La dimensione religiosa del Risorgimento
Il Risorgimento – insieme alla Resistenza, la più importante esperienza di emancipazione politica della storia italiana – fu sostenuto da un forte spirito religioso che ebbe quale suo tratto distintivo la devozione all’ideale della libertà. Senza esagerazioni retoriche si può, anzi, si deve affermare che lo spirito religioso diede al Risorgimento il suo alto valore ideale. Negare la sua presenza sarebbe, per tacer d’altro, un grave errore storico.
Gli studiosi intellettualmente più raffinati hanno visto bene l’anima religiosa del Risorgimento. L’esempio più eloquente è Adolfo Omodeo, uno dei protagonisti della ricerca di una religione della libertà negli anni del fascismo trionfante. Omodeo coltivò per tutta la sua vita di studioso due grandi temi fra loro collegati: il cristianesimo antico e il Risorgimento, ovvero le due grandi tradizioni ideali che ispirarono la religione della libertà1. Diversamente da Gobetti, che giudicava il Risorgimento una mancata riforma religiosa e morale, lo storico palermitano lo considerava un’esperienza politica sostenuta da un profondo senso religioso.Gobetti, scrive Omodeo, si fa procuratore della rivoluzione liberale contro il Risorgimento ‘rivoluzione fallita’. Incapace di lasciar parlare pacatamente le cose e i fatti, li commenta prima di narrare2. Il suo è «l’ideale della storiografia dei giornalisti» e il saggio su Alfieri è un «ghirigoro incomprensibile»3. Gobetti lamenta che il Risorgimento sia stato rivoluzione politica senza riforma religiosa, ma
«l’impostazione del problema è astratta: questa riforma religiosa italiana da dove doveva nascere? Ricalcare quella protestante, per ovvi motivi, non si poteva. Potevano gli uomini dell’Ottocento proporsela a freddo? Da quale germoglio della vita cattolica inaridita e disseccata dal gesuitismo doveva scaturire? Là dove mostrò di prorompere, nei semigiansenisti toscani, non aveva né poteva avere caratteri popolari: era invece un preludio dell’aristocratico movimento modernista. Anticlericalismo puro? Lo si sperimentò durante la rivoluzione francese»4.
Per Omodeo il Risorgimento ebbe «una vita religiosa sua interna, tale da ridurre e risospingere in ristretti limiti le esigenze del cattolicesimo gesuitico». Pur se non tentarono una riforma religiosa in senso stretto, gli uomini del Risorgimento «vivevano una fede nuova» che li spinse a lottare per il popolo. Si adattarono a essere loro la nazione, «come i settemila Israeliti che ai tempi d’Elia non avevano piegato il ginocchio a Baal, costituivano il vero Israele». Credettero nel popolo e nella nazione. Non si chiusero nell’albagia oligarchica dei fabbricatori di storia ex professo. Ebbero l’ossessione dell’edificazione del popolo. Se l’opera non riuscì completa, fu perché un popolo non s’improvvisa in cinquant’anni. Si dovevano formare le tradizioni secolari, mentre la nazione italiana era completamente nuova. Si limitarono con «un’abnegazione che ha del religioso» entro i confini in cui potessero innestarsi il popolo e la nazione5. I mali che avevano afflitto l’Italia dopo l’unificazione non dipendevano dal Risorgimento, come credeva Gobetti, ma dall’aver smarrito il senso del Risorgimento.
Accanto a Omodeo va ricordato Benedetto Croce, che indicava nel Risorgimento un esempio della «religione della libertà» di cui, nel celebre Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, si proclamava orgogliosamente erede:
«Per questa caotica e inafferrabile “religione”, [scriveva] noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda la loro bandiera. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa ed astratta o un invasamento di cervello cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale o morale».
Le testimonianze di Omodeo e di Croce invitano a riflettere su due questioni a mio avviso fondamentali per capire la dimensione religiosa del Risorgimento. Dobbiamo chiederci, in primo luogo, come si formò in Italia, nei primi decenni dell’Ottocento, uno spirito religioso che non solo si proclamò, ma seppe essere valido sostegno alla lotta per la libertà, e dobbiamo inoltre interrogarci sui suoi caratteri distintivi, ponendo soprattutto attenzione a cogliere la varietà dei contenuti e degli accenti della nuova religione della libertà.
Nelle repubbliche che fiorirono in Italia fra il 1796 e il 1799, all’ombra delle armate napoleoniche, nacque e fece adepti una nuova religione che si proclamava civile repubblicana o democratica. Profeta della nuova fede era Jean-Jacques Rousseau; la nuova bibbia il Contrat social. Come Machiavelli, Rousseau riteneva che le repubbliche avessero bisogno della religione per nascere e per conservarsi6. Scrive infatti che i grandi legislatori dovettero mettere in bocca a Dio le massime della vita civile per «entraîner par l’autorité divine ceux que ne pourroit ébranler la prudence humaine», e che soltanto uomini di grande animo possono persuadere di essere ispirati da Dio e fondare leggi durature. Al tempo stesso accusava la religione cristiana di educare alla mentalità servile: «Loin d’attacher les coeurs des Citoyens à l’Etat», la religione cristiana «les en détache comme de toutes les choses de la terre: je ne connois rien de plus contraire à l’esprit social». La sua invettiva si chiude con una condanna che non ammette appello: «Le Christianisme ne prêche que servitude et dépendance. Son esprit est trop favorable à la tirannie pour qu’elle n’en profite pas toujours. Les vrais Chrétiens son faits pour être esclaves; ils le savent et ne s’en émeuvent gueres; cette courte vie a trop peu de prix à leurs yeux»7. Poiché le religioni esistenti e quelle che vissero in passato non sono adatte a fondare una moralità civile, Rousseau raccomanda una nuova religione, da istituire e conservare con la forza delle leggi, fondata non su dogmi, ma su «sentiments de sociabilité, sans lesquels il est impossibile d’être bon Citoyen ni sujet fidelle».
Ispirati da questi principi, un cospicuo nugolo di propagandisti si diede a scrivere e a diffondere una grande quantità di scritti volti a esaltare le virtù di una nuova religione che non aveva più bisogno né del Dio della rivelazione né della Chiesa, in particolare quella cattolica, denunciata quale forza di corruzione morale e politica e sostegno dei governi tirannici. Valga per tutti, per la sua eminenza intellettuale, l’esempio di Gaetano Filangieri, che teorizzò la necessità della religione civile seguendo la nuova via di Rousseau. L’esperienza religiosa era a suo giudizio non un inganno superstizioso, ma una forza potente di unificazione sociale e una risposta alle esigenze delle moltitudini. La religione è «così inerente alla natura dell’uomo, così necessaria alla formazione, perfezione e conservazione della società e così terribile nella sua degenerazione», da essere una potente forza politica. Filangieri distingueva l’ambito della religione e quello della politica. Alla prima compete il foro interno, ovvero le convinzioni interiori degli individui; alla seconda il foro esterno, ovvero le azioni8. Da queste premesse Filangieri ricavava una religione civile che doveva avere nelle logge massoniche i suoi centri d’irradiazione nelle élites e nel popolo, lottare contro il fanatismo e contro l’irreligiosità, e porre fine, con misure legislative, ai privilegi del clero e all’esistenza di una Chiesa separata dal potere civile e a esso ostile9. Diversamente dai giacobini sostenitori della riforma religiosa, Filangieri teorizzava un passaggio graduale dalla vecchia religione superstiziosa alla nuova religione civile. Anche nel suo progetto, tuttavia, la riforma non è un ritorno ai principi della fede cristiana, bensì la costruzione di un nuovo edificio teologico e morale. Una volta screditata la vecchia religione e le sue superstizioni, il potere civile avrebbe potuto introdurre nuovi riti e nuove cerimonie «regolate dalla occulta mano del legislatore» e dichiarare la nuova religione dello Stato e del governo10.
Alle proposte più o meno fantasiose di una religione repubblicana si affiancavano prediche e appelli volti a spiegare come la religione cristiana fosse amica della democrazia. Si tratta di testi elaborati attorno a luoghi comuni, più o meno ornati da argomenti storici e da riferimenti biblici, ma quasi sempre freddi, come se fossero stati scritti, e in molti casi lo erano davvero, per comando o per sollecitazione delle autorità francesi o dei patrioti che governavano le repubbliche sorte sull’onda delle armate napoleoniche. Mancavano insomma di quel calore che nasce dal convincimento interiore, qualità essenziale della predicazione religiosa. Ne è un esempio l’Omelia del cittadino cardinal Chiaramonti vescovo d’Imola diretta al popolo della sua diocesi nella Repubblica cisalpina nel giorno del santissimo Natale l’anno MDCCXCVII. «Spiegate ai popoli [ammoniva Chiaramonti] la vera natura della libertà, e dell’eguaglianza, onde animarli ai loro doveri, mentre fate loro conoscere i loro diritti. Così avremo de’ buoni cristiani per il cielo, e dei savj, utili, e generosi cittadini per la patria, e per tutta la nostra Repubblica»11. Nella retta visione cristiana la libertà
«non è libertinaggio né una licenza sfrenata di poter fare ciò che si vuole, sia bene, sia male, sia onesto, sia turpe. Questa interpretazione distrugge tutto l’ordine divino ed umano e sfigura l’umanità, la ragione e tutti i bei pregj di cui ci ha fornito il Creatore. La libertà cara a Dio e agli uomini, [sottolinea il cardinale] è una facoltà, che fu donata all’uomo, è un dominio di poter fare, o non fare, ma sempre sotto la legge divina ed umana. Non esercita ragionevolmente la sua libertà chi si oppone alla legge superbo e ribelle; non esercita ragionevolmente la sua libertà chi contraddice a Dio e alla sovranità temporale, chi vuol seguire il piacere e lasciare l’onestà. Chi coltiva il vizio ed abbandona la virtù è un mostro che non fa uso delle potenze che Dio gli ha dato e dunque «non è amico né di Dio, né degli uomini»12.
Chiarito il vero significato della libertà, il cardinale ribadisce che il governo democratico non ripugna al Vangelo. Esige anzi tutte quelle sublimi virtù, «che non s’imparano che alla scuola di Gesù Cristo». Accanto all’esempio di Cristo, sta, altrettanto fulgido, quello degli antichi eroi repubblicani. Ma Gesù Cristo, più degli eroi antichi, è stato anche maestro di fratellanza e di unione civile. La religione che egli donò agli uomini è dunque il più valido aiuto per le democrazie13. La religione cattolica deve essere oggetto di cure sollecite perché essa insegna ad assolvere i doveri civili e a servire il ‘comun bene’. Mercé la grazia del Signore, assicura il cardinale, i cittadini assolveranno i doveri civili.
«Sì, miei cari fratelli, conclude, siate buoni cristiani e sarete ottimi democratici. Imitate l’umiltà, l’obbedienza del Salvatore e sarete soggetti, ed obbidienti saviamente alle leggi ed alla sovranità. Se vedrete che alcuni vostri fratelli traviino dalla carriera della virtù e del Vangelo, pregate senza stancarvi anche per loro, poiché rimane speranza, che si convertano per godere del nostro Iddio: date loro modo che si ammaestrino, almeno specchiandosi nell’opere vostre: fuggite d’imitare l’errore ma compatite il fratello errante e studiatevi di ridurlo al pentimento, allo stato di salute. E voi, o carissimi miei cooperatori, cui sono affidate le proprie particolari porzioni del mio cristiano gregge, voi, sostenendo meco il peso spirituale del popolo di Dio, unitevi a mantenere in esso illibata la cattFolica Religione, e fate ogni sforzo, perché i seguaci di Gesù Cristo siano santamente fedeli ancora alle autorità, alla repubblica»14.
Nonostante il fervore e l’eloquenza dei suoi propugnatori, la nuova religione civile non solo non soppiantò la vecchia religione cristiana ma la rafforzò. L’errore dei repubblicani e dei francesi, scrisse finemente Vincenzo Cuoco, fu di deludere a un tempo chi confidava nel Dio d’Israele che libera i popoli, e nell’irritare chi praticava il vecchio rituale religioso come una festa. Niente di male a voler spogliare i preti delle loro sostanze. Il guaio fu che i repubblicani, mentre volevano spogliare i preti, volevan distruggere, o davano ad intendere di voler distruggere, ‘gli dei’, nei quali il popolo credeva e sopprimere le cerimonie che il popolo amava15.
Gli scrittori politici, i poeti, gli storici e i filosofi che si impegnarono nell’opera di far germogliare in Italia una religione che fosse davvero amica della libertà volsero le spalle alla religione civile di ispirazione rousseauiana e cercarono di rielaborare e reinterpretare, anziché combattere apertamente, la tradizione religiosa cristiana. Un contributo molto utile alla ricerca degli italiani venne dalla Francia, in particolare dalle riflessioni di Benjamin Constant. Nel saggio De la religion, che vide la luce nel 1824, egli sosteneva che la mancanza di un vero spirito religioso fu una delle più gravi cause del fallimento dellaRivoluzione francese, capace sì di conquistare la libertà con la forza dei lumi, ma non di mantenersi sulla retta via con la forza e il freno della religione. La Rivoluzione scatenò una moltitudine di individui senza adeguata preparazione morale, che si lanciò senza freno e senza regola contro tutte le istituzioni. La stessa religione aiutò la persecuzione più esecrabile. La Restaurazione fu poi cura quasi peggiore del male perché a difendere la religione si levarono uomini tanto ignoranti quanto i rivoluzionari antireligiosi, che riproposero a favore della religione misure offensive della libertà16. Sia la Rivoluzione, con il suo epilogo napoleonico, sia laRestaurazione avevano dunque pervertito il significato genuino del cristianesimo e l’avevano messo al servizio di fini che ripugnavano alla sua natura. Proprio perché non erano sostenute dal vero spirito religioso, né l’una né l’altra seppero assicurare una stabile libertà.
Il cammino faticoso verso la libertà poteva riprendere soltanto se le menti migliori e gli animi più generosi avessero capito che lo spirito religioso è sempre d’accordo con i principi della libertà. Considerato separatamente dalle istituzioni religiose che si sono affermate nella storia, lo spirito religioso è caratteristica essenziale dello spirito umano. La libertà, l’uguaglianza e la giustizia sono le sue concezioni predilette. Le creature che escono dalla mano di un Dio buono e onnipotente, sottoposte al medesimo destino per quanto riguarda la vita terrena, dotate delle medesime facoltà morali, devono avere i medesimi diritti. La storia di tutti i tempi dimostra che dove il sentimento religioso ha trionfato, ovunque la libertà è stata sua compagna. I primi cristiani resuscitarono le nobili idee dell’uguaglianza e della fraternità fra gli uomini. La mancanza di sentimento religioso favorisce, all’opposto, tutte le pretese della tirannide. Quando il sentimento religioso scompare dall’animo degli uomini è sempre vicino il tempo del loro asservimento. Le parole di Constant erano un monito severo che non poteva non toccare profondamente l’animo di chi aveva a cuore la libertà: «Des peuples religieux ont pu être esclaves; aucun people irréligieux n’et demeuré libre»17. La conquista e la difesa della libertà politica esigono un sentimento disinteressato che giunge fino alla capacità di sacrificare se stessi. Qualsiasi morale estranea al sentimento religioso si fonda invece sul calcolo dell’interesse e come tale non può in alcun modo motivare il sacrificio della vita. Che cosa c’è di più della vita, per chi vede al di là della vita soltanto il nulla?
Per Constant, l’autentico spirito religioso può aiutare a conquistare la libertà. L’interesse bene inteso, dogma del migliore utilitarismo, sconfigge tutte le passioni, quelle nobili e quelle ignobili: trionfa sul delirio dei sensi, sulla brama del denaro, sul furore della vendetta, ma soffoca anche la pietà e l’intenerimento. Si oppone a qualsiasi azione, anche a quelle sostenute dalla virtù e dalle passioni più generose che ci arrecano un bene durevole. Come potrebbe allora un individuo che segue la regola dell’interesse bene inteso quale massima suprema della vita sacrificare sé stesso per la libertà? Ma senza persone che sanno sacrificarsi, i popoli non strappano la libertà dalle mani dei despoti, né sanno difenderla, e dunque rimangono servi. La vera guida da seguire non è l’interesse bene inteso, ma il sentimento interiore che la natura ha donato a tutti gli uomini e che insegna invece che cos’è bene e che cos’è male18.
Per mantenere vivo questo sentimento bisogna coltivare necessariamente il sentimento religioso. La prova della validità di questo principio era ancora una volta la Francia sotto Napoleone:
«Perché si era ricchi di spirito ci si è compiaciuti (sotto un governo moderato) in una specie di opposizione. Finché non vi è stato pericolo, l’interesse ben inteso ha permesso alla vanità di criticare indifferentemente il bene e il male. È comparso il pericolo, e l’interesse bene inteso ha consigliato d’applaudire prudentemente il male come il bene: di guisa che sotto il potere moderato ci si è mostrati frondisti e sotto il potere violento ci si è mostrati vili»19.
L’effetto naturale dell’utilitarismo è di fare sì che ogni individuo senta se stesso quale ‘proprio centro’. Ora, nota finemente Constant, «quando ognuno è il proprio centro tutti sono isolati. Quando tutti sono isolati non v’è che polvere. Se sopraggiunge l’uragano la polvere è fango»20. Costant esorta a ritrovare invece l’idea religiosa della libertà che animava i primi cristiani:
«amici della libertà […], siate i primi cristiani di un nuovo basso impero. La libertà si nutre di sacrifizi: rendete la potenza del sacrifizio alla razza enervata che l’ha perduta. La libertà vuol dire sempre cittadini, qualche volta eroi. Non spegnete le convinzioni che sono le basi delle virtú dei cittadini, e che crean gli eroi, dando loro la forza d’essere martiri»21.
Un anno dopo, nel 1825, Claude-Henri de Saint-Simon pubblicava il Nouveau christianisme per riproporre lo spirito autentico del cristianesimo a tutti gli uomini che sentono il bisogno di purificare e perfezionare la vita morale serbando il suo carattere religioso. Fondamento del nuovo cristianesimo era per Saint-Simon assai semplice: gli uomini devono trattarsi gli uni e gli altri come fratelli. Da questo principio discendeva la convinzione che la società deve essere organizzata nel modo più vantaggioso al più gran numero e soprattutto ai più poveri22. Lo spirito del nuovo cristianesimo è fatto di bontà, di carità e di dolcezza; le sue armi sono la persuasione e la dimostrazione23. Quando la società si è allontanata dal vero cristianesimo, essa è caduta sotto il dominio della forza. Ritrovare questo principio era dunque la sola via per la nascita della società nuova. Profeta della nuova umanità era Saint-Simon medesimo, che si sentiva esplicitamente investito dall’ispirazione divina e protetto da Dio24.
Nell’edizione del 1835, dieci anni dopo la morte di Saint-Simon, il fedele discepolo Berthélemy Prosper Enfantin pubblicava il Nouveau christianisme in un’edizione che comprendeva anche L’educazione del genere umano di Gotthold Ephraim Lessing, un altro testo che annunciava un nuovo vangelo eterno che avrebbe dovuto aprire una terza età del mondo, quella dell’umanità moralmente redenta dalla nuova religione. La religione cristiana, spiega Lessing, ha dimostrato nella storia la superiorità dei suoi principi e può ancora guidare l’umanità a riscoprire le vere idee sull’‘Essere divino’, sulla natura umana, e sui nostri rapporti con Dio. Guidata dalla religione cristiana rettamente intesa, verrà l’età in cui l’uomo farà il bene solo perché è il bene e apprezzerà le ricompense interiori alla virtù quale premio più ambito. Sarà quello il tempo del ‘nuovo vangelo eterno’ promesso dai libri della nuova alleanza e garantito dalla Provvidenza25.
Anche per François-Pierre-Guillaume Guizot, eminente storico e politico, il cristianesimo è una forza morale che opera per la libertà e trae dalla libertà sempre rinnovate energie per svolgere la sua missione redentrice. Diversamente da Constant, Guizot, nelle sue lezioni del 1828, sostiene che il cristianesimo non è soltanto sentimento interiore individuale, ma anche istituzione e associazione. Alla fine del secolo IV, osserva, il cristianesimo non era più soltanto una religione, ma una Chiesa, e proprio perché era anche Chiesa riuscì a sopravvivere alla caduta dell’impero romano e alle invasioni barbariche. Dove non riuscì a diventare Chiesa, come in Asia e nell’Africa del Nord, scomparve26. Per difendersi, il cristianesimo affermò il principio della separazione del potere spirituale dal potere temporale, anche se, una volta conquistata l’autonomia, cercò di dominarlo. Al di là della necessità di proteggersi dai poteri terreni, è insito nella natura religiosa dell’uomo l’impulso a formare comunità di fedeli, a fare proselitismo e a creare una società religiosa con un governo ecclesiastico. La Chiesa diventa un ostacolo al sentimento religioso quando si trasforma in casta, persegue e tollera il privilegio, coltiva l’immobilità ed esercita la coazione sui credenti e sui non credenti, con il risultato di negare i diritti della ragione individuale e di affermare la tirannia sacerdotale. Per svolgere degnamente il loro ufficio nel mondo, le religioni, prima fra tutte il cristianesimo, devono invece essere testimoni di libertà, ed esigere che chi si sottomette alle loro norme lo faccia liberamente, conservando la sua libertà. Deve insomma liberarsi dall’errore di considerare la libertà come un ostacolo, anziché come la condizione imprescindibile per svolgere la sua stessa esistenza.
Negli anni della Restaurazione Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, uomo di fede protestante, ricordava agli italiani nella sua Histoire des républiques italiennes du moyen âge, il patriottismo e la religione dei cittadini delle antiche repubbliche e insisteva sugli effetti distruttivi della cattiva educazione religiosa sul loro senso morale. La sua accusa si rivolgeva soprattutto alla Controriforma:
«Aussi seroit-il impossibile de dire [scrive] à quel degré une fausse instruction religieuse a été funeste à la morale en Italie. Il n’y a pas en Europe un peuple qui soit plus constamment occupé de ses pratiques religieuses, qui soit plus universellement fidèle. Il n’y en a pas un qui observe moins les devoirs et les vertus que prescrit ce christianisme auquel il paroît si attaché».
Grazie all’educazione che hanno ricevuto dalla Chiesa, gli italiani sono diventati maestri nell’arte di mettere a tacere la voce della coscienza e di coprire con una superficiale devozione la mancanza di vero senso morale:
«chacun y a appris, non point à obéir à sa conscience, mais à ruser avec elle; chacun met ses passions à leur aise, par le bénéfice des indulgences, par les restrictions mentales, par le projet d’une pénitence, et l’espérance d’une prochaine absolution; et loin que la plus grande ferveur religieuse y soit una garantie de la probité, plus on y voit un homme scrupuleux dans ses pratiques de dévotion, plus on peut à bon droit concevoir contre lui de défiance»27.
Questa perversione morale e religiosa, sottolineava Sismondi, è la causa principale della loro servitù morale, e fin quando gli italiani non si emanciperanno moralmente non potranno conquistare l’emancipazione politica.
La più completa e coerente lezione sul rapporto fra libertà repubblicana e religione cristiana venne tuttavia da De la démocratie en Amérique di Charles-Alexis-Henri Clérel de Tocqueville, pubblicata in due volumi nel 1835 e nel 1840. Nel suo viaggio in America Tocqueville notò subito che negli Stati Uniti la religione insegnava principi rigorosamente repubblicani e democratici e aveva saputo infondere nell’animo dei cittadini la convinzione che il cristianesimo e la libertà fossero inseparabili e che il vero cristiano dovesse amare la patria. L’alleanza stretta nel nuovo mondo era una novità radicale rispetto all’Europa, dove religione cristiana e libertà politica erano nemici giurati. L’America, dove la religione era più forte che in qualsiasi altro paese occidentale, era anche la nazione più libera: «l’America è tuttavia ancora il paese del mondo in cui la religione cristiana ha conservato maggiore potere sulle anime; e nulla mostra meglio, quanto essa sia utile e naturale all’uomo, poiché il paese in cui essa ha oggi un maggior potere è anche il più civile e il più libero»28.
Fondamentali per realizzare l’incontro fra cristianesimo e libertà politica erano stati l’insegnamento e l’esempio dei puritani. Essi andarono nel nuovo mondo per pregare Dio liberamente e sostenevano le più radicali teorie democratiche e repubblicane, prima fra tutte un’interpretazione della libertà come principio sacro:
«Noi non ci sbagliamo su quello che dobbiamo intendere per nostra indipendenza. Vi è effettivamente una specie di libertà corrotta il cui uso è comune all’uomo e agli animali, e che consiste nel fare tutto ciò che piace. Questa libertà è la nemica di ogni autorità e sopporta impazientemente ogni regola; con essa noi diveniamo inferiori a noi stessi; essa è la nemica della verità e della pace; e Dio ha creduto di doverla combattere! Ma vi è una libertà civile e morale che trova la sua forza nell’unione, e che deve essere protetta dallo stesso potere: è la libertà di fare senza paura tutto ciò che è giusto e buono. Noi dobbiamo difendere questa santa libertà in ogni circostanza e, se necessario, dobbiamo per essa rischiare la vita»29.
Tutte le confessioni religiose, compresa la cattolica, insegnavano in America ad amare e a servire la libertà politica, e a sostenere la lotta dei popoli che vogliono emanciparsi dal dominio coloniale e imperiale.30 Il racconto della manifestazione indetta per raccogliere armi e denaro a sostegno della libertà dei polacchi che Tocqueville inserisce nel primo volume, vale più di un trattato:
«Trovai due o tremila persone riunite in una vasta sala preparata appositamente per riceverli. Subito un sacerdote, rivestito degli abiti ecclesiastici, salì sul palco riservato agli oratori. Tutti i presenti tacquero e si scoprirono ed egli incominciò: “Dio onnipotente! Dio degli eserciti! Tu che hai dato coraggio e hai sostenuto il braccio dei nostri padri, quando difendevano i sacri diritti della loro indipendenza nazionale; tu che li hai fatti trionfare su un’odiosa oppressione e hai accordato al nostro popolo i benefici della pace e della libertà, o Signore volgi un occhio benigno verso l’altro emisfero e abbi pietà di un popolo eroico che oggi lotta, come noi già lottammo un giorno, per difendere gli stessi diritti! Signore, tu che hai creato gli uomini su uno stesso modello, non permettere che il dispotismo deformi la tua opera e conserva sulla terra l’eguaglianza. Dio onnipotente, veglia sul destino dei polacchi, rendili degni di essere liberi; che la tua saggezza regni nei loro consigli, che la tua forza sia nelle loro braccia; spargi il terrore fra i loro nemici, dividi le potenze che tramano per la loro rovina e non permettere che sia consumata oggi l’ingiustizia di cui il mondo fu testimone or sono cinquant’anni. Signore, tu che tieni nella tua mano potente il cuore dei popoli come quello degli uomini, suscita degli alleati alla causa del buon diritto; fa che la nazione francese si levi infine dal riposo in cui la trattengono i suoi capi e venga a combattere ancora una volta per la libertà del mondo. O Signore, non allontanare da noi il tuo sguardo e permetti che noi siamo sempre il popolo più religioso come il più libero. Dio onnipotente, esaudisci la nostra preghiera; salva i polacchi. Te lo chiediamo in nome del tuo figlio amato, nostro Signore Gesù Cristo, morto sulla croce per la salute di tutti gli uomini. Amen”. E l’assemblea con raccoglimento ripeté: amen»31.
In America la religione svolgeva bene il suo ufficio di educazione morale proprio perché si teneva lontana dal potere politico. Tocqueville confessava candidamente di essere rimasto profondamente sorpreso quando scoprì che i preti americani non avevano alcuna carica politica e non erano neppure rappresentati nelle assemblee legislative. Essi erano addirittura orgogliosi di proclamare ad alta voce che la politica non era affare loro. Al contrario, quando la religione cerca l’aiuto dei governi perde il suo vero potere che è di insegnare e di educare con la parola e con l’esempio32. L’alleanza fra religione cristiana e libertà politica è benefica per l’una e per l’altra. Sul suolo d’America, la religione educa i cittadini a considerare la loro repubblica un dono di Dio e la libertà un principio sacro da difendere con zelo. Essa è dunque forza attiva che si fonde con il patriottismo e lo rende la vera religione degli americani33.
La religione modella il costume, forma le convinzioni profonde dei cittadini e purifica le passioni perniciose dell’egoismo e della ricerca del benessere materiale, compito questo particolarmente necessario in una società egualitaria dove gli individui ritengono di poter conseguire prosperità e benessere senza essere ostacolati dalla gerarchia dei ceti, come avveniva nelle società aristocratiche del vecchio mondo34. Nella democrazia americana, tutta dedicata alla ricerca dell’utile individuale, la religione svolge una funzione insostituibile di moderazione e di educazione35. La religione è la «prima istituzione politica americana»36, ed è più necessaria nelle repubbliche democratiche che nelle monarchie o nei regimi dispotici. Proprio perché nelle repubbliche democratiche il popolo è sovrano, e dunque padrone delle leggi, deve sentirsi sottoposto alla legge superiore di Dio. «È il dispotismo che non può curarsi della fede, non la libertà. La religione è assai più necessaria nella repubblica che essi [i fautori della repubblica in Francia] preconizzano, che nella monarchia che essi attaccano, e nelle repubbliche democratiche più che in tutte le altre»37.
In una società, quale è quella democratica, in perenne mutamento e ricca di conflitti, in cui gli individui sono liberi di formare le proprie convinzioni su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la religione è necessaria anche perché offre un solido e immutabile riferimento morale. Il dubbio morale, sottolinea Tocqueville, snerva gli animi e li dispone alla servitù:
«Quando presso un popolo la religione è distrutta, il dubbio si impadronisce delle parti più elevate dell’intelligenza e semiparalizza tutte le altre. Ognuno si abitua ad avere nozioni confuse e mutevoli sulle materie che più interessano se stesso e i suoi simili; ognuno difende male le proprie opinioni e le abbandona e, poiché dispera di potere risolvere da solo i più grandi problemi del destino umano, si riduce a non pensarci affatto. Un simile stato di cose indebolisce le anime, attenta il vigore della volontà e prepara i cittadini alla servitù. Non solo avviene allora che questi si lasciano portare via libertà, ma spesso che l’abbandonano».
La conclusione è, ancora una volta, che le società democratiche hanno bisogno dell’aiuto della religione più delle monarchie e dei regimi dispotici: «per parte mia non credo che l’uomo possa mai sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e un’intera libertà politica e sono portato a pensare che, se egli non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda»38. Il monito era preciso e questa volta non discendeva da principi astratti, ma dall’esperienza concreta di una grande repubblica: chi ama davvero la repubblica e la libertà deve sostenere la religione cristiana.
Le suggestioni intellettuali venivano d’Oltralpe, a conferma ulteriore del fatto che il nostro Risorgimento fu europeo non solo per le idealità politiche, ma anche per la religiosità che lo sostenne. Lo si può notare, fra i molti esempi possibili, nelle riflessioni di Raffaello Lambruschini, che subì il carcere a causa dei suoi legami con i fuoriusciti della rivoluzione napoletana ed ebbe un ruolo di primo piano nella vita culturale e politica toscana. Già all’inizio degli anni Venti scriveva, chiosando De la religion di Benjamin Constant, che il principale merito delle verità religiose consiste nell’essere praticate e nell’influenza che esse possono esercitare «sul ben essere pubblico e individuale»39. Ammetteva che in certi casi la paura e l’autorità potevano essere utili per diffondere e difendere la religione, ma aggiungeva che ai suoi tempi solo «la ragione e la benevolenza» erano mezzi atti a far rivivere l’antico spirito religioso. Ostinarsi a usare autorità e paura aveva solo l’effetto di compromettere la religione:
«prima si pregava, ora si comincia a minacciare. Si propongono i castighi spirituali, e si invoca il braccio dei Re. Prima si voleva giustamente far riconoscere che nelle verità Religiose, non v’è nulla di contrario alle molte verità che tutte le scienze ci sono venute svelando. Ora si comincia a declamare contro i lumi, e si cerca di spargere del disfavore su tutti i rami delle umane cognizioni; e a mettere gli animi in diffidenza contro i loro progressi»40.
Da sentimento sincero la vita religiosa è diventata così una pratica fredda e un’accorta simulazione41.
La sua presa di posizione per l’alleanza fra religione e libertà è netta:
«Si tratta di riaffermare gli spiriti nella salutare disposizione Religiosa a cui gli aveva condotti l’esperienza dei mali, si tratta di impedire che la Religione divenga la nemica dei lumi, lo strumento di schiavitù e di persecuzione, e l’ancella degli interessi e delle passioni umane; si tratta anzi di stringere in una amicizia indissolubile tutte le verità conquistate dall’umano intelletto colle verità semplici immutabili e toccanti della Religione»42.
La religione esige la libertà: per rendere la religione «un atto degno della intelligenza e della libertà umana», è indispensabile che anche i sostenitori dell’autorità si rendano conto che essa è una persuasione e un sentimento che devono entrare ben accolti nella mente e nel cuore degli uomini43. Le dispute e le esagerazioni sono nate dalla troppo vaga definizione dei confini fra politica e religione. Si è voluto da una parte scuotere il giogo d’ogni autorità e ricorrere alla sola ragione, si è voluto dall’altra chiudere gli occhi all’intendimento dell’uomo, soffocare la voce del suo intimo sentimento, reprimere gli slanci delle sue tendenze più irresistibili e fargli dettare dall’Autorità il pensiero e l’azione. «Coll’idea di renderlo libero commentava Lambruschini, se ne è fatto uno schiavo»44.
Se la libertà è dono di Dio, è Dio che esige che gli uomini vivano liberi, vale a dire secondo la legge morale. In questa particolare condizione dell’animo umano sta la reale elevazione dell’uomo sopra gli altri esseri. Dio chiama l’uomo,
«quasi a parte de’ sui disegni, che se lo associa e lo sostituisce a se stesso nel ministero sublime di mantenere nel suo proprio ordine e di far cospirare coll’ordine generale e la bellezza di tutto il creato una delle sue più belle e più care opere, ai cui destini le è impossibile di rimanere indifferente? Nella natura, dalle molecole impalpabili fino agli astri, dalla luce fino all’argilla, dall’alga fino alla rosa, dall’insetto d’un giorno e dal polipo stupido fino al leone antico e al castoro intelligente, per tutto una mano invisibile mette un freno alle forze, determina le azioni, ispira la vita e dirige il sentimento: tutto è moto, ordine, bellezza, piacere; ma il movimento è impresso, l’ordine è inviolabile, la bellezza è passiva, il piacere è ceco; tutto serve mutamente a un Eterno Legislatore. All’uomo Iddio assegna il posto che gli conviene nella vasta serie degli esseri, gli attribuisce un modo d’esistenza, un grado di perfezione del tutto suo, gli somministra le forze per conseguirlo e non se ne riserva la direzione»45.
Per questo l’uomo non può vivere senza la libertà morale e civile:
«l’uomo civilmente migliore, perché è migliore moralmente, se dà tutto agli altri uomini, una sola cosa si serba, della quale la sua coscenza gli dice che non può far dono ad altri che a Dio: l’indipendenza. Chè l’animo umano si corrompe egualmente, o ch’egli ricusi la signoria di Dio, o ch’egli accetti la signoria dell’uomo: al quale obbedendo, quando egli deve, obbedisce a Dio; al quale, s’ei cede alcuna parte dell’indipendenza propria, la cede per non violare l’indipendenza altrui, per assicurare l’indipendenza a tutti, come la vuole assicurata a sé. Trionfo della libertà»46.
Il nuovo spirito religioso si alimentava di poesie e di romanzi, fra i quali vi furono quelli di Alessandro Manzoni. Nell’ode Marzo 1821 i patrioti sono «certi in cor dell’antica virtù» e pronunciano un giuramento solenne: «già le sacre parole son porte; / o compagni sul letto di morte, / o fratelli su libero suol». Li guida il Dio che «rigetta la forza straniera», che vuole che «ogni gente sia libera» e che la giustizia s’imponga sull’iniqua ragione della spada. Il Dio che Manzoni indica agli italiani è il Dio biblico che ascolta l’invocazione dei popoli oppressi: «Se la terra ove oppressi gemeste/ preme i corpi de’vostri oppressori, / chi v’ha detto che sterile, eterno / saria il lutto dell’itale genti? / chi v’ha detto che ai nostri lamenti / saria sordo quel Dio che v’udì?». È il Dio dell’Esodo e della redenzione contro il tiranno: «Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia / chiuse il rio che inseguiva Israele, / quel che in pugno alla maschia Giaele / pose il maglio ed il colpo guidò; / quel che è Padre di tutte le genti, / che non disse al Germano giammai: / Va’, raccogli ove arato non hai; / spiega l’ugne; l’Italia ti do». «Dio vivente», come scrive nella Pentecoste, che opera nel mondo e ispira una Chiesa che soffre, combatte e prega. La parola divina che opera nel mondo consola gli afflitti, è «segnal de’popoli», edifica la città sul monte affinchè sia esempio non solo di riscatto morale, di libertà, ma anche forza della rinascita e annunciatrice del tempo nuovo: «Nova franchigia annunziano / i cieli, e genti nove; / nove conquiste, e gloria / vinta in più belle prove; / nova, ai terrori immobile/ e alle lusinghe infide, / pace, che il mondo irride, / ma che rapir non può».
Anche il Dio dei Promessi sposi parla il linguaggio della libertà e del coraggio. Fra’ Cristoforo, la vera figura esemplare del romanzo, lo afferma a chiare lettere dopo che don Rodrigo gli da detto che della coscienza se ne preoccupava solo quando andava a confessarsi. Di fronte alla tracotanza di don Rodrigo, il frate trattiene a fatica lo sdegno, fin quando questi non offende direttamente il principio della libertà, affermando che se proprio il frate teneva tanto a Lucia non doveva fare altro che portarla sotto la sua protezione.
«A siffatta proposta, l’indignazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due. “La vostra protezione!” esclamò, dando indietro di due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e piantandogli in faccia due occhi infiammati: “la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più”» (VI, 9-10).
Fra’ Cristoforo s’indigna perché, da vero cristiano, considera il dominio di un uomo su un altro come un’offesa a Dio. Questo sdegno gli dà la forza per opporsi senza paura alle minacce di don Rodrigo:
«Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili».
Lo sa perché il suo Dio è, come nell’ode Marzo 1821, quello dell’Esodo che atterra i potenti dal cuore impietrito e solleva gli oppressi:
«Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a queste quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate» (VI, 13-15).
Ben diversa è la religione che avevano insegnato alla povera Gertrude, costretta al chiostro dal padre principe. È un complesso di regole che santificavano l’orgoglio e lo proponevano come un mezzo per ottenere la felicità terrena. «Privata così della sua essenza, [sottolinea Manzoni] non era più la religione, ma una larva come l’altre». Incuteva terrore e insegnava la sottomissione all’autorità paterna e a tutte le altre:
«negl’intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto, e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la sua resistenza all’insinuazioni de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa; e prometteva in cuor suo d’espiarla, chiudendosi volontariamente» (IX, 59-61).
Il Dio che domina la mente di Gertrude piega i deboli al volere dei potenti; il vero Dio cristiano piega i potenti alle invocazioni dei deboli. Davanti alla supplica di Lucia, l’Innominato reagisce con dispetto: «Dio, Dio, […] sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con questa vostra parola?». Quella notte stessa tornano nella mente dell’Innominato parole che aveva ascoltato quand’era ragazzo nell’altra vita, e a quelle si aggiungono quelle udite poc’anzi da Lucia, che ora ricorda non già come un’umile preghiera, ma con «un suono pieno d’autorità». Sente una lontana speranza di redenzione (XXI, 20, 54-55). E il giorno dopo si presenta al cardinale Borromeo perché lo aiuti a cambiare vita. Non lo ha piegato il Dio che incute terrore con la minaccia del castigo; lo ha piuttosto trasformato il Dio che parla il linguaggio della misericordia, del perdono e della speranza.
Manzoni presenta il cardinale Borromeo come figura di religioso meno netta di fra’ Cristoforo, incapace di sollevarsi interamente dai pregiudizi del suo tempo. Il cardinale sa tuttavia dire al confuso ma non pentito don Abbondio che la fede cristiana esige e sa dare il coraggio che viene dalla carità:
«perché, dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? Che non facessero naturalmente nessun conto della vita? Tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano» (XXV, 54-55).
Che la religione cristiana esiga il coraggio per difendere la giustizia contro l’arroganza dei potenti, Manzoni lo afferma anche nelle Osservazioni sulla morale cattolica: «lo spirito del Vangelo» è «tutto franchezza e dignità» e «ne’ contrasti che si devono pur troppo avere con gli uomini per la difesa della giustizia, comanda per lo più una condotta che suppone coraggio». Quando Manzoni diede alle stampe I promessi sposi, la causa della giustizia era la redenzione dell’Italia dal dominio straniero, e la religione che Manzoni additava agli italiani comandava di servire quella causa con il coraggio che viene dalla carità cristiana e dalla fede nell’aiuto di un Dio che sta dalla parte degli oppressi.
Lo spirito religioso del Risorgimento ebbe anche la sua musica e il suo inno. Nelle parole e nelle note di Va’, pensiero c’è tutto il senso della libertà intesa come aspirazione religiosa che viene dal Dio che aiuta gli esseri umani a trasformare il patire in virtù, e dunque a risorgere e a ritornare liberi. Questa era appunto la religiosità che stava rinascendo e che Verdi seppe esprimere come nessun’altro. Lo ha scritto in una pagina di rara bellezza Massimo Mila, che un secolo dopo il Nabucco trovò nella religione della libertà la forza di resistere alla prova del carcere fascista:
«Dotato come pochi di quelle antenne con cui gli artisti presentono l’avvenire, Verdi stava portando sulla scena un italiano nuovo, l’italiano di Masaccio, negli affreschi del Tributo, invece che quello di Botticelli o del Ghirlandaio, l’italiano scomodo di Dante e di Machiavelli, invece che i simpatici scansafatiche del Decamerone, quel tipo d’italiano tutto d’un pezzo, duro come una roccia, raro a vedersi, in verità, ma che c’è, e salta fuori solo quando ce n’è bisogno, nei momenti supremi: Francesco Ferrucci, il Piave, la Resistenza. Uno di quei momenti stava per scoccare sul quadrante della Storia, e Verdi sembrava che lo sapesse. Anzi, lo sapeva, non perché fosse tanto addentro alle segrete cose della politica, ma per oscura intuizione d’artista, quando il pubblico ancora non se ne rendeva conto, lui già sentiva che dopo Va’ pensiero sull’ali dorate, i milanesi d’allora avrebbero apprezzato molto di più la solenne allocuzione d’un profeta, inteso alla maniera del Mosè di Rossini come un pastore di popoli»46.
L’inno risorgimentale della religione della libertà nacque per caso, o per disegno del destino o della Provvidenza, per chi crede nella Provvidenza. Certo non venne fuori né per meditato piano, né per via di teoria, come la religione giacobina. Perché l’occasione data dal destino, o dalla Provvidenza, venisse raccolta ci voleva un uomo che amava leggere la Bibbia, anche se a messa non ci andava. Ce lo rivela lo stesso Verdi in una pagina che va letta con attenzione:
«Mi rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomisi ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va’, pensiero, sull’ali dorate. Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre»47.
La musica di Va’, pensiero nasce nell’animo di un uomo sconfitto che però ha dentro di sé la forza per creare la musica per un popolo che può redimersi con l’aiuto di quel medesimo Dio cheMachiavelli, tre secoli prima, aveva invocato nella solenne chiusa del Principe. Verdi sente subito che dietro le parole di Va’, pensiero c’è la narrazione biblica dell’Esodo: gli schiavi che diventano nazione attraverso un lungo cammino che è al tempo stesso viaggio verso una meta e trasformazione interiore. Nessuno degli schiavi che si misero alle spalle l’Egitto raggiunse la terra promessa. Molti morirono fisicamente; tutti si trasformarono spiritualmente perché dovettero liberarsi dalla mentalità servile per acquisire la coscienza dei doveri che è anima della libertà. Verdi voleva scrivere musica di redenzione, e per questo esige dal librettista che nella storia ci sia netta la profezia:
«Ricordo una scena comica ch’ebbi con Solera […]: nel terzo atto esso aveva fatto un duettino amoroso tra Fenena e Ismaele: a me non piaceva perché raffreddava l’azione e mi sembrava togliesse un po’ alla grandiosità biblica che caratterizzava il dramma: una mattina che Solera era da me gli feci tale osservazione: ma esso non voleva tenerla per buona, non tanto forse perché non la trovasse giusta, quanto perché gli seccava tornare sul già fatto: si discutevano da ambo le parti le ragioni: io teneva duro ed esso pure. Mi domandò che cosa volevo in luogo del duetto, e gli suggerii allora di fare una profezia del Profeta Zaccaria: non trovò cattiva l’idea, e coi ma e coi se, disse che ci avrebbe pensato e l’avrebbe poi scritta. Non era ciò ch’io voleva, perché sapevo che sarebbero passati molti e molti giorni prima che Solera si decidesse a fare un verso. Chiusi a chiave l’uscio, mi misi la chiave in tasca, e tra il serio e il faceto dissi a Solera: “Non sorti di qui se non hai scritto la profezia: eccoti la Bibbia, hai già le parole bell’e fatte”. Solera, di carattere furioso, non si pigliò bene questa mia sortita: un lampo d’ira gli brillò negli occhi: passai un brutto minuto perché il poeta era un pezzo d’uomo che poteva aver presto ragione dell’ostinato maestro, ma d’un tratto si siede al tavolo ed un quarto d’ora dopo la profezia era scritta»48.
Era la profezia di un popolo schiavo che si riscatta con le proprie forze e con l’aiuto di Dio: «Oh chi piange? Di femmine imbelli / Chi solleva lamenti all’Eterno? / Oh sorgete, angosciati fratelli, / sul mio labbro favella il Signor / Del futuro nel buio discerno…/ ecco rotta l’indegna catena!.../ Piomba già sulla perfida arena / del leone di Giuda il furor». La profezia segue la preghiera del popolo, prima dolente e mesta, poi solenne e potente:
«Va’, pensiero, sull’ali dorate; / Va, ti posa sui clivi, sui colli, / Ove olezzano tepide e molli / L’aure dolci del suolo natal! / Del Giordano le rive saluta, / Di Sionne le torri atterrate… / Oh mia patria si bella e perduta! / O membranza sì cara e fatal! / Arpa d’or dei fatidici vati, / Perché muta dal salice pendi? / Le memorie nel petto raccendi, / Ci favella del tempo che fu! / O simile dei Solima ai fati / Traggi un suono di crudo lamento, / O t’ispiri il Signore un concento / Che ne infonda al patire virtù!».
Un Dio che infonda al patire virtù: nelle parole di Solera e nella musica di Verdi, la religione della virtù che Machiavelli aveva immaginato e auspicato trova il suo canto e la sua preghiera, diventa religione nel senso pieno della parola e ha finalmente quella forza di muovere gli animi che il Risorgimento attendeva.
Se poi leggiamo gli scritti dei protagonisti del Risorgimento, grandi e piccoli, possiamo toccare con mano che essi erano tutti, giusta l’idea di Croce, spiriti religiosi. Alle loro parole corrispondevano sentimenti profondi. Le sosteneva un sentimento religioso faticosamente ritrovato che spingeva all’azione, fino al sacrificio di se stessi. Silvio Pellico, per citare l’esempio di rigore, ebbe un’educazione fondata sull’amore della famiglia, l’amore della patria e l’amore dell’umanità. Questi principi, ci ricorda Piero Maroncelli, «divennero religione della sua vita privata e pubblica»49. Pellico scopre la fede in carcere, anche se, scrive, da qualche tempo credeva che se Dio esisteva, dovesse esistere un’altra vita per l’uomo che ha patito in un mondo così ingiusto: di qui «la somma ragionevolezza di aspirare ai beni di quella seconda vita». Di qui «un culto d’amore di Dio e del prossimo, un perpetuo aspirare a nobilitarsi con generosi sacrifizii». Maroncelli interpretò il cristianesimo come un perpetuo aspirare a nobilitarsi e deliberò di dedicarsi all’opera di insegnare, contro l’orgogliosa filosofia che pretendeva di fare le veci della religione, il vero messaggio cristiano: «Ebbene sarà amore di Dio e del prossimo; sarà ciò che appunto il Cristianesimo insegna. […]. Sii dunque conseguente! Sii cristiano! Non ti scandalezzar più degli abusi! Non malignar più su qualche punto difficile della dottrina della Chiesa, giacchè il punto principale è questo, ed è lucidissimo: ama Dio ed il prossimo»50.
In cella Pellico legge la Bibbia. Quella lettura non gli dava la minima disposizione alla ‘bacchettoneria’, cioè a quella «divozione malintesa che rende pusillanime o fanatico», bensì gl’insegnava «ad amar Dio e gli uomini, a bramare sempre di più il regno della giustizia, ad aborrire l’iniquità, perdonando agl’iniqui». Il cristianesimo, invece di contraddire gli insegnamenti della filosofia, li rafforzava con ragioni più alte. Fermamente convinto che Dio è sempre vicino a noi, ch’egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in lui, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore. La fede che ritrova in carcere era fatta di carità e comprensione per le persone che si sono allontanate dalla via di Cristo, come le povere donne che egli sente parlare o litigare dalla sua cella, in particolare quella Maddalena che egli s’immagina più bella e pietosa delle altre, e gli fa tornare alla mente i passi del Vangelo dove Cristo dona il suo perdono alle peccatrici e le accoglie fra le anime che più onora51. «Allorchè potei di nuovo pregare sinceramente per tutti e non più odiare nessuno, scrive, i dubbi sulla fede sgombrarono: Ubi charitas et amor, ibi Deus est». Quando si congeda dal commissario imperiale che lo aveva accompagnato a Milano commenta: «Io amo appassionatamente la mia patria, ma non odio alcun’altra nazione. La civiltà, la ricchezza, la potenza, la gloria, sono diverse nelle diverse nazioni; ma in tutte havvi anime obbedienti alla gran vocazione dell’uomo, di amare, e compiangere, e giovare»52.
Modello di una religiosità che ispira le azioni generose per la patria fu ancheLuigi Settembrini. Nelle Ricordanze descrive il contrasto fra la religiosità bigotta, che dominava la vita dei sudditi del Regno di Napoli ai tempi della sua giovinezza, e la religione della virtù e della libertà che suo padre gli insegnava parlandogli degli esempi classici e cristiani53. Come Leopardi, Settembrini rivendica il valore delle fedi e delle illusioni dei pazzi che operano per grandi ideali: «senza quella fede, quella febbre ardente, e quell’entusiasmo, i savi discuterebbero ancora e non avrebbero fatto nulla»54. Condanna la Chiesa per aver imposto all’Italia «tre secoli di servitù straniera e clericale» e scrive che, proprio perché schiava di tirannide politica e religiosa, l’unità italiana poteva avvenire non come conquista soltanto politica, ma come «un fatto anche religioso»55. E religioso era appunto l’impegno di Settembrini e degli altri giovani che aderirono al movimento patriottico: «Era una sera bellissima, le stelle scintillavano più vive, avevamo ragionato un pezzo su la misera condizione della patria, ed io parlai loro la prima volta apertamente della giovane Italia, come di una novella religione politica della quale noi dovevamo essere apostoli e martiri»56.
Tratto in arresto, Settembrini scrive alla moglie parole che dimostrano che nel suo animo fede cristiana e amore della libertà si sostenessero a vicenda:
«Se io sarò dannato a morte, io posso prometterti sul nostro amore, e sull’amore de’ nostri figliuoli, che il tuo Luigi non ismentirà se stesso; morirò con la certezza che il mio sangue sarà fruttuoso di bene al mio paese, morirò col coraggio sereno de’ martiri, morirò, e le ultime mie parole saranno alla mia patria, alla mia Gigia [la moglie], al mio Raffaele, alla mia Giulia. […]. Dirai ad essi che ricordino quelle parole che io dissi dallo sgabello nel giorno della mia difesa. Dirai ad essi che io benedicendoli e baciandoli mille volte, lascio ad essi tre precetti: e riconoscere ed adorare Iddio: amare il lavoro; amare sopra ogni cosa la patria. […]. La virtù vera non produce che amarezze. I miei nemici non sentono la bellezza e la dignità di questi dolori. Essi nello stato mio tremerebbero: io sono tranquillo perché credo in Dio e nella virtù. Io non tremo: deve tremare chi mi condanna, perché offende Dio. […]. Mia Gigia, io sarò sempre io. Iddio mi vede nell’anima, e sa che io non per forza mia, ma per forza che mi viene da lui, sono tranquillo. Vedi io ti scrivo senza lagrime, con la mano ferma e corrente, con la mente serena, il cuore non mi batte. Mio Dio, ti ringrazio di quello che operi in me: anche in questi momenti io ti sento, ti riconosco, ti adoro, e ti ringrazio. Mio Dio, consola la sconsolatissima moglie mia, e dalle forza a sopportare questo dolore: mio Dio, proteggi i miei figliuoli, sospingili tu verso il bene, tirali a te, essi non hanno padre, son figli tuoi: preservali dai vizi: essi non hanno alcun soccorso dagli uomini; io li raccomando a te, io prego per loro. Io ti raccomando, o mio Dio, questa patria, dà senno a quelli che la reggono, fa che il mio sangue plachi tutte le ire e gli odii di parte, che sia l’ultimo sangue che sia sparso su questa terra desolata»57.
L’amore per la libertà pervade anche le testimonianze dei martiri di Belfiore, i patrioti messi a morte dal governo austriaco a Mantova fra il 1851 e il 1855. Tre di essi, Enrico Tazzoli, Giovanni Grioli e Bartolomeo Grazioli erano sacerdoti cattolici; gli altri erano di fervida fede cristiana. Le narrazioni e i documenti relativi ai loro ultimi giorni di vita li dobbiamo a monsignor Luigi Martini che li aiutò con la forza della fede, e con grande carità umana, ad affrontare il patibolo. Il suo racconto esalta la fede religiosa dei condannati e sottolinea anche che l’amore della patria di quei martiri era del tutto conforme al messaggio cristiano.
Don Tazzoli, l’organizzatore della congiura antiaustriaca, insiste molto sulla carità e ribadisce più volte, nei dialoghi con monsignor Martini, che il prete cattolico non deve congiurare mai, ma essere pronto a sacrificarsi per la patria e a edificarla con la virtù. Benché egli abbia il dovere di non immischiarsi nelle cose politiche, può, anzi, deve, «amare la sua patria, i suoi fratelli e procurare il pubblico bene ed il privato», perché il prete, col dedicarsi al servizio di Dio e della Chiesa, non cessa «di essere cittadino e uomo sociale»58.
Il laico Bernardo Canal ha una religiosità simile. Nato a Venezia il 4 agosto 1824, Canal soffrì da bambino di una grave malattia che lo privò dell’occhio destro, studiò diritto a Padova e divenne apprezzato giornalista. Visse, come scrisse sulla parete della cella, «anni 28, mesi 3, giorni 28». Prima di andare al patibolo incise sulle pareti della cella le ultime quattro strofe del Cinque maggio di Manzoni. In più luoghi modifica il testo, forse perché cita a memoria, ma la conclusione è un esplicito adattamento dell’invocazione manzoniana a se stesso: «Tu dalle stanche ceneri / Sperdi ogni ria parola, / Quel Dio che atterra e suscita, / Che affanna e che consola, / Sulla deserta coltrice / Accanto a me posò». Bernardo non ripudia l’amore della libertà per ricongiungersi a Dio, anzi, invoca il Dio cristiano raffigurato da Manzoni, affinché gli sia vicino quando dà la vita per la patria. A commento dei versi che Bernardo trascrive e adatta, monsignor Martini commenta:
«E poi si continuerà a dire che la religione cattolica avvilisce e annienta l’uomo, che uccide il patriota, che fa disconoscere la patria e la nazione? Si renda una volta a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio»59.
Per altri patrioti la religione è soprattutto fede nell’ideale morale. È il caso di Carlo Poma, che nacque a Mantova il 7 dicembre 1823, da Leopoldo Poma, consigliere del tribunale e dotto giurista, e da Anna Filippini, donna di fervidi sentimenti patriottici. Diventò dottore in chirurgia e in medicina, si distinse come cultore di lettere classiche e poliglotta. Morì a Belfiore il 7 dicembre 1852. Poma intende l’emancipazione nazionale come risultato della forza dell’ideale morale. L’idea, dice al suo confortatore, «non indietreggia». Anche se «la prepotenza dei cannoni l’arrestasse in un paese, per esempio nella nostra città, che è fortezza di prim’ordine, non farebbe sosta nelle altre città Lombardo-Venete e passerebbe tanto avanti che non potrebbe più essere infrenata e porterebbe seco anche il governo: per somiglianza del fiume che, ingrossato col sopraggiungere di molte acque discese dai monti, esce fuori dall’alveo, supera gli argini, straripa e trascina seco gli argini stessi, le case, le piante, gli armenti e quanto trova che si oppone al suo corso o che non lo seconda». Con la parola, e con l’esempio di fraterna carità, gli italiani conquisteranno la libertà. La forza morale e la forza dell’educazione avranno ragione della forza dei cannoni60.
Bartolomeo Grazioli, sacerdote, capì con particolare lucidità che il riscatto dell’Italia non sarebbe mai avvenuto contro la religione, ma grazie alla religione. Se l’Italia caccerà da sé la religione del Cristo e quindi la buona fede, la giustizia e la lealtà dei padri nostri, sosteneva, non potrà cingere la corona della gloria e dell’onore, né potrà essere grande ed ammirata, come lo vorrebbe il suo genio e la sua posizione61. Il suo cristianesimo era arricchito da temi classici, tanto che per lui Socrate e Cristo si confondevano in un unico ideale, ma meglio ancora si potrebbe dire che il suo era un cristianesimo socratico.
Tito Speri, il nome forse più spesso ricordato fra i martiri di Belfiore, aveva anch’egli un profondo spirito cristiano, ci racconta monsignor Martini. Speri traeva grande conforto dalla lettura del Vangelo e diceva che egli si adoperava per portare nel suo cuore Dio e gli uomini, la religione e la patria. Non credeva nel materialismo e nel sensismo che avevano conquistato la mente di molti giovani del suo tempo e riteneva che solo lo spirito religioso potesse dare la forza necessaria al risorgimento della nazione. All’Italia servivano grandi idee, grandi concetti omogenei al genio italiano e in accordo con la tradizione storica, e questi concetti si potevano trovare nella fede cattolica. Grazie a questa fede, rivela Speri al suo confortatore, «io ho quella sublimità di pensiero e di sentimento, che mi rende poi capace di grandi imprese e di azioni magnanime. Perocchè la religione di Cristo non è un dettato umano, ma è idea, ma è rivelazione divina, ma è verità». Speri pensava che: «essere schernitori della religione dei buoni costumi ed amare degnamente la patria è cosa incompatibile quanto sia incompatibile l’essere degno estimatore d’una donna amata e non reputare che vi sia l’obbligo d’esserle fedele»62.
Pietro Domenico Frattini, decima vittima della repressione austriaca, era un ‘pretofobo’ che mise però da parte l’amore della patria per raccogliersi nell’amore di Cristo, come scrive monsignor Martini:
«Pietro dopo di avere parlato delle cose del ‘48, corse tosto col pensiero alla sua famiglia. “Tutta la mia famiglia”, diceva, “è cattolica sulle orme degli antichi padri nostri. In casa nostra la religione è semplice, schietta e regolata dall’amore a Dio e dall’amore al prossimo. La mamma ci ripeteva spesso, che la fede nostra dobbiamo mostrare colle opere buone e sante, meglio che colle vane esclamazioni o colla lungaggine di molte orazioni dette senza raccoglimento e senza cuore. Io quindi nato, educato e cresciuto cattolico voglio anche morire cattolico».
L’amore vero della patria e della libertà non nasce da opinioni, ma da un’idea «innata o incarnata nell’uomo, la quale progredisce col volgere degli anni e si sviluppa, senza fermarsi mai, malgrado gli sforzi dei potenti per tenerla chiusa nel suo embrione, o per farla morire appena sbuccia fuori e dà un segnale di vita». Queste parole ci fanno capire la forza morale della religione della libertà e ci fanno intendere quanta strada i nostri patrioti avevano percorso per allontanarsi dalla vecchia idea rousseauiana che la liberà esige il ripudio della religione cristiana63.
L’aspetto più sorprendente del nostro Risorgimento è tuttavia il fatto che tutte le grandi figure furono uomini religiosi, in un senso o nell’altro, di una religiosità che comandava di amare la patria. Vincenzo Gioberti, l’alfiere del progetto di unificazione italiana sotto l’egida del papa, combatteva la religione dell’ozio in nome della religione della virtù. L’ozio, che Gioberti imputava soprattutto aiGesuiti, contraddice il volere di Dio che «creò l’uomo a fare prima di godere» e «spianta la morale dalle radici». La virtù, invece, è conforme al volere di Dio, glorifica e divinizza l’uomo, lo rende, nei limiti della sua natura finita, simile Dio, e lo avvia lungo la via che porta alla vita eterna64.
Cause della maligna disposizione degli italiani all’ozio e alla «codarda ignavia» erano i «tristi governanti» e la religione fraintesa come «quietismo ascetico» che tradisce i «principi evangelici»:
«non è meraviglia, se il Cristianesimo, svisato e conceputo in modo che l’inerzia ne fa l’essenza, sia favorevole all’ozio; e se la pazienza, virtù sublime quando è congiunta all’attività evangelica, alla fede ravvivata dalle opere, all’amore ardente del prossimo, al culto di tutto che può felicitarlo e renderlo migliore, riesca viziosa, allorché si sequestra dal suo nativo corteggio. Perciò il Machiavelli, biasimando il corrotto ascetismo, che vuole che tu sia atto a patire più che a fare una cosa forte, aggiunge che tal disordine non proviene dal Cristianesimo, ma dalla viltà degli uomini, che hanno interpretata la nostra religione, secondo l’ozio e non secondo la virtù [c.vo nel testo]»65.
La religione di Cristo esaltava invece gli atti «benevoli e magnanimi di virtù sociale», e di «umanità civile», e comandava di operare per far trionfare la libertà e la giustizia nella città dell’uomo:
«[Cristo] passò beneficando ed effettuando in modo repentino, straordinario, degno della potenza creatrice, quei prodigi medesimi di beneficenza, che per via naturale e graduata si operano dall’incivilimento nella successione dei secoli. Il quale, migliorando gli ordini legali, giudiziali, governativi, abolendo il dominio dell’uomo sull’uomo e le signorie violente, capricciose, dispotiche, rendendo più rare e più mansuete le guerre, unificando e affratellando le nazioni, promovendo e accrescendo il sapere [...] glorifica e fa salire in cielo i sinceri e diritti cooperatori del comun bene sopra la terra».
Il più influente apostolo della religione della patria, Giuseppe Mazzini, insegnò addirittura una teoria dell’emancipazione politica fondata sul principio che i popoli rinascono soltanto grazie alla virtù e alla «religione del vero», non per mezzo di artifici machiavellici o reticenze gesuitiche66. I veri maestri da seguire erano Socrate e Gesù, più che il disilluso Segretario fiorentino:
«No; non si rivive col gesuitismo, non si rigenera una gente colla menzogna. Il gesuitismo è stromento delle religioni che muoiono; la menzogna è l’arte dei popoli condannati a servire. Socrate e Gesù morirono, per mano di carnefice, della morte del corpo, ma l’anima loro vive immortale, trasfusa di secolo in secolo nella vita migliore delle generazioni. Ogni progresso morale e filosofico compìto da due mila anni, ricorda il nome del primo, e un’epoca intera di civiltà emancipatrice trasse per quattordici secoli gli auspici dal santo nome di Gesù».
Mazzini elaborò una compiuta teoria della religione quale mezzo necessario per l’emancipazione di un popolo dalla servitù politica e dalla corruzione morale. La religione era fede che dava la forza di tradurre in fatti l’ideale morale, e come tale è rigeneratrice di popoli. Religione vuol dire non un sistema di dogmi o di verità scritte in questo o quel libro sacro, bensì il principio che spinge gli uomini a trovare nuove forme politiche e sociali, il concetto che innalza l’individuo, lo purifica dall’egoismo e lo rende capace di agire nella storia per realizzare un’idea morale. Per questo essa è la sorgente dell’impulso a raggiungere l’armonia fra pensiero e azione67.
Mazzini è profondamente convinto che senza sentimento religioso non ci sia mai stata né mai ci sarà redenzione o emancipazione:
«L’uomo è più in alto della terra che lo sostiene. Ei vive sulla sua superficie e non nel suo centro. I suoi piedi toccano il suolo, ma la sua fronte si volge al cielo come s’ei volesse avviarvisi. Lassù, nell’alto, splendida in un cielo sereno o nascosta fra nuvoli di tempesta, sta la sua stella polare. Dal profondo dell’anima egli aspira ad un avvenire ch’ei non può nella forma presente sperar di raggiungere, ma ch’é l’oggetto d’ogni attività della vita, il segreto dell’essere, la mallevadoria del progresso; e ogni grande epoca dell’umanità rende quell’aspirazione più intensa, e spande una nuova luce sul concetto ch’ei forma di quell’avvenire. A quella luce novellamente diffusa corrisponde un rinnovamento sociale – una nuova terra a somiglianza del nuovo cielo. Io non conosco, parlando storicamente, una sola conquista dello spirito umano, un solo passo importante mosso sulla via di perfezionamento della società umana, che non abbia radici in una forte credenza religiosa; e dico che ogni dottrina nella quale rimanga negletta l’aspirazione all’ideale, nella quale non sia contenuta, quale i tempi la consentono, una soluzione a questa suprema necessità d’una fede, a questo eterno problema dell’origine e dei fati dell’umanità, è e sarà sempre impotente a ridurre in atto il concetto d’un nuovo mondo. Potrà riescire a foggiare magnifiche forme; ma mancherà ad esso la scintilla di vita che Prometeo conquistava alla sua statua dal cielo»68.
Per l’emancipazione dei popoli la religione ha un valore molto più grande della filosofia69. Ne è prova laRivoluzione francese, che Mazzini interpreta come vittoria dell’ideale vissuto, come fede sui fatti e sulle morte istituzioni, e dunque manifestazione del più genuino spirito religioso. La Rivoluzione francese, scrive, fu «l’opera di Lutero nella sfera politica», e in questo suo aspetto risiedono la sua gloria e la sua potenza70. Quella che addita agli italiani è una religione del vero e del dovere:
«Il vero! L’Italia nascente non chiede se non quello, non può vivere senza quello. L’Italia nascente cerca in oggi il proprio fine, la norma della propria vita nell’avvenire, un criterio morale, un metodo di scelta fra il bene e il male, tra la verità e l’errore, senza il quale non può esistere per essa responsabilità, quindi non libertà. Secoli di schiavitù, secoli di egoismo, unica base all’esistenza dello schiavo; secoli di corruzione, lentamente e dottamente instillata da un cattolicesimo senza coscienza di missione, hanno guasto, pervertito, cancellato quasi l’istinto delle grandi e sante cose, che Dio pose in essa […]. L’Italia nascente ha bisogno di fortificarsi acquistando conoscenza dei propri doveri, della propria forza, della virtù scossa dal sagrificio, della certezza di trionfo che è nella logica: e voi le date una teorica d’interessi, d’opportunità, di finzioni; un machiavellismo male inteso e rifatto da allievi ai quali Machiavelli, redivivo, direbbe: io aveva innanzi la sepoltura; voi, stolti, la culla d’un popolo. L’Italia nascente ha bisogno d’uomini che incarnino in sé quel vero nel quale essa deve immedesimarsi; che lo predichino ad alta voce, lo rappresentino negli atti, lo confessino, checché avvenga, fino alla tomba […]».
Senza uomini siffatti, conclude Mazzini, l’Italia cadrà «sotto il giogo del primo padrone straniero e domestico, che vorrà inforcarla di tirannide, una Italia fiacca, irresoluta, sfiduciata di se stessa e d’altrui, senza stimolo di onore e di gloria, senza religione di verità e senza coraggio per tradurla in opera»71.
Benché fosse insofferente verso il linguaggio profetico di Mazzini, lo stesso Cavour viveva con molta sensibilità il problema religioso e considerava la religione cristiana un sostegno per la costruzione di solide istituzioni liberali, se solo si fosse emancipata dalla superstizione e dalla profonda corruzione che la rendeva non un’alleata della libertà, ma un puntello dei regimi reazionari. Documento eloquente del pensiero di Cavour è la lettera che scrive l’8 agosto 1829 allo zio, il conte Gian Giacomo de Sellon, calvinista, pubblicista e fervido sostenitore di iniziative di progresso civile e umanitarie. Sua moglie Cecilia de Budé, anch’essa calvinista e catechista, si sforzò a lungo, senza successo, di convertire Cavour alla religione72.
«Dopo il mio ultimo viaggio a Ginevra, annota Cavour, si è prodotto in me un grande mutamento; ho abbandonato più volte la casa paterna, ho percorso in tutti i sensi il Piemonte, ho letto i libri che mi erano stati dipinti come empi e non potei non accorgermi del fragile fondamento delle nostre credenze religiose. Un soggiorno di sei mesi nella riviera di Genova mi fece conoscere fino a qual segno di corruzione una popolazione può essere trascinata dall’ignoranza, dalla superstizione».
Nella medesima lettera Cavour rivela le letture che lo avevano allontanato dalle convinzioni religiose che aveva assorbito nella fanciullezza e nella prima adolescenza:
«Dopo aver lettoGuizot e Benjamin Constant, mi è impossibile non aprire gli occhi. Mi è altrettanto difficile credere all’infallibilità del papa quanto il credere che due e due fanno tre. Dobbiamo tuttavia conservare le apparenze; ma è penosissimo il fingere quando si è persuasi che si ha ragione»73.
Quella che Cavour visse fu una crisi razionalistica, che lo portò lontano dalle pratiche del culto e dal costume religioso dominante in Italia e in particolare nel suo Piemonte, «formicolante di monaci di ostentata religiosità», ma non sradicò il suo sentimento religioso e la sua consapevolezza che esso è sostegno della libertà74.
Ne è prova il fatto che qualche anno dopo, ancora in una lettera alla zia Cecilia de Budé, Cavour ribadiva che la fede religiosa non riposa su argomenti razionali, ma è un sentimento proprio dell’uomo e trova nel cristianesimo la forma più adeguata al mondo moderno. Cavour è profondamente convinto che la verità religiosa sia «di un ordine del tutto diverso dalle verità comuni alle quali può pervenire lo spirito umano». Di conseguenza, è irrazionale volerla provare con gli stessi metodi che impiegano le scienze fisiche o morali. La ragione infatti non ci permette di arrivare a solide convinzioni religiose. La vera guida è il sentimento religioso che esiste in tutti gli uomini, pur se in grado diverso, e li spinge a cercare il legame con la forza sconosciuta che «regge l’universo e agisce sui nostri cuori». Considerava l’azione e lo sviluppo del sentimento religioso «come un dovere imperioso della nostra natura», e riteneva che nel suo tempo quel sentimento potesse operare in modo giusto, «tanto negli animi più elevati quanto negli umili», soltanto entro gli orizzonti del cristianesimo75.
Oltre alle idee diConstant, Cavour apprezzava anche le osservazioni di Guizot sull’importanza della religione in quanto associazione di fedeli, ma non aveva dubbi che la religione avesse tutto da guadagnare a non restringersi in un sistema di dogmi e a rimanere lontana dal potere politico. Se si lega a un’autorità terrena, il sentimento religioso finisce per diventare una semplice pratica esteriore, un’abitudine quasi meccanica «che convive con tutti i vizi e a volte con tutti i crimini». La libertà aiuta invece il sentimento religioso a rinnovarsi tramite il confronto delle idee e la discussione aperta. Quando la libertà religiosa sarà pienamente garantita, essa circonderà la religione di un forza invincibile e aiuterà il suo continuo perfezionamento76.
I progressi dello spirito religioso sono per Cavour un risultato dei Lumi. Per questo auspicava uno sviluppo del cristianesimo guidato dalla ragione che unisse la religione, la morale, la felicità e la filosofia. Per questo si riconosceva pienamente nelle parole che Lamartine pronunciò all’Académie française:
«se il mio sguardo si rivolge alla generazione che avanza, io le direi […] felici coloro che vengono dopo di noi! Tutto enuncia per loro un grande secolo, una delle epoche caratteristiche dell’umanità […]. Una giovinezza pura e studiosa avanza con gravità nella vita […]. La filosofia, arrossendo per aver brigué la morte e rivendicato il nulla, ritrova i suoi titoli nello spiritualismo, e ritorna divina riconoscendo il suo Dio. La storia si estende e si chiarisce, ella scrive l’uomo tutto intero […]. La poesia rinasce figlia dell’entusiasmo e dell’ispirazione […]. Un soffio religioso investe il pensiero umano, ma questa religione intima e sincera si appoggia soltanto sulla coscienza e sulla fede. La politica non è più l’arte vergognosa di corrompere o d’ingannare per asservire […]. La morale, la ragione e la libertà escono infine dal vago delle teorie»77.
Anche se non visse la religione come fede nella rivelazione, Cavour la sentì tuttavia come una profonda forza morale che opera, se non è deformata dal dogma e dalla superstizione, per la libertà. Il 9 gennaio 1834 scriveva nel suo diario: «Noi che non abbiamo fede religiosa, bisogna che la tenerezza della nostra anima si esaurisca per il bene dell’umanità». Tutta la sua opera per la conquista dell’unità nazionale e per la creazione di uno Stato laico è sostenuta ed ispirata da una religione vissuta come insegnamento morale. Nonostante la sua schietta avversione per le fantasie di risurrezione religiosa e le attese di nuove età, Cavour guardava a Roma capitale non soltanto come il completamento del grande disegno politico dell’unità nazionale, ma anche come una missione di significato universale che l’Italia aveva il dovere di realizzare davanti al mondo e per il mondo. Arriva persino ad auspicare in pubblico una «nuova pace di religione, un trattato che recherà alle sorti avvenire dell’umana società effetti ben più grandi che non ebbe la pace di Vestfalia!»78.
Per quanto possa sembrare inverosimile, lo spirito più religioso del Risorgimento fu forse Garibaldi, l’acerrimo nemico del papato e del clero. Cresciuto in una Nizza che oscillava tra rigorismo giansenista e religiosità papalina e controriformistica, accolse il contenuto morale del cristianesimo rifiutandone però completamente dogmi, riti e politica della Chiesa cattolica. Quando andò per la prima volta a Roma, nel 1825, scrisse: «capitale del mondo, […] culla di quella santa religione di cui i primi apostoli furono i maestri delle nazioni, gli emancipatori dei popoli, ma i cui successori degeneri, imbastarditi, mercanti, veri flagelli dell’Italia hanno venduto allo straniero». Distingueva benissimo fra preti e preti, tant’è vero che di don Giovanni Verità, parroco di Modigliana, che lo aiutò a salvarsi in Toscana dopo la caduta dalla Repubblica Romana e il fallito tentativo di raggiungere Venezia, scrisse che era un «vero sacerdote di Cristo e qui per Cristo intendo l’uomo virtuoso e legislatore, non quel Cristo fatto Dio dai preti, e che se ne servono per coprire la fallacia della loro esistenza».
L’idea del Cristo uomo, legislatore ed emancipatore dei popoli, Garibaldi l’aveva tratta dal Nouveau christianisme di Saint-Simon, che conobbe dal 1831 e tenne con sé fino agli ultimi giorni di vita a Caprera. Saint-Simon interpreta il cristianesimo in chiave sociale, proclama che Cristo non è tanto figlio di Dio, quanto il capo carismatico della liberazione dei popoli, e afferma che il regno dei cieli è il risultato, su questa terra, della lotta contro ogni forma di tirannide. Accanto al Cristo-uomo, Garibaldi colloca il Dio della verità e della ragione. Al congresso della pace di Ginevra, il 9 settembre 1867, presenta addirittura una risoluzione per l’adozione della «religione di Dio», spiegando che «per religione di Dio» intende «la religione della verità e della ragione». Al tempo stesso insiste sulla necessità di abbattere la tirannide religiosa. Acclamato da tutti i congressisti, deve però affrontare l’ostilità dei cattolici ginevrini che organizzano una manifestazione di protesta davanti al suo albergo. A commento del congresso batte ancora sul tasto della nuova religione che aprirà un nuovo capitolo nella storia della libertà: a Ginevra «si strinsero la destra i rappresentanti della parte onesta dei popoli e gettarono le fondamenta del culto della giustizia e del vero, che finalmente deve prevalere sulla terra, quando le nazioni capiranno che il loro denaro deve essere investito in opere utili, non a comprare corazze, bombe, mercenari e spie»79.
Nel suo insieme, il nostro Risorgimento fu dunque un’esperienza di emancipazione politica resa possibile da un duplice processo: il distacco dalla religione repubblicana portata dai giacobini e la riscoperta, nel grande alveo del cristianesimo, di una concezione religiosa che additava la libertà morale e politica quale supremo dovere e si poneva per questo in aperto contrasto con la dottrina e la pratica della Chiesa, anche se non furono né pochi né di poca importanza i cattolici che si fecero testimoni e apostoli della nuova fede. Diversa per i fini che perseguiva, la nuova religione della libertà si collegava alla religione civile della vecchie repubbliche: Gioberti cita le grandi pagine di Machiavelli sulla religione; i martiri di Belfiore avvicinano Socrate a Cristo, Mazzini adotta come nome di battaglia nella clandestinità ‘Filippo’, in onore a Filippo Strozzi, uno degli ultimi avversari del principato mediceo. Sicché il nome ‘Risorgimento’ non solo è appropriato perché fu in primo luogo, con tutti i limiti che conosciamo, rinascita religiosa, ma perché si collega al Rinascimento che fu rinascita intellettuale. Con la differenza, ed è differenza importante, che a Rinascimento concluso gli italiani si trovarono sotto il duplice dominio degli stranieri e della Chiesa della Controriforma, mentre a Risorgimento finito erano uniti e indipendenti, e con la Chiesa priva del potere temporale che aveva avuto per secoli.
1 Benedetto Croce, nella sua commossa premessa all’edizione del 1946, pochi mesi dopo la morte dell’amico, invita a leggere L’età del Risorgimento italiano come un’opera ispirata dalla religione della libertà: «la vocazione sua principale era per il concreto dramma della storia, per il quale possedeva in grado eminente le qualità necessarie: la ricerca e il lavoro condotti sempre di prima mano e la capacità di rivivere le fonti con spirito sensibile e ricostruttivo; l’elevazione sulle tendenze particolari, e perciò unilaterali di persone e di partiti, per indagare la tendenza che è delle cose stesse, cioè determinare e intendere l’avvenimento che sorge dal comune lavoro e dai contrasti delle diverse tendenze; la chiara luce di una fede religiosa, la religione della liberà; l’affetto, che dava al suo stile calore, e la serietà mentale che gli dava robustezza. Possedeva nei suoi lunghi e solidi studii di storia religiosa e principalmente cristiana, il mezzo per entrare nello spirito di taluni fatti e di taluni personaggi storici che altrimenti rimarrebbero poco chiari»; A. Omodeo, L’età del Risorgimento italiano, Napoli 1946, p. XII. Nell’introduzione alla ristampa dell’opera curata dall’Istituto italiano per gli studi filosofici, Pugliese Caratelli definisce Croce e Omodeo «due devoti cultori della ‘religione della libertà’».
2 A. Omodeo, Risorgimento senza eroi, in Difesa del Risorgimento, Torino 1951, pp. 439-446.
3 Ibidem, pp. 440-441.
4 Ibidem, pp. 445-446.
5 Ibidem, pp. 444-445.
6 Cresciuto negli ambienti repubblicani di Ginevra in cui era forte l’eredità intellettuale di Machiavelli, Rousseau ammira sinceramente il pensiero politico del Segretario fiorentino. In una nota aggiunta all’edizione del 1782 del Contrat social, scrive infatti: «Machiavel étoit un honnête homme et un bon citoyen: mais attaché à la maison de Medicis il étoit forcé dans l’oppression de sa patrie de déguiser son amour pour la liberté. Le choix seul de son éxécrable Heros manifeste asses son intention secrette et l’opposition des maximes de son Livre du Prince à celles de ses discours sur Tite-Live et de son histoire de Florence demontre que ce profond politique n’a eu jusqu’ici que des Lecteurs superficiels ou corrompus. La Cour de Rome a sévèrement défendu son livre, je le crois bien; c’est elle qu’il dépeint le plus clairement»; J.-J. Rousseau, Du Contrat social, in Œuvres complètes, III, éd. par B. Gagnebin, M. Raymond, Paris 1964, p. 1480.
7 Ibidem, pp. 465-466.
8 G. Filangieri, Scienza della legislazione, Libro I, cit. in V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Bari-Roma, 2003, p. 154.
9 Ibidem, p. 153.
10 G. Filangieri, Scienza della legislazione, libro III, 369, cit. in V. Ferrone, La società giusta ed equa, cit., p. 153; cfr. L. Salvatorelli, Il problema religioso nel Risorgimento, Atti del XXXIII Congresso di storia del risorgimento italiano (Messina 1954), Roma 1958, p. 9.
11 G.L.B. Chiaramonti, Omelia del cittadino cardinal Chiaramonti vescovo d’Imola diretta al popolo della sua diocesi nella Repubblica cisalpina nel giorno del santissimo Natale l’anno MDCCXCVII, Imola, nella stamperia della Nazione, l’anno VI della libertà, 1797, in V.E. Giuntella, La Religione amica della Democrazia. I cattolici democratici del Triennio rivoluzionario, Roma 1990, pp. 274-275.
12 Ibidem, pp. 217-219.
13 Ibidem, p. 287.
14 Ibidem, p. 289.
15 V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di F. Nicolini, Bari 1913, p. 129.
16 B.-H Constant, De la religion considérée dans sa source, ses formes et ses développements, éd. par P. Deguise, I, Lausanne 1971, p. 107.
17 Ibidem, pp. 85-87; («Alcuni popoli religiosi hanno potuto essere schiavi; nessun popolo irreligioso si è conservato libero»).
18 Ibidem, pp. 17-19.
19 Ibidem, pp. 176-177.
20 Préface, pp. 24-26.
21 Ibidem, p. 182.
22 C.-H. de Saint-Simon, Nouveau christianisme, Paris 1832, pp. 10-11.
23 Ibidem, p. 34.
24 Ibidem, pp. 99-100.
25 Ibidem, pp. 341-344.
26 F.-P-G. Guizot, Cours d’histoire moderne, Paris 1829, tomo I, passim.
27 J.-Ch.-L. Simonde de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du moyen âge, Paris 1826, pp. 422-423, cap. 127. Contro questa tesi di Sismondi Alessandro Manzoni obbiettò che la morale cattolica non è affatto causa della corruzione morale dell’Italia, ammesso che l’Italia sia davvero più corrotta di altri paesi; cfr. A. Manzoni, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di F. Mollia, Milano 1985, p. 3.
28 A.-Ch.-H. Clérel de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, éd. par E. Nolla, 2 voll., Paris 1990: I, p. 205 cito dalla trad. it. La democrazia in america, a cura di G. Candeloro, Milano 1992, p. 347.
29 Ibidem, p. 64.
30 «La plus grande partie de l’Amérique anglaise a été peuplée par des hommes qui, après s’être soustraits à l’autorité du pape, ne s’étaient soumis à aucune suprématie religieuse; ils apportaient donc dans le Nouveau-Monde un christianisme que je ne saurais mieux peindre qu’en l’appellant démocratique et républicain», Ibidem, II, 1990, p. 199.
31 Ibidem, pp. 346-347.
32 Ibidem, I, pp. 230-231.
33 Ibidem, I, pp. 225-226.
34 Ibidem, II, p. 34.
35 Ibidem, II, pp. 128-129.
36 Ibidem, I, pp. 227.
37 Ibidem, I, pp. 228-229.
38 Ibidem, II, p. 34.
39 R. Lambruschini, Dell’autorità e della libertà. Pensieri di un solitario, a cura di A. Gambaro, Firenze 1948, p. 313.
40 Ibidem, p. 325.
41 Ibidem, p. 326.
42 Ibidem.
43 Ibidem, p. 332.
44 Ibidem, p. 343, n.1.
45 In un pensiero del 1867 ribadiva che la libertà politica ha bisogno della religione: «Quanta più libertà si chiede per i popoli tanto più si deve procurare che siano religiosi. Non si possono allentare i freni esteriori, se non quando un freno interiore governi le passioni. La libertà vera è la remozione degl’impedimenti a seguire i dettami retti della coscenza. La moralità è inseparabile dalla libertà. Disgiungetele, e voi avete da un lato osservanza materiale dei doveri per obedienza passiva di schiavo; dall’altro, la licenza», Ibidem, pp. 349-350.
46 Ibidem, p. 164.
47 M. Mila, Verdi, a cura di P. Gelli, Milano 2000, pp. 194-195.
48 Ibidem, p. 191.
49 Ibidem, p. 194.
50 Opere scelte di Silvio Pellico, in Collezione de’ migliori autori italiani anctichi e moderni, II, Parigi 1837, p. XX.
51 Ibidem, p. 9.
52 Ibidem, pp. 13-14, 23-24.
53 Ibidem, pp. 121, 184.
54 L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, I, a cura di A. Omodeo, Bari 1934, pp. 15-16.
55 Ibidem, p. 62.
56 Ibidem, p. 64.
57 Ibidem, p. 84.
58 Ibidem, pp. 231-233.
59 L. Martini, Il Confortatorio di Mantova negli anni 1851, 52, 53 e 55, 2 voll., Mantova 1952: I, p. 239.
60 Ibidem, I, pp. 277-278.
61 Ibidem, I, p. 285.
62 Ibidem, II, p. 73.
63 Ibidem, II, pp. 95, 111-113.
64 Ibidem, II, pp. 165, 185.
65 V. Gioberti, Prolegomeni del primato morale e civile degli italiani, a cura di E. Castelli, Milano 1938, p. 225.
66 Ibidem, p. 227.
67 G. Mazzini, Ai giovani. Ricordi, in Scritti politici, a cura di T. Grandi, A. Comba, Torino 1972, p. 587; cfr. R. Sarti, Mazzini: a Life for the Religion of Politics, Westport 1997 (trad. it. Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Roma-Bari 2005).
68 Cfr. C. Cantimori, Saggio sull’idealismo di Giuseppe Mazzini, Faenza 1904.
69 G. Mazzini, I Sistemi e la Democrazia, in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, VII, Milano 1864, pp. 326-327. Nella lettera a Francesco Bertioli del gennaio 1833, Mazzini scrive: «io non sono cristiano, nel senso di credere alla divinità di Cristo, e altre simili scene: che non ammetto altra rivelazione che quella del Genio; che credo la religione sia un risultato, ed un’espressione della Società, come la letteratura, il diritto, la politica, etc.: [...] che la religione [è] sottomessa al Progresso come tutte le cose – che in questo senso, io credo il Cristianesimo la prima religione espressione della civiltà nostra, del mondo moderno in opposizione all’antico – che il Cristianesimo ha formulato per me il Dogma dell’Eguaglianza – e in questo senso sono Cristiano, – che peraltro credo il Cristianesimo non abbia predicata che l’Eguaglianza in faccia a Dio, e il perfezionamento individuale – che noi ci affacciamo all’epoca in cui dobbiamo predicare l’Eguaglianza in faccia agli uomini, e il perfezionamento sociale – che in questo senso non sono Cristiano; ma che tutto camminando progressivamente, noi, società sotto l’impero ancora del Cattolicesimo, non possiamo saltar d’un balzo al di là del Cristianesimo, e predicare il Deismo puro, ch’è la mia religione», in Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, V, Imola 1909, p. 216.
70 G. Mazzini, Dal papa al concilio, in Scritti editi e inediti, cit., pp. 234-235.
71 G. Mazzini, Condizione e avvenire dell’Europa, in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, VIII, Roma 1891, p. 186; come Mazzini, altri durante il Risorgimento si adoperarono per la riforma morale e religiosa. Fra questi gli esuli che presero la via di Malta e di Londra. Dal 1847 al 1860, per opera di Salvatore Ferretti uscì a Londra «L’eco di Savonarola», con l’esplicito proposito di caldeggiare in Italia una riforma religiosa che doveva trarre ispirazione non da Lutero, «da cui infinite disgrazie sono nate sempre all’Italia», ma dall’insegnamento del frate ferrarese. Un programma simile ispirò anche «Il cattolico cristiano» che uscì a Malta dal 1848 al 1850. Come scriveva il fondatore del periodico, l’ex-teologo Luigi De Sanctis, la riforma religiosa era necessaria all’Italia per ritrovare la sua libertà e far nascere un nuovo costume morale: «È necessaria all’Italia una riforma religiosa […]. Apparisca la luce evangelica, e l’Italia sarà una, sarà libera, sarà felice; non vi può essere unità, non vi può essere libertà, non felicità, se non è solidamente stabilito il principio di fratellanza e di amore, e questo principio non può solidamente stabilirsi che col Vangelo […]. Distruggiamo le papali istituzioni, che istituzioni sono di tirannide; e come i papi per tiranneggiare hanno soppresso il Vangelo, e sulle ruine di quello han basato il loro codice di oppressione, noi rovesciamo questo codice, e rialziamo sulle sue rovine il Vangelo! È questa l’unica via di liberare per sempre l’Italia»; cfr. A. Armand Hugon, Correnti evangeliche tra gli italiani in esilio 1840-1860, Atti del XXXIII Congresso di storia del Risorgimento italiano (Messina 1954), Roma 1958, pp. 29-36.
72 G. Mazzini, A Francesco Crispi (1864), in Scritti politici, cit., pp. 969-970.
73 Su questa lettera ha insistito molto Francesco Ruffini, professore all’Università di Torino, senatore del Regno, nel suo libro, Ultimi studi sul conte di Cavour, che vide la luce postumo per cura di Adolfo Omodeo (Bari 1936) e che reca nelle prime pagine una bella foto che ritrae l’autore in tutta la sua gravità e serenità. Ruffini morì il 29 marzo 1934 «in un letto del Mauriziano, con intorno soltanto i parenti e qualche studente fedele, nella distrazione di tutti», P. Borgna Un paese migliore. Vita di Alessandro Galante Garrone, Bari 2006, pp. 137-138; cfr. N. Bobbio, La mia Italia, Firenze 2000, pp. 19-37.
74 F. Ruffini, Ultimi studi, cit., pp.19-24.
75 R. Romeo, Cavour e il suo tempo (1810-1842), Bari 1969, p. 301.
76 Ibidem, pp. 579-580.
77 Ibidem, pp. 308-309.
78 Ibidem, p. 311.
79 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I, Bari 1971, p. 229.
80 A. Scirocco, Garibaldi. Battaglie, amori, ideali di un cittadino del mondo, Roma-Bari 2007, p. 361; cfr. F. Molinari, La religiosità di Garibaldi, in Garibaldi generale della libertà, a cura di A.A. Mola, Roma 1984, p. 581-585.