'interno dell'élite di governo, per favorire i propri interessi economici privati all'estero. Alla solidità di questi legami concorreva anche la tendenza, diffusa tra gli emigranti, a conservare una casa, spesso ereditata, nella parrocchia d'origine propria o dei propri antenati. Tali case avevano un'utilità pratica, in quanto gli emigranti vi risiedevano durante le visite a Venezia - è chiaramente attestato per i membri della famiglia Zovene, stabilitisi ad Acri -, ma concorrevano anche a rafforzare il senso dell'"appartenenza". È estremamente significativo il fatto che Zaccaria Staniario e altri emigranti oltremare non si identificassero mai come residenti della città in cui si erano stabiliti, facendo invece immancabilmente riferimento al nome della parrocchia veneziana da cui traevano origine. Si tratta evidentemente di uno stato d'animo ben preciso: molti Veneziani ritenevano affatto precarie le condizioni di vita all'estero, e si consideravano sempre residenti temporanei in quei luoghi, indipendentemente dall'intenzione o meno di ritornare a Venezia. E comunque, come si è già detto, parecchi di loro rientrarono a Venezia dopo molti anni di residenza all'estero, costretti a farlo dagli eventi politici o militari, oppure di propria spontanea volontà perché, ormai vecchi, ambivano a ritirarsi dalla vita attiva (61).
Abbiamo già visto che molte comunità veneziane oltremare comprendevano individui la cui posizione era inferiore a quella dei cittadini. Oltre ai sudditi locali, come a Tiro, e agli immigrati greci dai territori coloniali di Venezia in Romània, compaiono tra questi numerosi stranieri naturalizzati. La naturalizzazione comportava vantaggi cospicui, per quanto limitati rispetto a quelli di cui godevano i cittadini veneziani. Chi l'otteneva godeva della protezione del comune e dei suoi privilegi economici e fiscali all'estero, ma non in Venezia; e inoltre, diversamente dai cittadini, gli era negata la partecipazione agli organismi politici decisionali: gli incentivi che inducevano gli stranieri a richiedere la nazionalità veneziana erano dunque soprattutto economici. La politica di naturalizzazione inaugurata da Venezia nel primo Duecento nell'Impero latino, e poi estesa ad altre regioni, era invece mossa da una serie più complessa di fattori. Marco Minotto, bailo a Costantinopoli nel 1317, la giustificava dichiarando che i Veneziani "erunt fortiores [et> timebuntur si erunt plures quam si erunt pauci", e nel 1339 il senato veneziano proclamò che le naturalizzazioni favorivano il benessere e la gloria di Venezia (62). A queste considerazioni politiche ed economiche più generali, sicuramente presenti anche in precedenza, potremmo aggiungerne altre di natura più pragmatica. Come si è già osservato, in talune circostanze particolari, come nell'Impero latino nel 1204 e ad Acri nel 1256, la concessione della nazionalità veneziana rispondeva a esigenze politiche. Ma nel lungo periodo contavano assai più le motivazioni economiche. L'attività economica veneziana in terra straniera doveva per forza di cose affidarsi in una qualche misura all'assistenza, o quantomeno alla collaborazione, della gente del luogo, che conosceva l'economia e le lingue della propria regione e dunque poteva mediare tra i Veneziani da un lato e i produttori, i mercanti e i trasportatori indigeni dall'altro. La naturalizzazione di alcuni intermediari li integrava più saldamente nel circuito economico veneziano, in quanto estendeva ad essi le esenzioni fiscali concesse ai Veneziani. La stessa regola valeva anche per gli artigiani, come i conciatori ebrei a Costantinopoli, che probabilmente furono naturalizzati nel tardo Duecento: la lavorazione delle materie prime poteva essere effettuata da loro o da altri nell'area virtualmente franca rappresentata da alcuni degli avamposti veneziani. La concessione della nazionalità veneziana a membri delle comunità indigene che operavano nel commercio al dettaglio contribuiva inoltre a rafforzare la rete veneziana destinata al rifornimento della comunità locale, dei mercanti viaggiatori e delle navi di passaggio. E infine l'ingrandimento delle comunità attraverso la naturalizzazione rispondeva anche a esigenze fiscali, incrementando le rendite che il comune derivava dalla tassazione interna (63).
La naturalizzazione era un espediente legale, capace di promuovere un livello minimo di avvicinamento tra i cittadini e gli altri "Veneziani", ma ben poca integrazione sociale, e anche questa perlopiù a vantaggio degli stranieri latini, assai meno dei Greci. L'integrazione era del tutto esclusa, poi, per la maggioranza degli stranieri non latini, date le differenze di affiliazione religiosa, di lingua e di cultura. La scarsa presenza di donne nella comunità induceva qualche veneziano a sposare una donna locale o a intrattenere rapporti extraconiugali, e l'identità veneziana del padre veniva trasferita ai figli di queste unioni, ma queste relazioni non mettevano in pericolo la supremazia sociale dei cittadini veneziani all'interno delle comunità oltremare, sempre gelosamente custodita. Il comune li aiutava in questo, imponendo una rigida stratificazione legale e sociale tra i suoi sudditi. Il caso di Filippo Vistariti, un greco che viveva a Costantinopoli nel periodo del dominio latino, è chiaramente isolato e inconsueto, e dunque conferma indirettamente la regola. Nel 1254 ottenne la cittadinanza veneziana, sia pure limitatamente alla Romània, a condizione che sposasse una veneziana; evidentemente lo fece, il che spiegherebbe perché lasciò Costantinopoli, si presume quando la città fu riconquistata dai Bizantini nel 1261, per stabilirsi a Venezia, dove tre anni dopo gli fu concessa la cittadinanza a pieno titolo e senza limitazioni (64).
Negli avamposti di Venezia in terra straniera i rapporti sociali tra cittadini veneziani e popolazione indigena, ivi comprese le unioni legittime e illegittime, erano questioni di interesse strettamente personale. Nella porzione veneziana dell'Impero latino invece, e ancor più nelle colonie, erano anche affare di stato, poiché alcune forme di socializzazione minacciavano le premesse stesse del suo dominio. Per meglio comprendere i timori di Venezia a questo proposito, particolarmente gravi a Creta, dovremo soffermarci rapidamente su alcuni aspetti generali legati all'imposizione del dominio veneziano. Uno di questi fu la costruzione di un sistema burocratico estremamente centralizzato di governo e supervisione, le cui politiche venivano determinate e controllate in misura sempre maggiore da Venezia. Creta era retta da un duca, che derivava il suo titolo dal periodo bizantino, assistito da due consiglieri e dalle assemblee dei feudatari con funzione consultiva. Con una sola interruzione di nove anni, Modone e Corone, due basi navali di importanza vitale, erano amministrate da due, e dal 1272, da tre castellani, il cui titolo basta ad indicare la priorità delle funzioni militari (65). L'imposizione del dominio veneziano ebbe un forte impatto sull'evoluzione complessiva della società greca indigena, sulla sua stratificazione interna e sui rapporti che con essa ebbero i coloni veneziani. Di fatto, nei territori dominati da Venezia la società era suddivisa in due gruppi ben distinti, i Veneziani e gli altri Latini da un lato, la popolazione indigena dall'altro. Sebbene l'affiliazione religiosa non costituisse un elemento importante nei rapporti quotidiani tra i due gruppi, divenne però un fondamentale criterio della stratificazione sociale e dello statuto individuale, venendo a costituire un pratico strumento di identificazione di gruppo. Oltre a questo, la conquista paralizzò ogni mobilità sociale all'interno della comunità greca, che vide la totalità dei suoi membri relegati al rango di villani non liberi, i paroikoi del periodo bizantino, indipendentemente dal rango che avevano occupato prima dell'imposizione del governo veneziano. Soltanto pochi individui sfuggirono a questo processo di svilimento e livellamento, ed erano considerati uomini liberi: gli esponenti dell'élite greca, detti archontes o archontopouloi, gli abitanti delle città - ma non tutti - e infine qualche villano o schiavo emancipato.
I cittadini veneziani non erano che un'esigua minoranza nella grande massa della popolazione locale e, sia sul piano individuale che al livello del governo a Venezia, erano ben consapevoli delle possibili conseguenze di questa situazione. A Creta, nel Duecento, il senso di isolamento dei cittadini trovò ampia conferma nelle numerose ribellioni scatenate dagli archontes greci contro Venezia; i coloni militari stabilitisi nell'isola risiedevano solo temporaneamente, o anche mai, nei villaggi loro assegnati, dove si sentivano minacciati, preferendo vivere nelle case di città di cui disponevano. L'evidente preferenza dei cittadini per l'insediamento urbano non era legata soltanto al loro modo di vita precedente, o a considerazioni di carattere economico; derivava anche chiaramente da fattori psicologici, che li inducevano ad aggregarsi entro le mura dei centri urbani e che, perdipiù, stimolavano il senso dell'affinità con gli altri Latini, considerati come alleati naturali nel contrasto con la popolazione indigena. Il comune condivideva questo atteggiamento, come dimostrano la costruzione dopo il 1252 di una nuova città, la Canea, per i feudatari della zona occidentale, e la soddisfazione con cui esso accoglieva l'immigrazione di stranieri latini nelle sue colonie. Un afflusso, questo, cui offrì anche un certo incentivo concedendo feudi a numerosi Latini, che furono integrati, come abbiamo già visto, nel sistema militare fondato sui sestieri; la distinzione legale tra i cittadini e gli altri Latini rimaneva comunque rigidissima, e solo nel secolo XIV Venezia fece ricorso a provvedimenti di maggior respiro, come la concessione della cittadinanza veneziana a tutti gli immigrati latini che avessero risieduto per un certo numero di anni nelle sue colonie.
Ma a Creta Venezia dovette far fronte anche a un altro fattore importante: per portare gradualmente dalla propria parte gli archontes greci dell'isola, fu costretta a cedere alle loro richieste di benefici militari, la cui concessione nel corso del secolo XIII restrinse la base territoriale del sistema difensivo veneziano. Ma soprattutto favorì un più intenso scambio sociale tra esponenti dell'élite veneziana e di quella greca, e persino i matrimoni misti. Casi del genere si davano anche ai livelli inferiori della scala sociale, ma la tendenza contrastava la politica generale del comune relativamente alla stratificazione giuridica e sociale, fondata com'era su una rigida segregazione tra Latini e Greci; minacciava insomma di erodere i caratteri distintivi della comunità latina, indebolendo così il dominio veneziano. Certo, alcuni matrimoni tra esponenti di spicco dei coloni veneziani e donne greche furono persino favoriti da Venezia per motivi politici, come quello di Marco Venier nel 1238, che gli consentì l'acquisizione di Cerigo e dunque diede a Venezia il controllo su quell'isola a nord di Creta. Nel 1272 Venezia fece una grande concessione all'arconte Manuele Dragondopoulos concedendo alle sue figlie di sposare dei Latini. Ma le unioni avvenivano anche senza il permesso dello stato, tanto che nel 1293, durante un'altra ribellione dei Greci, Venezia dovette proibire a tutti i Latini detentori di benefici militari o comunque di terreni di sposare donne greche, pena la confisca dei beni e il bando da Creta. Il passaggio in mano greca delle proprietà terriere diveniva ancor più probabile nelle unioni legittime di esponenti dell'élite greca con donne latine: nel 1271 Georgios Ialinas, detentore di una sergenteria, sposò una Gradenigo. Nel trattato di pace del 1299 con Alessio Kallergis, che pose fine alla sua lunga ribellione, il comune si spinse ancor più in là che nel 1272, concedendo a questo arconte e ai suoi seguaci di sposare donne latine. Certo, i matrimoni di questo tipo contratti ai massimi livelli sociali non furono molti, ma non dobbiamo dimenticare i ben più numerosi frutti delle unioni miste illegittime, chiamati vasmuli come a Costantinopoli, dei quali si parla ripetutamente a partire dalla seconda metà del Duecento. A Creta la pratica legale veneziana li considerava liberi, e dunque evitavano il servaggio anche se la madre era una villana, ma il comune non guardava di buon occhio la contrazione della manodopera a sua disposizione dovuta all'integrazione legale dei discendenti di queste unioni tra i liberi. Su questo punto il suo atteggiamento era in evidente contrasto con quello adottato negli avamposti, dove incoraggiava l'integrazione dei vasmuli nelle comunità veneziane. Comunque fosse, contava soprattutto l'identità dei padri veneziani di questi vasmuli: quanto più elevato era il loro rango sociale, tanto più probabile era che i loro figli entrassero a far parte dell'élite latina, nonostante le occasionali opposizioni a questa tendenza. Così avvenne a Scopelletto Tiepolo, riconosciuto nel 1319 come figlio illegittimo di Giacomo Tiepolo, duca di Creta dal 1297 al 1299, e di una villana greca. Nel 1302 i detentori di feudi della Canea protestavano contro i vasmuli e i Greci che occupavano benefici militari e incarichi di governo, ai quali essi soli avevano diritto, e contro la partecipazione di esponenti di quei gruppi alle assemblee dei feudatari (66).
Venezia si opponeva con energia anche alle unioni miste ai livelli medi e inferiori della società cretese, ma nell'ambiente urbano non poteva certo impedirle: la quotidiana coesistenza e i rapporti sociali tra Latini e Greci erano favoriti dall'assenza di segregazione residenziale, dal continuo scambio economico, dalla pratica di attività economiche simili o identiche, dalle imprese commerciali congiunte e da un bilinguismo a livello elementare sempre più diffuso. Un clima che nel tardo Duecento indusse parecchi notai e artigiani latini a sposare donne greche, e senza dubbio negli anni successivi i matrimoni misti nell'ambiente urbano aumentarono (67). La segregazione sociale istituzionalizzata che Venezia tentava di imporre nei suoi territori coloniali si basava anche sull'apporto della Chiesa latina, la cui supremazia fu una mera conseguenza della conquista: per Venezia la Chiesa era uno strumento di governo, che doveva affiancarsi allo stato nel promuovere e tutelare la solidarietà e l'identità collettiva distinta della comunità latina. Non sorprende quindi che il comune si intromettesse per garantire la nomina di Veneziani alle cariche ecclesiastiche, sostenendo l'attività della Chiesa romana tra i Latini, ma sottoponendola a uno stretto controllo per evitare qualsiasi atto ritenuto pericoloso per la pace e la stabilità interne. Per questo motivo Venezia fu in generale contraria ai tentativi della Chiesa latina di ottenere la conversione su vasta scala dei Greci, e in particolare dei villani non liberi, che avrebbe messo in discussione l'ordine sociale costituito in quanto i fedeli della Chiesa romana venivano considerati liberi. Un'ulteriore minaccia per l'identità collettiva dei Latini derivava dalla posizione di debolezza della Chiesa romana al di fuori dei grandi centri urbani delle coste. Lo scarso numero di preti latini nelle regioni dell'interno e l'assenteismo delle gerarchie induceva molti Latini a rivolgersi ai preti e ai monaci greci, e a partecipare accanto ai laici greci ai loro servizi religiosi; così accadde, ad esempio, durante una vacanza quinquennale nell'isola di Melo, pertinenza del ducato di Nasso. E anche a Creta sussisteva sicuramente una tendenza analoga, sia pure nel lungo periodo: non ne conserviamo testimonianze dirette per il secolo XIII, ma è ben attestata in epoca immediatamente successiva. In poche parole, risulta evidente che a partire dalla seconda metà del Duecento Venezia nutrì preoccupazioni sempre più gravi per quello che considerava un pericoloso processo di ellenizzazione della comunità latina, anche se di fatto l'effetto cumulativo dei matrimoni misti, di una simbiosi religiosa in larga misura limitata alla pratica comune del culto, dei quotidiani rapporti economici e sociali tra Greci e Latini, e della conoscenza sempre più diffusa tra questi ultimi della lingua greca era ancora ben lungi dal costituire una minaccia per la specificità della comunità latina. A Creta la sua erosione fu un processo prolungato e graduale che si protrasse per circa tre secoli (68). Per molti versi dunque, le dinamiche sociali innescate dall'insediamento veneziano nelle colonie presentano marcate differenze rispetto a quelle rilevate negli avamposti.
L'assenza di fonti attendibili impedisce una seria valutazione quantitativa della mobilità dei Veneziani in Oltremare durante il secolo XIII. È comunque evidente che il numero delle persone coinvolte fu piuttosto esiguo, sia in termini assoluti sia in rapporto con altre contemporanee manifestazioni di mobilità in Occidente, come l'afflusso verso nuovi territori o verso le città - Venezia stessa, ad esempio. L'impatto che ebbe l'emigrazione e l'insediamento oltremare sulla metropoli non può però essere valutato esclusivamente in termini numerici. Mercanti viaggiatori, vettori e residenti oltremare vivevano in costante rapporto con Venezia. Da loro venivano resoconti orali e scritti di quanto vedevano all'estero - il più noto è il Milione di Marco Polo -, e attraverso di loro la comunità veneziana entrava in contatto con nuovi prodotti, oggetti di uso comune, opere d'arte e idiomi, oltre che con nuove terre, popoli, costumi e culture. Nel dialetto veneziano entrarono termini di origine greca legati alla vita economica, come "galià", un tipo di nave, "scala" e "gondola", e altri di origine araba come "fontego", "arzanà", "zecca", "doana", "tariffa", "gabella" e "turcimanno", l'interprete (69). Insomma, l'allargamento degli orizzonti cui contribuirono i viaggiatori e i residenti oltremare arricchì la cultura materiale, l'arte, l'architettura, la lingua e l'esperienza umana collettiva di Venezia. Ma un tema così grande e complesso richiederebbe un'indagine approfondita, che esula dai limiti di questo capitolo.
Traduzione di Patrizia Colombani
2. Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Torino 1940: II, nr. 845: due Veneziani inviano spezie da Acri a loro parenti femminili a Venezia nell'autunno 1258, e dunque protraggono la loro permanenza ad Acri fino al viaggio della primavera successiva.
3. Così, ad esempio, Pietro Mairano, con ogni probabilità parente del più noto mercante veneziano Romano Mairano, che al più tardi dal 1174 partecipò a diversi viaggi e compilò documenti per lui ed altri mercanti ad Alessandria, Zara e Acri. Documenti del commercio veneziano, I, nrr. 258-262, 291, 293, 296, 309-310, 312, 322-323, 331.
4. Silvano Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988, pp. 54-61; Ralph-Johannes Lilie, Die lateinische Kirche in der Romània vor dem vierten Kreuzzug. Versuch einer Bestandaufnahme, "Byzantinische Zcitschrift", 82, 1989, pp. 209-210 (pp. 202-220). Su Tiro, Marie-Louise Favreau-Lilie, Die italienischen Kirchen im Heiligen Land (1098-1291), "Studi Veneziani", n. ser., 13, 1987, pp. 48-75 (pp. 15-101), e soprattutto Documenti del commercio veneziano, I, nr. 1 26 (1157),
5. Robert L. Wolff, A New Document from the Period of the Latin Empire of Constantinople: the Oath of the Venetian Podestà, "Annuaire de l'Institut de Philologie et d'Histoire Orientales et Slaves", 12, 1952, pp. 552-559 (pp. 538-573) (ristampato in Id., Studies on the Latin Empire of Constantinople, London 1976); David Jacoby, The Venetian Presente in the Latin Empire of Constantinople (1204-1261): the Challenge of Feudalism and the Byzantine Inheritance, "Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik", 43, 1993, pp. 141-201; Chryssa A. Maltézou, Ho thesmos tou en Konstantinoupolei Venetou bailou (1268-1453), Athenais 1970; David Jacoby, L'expansion occidentale dans le Levant: les Vénitiens à Acre dans la seconde moitié du treizième siècle, "The Journal of Medieval History", 3, 1977, pp. 231-234 (pp. 225-266) (ristampato in Id., Recherches sur la Méditerranée orientale du XIIe au XVe siècle. Peuples, sociétés, économies, London 1979); Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959, pp. 182-187, 193-194. Gerhard Rösch, Der venezianische Adel bis zur Schliessung des Grossen Rats. Zur Genese einer Führungsschicht, Sigmaringen 1989, fornisce elenchi, non sempre affidabili, dei baili.
6. Sulla distinzione tra i due tipi di consoli, si v. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I-III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931-1950: II, p. 68. Il console ad interim nominato a sostituire temporaneamente quello ufficiale percepiva un salario mensile, e lo stesso avveniva, in particolari circostanze, quando veniva eletto dai mercanti, come a Salonicco nel 1289, durante una malattia del console: Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 243. Sui consoli, D. Jacoby, La Venezia d'oltremare, n. 13; sugli incarichi per un anno a Soldaia (1288) e a Clarenza (1297), e sul passaggio ad Alessandria (1271) e Tunisi (1281) dall'incarico annuale a quello biennale, Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, pp. 201 e 431; II, pp. 358 e 129.
7. David Jacoby, Conrad, Marquis of Montferrat, and the Kingdom of Jerusalem (1187-1192), in Dai feudi monferrini e dal Piemonte ai nuovi mondi oltre gli oceani, a cura di Geo Pistarino, Genova 1993, pp. 198, 213-218, 220-221, 224 (pp. 187-238); cf. inoltre la nota precedente. Marie-Louise Favreau-Lilie, Die Italiener im heiligen Land vom ersten Kreuzzug bis zum Tode Heinrichs von Champagne (1098-1197), Amsterdam 1989, pp. 498-508, discute l'insediamento veneziano ad Acri e Tiro nel secolo XII, ma non opera l'importante distinzione tra residenti temporanei e permanenti.
8. Una nuova edizione dell'intera relazione è Oliver Berggötz, Der Bericht des Marsilio Zorzi. Codex Querini-Stampalia IV 3 (1064), Frankfurt am Main 1990, pp. 101-191. La relazione tratta anche di Tiro e Cipro, di cui si parlerà più avanti.
9. David Jacoby, Crusader Acre in the Thirteenth Century: Urban Layout and Topography, "Studi Medievali", ser. III, 20, 1979, pp. 1-19, 30-36 (pp. 1-45) (ristampato con correzioni in Id., Studies on the Crusader States and on Venetian Expansion, Northampton 1989); M.-L. Favreau-Lilie, Die italienischen Kirchen, pp. 75-81.
10. Sulla naturalizzazione, v. infra.
11. Sulla natura di queste fonti, v. D. Jacoby, La Venezia d'oltremare.
12. Id., L'expansion occidentale dans le Levant, pp. 237-250. Tra i Veneziani e i sudditi delle altre potenze marinare nel Mediterraneo orientale, burgenses equivaleva a "residenti", senza le connotazioni legali di cui il termine era investito in Occidente: ibid., pp. 232, 237, 256, nn. 30-31, 258, nn. 59-60, e Joshua Prawer, Crusader Institutions, Oxford 1980, p. 335.
13. Sui beni del comune nella città e nella signoria di Tiro, v. supra n. 7 e J. Prawer, Crusader Institutions, pp. 146-156, 221-226. Sulle perdite dei Veneziani, v. anche D. Jacoby, Conrad, Marquis of Montferrat, pp. 195, 206, 216-217. Un immigrato da Costantinopoli è in Documenti del commercio veneziano, I, nr. 126 (1157).
14. Documenti del commercio veneziano, II, nrr. 513, 521, 523.
15. Ibid., II, nrr. 454-455. Su quanto segue, David Jacoby, The Rise of a New Emporium in the Eastern Mediterranean: Famagusta in the Late Thirteenth Century, "Meletai Kai Hypomnemata", 1, 1984, pp. 164-171, 177-179 (ristampato in Id., Studies on the Crusader States and on Venetian Expansion, Northampton 1989).
16. O. Berggötz, Der Bericht des Marsilio Zorzi, pp. 184-191.
17. Ibid., p. 139.
18. David Jacoby, Citoyens, sujets et protégés de Vénise et de Genes en Chypre du XIIIe au XVe siècle, "Byzantinische Forschungen", 5, 1977, pp. 164-166, 180-181 (pp. 159-188) (ristampato in Id., Recherches sur la Méditerranée orientale du XIIe au XVe siècle. Peuples, sociétés, économies, London 1979).
19. Michel Balard, Il paesaggio urbano di Famagosta all'inizio del secolo XIV, "Storia dei Genovesi", 5, 1985, pp. 277-291.
20. Su quanto segue, cf. David Jacoby, Les Italiens en Egypte aux XIIe et XIIIe siècles: du comptoir à la colonie?, in Méthodes d'expansion et techniques de domination dans le monde méditerranéen (XIème-XVIème siècles), a cura di Alain Ducellier - Michel Balard, Paris 1994; in particolare, per il periodo successivo al 1291, Id., La Venezia d'oltremare.
21. Sul commercio nel 1198 e 1200, Documenti del commercio veneziano, II, nrr. 439, 447; Domenico Gradenigo si recò diverse volte in Egitto dal 1205 al 1207; ibid., nrr. 475, 488-489, 494, 498-499, 505.
22. Silvano Borsari, Il crisobullo di Alessio I per Venezia, "Annali dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici", 2, 1969-1970, pp. 124-128 (1082) (pp. 111-131); sul quartiere e il suo sviluppo, Id., Venezia e Bisanzio, pp. 1-29, 135-138; sul 1198, Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handelsund Staatsgeschichte der Republik Venedig, I-III, Wien 1856-1857: I, pp. 273-276.
23. L'elenco di viaggiatori del 1110 suona autentico, pur comparendo all'interno di un testo agiografico. Ibid., pp. 65-68. Sino ad oggi la sua importanza relativamente alla questione dell'insediamento oltremare è stata trascurata.
24. Si veda anche, a questo proposito, S. Borsari, Venezia e Bisanzio, pp. 49-53. Notevole nel 1187 una certa Abundancia, donna originaria di Venezia ma allora residente a Costantinopoli. Su Mairano, v. ibid., pp. 118-119, e Documenti del commercio veneziano, I, nr. 120; Peter Schreiner, Untersuchungen zu den Niederlassungen westlichen Kaufleute im Byzantinischen Reich des II. und 12. Jahrhunderts, "Byzantinische Forschungen", 7, 1979, pp. 184-186 (pp. 175-191).
25. Ioannis Cinnami Epitome, a cura di August Meineke, Bonn 1836, p. 280. L'imperatore utilizzava intenzionalmente il termine bourgesioi, di uso comune tra i Veneziani e i sudditi delle altre potenze marinare nel Mediterraneo orientale; vedi supra, n. 12. Anche altre fonti attestano i matrimoni misti: P. Schreiner, Untersuchungen, pp. 186-188.
26. Nicetae Choniatae Historia, a cura di Ioannes A. Van Dieten, in Corpus Fontium Historiae Byzantinae, XI, 1, Berlin-New York 1975, p. 558; sul 1204, Angeliki E. Laiou, Venetians and Byzantines: Investigation of Forms of Contact in the Fourteenth Century, "Thesaurismata", 22, 1992, pp. 30-31.
27. Altre cifre relative al numero totale dei Latini presenti nell'Impero sono state ripetutamente citate e discusse, come se in una qualche misura potessero essere considerate attendibili. Una loro valutazione è in P. Schreiner, Untersuchungen, pp. 178-188, e in particolare pp. 182-185. Si veda inoltre più sotto, n. 38.
28. S. Borsari, Venezia e Bisanzio, pp. 40-42, 53; R.J. Lilie, Die lateinische Kirche in der Romània, pp. 202-220, e Id., Handel und Politik zwischen dem byzantinischen Reich und den italienischen Kommunen Venedig, Pisa und Genua in der Epoche der Komnenen und der Angeloi (1081-1204), Amsterdam 1984, pp. 117-128, 178-216, passim, sotto i nomi delle città.
29. D. Jacoby, The Venetian Presence in the Latin Empire, pp. 141-157.
30. Ibid., pp. 160, 164-192.
31. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, p. 218: "refutare fecimus a militibus sextariorum [...> quae [...> tollebantur". Su quanto segue, a questo proposito, D. Jacoby, The Venetian Presence, pp. 158-163, 187, 190-191.
32. Per quanto segue circa la colonizzazione militare di Creta, Silvano Borsari, Il dominio veneziano a Creta nel XIII secolo, Napoli 1963, pp. 27-46; Salvatore Cosentino, Aspetti e problemi del feudo veneto-cretese (sett. XIII-XIV), Bologna 1987; David Jacoby, La colonisation vénitienne de la Crète au XIIIe siècle: une nouvelle approche, di prossima pubblicazione.
33. Il testo è in Jean Longnon, Recherches sur la vie de Geoffroy de Villehardouin suivies du catalogue des actes des Villehardouin, Paris 1939, pp. 201-202, nr. 83.
34. Ibid. e David Jacoby, Les états latins en Romanie: phénomènes sociaux et économiques (1204-1350 environ), in AA.VV., XVe Congrès international d'Etudes byzantines, Athènes 1976. Rapports et co-rapports, 1/3, Athènes 1976, p. 19 e n. 82 (ristampato in Id., Recherches sur la Méditerranée orientale du XIIe au XVe siècle. Peuples, sociétés, économies, London 1979). Per la datazione al 1209, D. Jacoby, La colonisation vénitienne, n. 32.
35. David Jacoby, Social Evolution in Latin Greece, in A History of the Crusades, I-VI, a cura di Kenneth M. Setton, Madison 1969-19892: VI, pp. 192-193 (pp. 175-221); Id., From Byzantium to Latin Romania: Continuity and Change, "Mediterranean Historical Review", 4, 1989, pp. 19, 21 (pp. 1-44) (ristampato in Latins and Greeks in the Eastern Mediterranean after 1204, a cura di Benjamin Arbel - Bernard Hamilton - David Jacoby, London 1989).
36. A quanto risulta, l'esperienza acquisita nei due casi in questione indusse il comune ad adottare i sestieri come unità di base anche per la contingentazione militare in Venezia stessa; si veda D. Jacoby, The Venetian Presence, p. 161.
37. Id., La féodalité en Grèce médiévale. Les "Assises de Romanie": sources, application et diffusion, Paris-La Haye 1971, p. 225.
38. Ne consegue che l'entità della popolazione di Venezia non può essere estrapolata dalle indicazioni riferite alla partecipazione veneziana alla quarta Crociata, come propone Antonio Carile, Per una storia dell'Impero Latino di Costantinopoli (1204-1261), Bologna 1978 (II ediz. ampliata), pp. 80-92, 103-111, 375-381, e Id., Alle origini dell'Impero latino d'Oriente. Analisi quantitativa dell'esercito crociato e ripartizione dei feudi, "Nuova Rivista Storica", 56, 1972, pp. 285-314. Carile calcola in circa 17.000 uomini gli equipaggi della flotta veneziana, e propone circa 70.000 abitanti per Venezia nel primo Duecento, cifre evidentemente troppo alte, già succintamente criticate da Donald E. Queller - Thomas K. Compton - Donald A. Campbell, The Fourth Crusade: the Neglected Majority, "Speculum", 3, 49, 1974, p. 446 n. 24 (pp. 441-465). Si veda anche supra, n. 27.
39. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, I, pp. 569-571 (ottobre 1205): "tempore quo dividebamus [la porzione spettante a Venezia> inter nos Venetos et alios homines qui venerant in fidelitate et servitio domini Venecie ducis".
40. D. Jacoby, The Venetian Presence, pp. 161-164.
41. Id., Les états latins en Romanie, p. 22; sui feudatari stranieri, S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, pp. 29, 75-76.
42. Ernst Gerland, Das Archiv des Herzogs von Kandia, Strassburg 1899, pp. 115-116.
43. Esempi in Chryssa A. Maltézou, Il quartiere veneziano di Costantinopoli. Scali marittimi, "Thesaurismata", 15, 1978, pp. 47-57 (pp. 30-61), e in un catasto non datato (A.S.V., Mensa patriarcale, b. 9, nr. 2), la cui edizione in G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, pp. 8-11, è inficiata da numerosi errori. Alcuni nomi nel catasto compaiono anche in documenti notarili, dal che possiamo inferire che fu compilato intorno al 1240.
44. Ad esempio, Pietro Beaqua possedeva una casa nel quartiere veneziano di Costantinopoli nel 1187 e nel 1189, mentre un suo parente, Bartolomeo, risiedeva in quella città nel 1209. C.A. Maltézou, Il quartiere veneziano di Costantinopoli, nrr. 11 e 14.
45. Molti documenti relativi al commercio a Costantinopoli nel periodo latino provengono dall'archivio del monastero di San Zaccaria a Venezia, mentre quelli relativi alla proprietà immobiliare veneziana in quella città appartengono in buona parte alla Mensa patriarcale; entrambi i fondi sono presso l'Archivio di Stato di Venezia.
46. Su Staniario e la sua famiglia, S. Borsari, Venezia e Bisanzio, pp. 109-116; si veda in particolare Documenti del commercio veneziano, II, nrr. 444, 452, 460. Sui preparativi per la Crociata, Donald E. Queller, The Fourth Crusade. The Conquest of Constantinople, 1201-1204, Philadelphia 1977.
47. Documenti del commercio veneziano, II, nrr. 467, 478-479, 486-487, 490, 492-493, 517, 519, 541, 566, 572 e 585 (1219); G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, II, p. 7 (1207).
48. D. Jacoby, The Venetian Presence, pp. 182-191.
49. Id., Les Vénitiens naturalisés dans l'Empire byzantin: un aspect de l'expansion de Venise en Romanie du XIIIe au milieu du XVe siècle, "Travaux et Mémoires du Centre de Recherches d'Histoire et Civilisation Byzantine", 8, 1981, p. 220 e n. 24 (pp. 217-235) (ristampato in Id., Studies on the Crusader States and on Venetian Expansion, Northampton 1989); Id., The Venetian Presence, pp. 183- 187; Documenti del commercio veneziano, II, nr. 805 (1251), su una donna che in precedenza, nel 1123, aveva risieduto a Venezia; Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, a cura di Antonino Lombardo - Raimondo Morozzo della Rocca, Venezia 1953, nr. 92 (1241), su Biagio Gisberto, che aveva due figli maschi, e la moglie incinta.
50. D. Jacoby, Les Vénitiens naturalisés, pp. 219-222; sui Greci nel quartiere veneziano, C.A. Maltézou, Il quartiere veneziano di Costantinopoli, pp. 57-61, indice dei nomi, quali Adrino, Aplicaras, Arsenio, Gravaras, Monovassiotis, Potamissi.
51. Deno J. Geanakoplos, Emperor Michael Palaeologus and the West, 1258-1282. A Study in Byzantine-Latin Relations, Cambridge, Mass. 1959, pp. 112-114, 131-134, sostiene la poco convincente ipotesi che nel 1261 non si verificò alcuna fuga in massa da Costantinopoli. Si veda anche più oltre, n. 64, su Filippo Vistariti.
52. D. Jacoby, Les Vénitiens naturalisés, pp. 227-229, 232-234.
53. Id., Les états latins en Romanie, p. 22.
54. Nel 1306 e ancora nel 1323, due trasferimenti di cinquanta artigiani ciascuno, A.C. Hodgetts, The Colonies of Coron and Modon under Venetian Administration, 1204-1400, tesi di Ph.D. inedita, University of London, 1974, pp. 156, 355.
55. A questo proposito, si veda oltre.
56. Silvano Borsari, Studi sulle colonie veneziane in Romania nel XIII secolo, Napoli 1966, pp. 34-43, 77-83, 109-114; D. Jacoby, La féodalité en Grèce médiévale, pp. 195, 237-238, 271-280.
57. Documenti del commercio veneziano, II, nrr. 558, 583, 592, 606, 607, 628, 640, 643, 646, 756, 765, 774 (1245, con riferimenti al 1239).
58. D. Jacoby, L'expansion occidentale dans le Levant, pp. 232-233, 242.
59. Per un caso a Modone, S. Borsari, Studi sulle colonie veneziane, p. 114.
60. Per Isacco Venier, Diplomatarium veneto-levantinum sine Acta et Diplomata, res Venetas, Graecas atque Levantis illustrantia a. 1300-1454, I-II, a cura di Georg M. Thomas - Riccardo Predelli, Venezia 1880-1899: I, pp. 209-210, e D. Jacoby, L'expansion occidentale dans le Levant, p. 239. Sull'osmosi, Gianfranco Folena, Introduzione al veneziano "de là da mar", "Bollettino dell'Atlante Linguistico Mediterraneo", 10-12, 1968-1970, pp. 358-362 (pp. 331-376).
61. D. Jacoby, The Venetian Presence, pp. 183-187; Id., L'expansion occidentale dans le Levant, pp. 239-245; Id., The Rise of a New Emporium, p. 168.
62. Diplomatarium Veneto-Levantinum, I, p. 104. Freddy Thiriet, Délibérations des assemblées vénitiennes concernant la Romanie, I-II, Paris-La Haye 1966-1971: I, pp. 308-309, nr. 472: "fama nostri comunis cum bono nostro commendabiliter augeatur".
63. D. Jacoby, Les Vénitiens naturalisés, pp. 227-235, e supra, per Acri, Tiro, Cipro, l'Egitto, l'Impero latino e Costantinopoli.
64. Id., Les Vénitiens naturalisés, p. 220.
65. Per una visione d'insieme, F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 182-208; per Modone e Corone, S. Borsari, Studi sulle colonie veneziane, pp. 96-98.
66. Sulle rivolte e gli infeudamenti dei Greci a Creta, S. Borsari, Il dominio veneziano a Creta, pp. 27-66, 76-77. Sugli archontes e i paroikoi prima della conquista veneziana, e sull'evoluzione sociale ad essa successiva, D. Jacoby, Social Evolution in Latin Greece, pp. 180-189, 195-198, 200-205, 207-216; Id., From Byzantium to Latin Romania, pp. 5-10, 15-23; Id., Les états latins, p. 20.
67. Angeliki E. Laiou, Quelques observations sur l'économie et la société de Crète vénitienne (ca. 1270-ca. 1305), in AA.VV., Bisanzio e l'Italia: raccolta di studi in memoria di Agostino Pertusi, Milano 1982, pp. 194-197 (pp. 177-198); Ead., Venetians and Byzantines, pp. 34-39; D. Jacoby, From Byzantium to Latin Romania, p. 10.
68. D. Jacoby, From Byzantium to Latin Romania, pp. 24-26; Id., Social Evolution in Latin Greece, pp. 205-206, 218-220.
69. Sul fenomeno linguistico in generale, si vedano il suggestivo studio di G. Folena, Introduzione al veneziano, pp. 331-369, in particolare 342-345, e il capitolo di Alfredo Stussi, La lingua, in questo volume.