La dinamica delle finanze pubbliche
Nelle opere generali di storia veneziana, come per esempio quelle di Gino Luzzatto e Frederic C. Lane, le finanze pubbliche trovano spazio, fra le pagine dedicate al '300, principalmente in relazione alla grave crisi - insieme militare, politica, economica, finanziaria - della guerra di Chioggia (1). Essa infatti rappresentò un passaggio drammatico, in netto contrasto con le vicende ordinariamente meno vistose della gestione finanziaria: prestiti forzosi per due milioni di ducati imposti in meno di tre anni, la sospensione del versamento degli interessi sui titoli del debito consolidato, il crollo disastroso delle quotazioni di questi in un momento in cui molti contribuenti furono costretti a venderli.
Di quella crisi tratteremo, come pure delle altre fasi di un secolo ad andamento alterno, ma solo dopo aver tracciato un ampio quadro strutturale. L'inserimento di questo quadro, se comporta qualche elemento di ripetizione nell'economia complessiva del contributo, consente comunque di evidenziare aspetti tecnici della finanza pubblica e anche lo stretto rapporto che lega la sua vicenda a quella dello Stato nel suo insieme. Esso peraltro riprende e aggiorna questioni già accennate nel secondo volume di questa Storia, sfruttando fonti e storiografia decisamente più generose di quelle relative ai secoli precedenti (2).
Se guardiamo l'evoluzione delle istituzioni centrali nel '300 (3), anzitutto quella dei consigli di Stato, vediamo che il minor consiglio - doge, consiglieri ducali, capi della quarantìa conservò - mansioni essenzialmente esecutive in materia di finanza pubblica, in linea con la tendenza del secolo precedente. Si rafforzarono i vincoli già stretti posti all'azione autonoma del solo doge(4). Subirono notevoli modifiche, invece, tra fine '200 e primo '300, le competenze dei consigli con funzione prevalentemente deliberativa, come indica già la legge di regolazione finanziaria del 1314 (5).
Nella finanza pubblica, come in molti altri ambiti, il maggior consiglio subì un ridimensionamento drastico delle sue competenze. In precedenza aveva spesso votato deleghe specifiche e temporanee della facoltà di esprimere indirizzi e di assumere decisioni (comunque spesso soggette alla sua conferma). Ora, invece, perdette irreversibilmente poteri tramite un misto di rinunce di fatto e di deleghe esplicite - magari temporanee nella formulazione - a favore soprattutto del senato, come ben evidenziano esempi riferiti al quarto decennio. L'11 gennaio 1330 il maggior consiglio autorizzò il senato per cinque anni a bloccare d'anticipo proposte di imporre nuovi prestiti o di deviare fondi dal deposito per la redenzione dei titoli vecchi; su quella redenzione, con delibere di gennaio e marzo 1335, il senato affermò un suo controllo più deciso; nell'aprile 1338 il maggior consiglio rinnovò la delega di poteri sulla camera degli imprestiti al senato, che peraltro aveva già provveduto in materia (6). Le competenze rimaste al maggior consiglio gli lasciarono comunque lo spazio per assumere decisioni che risultano in certi casi - per esempio riguardo alla retribuzione delle cariche - in scarsa sintonia con gli indirizzi seguiti dal senato (7).
Quanto alla quarantìa, si ridusse presto a poca cosa la sua attività legislativa autonoma in ambito finanziario e fiscale, a tutto favore dell'azione d'indirizzo svolta dal senato. A quella sfera d'azione rimase estraneo, inoltre, il consiglio dei X, istituito nel 1310; ebbe tuttavia una riconosciuta "libertas de expendendo", ed entro la fine del secolo gestiva autonomamente una propria cassa per spese segrete, mentre i suoi interventi a tutela della sicurezza dello Stato e dell'ordine pubblico ebbero implicazioni finanziarie talvolta rilevanti. In occasione delle congiure del 1310 e 1355, per esempio, esso confiscò risorse notevoli e impiegò somme consistenti per la caccia ai cospiratori e la ricompensa dei meritevoli. Provvide inoltre, nei primi decenni della propria attività, a un sostanziale incremento dell'azione di polizia fra città e ambito lagunare (8).
Inoltre, accadde occasionalmente che in tempo di guerra si sconvolgessero le competenze anche finanziarie e fiscali dei consigli ordinariamente deputati. Nei conflitti con Padova e poi con Ferrara all'inizio del secolo, come pure nel 1350-1355, nel 1374 e nella guerra di Chioggia, molti poteri furono affidati a consigli temporanei appositamente istituiti (9).
Fra le magistrature centrali era quasi usuale la gestione di una propria cassa, anche da parte di quelle non caratterizzate da competenze anzitutto finanziarie. Già dal '200, comunque, esisteva una serie di organi con mansioni primariamente finanziarie: di custodia del denaro pubblico, di gestione doganale e daziaria, di cura dei prestiti forzosi, di sfruttamento e tutela dei beni demaniali, di spesa navale, di controllo contabile (materia governata da una normativa fitta, più ripetuta che attesa), di ricupero dei crediti del comune (10).
Le vicende delle magistrature finanziarie durante il '300, come già in precedenza, spesso non furono lineari, come dimostra - a titolo d'esempio - l'evoluzione dell'attività svolta da due organi. Gli ufficiali all'estraordinario furono istituiti nel 1302 per incassare i noli delle galee comunali, ma poi acquisirono competenze più generali sulle mude, fra cui il controllo dei loro registri e la riscossione dei dazi relativi alle merci portate: competenze pur sempre lontane dalla riscossione di prestiti forzosi, attività che in via eccezionale si trovarono a svolgere nel 1351 (11). Conobbero sconvolgimenti a quella stessa epoca gli ufficiali alle rason, sin dal '200 incaricati anzitutto della revisione contabile degli uffici pubblici: soppressi, poi ricreati nel 1358, resi permanenti nel 1360, candidati invano nel 1361 a funzioni assai più estese e autonome di regolamentazione finanziaria, videro comunque confermata la loro competenza originaria, e nel 1396 vennero anche sdoppiati fra rason vecchie e nuove (12).
Altri segni di empirismo e di soluzioni estemporanee che si elevarono a consuetudine si colgono laddove i nomi delle magistrature non danno affatto ragione delle loro funzioni molteplici e magari intrecciate: due casi esemplari sono i salineri da mar e gli ufficiali al frumento. Il loro operato nel '300 comportava il movimento di somme notevolissime a titolo di entrate e uscite e anche grosse operazioni di credito, tanto da farne colonne portanti di tutta la finanza pubblica veneziana trecentesca, come si vedrà meglio in seguito. Il ruolo assunto da questi due uffici evidenzia anche la diffusa prassi veneziana di ricorrere a una pluralità di casse e di relative assegnazioni di introiti e di voci di spesa. Mancava infatti un sistema realmente centralizzato di tesoreria, nonostante la camera di comun conservasse funzioni parziali di cassa centrale come destinatario di versamenti mensili da parte degli organi percettori di introiti.
Altrettanto evidente, nell'evoluzione complessiva delle magistrature e delle funzioni delegate, è la riluttanza del ceto politico a concentrare in poche mani, poco controllate dai consigli, troppi poteri in materia finanziaria. Da ciò derivò, anzitutto, la temporaneità delle commissioni di savi assai spesso nominate per rivedere l'intero quadro delle entrate e uscite e per avanzare proposte di modifica. E così pure, per esempio, la mancata elevazione a "super-magistratura" degli ufficiali alle rason nel 1361, e il fallimento, nel dicembre 1383, di un'analoga proposta di accentramento: a un organo da istituire (i massari di comun) sarebbero dovute toccare estese competenze di revisione contabile ma anche di esame generale, consuntivo e preventivo, delle entrate e spese pubbliche (13).
La prassi della gestione decentrata di gran parte del denaro pubblico si consolidò nel corso del '300. Negli anni a cavallo fra XIII e XIV secolo si infittirono le delibere relative alle camere del frumento e del sale che eliminarono o anticiparono il passaggio di fondi per la camera di comun; una norma del 1306, pur riaffermando l'obbligo generale per gli uffici di depositare in quest'ultima i fondi raccolti, ne esentava specificamente la Zecca e la camera del frumento. Anche se, per esempio, nel 1322 Si decretò il versamento alla camera di comun del denaro riscosso dall'ufficio degli estraordinari, nonché dei proventi delle grazie allora incassati dalla camera del frumento, delibere di metà secolo confermano la molteplicità di casse ed evidenziano l'importanza ormai assunta dalla camera del frumento. In un provvedimento del senato per deviare fondi nell'emergenza del 1348 Si legge che "ambe camere [cioè di comune del frumento] sunt unum corpus ". In altri suoi decreti del 1349 si accenna alla consuetudine ormai quasi annua di eleggere savi "ad providendum de introitibus et exitibus Comunis et de rationibus Camere frumenti", e si propone di alleviare i debiti di quest'ultima versandovi le eccedenze della camera di comun ma anche travasando temporaneamente fino a 20.000 ducati dai depositi accumulatisi presso "quamplura ex officiis nostris" (14).
La guerra contro Genova del 1350-1354 provocò, come s'è già notato a proposito degli estraordinari, una temporanea dispersione ulteriore della gestione dei principali flussi di denaro. Lo stesso fenomeno si rileva in misura più marcata durante la guerra di Chioggia, caratterizzata anche dalla crisi della camera del frumento. I prestiti imposti durante il conflitto furono pagati, oltre che alla camera di comun, alla camera degli imprestiti, alla camera dell'armamento, agli ufficiali alle biave e agli estraordinari; nei primi anni del dopoguerra funzioni importanti nella percezione di introiti e poi nell'ammortamento dei vecchi prestiti furono ancora assolte da organi come gli estraordinari, le rason vecchie, i provveditori di comun (15).
Non è quindi un caso che, nonostante l'acquisizione dell'abitudine di revisione generale quasi annua appena ricordata, le fonti trecentesche tendano ad accennare semmai al saldo positivo o negativo del bilancio consuntivo. Raramente offrono dati quantitativi relativi alle somme globali gestite, e non sembra che le conoscenze acquisite potessero assolvere a una funzione articolata di previsione. Talvolta sfuggiva anche il computo del saldo: nel 1347, infatti, i savi incaricati di rivedere il bilancio consuntivo dovettero confessare che, nonostante avessero provato con ogni "diligentia et studio" possibile, "rationes introituum et exituum ita clare et distincte videri non potuerint" come in tempo di pace (16).
Questa carenza di informazioni, se complica il compito dello storico, riflette non soltanto eventuali perdite documentarie ma anche e principalmente ciò che - col senno di poi - si profila come la modesta dimensione di progettualità generale che caratterizzò la conduzione della finanza pubblica veneziana. Un limitato sviluppo di capacità conoscitive infatti poneva problemi gestionali per l'assegnazione di entrate a uscite, saldandosi con l'incidenza di empirismo e di improvvisazione evidente nell'articolarsi delle competenze istituzionali, come pure nello stesso andamento delle somme complessive manovrate e nell'evoluzione delle forme impositive.
Riguardano la gestione degli anni 1341-1342 le prime stime governative a noi note, addirittura le uniche dei secoli XIV-XV, dell'entità complessiva del bilancio: questo risultò allora composto di entrate per circa 670-685.000 lire a grossi, e uscite fra circa 670.000 e 745.000 (17). Sul rapporto tra queste cifre e la situazione precedente e successiva si può solo azzardare qualche ipotesi. Le entrate del 1341-342 furono di poco posteriori, come vedremo, a consistenti incrementi di tariffa daziaria, ed è quindi probabile che rappresentino un aumento sui valori medi dei decenni precedenti. I primi dati successivi a questi (stime ufficiose delle entrate) riguardano epoche di molto posteriori e uno Stato veneziano ormai territorialmente molto dilatato: 1,1 milioni di ducati attorno al 1432, e circa 1,12-1,15 milioni in diverse date del secondo '400. Le cifre quattrocentesche per la sola Dominante - il nostro punto di raffronto - sono dell'ordine di 610-620.000 ducati, quindi più di due volte superiori a quelle del 1341-1342 (se i criteri contabili sono più o meno compatibili). Un salto non dissimile, è bene aggiungere a mo' di confronto, si coglie nell'evoluzione dell'entità complessiva delle spese affrontate dal comune di Firenze: da circa 300.000 fiorini all'anno nel quarto decennio del '300, a 600-700.000 fiorini negli anni di pace del primo '400 (18).
Sui tempi di questo grande aumento del bilancio veneziano gli indizi per il '300 sono indiretti e discordanti. Il grande incremento dei costi di servizio del debito consolidato nella seconda metà del secolo suggerirebbe, già allora, maggiori uscite e quindi maggiori introiti, e il movimento complessivo delle tariffe daziarie fu certamente in rialzo. D'altronde, fra sesto e nono decennio del secolo il comune spese molto poco per l'ammortamento del debito, e fin dal 1350 coprì ripetutamente maggiori uscite mediante prestiti forzosi; inoltre, le tariffe daziarie maggiorate tassarono i consumi e le relative importazioni di una popolazione urbana che rimase a lungo dimezzata dalle epidemie. Guardando alle cifre attribuite al 1432, sembra quindi prudente indicare come periodo di maggior dinamismo delle entrate i trequattro decenni con inizio nel 1390: decenni di tendenze economiche nettamente positive, e anche - nonostante l'indebitamento creato dalle guerre di annessione di territori italiani - di significativi sforzi di ammortamento del debito consolidato (19).
Conviene ricordare, infine, le relazioni fra la città-stato di Venezia, pur priva di contado in senso classico, e una serie di soggetti a essa legati politicamente, allo stesso tempo fonte di entrate e causa di uscite per le finanze della Repubblica. Queste relazioni, diverse fra di loro, riguardavano: le comunità del Dogado; le città e isole fra Istria e Dalmazia legate alla Repubblica da rapporti di fedeltà o soggezione; le colonie di Veneziani presenti oltremare; i possedimenti coloniali veri e propri in Levante, annessi a partire dalla IV Crociata, e anche - importante elemento nuovo che si aggiunse durante il '300 - il primo ampio territorio soggetto alla Repubblica in ambito italiano, ossia il Trevigiano (20).
I rappresentanti o funzionari del comune presenti in queste località erano investiti di competenze finanziarie e fiscali, in buona parte connesse all'organizzazione della difesa e soggette a controllo centrale talvolta minuzioso, come evidenziano per esempio le lettere a essi inviate dal minor consiglio negli anni 1308-1310 (21). Le loro erano infatti responsabilità molto spesso importanti non solo nel contesto locale, di gestione finanziaria più o meno autonoma, ma anche in relazione all'assetto finanziario-fiscale più propriamente veneziano - per quanto questo conservasse un'impostazione essenzialmente municipale, quindi sovrapponendosi piuttosto che integrandosi con le realtà esterne ad esso legate. Alla base di questo intreccio di competenze e gestioni stava l'intento veneziano, non sempre soddisfatto, "che i reggimenti esterni dovessero bastare a se stessi, se non potevano direttamente od indirettamente concorrere a rafforzare od a sovvenire le finanze statali" (22). Si trattò comunque di un rapporto finanziario e fiscale sostanzialmente diverso, per dimensioni di gestione e per dinamiche durante il '300, da quello tra Firenze e il suo contado, che nel corso del secolo divenne sempre più importante - soprattutto in termini di prelievo fiscale - man mano che si ampliava il territorio sotto controllo fiorentino (23).
Occorre richiamare sommariamente la vicenda monetaria veneziana nel '300, allo scopo di chiarire i rapporti fra le varie unità monetarie in cui sono espresse le somme ricordate in queste pagine (24). Nel secondo '200 era slittato progressivamente, fino a 1:32, il rapporto fra il grosso d'argento, 240 dei quali formavano il multiplo della lira di grossi "complida", e il denaro della moneta divisionale, il cui multiplo era la lira di piccoli. Era diventato d'obbligo l'uso del grosso per effettuare molte operazioni di finanza pubblica, e a fini di computo erano prevalse monete di conto legate al grosso, cioè la lira di grossi e la lira a grossi (equivalente a 9 grossi e cinque piccoli). Dal 1285, inoltre, si coniava il ducato d'oro, ufficialmente equivalente a 18 grossi e mezzo negli ultimi anni del '200.
Ma proprio la coesistenza delle due monete pregiate comportò gravi problemi nel '300, secolo caratterizzato da notevoli oscillazioni nella disponibilità dei due metalli preziosi e anche da rivalità fra stati nell'appropriarsene e nel danneggiarsi vicendevolmente sul piano monetario. Sin dagli anni di passaggio fra '200 e '300 variazioni del rapporto bimetallico modificarono ripetutamente i cambi fra grossi e ducati praticati nei mercati. Il comune, però, dimostrò un'estrema riluttanza a mutare il contenuto metallico delle due monete pregiate, come pure a ritoccarne l'equivalenza legale. Solo nel 1328 quest'ultima venne adeguata su valori di fatto già acquisiti, al cambio ufficiale di i ducato = 24 grossi, ovvero 2,6 lire a grossi.
Dal decennio successivo, però, il duraturo rialzo dell'argento rese troppo elevato il valore intrinseco del grosso, favorendo la tosatura e fuga delle monete buone e la circolazione pletorica di imitazioni dal titolo inferiore. Ciò costrinse il comune a ridurre la coniazione del grosso e poi, nel 1356, a sospenderla. Difficoltà in parte analoghe afflissero due nuove monete argentee di valore intermedio fra il grosso e il piccolo - il soldino e il mezzanino, introdotti nel 1331-1332 ed equivalenti rispettivamente a 12 e a 16 piccoli - sebbene nella maggior parte delle emissioni contenessero proporzionalmente meno argento del grosso, la cui scomparsa esse infatti contribuirono ad accelerare.
La moneta divisionale - coniata soprattutto sotto forma di soldini - subì una caduta progressiva, in sintonia con la graduale diminuzione dell'importanza del piccolo sia come criterio di valore, sia come mezzo di pagamento (25).
Per quanto riguarda le operazioni di finanza pubblica, molta normativa vigente continuò a far riferimento alla moneta d'argento e alla connessa moneta di conto, la lira a grossi. Allo stesso tempo, nell'uso privato guadagnò terreno come moneta di conto la lira di grossi (ora scissa in versioni "a oro" e "a monete ", legate rispettivamente al ducato e al saldino); nei pagamenti - anche pubblici - venne meno l'uso del grosso ed entrarono nell'uso aggi fra moneta pregiata e altre monete, derivati dal margine di scostamento dei valori di mercato dall'equivalenza ufficiale i ducato = 64 soldini.
Nel 1335 il maggior consiglio decretò l'impiego di ducati o soldini, anziché di grossi, per pagare i salari degli uffici pubblici; ordinò la vendita di eventuali grossi incassati e riservò al comune il profitto realizzato, riuscendo così a trarre vantaggio dal rialzo dell'argento. A metà secolo il comune insistette perché si effettuassero i versamenti ai suoi uffici in buona moneta aurea, addirittura in borse sigillate di ducati controllati e pesati, e pretese aggi notevoli per i pagamenti dei dazi effettuati in altra moneta. Allo stesso tempo, negò a molti suoi creditori lo stesso aggio - come a Marino Falier, podestà di Treviso nel 1339, che tre anni dopo reclamò invano la differenza tra il salario computato in ducati d'oro e le somme realmente percepite "in monetis". Dovette anche proibire - con una delibera del dicembre 1356 - la consuetudine acquisita dal personale degli uffici pubblici, laddove incassava "in monetis", di prendere a ragione di ducati la propria fetta delle condanne riscosse o la percentuale spettante sulle somme manovrate, con conseguente perdita di denaro pubblico (26).
Dopo metà '300 il rapporto bimetallico fu meno instabile, ma passarono altri decenni segnati da notevoli difficoltà sia nei pagamenti sia nella tenuta della contabilità, prima che il comune riconoscesse pienamente la già avvenuta affermazione del ducato aureo come moneta di riferimento. Solo nel 1379, infatti, accettò di ridurre il valore intrinseco del grosso effettivo e ne riprese la coniazione con monete dello stesso titolo del soldino, dal valore legale - legato alla moneta divisionale - di 4 soldini. La lira di grossi quindi continuò come moneta di conto ormai scissa dai grossi effettivi, i suoi 240 grossi nozionali corrispondenti a 10 ducati. Nel 1390 - perciò con decenni di ritardo sui cambiamenti subentrati nella prassi mercantile - il senato prese atto che le tariffe di quasi tutti i dazi doganali erano espresse in lire di grossi, mentre la contabilità dell'ufficio addetto continuava a convertirli in lire a grossi, cosicché i mercanti tenuti a pagarli "putant semper esse decepti"; decise quindi che anche la Tavola del Mare avrebbe dovuto allinearsi con la prassi, da poco adottata dai camerlenghi di comun e molti altri uffici, di tenere i conti in lire di grossi (27).
Va ricordato inoltre che per le operazioni di finanza pubblica nei luoghi del Levante si faceva riferimento frequente ad altre monete, sia effettive che di conto, soprattutto iperperi di vario tipo (28). Non sempre, poi, le operazioni riguardanti l'"avere" pubblico avvennero in denaro sonante. Se l'uso sostitutivo di generi si verificava più facilmente nel Levante, il fenomeno divenne molto più diffuso in momenti di crisi o strettezza monetaria, come il terzo decennio del '300. Allora il comune insistette ancora sull'uso di buoni grossi d'argento per i versamenti al fisco, provvedendo a trattenere e distruggere le monete cattive, ma la carenza di buona moneta lo obbligò ad autorizzare gli uffici governativi a Venezia stessa ad accettare i pagamenti sotto forma di preziosi dati in pegno, oppure di garanzie offerte da banchieri a nome dei debitori (29).
Anche se, come vedremo, le spese pubbliche un po' sfuggono a categorie nette, esse si possono comunque raggruppare in due classi principali: costi di governo e affini, e costi di difesa - aggregando a questi ultimi le uscite connesse a un debito pubblico provocato essenzialmente da spese militari. Dei costi del debito pubblico consolidato e fluttuante si discuterà analiticamente nei paragrafi a scansione cronologica. È comunque bene anticipare che essi variarono enormemente, soprattutto quelli per il pagamento degli interessi e l'ammortamento dei titoli del debito consolidato, che nel secondo '300 aumentò vorticosamente. Nel ventennio dopo la guerra di Chioggia, infatti, i soli interessi versati assorbivano fino a quasi 250.000 ducati all'anno.
All'inizio del '300 le attribuzioni dei fondi alle varie uscite furono ancora regolate in via generale da criteri stabiliti nel 1262 in una delibera de ligatione pecunie. Questa assegnò solo 3.000 lire mensili agli ordinari costi di governo, e destinò le restanti entrate a un deposito vincolato a coprire - nell'ordine - gli interessi dovuti sui prestiti forzosi già versati, le spese delle guerre in corso, e l'eventuale restituzione del capitale dei prestiti. Già verso fine '200, tuttavia, era diventato difficile rispettare il tetto delle 3.000 lire mensili di costi ordinari di governo, e si erano inoltre verificati periodici storni dai fondi destinati al deposito, custodito presso i procuratori di S. Marco (30). Come si vedrà, nel '300 non venne risolto con successo duraturo questo problema generale del rispetto delle assegnazioni, del resto inscindibile dalla questione, già accennata, della pluralità delle casse.
Sebbene le somme stanziate per i costi ordinari di governo sembrino del tutto insufficienti per coprire una vasta gamma di spese, si tratta di una parsimonia per l'appunto soprattutto apparente. Molte magistrature prive di specifiche mansioni fiscali o finanziarie, come s'è già rilevato, si autofinanziavano parzialmente o completamente mediante la gestione di una propria cassa - fenomeno che peraltro ci impedisce di computare con precisione l'entità dei costi ordinari di governo. È comunque intuibile che tali costi tendessero a crescere per effetto dello sviluppo progressivo dell'azione dello Stato: si consideri per esempio lo sviluppo trecentesco dei corpi di polizia impiegati a Venezia, che prima di economie imposte nel 1382 erano probabilmente cresciuti a un organico di circa trecentodieci uomini (31).
Per sviluppo dell'azione dello Stato si deve comunque intendere anzitutto la proliferazione delle magistrature patrizie, la cui attività veniva ritmata dalla campana officialium di S. Marco e dalla corrispondente "campanella per tutti li officiali de Riolto" (32). La tendenza di fondo verso l'incremento è indubbia, sebbene nelle congiunture difficili si votassero provvedimenti ispirati a esigenze di economia, tagliando la retribuzione o il numero dei titolari e funzionari, anche sopprimendo o accorpando intere magistrature. Una causa importante dell'incremento fu il fatto che, nonostante l'incidenza sporadica di rifiuto degli uffici, una componente nutrita dello stesso ceto di governo esprimeva la richiesta di cariche retribuite; ne sosteneva quindi il numero e i ricavi, e ne curava l'assegnazione con motivazioni talvolta esplicitamente assistenziali. Entravano in questo gioco anche meccanismi di patronato, del resto operanti pure nell'assegnazione delle cariche e delle relative retribuzioni nell'ambito della burocrazia non-patrizia (33). È bene aggiungere che vi fu anche un'incidenza significativa di perdita o deviazione di denaro pubblico per effetto di appropriazione indebita e altri abusi da parte dei titolari e funzionari degli organi di governo, come dimostrano leggi approvate e condanne comminate nel corso del '300 (34).
Nell'ambito dei costi di governo ritroviamo spese variabili ma significative per l'attività diplomatica, che nel '300 si andava intensificando. Le singole ambasciate inviate dal comune furono oggetto di appositi prestiti forzosi nei primi decenni, e vennero talvolta finanziate con una sovratassa sulle merci specificamente interessate da negoziati a scopo commerciale (come accadde per la via di Norimberga nell'ottobre 1353) (35), ma con l'avanzare del secolo furono generalmente coperte da stanziamenti di fondi più o meno ordinari. Ciò non eliminò le difficoltà perenni nel reperimento della copertura, e perenni furono anche i problemi di contenimento e poi di revisione contabile delle spese delle ambasciate. Una legge del 1329 limitò l'impiego di argenteria del comune, per esempio, e tutta la materia fu poi oggetto di una regolamentazione generale, decretata in clima di austerità nel 1353; da essa risulta chiaro, fra l'altro, il minor costo di ambasciate affidate non a patrizi ma a meri notai o nuncii, alle quali si assegnò una somma complessiva di 30 grossi al giorno, escluse eventuali spese di naviglio, cavalli e pedaggi (36).
Molto irregolare sembra essere stata l'incidenza sui bilanci del cerimoniale pubblico. I suoi costi erano in buona parte assunti da corporazioni, contrade e dignitari ecclesiastici della città, oppure erano "organici" alle alte cariche comunali come quella di doge, coperti dal compenso della carica ed eventualmente dai mezzi privati di chi la occupava. Il comune ebbe comunque alcune spese fisse: fu deciso nel 1329, per esempio, che esso pagasse il diadema ducale (spendendo non più di 150 lire di grossi) e il Bucintoro. Vi furono inoltre costi occasionali talvolta molto consistenti, specialmente per accogliere visitatori di spicco a Venezia. Nel 1371 il senato fissò limiti ai doni offerti loro e ad altre spese incorse oltre alle "solemnitatibus et ordinibus terre solitis" e ai "pastis et corredis" che era dovere del doge fornire. Fu infatti fissato un tetto di spesa di 500 ducati per ogni ambasciatore di papi, imperatori, re o altri governanti, e di 200 ducati per ogni baronus o dominus; nelle cronache, comunque, si trova qualche cifra molto elevata (e del tutto inverosimile), come i 10.000 ducati che si sarebbero spesi per la visita del duca d'Austria nel 1361 (37). Spese di prestigio, in qualche modo affini a quelle del cerimoniale, si possono considerare quelle periodicamente documentate nel '300 per l'alimentazione e la custodia di leoni nel Palazzo (38).
Furono complessivamente parchi gli stanziamenti per ciò che noi definiremmo i "servizi" e l'azione assistenziale. Quanto all'istruzione, solo col pieno '400 Venezia avrebbe avuto una vera scuola pubblica, e nel '300 il comune si limitò a sporadiche elargizioni a titolo personale a qualche insegnante attivo a Venezia (39). Fu semmai la sanità a costituire una voce di bilancio regolare, ma comunque contenuta con l'eccezione, come vedremo, dei periodi di epidemia. Il comune infatti stipendiava un numero variabile di medici e chirurghi (da dieci a ventiquattro), per un ammontare annuo altrettanto variabile, con valori medi poco superiori a 1.000 ducati fra 1333 e 1377; ai salari si aggiungevano anche donativi occasionali (40).
Il costo del soccorso di poveri ed emarginati fu coperto essenzialmente dall'iniziativa privata, compresi i lasciti pii amministrati dai procuratori di S. Marco. A Natale e Pasqua a metà '300 il comune stanziava somme piuttosto contenute "pro elemosinis carceratis et Turchis", attingendole ai proventi delle grazie (41). Destinatari più o meno regolari di elemosine erano gli ospedali (ossia ospizi), qualcuno dei quali era sotto giuspatronato ducale: così, per esempio, l'ospedale della Pietà, creato nel quinto decennio del '300, che accoglieva soprattutto bambini. In questo caso il comune incoraggiò il religioso che lo fondò e autorizzò la confraternita che in seguito lo gestì, sostenendolo con offerte regolari piuttosto modeste e qualche dono occasionale (42).
Rare eccezioni a questo quadro di scarso intervento diretto del comune sono costituite dalla periodica assegnazione di pensioni ai parenti dei morti in guerra e dalla creazione, nel 1362, di pensioni da erogare a marinai veneziani anziani e poveri, tratte da proventi del dazio della messetteria sul pepe (43). Un ruolo simile, anche nella finalità di premiare chi aveva servito interessi primari di Venezia, ebbe l'ospedale per marinai poveri. Questo venne fondato nel 1318 dal medico Gualtiero su terreno pubblico concessogli a S. Biagio, ma rimase sostanzialmente estraneo alla gestione corrente delle finanze comunali: nel 1334 venne dotato delle rendite dei possedimenti del comune a Papozze (feudi nel Ferrarese confiscati ai Querini dopo la congiura del 1310), e poi affidato ai procuratori di S. Marco (44).
Più consistente, invece, fu il costo per il comune di alcuni lavori pubblici (45), anzitutto quelli in ambito lagunare. La spesa "pro aptatione litoris", a difesa dei lidi, fu già una voce di fatto ordinaria all'inizio del '300, sebbene non compresa nella ligatio petunie, e nel 1324-1325 due prestiti forzosi furono appositamente imposti per questo fine; nel 1388, in clima di economie di spesa; venne anche proposto di impiegare sessanta giovani e robusti prigionieri turchi "pro laborando ad litus" (46). Nel secondo '300 i lavori ai lidi richiesero consistenti somme integrative - nel 1391 s'erano accumulati debiti di 8.000 ducati - e nello stesso periodo si fecero frequenti gli interventi riguardanti la navigabilità della laguna, le sue bocche, il flusso delle acque al suo interno, e anche il deflusso in laguna delle acque dolci (47).
Da analoghe preoccupazioni per le acque dei canali della città derivarono interventi periodici di scavo, come per esempio nel terzo decennio del secolo. Per il Canal Grande i costi gravavano interamente o per la maggior parte sul comune, tanto da richiedere nel 1325 un apposito prestito forzoso, mentre invece i canali e rii minori erano responsabilità di frontisti e abitanti delle singole contrade, come accadeva per quasi tutti i lavori riguardanti il tessuto urbano. Fra le spese più o meno regolari sostenute dal comune per lavori di scavo compaiono prestazioni di ingegneri e il costo di draghe, costruite nell'Arsenale, il quale forniva anche la maggior parte del materiale (legname, ecc.) impiegato nei lavori di ambito lagunare (48).
C'erano, inoltre, interventi di sistemazione funzionale ed estetica di edifici e spazi pubblici urbani, principalmente collocati fra S. Marco, Rialto e le Mercerie nonché nell'area portuale fra l'attuale Punta della Dogana e il tratto di riva che si estende da S. Marco all'Arsenale. In quest'area portuale vi furono ripetuti interventi fra il secondo e il quarto decennio del secolo, e questa cronologia si può considerare rappresentativa: un po' ovunque i lavori e i connessi costi furono intensi nella prima metà del secolo, contribuendo a una notevole evoluzione ulteriore della forma urbana di Venezia. Dopo la Peste Nera, invece, essi si diradarono, a causa della minore pressione demografica ma anche della minore disponibilità di fondi, e conobbero una ripresa significativa solo verso fine secolo. A finanziare molti lavori furono gli utili ricavati dalla cessione di parte degli stessi edifici e spazi pubblici.
Per quanto riguarda la zona di Rialto, nei primi decenni del '300 furono quasi ininterrotti gli interventi nelle aree dei mercati. La decisione presa nel 1322 di demolire e ricostruire la chiesa di S. Giacomo, ai fini del riassetto degli spazi commerciali vicini, richiese un apposito stanziamento di bilancio anziché l'impiego degli introiti riscossi dagli ufficiali sopra Rialto. Nel 1340-1343, quasi contestualmente allo spostamento delle beccherie (1339) e ad altri interventi attorno a Rialto, si provvide alla sistemazione viaria delle Mercerie, attingendo alle entrate ricavate dalla concessione di grazie. Una significativa ripresa di lavori e conseguenti costi dopo la Peste Nera si ebbe solo negli anni Novanta (49).
Il palazzo Ducale richiese interventi periodici di sistemazione interna ed esterna, anche per la doratura di sculture del leone di S. Marco; ci furono inoltre lavori significativi di ampliamento della cappella a partire dal 1322. Interventi di questa entità vennero finanziati di norma con i fitti derivanti dalla cessione dei locali sottostanti il Palazzo; furono di competenza talvolta degli ufficiali sopra Rialto, più spesso dei procuratori di S. Marco. Questi ultimi in certe occasioni destinarono ai lavori fondi dell'opera della Basilica, presi a regime di mutuo, e a loro volta - per esempio nel 1339, per poter acquistare un palazzo - realizzarono qualche grossa spesa ottenendo un prestito dal comune. Le vicende del Palazzo comprendono quelle di una parte consistente della rete urbana delle prigioni, e vennero destinati fondi per ampliare quelle del Palazzo nel 1320, 1326 e 1397.
Il principale intervento intrapreso nel Palazzo durante il '300, anche sotto il profilo finanziario, fu il rifacimento della sala del maggior consiglio. Questo era stato deliberato già nel 1301, all'indomani della "Serrata" che aveva aumentato il numero dei consiglieri oltre la capienza della sala. L'avvio di sostanziali lavori tuttavia avvenne per effetto di decisioni successive, prese nel dicembre 1340, e ad essi si destinò un apposito stanziamento mensile di 50 lire di grossi (ossia 6.000 ducati all'anno). I lavori vennero sospesi nel 1348, e poi ripresi nel 1350, ricevendo nel 1362 un'assegnazione mensile di 500 ducati; proseguirono un po' a singhiozzo anche oltre la fine del secolo (50).
Nonostante la concentrazione nel Palazzo di molta attività di governo, gli immobili di proprietà del comune adibiti a tal scopo erano ovviamente più numerosi, e dislocati in vari luoghi della città: oltre alle sedi di non poche magistrature a Rialto, c'erano anche locali dei capisestiere e capicontrada, per esempio (51). C'erano inoltre grandi magazzini statali di prodotti come granaglie, farina e sale, collocati principalmente a Rialto e nei pressi del Palazzo: in quest'ultima area, sul sito dell'ex Arsenale, si costruirono gli enormi granai detti "di Terranova" nel 1341-1343 (52). Le spese connesse ai granai, tuttavia, come pure quelle per alcuni lavori di ambito lagunare, sconfinano in parte nell'ambito del bilancio militare. Va menzionata, infine, nell'ambito delle spese relative al tessuto urbano, l'incidenza sporadica di sovvenzioni concesse a privati per ricostruire edifici in seguito a incendi (53).
Come evidenzia il cenno ai magazzini, il comune sostenne spese molto consistenti in relazione all'acquisto e alla conservazione di alcuni beni di consumo, destinati a rifornirne la città e - in qualche caso - a promuovere il suo ruolo di centro di approvvigionamento di quei generi per terzi. La politica annonaria fu sempre di fondamentale importanza per una città praticamente priva di contado, particolarmente nei decenni di più fragile equilibrio tra popolazione e risorse disponibili, succedutisi fino alla peste del 1348.
S'è già fatto cenno al rilievo generale assunto nella gestione della finanza pubblica veneziana del '300 dagli ufficiali al frumento (che dopo il 1365 sarebbero stati sostituiti in molte funzioni dai provveditori alle biade). Nel 1320 una delibera del maggior consiglio sugli ufficiali ricorda come "infinita pecunia vadat per suas manus", e va aggiunto che essi ne manovrarono buona parte per motivi annonari. Le dimensioni delle relative transazioni sono ben evidenziate da delibere del maggior consiglio del 18 aprile e del 15 settembre 1342: Si reputarono sufficienti al fabbisogno le 369.559 staia di frumento (circa 308.000 ettolitri) allora giacenti a Venezia, specificando che al comune ne servivano sempre 80.000 quantitativo che intorno a quella data si poteva vendere per più di 43.000 ducati sul mercato veneziano. Lo stesso anno, inoltre, fu deliberata la creazione di un deposito di 80.000 staia di miglio (cereale meno deperibile del frumento), da acquistare a 9 grossi lo staio. Non stupisce quindi che più volte nel primo '300 l'acquisto di granaglie sia stata la causa specifica dell'imposizione di prestiti forzosi o altri prelievi (54).
Le granaglie, generalmente importate via mare, erano destinate al consumo della popolazione lagunare ma anche a necessità governative (anzitutto biscotto per uso navale), nonché alla vendita a terzi. I provvedimenti del comune venivano decisi ogni anno, fra maggio e giugno: l'ordo frumenti regolava i quantitativi e i prezzi degli acquisti pubblici, ma gli oneri finanziari connessi alla politica annonaria potevano anche comprendere, in epoca di carestia, premi offerti a mo' d'incentivo ai mercanti importatori. In alcuni momenti del secondo '300, inoltre, premi analoghi vennero offerti a Veneziani disposti a costruire vascelli nuovi, di dimensioni di cui il comune percepiva la mancanza nella flotta mercantile; l'intento fu anche di impiegare, e quindi trattenere a Venezia, le maestranze specializzate nelle costruzioni navali. Perciò troviamo, per esempio, premi deliberati nel 1363 per grandi navi adoperate nell'importazione delle granaglie, ma anche - nel 1375 - per navi più piccole, a condizione di impiegarle per importare formaggi, carni salate e olio da località adriatiche (55).
Per sollecitare e agevolare la disponibilità anche di altri beni di consumo alcune magistrature offrivano credito a chi li produceva o forniva, o interponevano la propria mediazione nella gestione degli spazi a ciò addetti. Gli ufficiali alle beccherie, per esempio, prestavano barche e denaro del comune ai macellai; per affrontare una carenza di materiali edili nel 1350 la giustizia vecchia sequestrò e appaltò le fornaci della città, destinando i canoni riscossi ai proprietari - in ciò riprendendo la procedura normalmente seguita dalla giustizia nuova nell'appalto delle osterie. Per i vini, infatti, la riscossione di elevati dazi di consumo era inscindibile dal controllo stretto esercitato sulla vendita all'ingrosso e al dettaglio, e gli stessi giustizieri nuovi erano anche impegnati nell'acquisto del prodotto. Risulta in buona parte analogo il meccanismo per l'olio d'oliva (peraltro destinato anche a usi "industriali"): gli importatori erano obbligati a venderne una percentuale fissa, a prezzo fisso, alla ternarìa, la quale alimentava una rete di distribuzione cittadina (56).
È bene aggiungere, sempre in merito alle necessità di consumo dei Veneziani, che la peculiarità geografica di Venezia creò anche problemi particolari di rifornimento idrico: sono del primo '300, per esempio, ampi provvedimenti del comune per garantire una fornitura sufficiente di acqua dolce, soprattutto mediante la costruzione di pozzi pubblici (57).
L'importanza assunta nella gestione della finanza pubblica dalla camera del sale si basò, invece, sui bisogni di un mercato prevalentemente esterno. Nei confronti del sale di produzione lagunare e poi adriatica, già nel '200 gli interventi veneziani per regolamentare e tassare la sua immissione nei mercati dell'Italia nord-orientale avevano procurato notevoli introiti daziari ma anche creato difficoltà - destinate ad aggravarsi col tempo - per la stessa produzione di Chioggia. Perciò nel '300, per far fronte a richieste non coperte da quest'ultima, il comune acquisiva e poi vendeva sali di Cervia, dell'Istria e della Dalmazia (con tempi diversi per le diverse zone di produzione) (58).
Già nel tardo '200, inoltre, esso aveva assunto iniziative di controllo sull'importazione di sali di produzione mediterranea: imponeva ai propri mercanti di importarne quantitativi proporzionali alle merci esportate, li comperava da essi e li rivendeva nei mercati italiani. Nel biennio 1299-1300 il sale così acquistato fu dell'ordine di 6.000 moggia veneziane, al costo di circa 43.500 lire a grossi. Le norme dell'ordo salis, aggiornate periodicamente, regolamentavano l'acquisto del sale mediterraneo da parte del comune a prezzi più elevati dei costi complessivi (di acquisto, trasporto, ecc.) sostenuti dai mercanti. Le finalità così perseguite dal comune costituivano una versione complementare e sistematica degli interventi saltuari, già ricordati, per incoraggiare le costruzioni navali premiando l'importazione di granaglie e altri generi alimentari. Incentivando i mercanti a caricare come merce di ritorno il sale, che altrimenti sarebbe stato spesso sostituito da mera zavorra, il comune alleggeriva i costi ed esaltava la competitività dei mercanti e armatori veneziani attivi in ambito mediterraneo. Allo stesso tempo incoraggiava il loro impiego di grossi vascelli adatti anche, all'occorrenza, per l'impiego militare (59).
Pure l'attività della Zecca comportò notevoli uscite. Oltre alla retribuzione della forza lavoro (circa cento unità a fine '200), occorreva acquistare grandi quantitativi dei metalli preziosi destinati alla coniazione e alla trasformazione in lingotti, e anche provvedere ai locali di lavorazione. Così, per esempio, la Zecca venne ampliata nel 1319 in collegamento con un aumento della produzione di moneta divisionale. Nei primi anni Quaranta si provvide ad aumentare le attrezzature e il personale di Zecca adibiti alla lavorazione dell'oro, di nuovo per effetto di un notevole incremento della coniazione, in questo caso di ducati: almeno per qualche anno, probabilmente circa quattro tonnellate di oro all'anno furono destinate alla produzione di più di 1,1 milioni di ducati (60).
L'attività della Zecca funse in buona parte da sostegno all'attività mercantile, e proprio a questo scopo servì un altro settore di spesa, che acquisì consistenza e permanenza nei primi decenni del '300: l'allestimento di naviglio comunale per uso commerciale. In quegli anni il controllo statale sulla navigazione commerciale in generale s'intensificò, allo scopo di migliorarne sia la sicurezza, sia i profitti. Ciò accadde in rapporto a circostanze di frequente insicurezza dei mari, e collimò anche con l'introduzione di nuovi tipi di vascello, comprese versioni più capienti della galea. Come s'è già visto, i meccanismi dell'ordo salis e dell'ordo frumenti mirarono a offrire un sostegno e anche un indirizzo alla costruzione soprattutto di grandi navi da parte di privati, ma la costruzione di galee mercantili divenne addirittura responsabilità diretta del comune. Dall'ultimo decennio del '200, infatti, acquisì gradualmente regolarità l'impiego commerciale di galee di proprietà comunale sulle grandi rotte marittime fuori dall'Adriatico, e ciò ebbe evidenti risvolti nell'assetto del bilancio navale (61).
Vi fu una prima fase di gestione talvolta diretta delle galee da mercato da parte del comune: oltre ad armare i vascelli (e sempre più spesso a costruirli, anziché acquistarli), esso assoldò e retribuì gli equipaggi e sopportò tutte le altre spese; d'altra parte, percepì i noli, talvolta investendone parte nell'acquisto di merci da vendere al ritorno. In altri casi, però, il comune delegò ampia responsabilità operativa a determinati mercanti, spesso offrendo loro sussidi e anticipandone le spese iniziali. Poi, a partire dal 1329, Si orientò verso la prassi di appaltare a privati le galee - pur sempre costruite e armate dall'Arsenale, con un capitanio di nomina comunale al comando di ciascuna muda. Questo mutamento, che comunque conservò l'opzione per il comune di impiegare il naviglio per uso bellico, ebbe finalità in buona parte finanziarie: di por fine a difficoltà emerse nella riscossione dei noli nonché nella gestione dei rapporti con gli equipaggi; e di sgravare il comune dai costi iniziali - anche se in seguito si sarebbero concessi sussidi o prestiti ad alcuni appaltatori in relazione a questi costi. Talvolta, infatti, l'ingaggio degli equipaggi - circa duecento uomini per ogni galea armata - aveva richiesto mutui, come per esempio le 10.000 lire a grossi prese dal deposito presso i procuratori di S. Marco nel 1323.
Le galee da mercato furono anche una risorsa strategica, ed è naturale accostarne la discussione a quella dei costi di difesa navale. Questi furono di gran lunga maggioritari nel bilancio militare veneziano, che a sua volta ebbe un chiaro primato nell'assetto generale della spesa pubblica. Tale primato, del tutto normale negli stati tardomedioevali, ebbe finalità economiche precocemente prioritarie ed esplicite nel caso veneziano, evidentissime nell'accesa rivalità commerciale con Genova durante il '300. Vengono discusse altrove in questo volume le vicende di politica estera e l'organizzazione dello sforzo bellico veneziano, con attenzione all'ormai vasta estensione geografica degli interessi commerciali e territoriali che il comune doveva difendere, fra l'entroterra italiano, l'Adriatico e il Mediterraneo. È comunque bene sottolineare che i costi militari, notevolissimi nella loro dimensione congiunturale ma consistenti anche in quella permanente, registrarono nel '300 un incremento rispetto alla loro entità duecentesca, confermando ulteriormente la loro incidenza maggioritaria nel bilancio. A questo proposito va ripresa un'osservazione fondamentale di Frederic C. Lane sul profilo economico complessivo dell'azione bellica veneziana del '300. I costi di difesa allora sostenuti, a differenza di quanto si era verificato fino a circa il 1260, superarono l'incremento di introiti pubblici imputabile alla difesa - essenzialmente il maggior rendimento del prelievo daziario sui traffici. Risultò negativo, insomma, il saldo fra i costi di difesa, intesi essenzialmente come costi di protezione dell'attività mercantile, e la loro ricaduta economica (62).
Cercando di quantificare le implicazioni finanziarie dell'impegno militare, notiamo anzitutto che le flotte da guerra armate durante i conflitti del '300 raramente superarono una trentina di galee (63). Il numero forse più elevato di vascelli a prendere il mare salpò nel 1378, quando sommarono fra trentatré e trentasette unità le due flotte armate contro i Genovesi. Ma il comune, oltre ad allestire flotte consistenti in tempo di guerra, anche in tempo di pace affidò ai propri vascelli compiti notevoli di difesa: di sostenere, cioè, il controllo sui territori adriatici e levantini ad esso legati, e di provvedere alla polizia dei mari interessati dai collegamenti con la piazza veneziana. Ciò richiese azioni di pattugliamento e di scorta delle flotte commerciali, le quali dal '300 subirono la minaccia anche di pirati turchi. Alla vigilanza da parte di una squadra "del Golfo", attiva fra Adriatico e Ionio e spesso composta di una decina di galee, si affiancarono iniziative meno sistematiche nell'Egeo. A questa custodia più o meno ordinaria dei mari e alle flotte belliche contribuirono pure vascelli forniti dall'Arsenale ma armati nei territori legati alla Repubblica. Anche in ambito lagunare, del resto, e in alcune delle vie d'acqua della terraferma retrostante, Venezia mantenne imbarcazioni a scopo di custodia e pattugliamento (64).
Difficilmente si perviene a conoscere con precisione i costi complessivi delle varie voci della spesa navale. Per la retribuzione non sopravvivono carte della camera dell'armamento, ma si hanno comunque alcuni dati analitici per la paga e l'alimentazione. Nei primi decenni del '300 un rematore o balestriere consumava viveri per 13-14 grossi ogni mese, e veniva pagato fra 75 e 90 grossi. Per queste sole voci, quindi, tenere in mare una galea con un equipaggio complessivo di centosessanta, considerata anche la retribuzione più elevata del comandante (circa 240 grossi) e di una dozzina fra nocchieri e altri "esperti" (circa 120 grossi ciascuno), poteva superare 1.700 lire a grossi al mese (65). Queste cifre evidenziano gli elevati costi di operazione delle galee e quindi spiegano perché, nel corso del '300, il comune manifestò una chiara tendenza alla compressione dei costi degli equipaggi e all'impiego - quando possibile - di manodopera reclutata nei porti dalmati e anche nelle colonie greche, provocando un deterioramento delle condizioni di servizio (soprattutto dei rematori) e conseguenti tensioni e malumori (66).
È significativo, inoltre, che nelle grandi flotte armate per le guerre contro Genova da metà secolo in poi, cioè in un contesto di manodopera diradata da epidemie e di rialzo delle retribuzioni in generale, il ricorso alla coscrizione sollevasse il comune dalla maggior parte della spesa per retribuire i rematori. In base a norme introdotte nel 1350 ogni rematore preso dalle duodene in cui erano iscritti i maschi veneziani abili al servizio percepiva 5 lire di piccoli al mese dal comune, più I lira da ogni altro componente la duodena; a queste 16 lire si potevano aggiungere altre 4, a carico dell'uomo chiamato a servire, se questi sceglieva di pagare un sostituto (67).
Per ciò che concerne la costruzione, conservazione e riparazione delle galee, delle loro attrezzature, della loro dotazione d'armi, va rilevato anzitutto il massiccio sviluppo nel primo '300 dell'attività dell'Arsenale di Castello (rispecchiato anche, lungo il secolo, in incrementi del personale amministrativo e nell'evoluzione delle procedure contabili (68). Tale sviluppo fu strettamente legato alla già ricordata assunzione da parte del comune della responsabilità di costruire e armare galee da mercato: il comune, quindi l'Arsenale, doveva infatti disporre su base stabile di vascelli assai più numerosi che nel secolo precedente. Nel 1344, per esempio, furono armate trenta o trentuno galee, la maggioranza per impiego commerciale, assieme a otto per la squadra del Golfo e cinque o sei per avversare la presenza turca nell'Egeo (69). Queste proporzioni d'utilizzo sono significative: in circostanze normali le galee per solo uso militare, fra quelle in mare e quelle tenute come riserva, erano in tutto venti o poco più. All'Arsenale esse richiedevano complessivamente meno tempo e cure delle galee da mercato, le quali nel corso del '300 si fecero meno numerose ma più capienti (ne erano in uso circa quattordici all'anno a fine '300) (70).
Per quanto riguarda la forza lavoro, ci fu un sostanziale incremento permanente di costi di manodopera. La sola costruzione del naviglio in uso normale avrebbe forse richiesto l'attività regolare di quaranta fra segantini, carpentieri e calafati, cui va aggiunta la forza lavoro - presumibilmente consistente - occorrente per interventi piuttosto frequenti di manutenzione e riparazione. In caso di guerra, poi, l'allestimento di venti galee da combattimento in sei mesi avrebbe forse impegnato circa duecentoventi artigiani. Nella retribuzione di questo lavoro, svolto obbligatoriamente a turno dai membri delle relative corporazioni, si scorge una tendenza analoga a quella già riscontrata per gli equipaggi. Laddove nel secondo '200 la paga degli artigiani a servizio del comune era stata quella corrente nei cantieri privati, nel '300 si stabilirono tariffe fisse decisamente meno generose, probabilmente già operanti a metà secolo. Infatti, nonostante per esempio un incremento retributivo per i remeri deciso nel 1349, la riluttanza degli artigiani a prestare servizio divenne un fenomeno perenne, dando luogo a misure coercitive di dubbio successo (71).
Per le materie prime impiegate nelle costruzioni navali non è agevole reperire dati analitici rappresentativi. La spesa connessa comunque conobbe un aumento notevole, per effetto del maggior numero di vascelli costruiti e mantenuti e anche della funzione assunta dall'Arsenale nella fornitura di materiale navale e bellico alle colonie marittime veneziane, come pure di materiale e macchinari per i lavori pubblici in ambito lagunare. L'ordine di grandezza usuale della spesa complessiva dei patroni all'Arsenale, fra manodopera e materiali, è comunque suggerito dal limite posto nel 1347 e ribadito nel 1349: 1.200 lire di grossi all'anno, compreso l'acquisto di legname e canapa, con l'eventualità di assegnazioni integrative (72).
Per gli stessi motivi fu notevole il costo cumulativo dovuto, soprattutto nel primo '300, all'ampliamento delle strutture e degli spazi di lavoro dell'Arsenale di Castello (73). Sin dal 1302 i patroni all'Arsenale dovevano allestire naviglio comunale solo nell'Arsenale, salvo esplicito ordine contrario; la superficie dell'Arsenale venne poi triplicata dall'aggiunta dell'Arsenale Nuovo, allestito sui quattordici ettari di un "lacus" comperato dal monastero di S. Daniele nel 1325 e probabilmente funzionante, sebbene incompiuto, nel 1341. Nel corso del secolo si moltiplicarono anche gli spazi prossimi all'Arsenale - magazzini, officine, ecc. - destinati dal comune ad attività di supporto alla cantieristica pubblica: già dai primi anni si trasformava la canapa in cordame nella Tana, e lungo la fascia meridionale dell'Arsenale Nuovo si sviluppò la produzione di armi e armature. Iniziò nel terzo decennio l'impiego per granaglie di magazzini a S. Biagio (prima usati per il sale, per il quale si costruirono magazzini nuovi alla Punta della Dogana); attorno a S. Biagio si allestirono forni da biscotto, mentre nei pressi dell'Arsenale il comune acquisì case via via più numerose per l'uso dei patroni, dei proti e dei salariati fissi.
La difesa terrestre comportava anzitutto i costi di costruire e mantenere alcuni luoghi fortificati e di pagare forze permanenti per presidiarli: sia nei pressi di Venezia e nei luoghi chiave di transito verso l'entroterra italiano, sia - componente più importante - nelle varie località più lontane legate al comune. Tali presidi furono solitamente di entità modesta, pur con eccezioni come quelli di stanza nell'isola di Creta dopo la ribellione del 1363, ma raggiunsero un numero complessivo consistente. Il loro peso nel bilancio oscillò in rapporto anche alle alterne vicende della presenza veneziana nei territori costieri fra Adriatico e Ionio, ma fu certamente aumentato dall'annessione del Trevigiano nel 1338 e poi dall'acquisizione di nuovi possedimenti marittimi a fine secolo.
Per quanto concerne la composizione e i costi degli eserciti campali, il '300 si profila come periodo di transizione, caratterizzato dall'utilizzo in guerra sia della milizia cittadina (i bersagli per l'esercizio nel tiro al Lido figurano come spesa ordinaria), sia di truppe mercenarie italiane e tedesche, evidentemente ben più costose. Di queste è attestato l'uso in numero significativo contro Zara nel 1311-1312, e poi con maggiore frequenza e importanza relativa a partire dalla guerra contro gli Scaligeri nel 1336-1338. Singoli contratti con condottieri indicano costi unitari (9 ducati per ogni lancia di cavalleria nel 1336, divenuti 18 ducati nel 1373) ma scarseggiano dati o stime per il costo complessivo degli eserciti: nell'intervento contro Zara del 1344-1346, per esempio, questo fu di circa i 6.000 ducati al mese. Va comunque rilevato che la natura limitata e alterna del suo diretto intervento nelle contese territoriali italiane del '300 fece sì che Venezia comprendesse con qualche decennio di ritardo, rispetto ad altri stati italiani, l'opportunità di una maggiore continuità nel suo ricorso a truppe e comandanti mercenari (74).
Occorre accennare, inoltre, all'incidenza intermittente ma talvolta notevole di altri esborsi connessi allo svolgimento della politica estera: sussidi e prestiti elargiti ad alleati - per esempio più di 220.000 fiorini dati agli Aragonesi nella guerra genovese del 1350-1354, 0 30.000 ducati prestati nel 1342 su garanzia di gioielli all'imperatore bizantino Giovanni V Paleologo (che non restituì il prestito, e nel 1373 ebbe altro denaro); indennizzi, come i 100.000 fiorini dati al papa dopo la guerra di Ferrara; pensioni e doni offerti a condottieri, come i 1.000 ducati all'anno assegnati a Luchino dal Verme nel 1364 (per la repressione della ribellione di Creta); versamenti per assecondare richieste o pressioni, come per esempio i 12.000 ducati dati al papa nel 1359 in cambio del permesso di commerciare con l'Egitto, o i fondi impiegati nel 1383 per convincere gli abitanti di Tenedo ad allontanarsi; denaro offerto per impossessarsi di territori, come i 160.000 ducati promessi a Giovanna di Napoli per le isole Ionie nel 1351, o le somme più modeste effettivamente pagate per appropriarsi di Nauplia ed Argo quarant'anni dopo (75).
Nel '300 le basi economiche e demografiche su cui si fondava il prelievo fiscale del comune veneziano conobbero vicende alterne, che furono spesso di segno negativo nella seconda metà del secolo. Il prelievo tuttavia mantenne essenzialmente la struttura complessiva acquisita nel '200, caratterizzata anche da un margine variabile ma significante di evasione e mancata esazione (76).
Gli introiti più o meno ordinari erano costituiti quasi interamente da dazi, che a fine '200 venivano riscossi mediante il ricorso via via più diffuso all'appalto. Essi colpivano anzitutto i generi di consumo, specialmente vino, carni e sale. Nel 1318, per esempio, il dazio sul vino venduto nelle osterie aggiungeva il 40-53% al prezzo pagato dagli osti, e le cifre accennate in occasione di una riduzione tariffaria dello stesso dazio, deliberata nel 1342, fanno pensare che il prelievo sulla vendita all'ingrosso nelle taverne rendesse attorno a 10.000 ducati all'anno. La modifica del 1342 mirava ad alleggerire una tassazione tanto pesante da danneggiare l'attività delle taverne, e un criterio analogo - di rimediare a problemi evidenti nell'afflusso di vino a Venezia - determinò una parte delle modifiche apportate durante il secolo ai dazi d'importazione: si tendeva a tassare il vino, insomma, al limite massimo di tolleranza economica non meno che sociale (77).
In secondo luogo, i dazi tassavano i traffici, con incidenza quasi sempre piuttosto lieve ma con gettito elevato in presenza di scambi floridi. I dazi doganali, i più importanti sotto il profilo del gettito, avevano assunto nel corso del '200 un assetto articolato e complesso. Alle più antiche tariffe base - del quinto, del quarantesimo e dell'ottuagesimo, differenziate in rapporto all'itinerario e/o al proprietario delle merci s'erano sovrapposti regimi specifici sia per i mercanti di determinate località, sia per singole categorie di merci; c'era comunque la chiara tendenza generale a privilegiare operatori veneziani rispetto ai forestieri, come notò anche Francesco Balducci Pegolotti nel manuale di mercatura che redasse attorno al 1340 (78). Sulle transazioni commerciali s'era introdotto il redditizio dazio della messetteria, dovuto da ciascuno dei contraenti a un tasso che per buona parte del secondo '200 era fissato allo 0,5% del valore capitale, col ricavo destinato nella misura del 70% al comune e del 30% al sensale (79).
A prescindere da variazioni di tasso introdotte per motivi di bilancio, il comune a volte modificò le tariffe doganali riguardanti specifici itinerari e generi merceologici allo scopo di orientare i traffici, come avvenne durante il '300 - in una sequenza di decisioni contrastanti - nel commercio con le Fiandre, indirizzato ora verso la rotta marittima, ora verso questa o quella via di terra"). Ciò sottolinea come il regime daziario costituiva una componente centrale della politica commerciale della Repubblica, tassando ma anche appoggiando i suoi mercanti e vascelli e lo stesso mercato realtino: il comune promuoveva il volume dei flussi, delle transazioni e dei profitti mercantili realizzati a Venezia, così sostenendo pure le entrate daziarie (81).
Il comune appoggiava inoltre il rendimento dei dazi intervenendo presso altri governanti per assicurare ai suoi cittadini condizioni fiscali di favore e, soprattutto, per moderare il prelievo altrui su tutti i traffici, marittimi e terrestri, interessanti la piazza veneziana. L'importanza che ciò poteva assumere si coglie, per esempio, nella minaccia posta dalla politica daziaria scaligera sui transiti di terraferma, causa primaria della guerra intrapresa da Venezia nel 1336 e della conseguente annessione del Trevigiano con le sue vie commerciali (82). Sul versante interno, poi, il comune conduceva una perenne battaglia, mai vinta, contro varie forme di evasione dei propri dazi, le cui esigenze di riscossione fra l'altro condizionavano la stessa ubicazione dei luoghi urbani autorizzati per il deposito e la vendita di molti generi di merci (83).
Per ciò che riguarda l'eventuale impiego protezionistico delle tariffe daziarie, la priorità attribuita da Venezia all'attività mercantile frenò lo sviluppo della produzione manifatturiera destinata all'esportazione, dovendosi incoraggiare anzitutto l'afflusso dei prodotti altrui. Ciononostante, la promozione governativa di determinate attività - le costruzioni navali, la lavorazione del vetro e dei metalli, la produzione di tessuti di lana e soprattutto di seta - si esprimeva in parte anche mediante il regime daziario applicato a materie prime e prodotti lavorati. Così, per esempio, fra il quinto e il sesto decennio del '30o il comune accolse una serie di istanze rivoltegli dai setaioli lucchesi attivi a Venezia, per moderare il prelievo daziario e quindi promuovere la produzione veneziana, con l'occhio rivolto anche all'analoga produzione in mano a Lucchesi a Bologna. Le tariffe daziarie evidenziano inoltre condizioni di parziale favore per l'Arte della lana cittadina, soprattutto nei confronti della concorrenza padovana (e pare che sia stato il sostegno contro questo avversario a motivare il prestito accordato dalla camera del frumento all'Arte nel 1374, per la costruzione di folli) (84).
Le entrate minori ebbero un'incidenza secondaria, ma fu comunque significativo l'introito a carattere patrimoniale proveniente dai canoni di cessione di stabili, banchi e spazi pubblici soprattutto nell'area realtina (85). Nel 1344, fra l'altro, venne spostata a Rialto la vendita di scarti di legname dell'Arsenale a fornaciai e panettieri, per ricavarne prezzi migliori: dettaglio che la dice lunga sullo spirito di parsimonia veneziano (86).
S'è fatto cenno, nella discussione delle spese, all'impiego di introiti provenienti dalle grazie: essenzialmente il ricavato - computabile in qualche migliaio di lire nel secondo '200 - del rilascio di permessi speciali per l'esportazione da Venezia di determinate merci, soprattutto il vino (87). I proventi di condanne, multe e sanzioni, se ammontavano complessivamente a una somma significativa, tendevano in buona parte a scomparire nella gestione delegata degli organi che le comminavano. L'entità e anche la varietà delle sanzioni pecuniarie sono comunque attestate dalle numerose grazie concesse in merito; la stessa fonte testimonia inoltre la frequente disponibilità del comune a diminuire o rateizzare le pene comminate, anche perché riusciva così a realizzare incassi e a diminuire i propri costi di carcerazione (destino normale di chi non pagava) (88).
L'operazione della flotta comunale di galee da mercato procurò in un primo tempo, come s'è accennato, consistenti introiti derivanti dai noli, ma provocò difficoltà di cassa e forse anche perdite complessive. Nella gestione a regime di appalto che poi divenne usuale, ci furono notevoli oscillazioni del numero di galee armate e anche delle cifre d'appalto, comunque spesso consistenti. Nel periodo 1332-1345, per esempio, le due mude di Costantinopoli e Cipro impiegarono un massimo di diciotto galee, e le cifre d'appalto sommarono 100.400 ducati - ma non è dato di sapere se il comune abbia tratto profitti complessivi (89).
Quanto alle camere del frumento e del sale, furono notevoli - e complessivamente molto superiori alle uscite - gli incassi derivanti dalla vendita di granaglie e sali a consumatori veneziani e (soprattutto per i sali) ad acquirenti stranieri. Sui margini di profitto nella vendita del frumento ai Veneziani incideva negativamente il periodico eccesso di giacenze, che comportava perdite dovute al deterioramento delle scorte e imponeva la vendita forzata ai residenti della città, magari a prezzi inferiori a quelli d'acquisto e comunque con difficoltà di riscossione dovute all'ostilità verso l'obbligo mostrata da molti Veneziani. La camera del sale, invece, certamente realizzava un utile netto molto consistente: nel biennio 1299-1300 gli incassi furono circa 58.000 lire a grossi annue, contro somme liquidate ai mercanti fornitori di 14.500 lire nel 1299 e 29.000 nel 1300 (90).
Per ciò che riguarda la Zecca, i metalli preziosi destinati alla coniazione procuravano entrate maggiori per il comune sotto il profilo daziario, che mediante i profitti connessi alla monetazione. Come s'è già ricordato, questa veniva infatti concepita anzitutto come mezzo di sostegno dell'attività mercantile, mentre altri governi tendevano a manipolare e svilire la moneta a scopo di profitto in misura generalmente assai maggiore della prassi veneziana. Talvolta, tuttavia, il comune ricavò consistenti utili dalla monetazione: così soprattutto con i torneselli, moneta divisionale coniata per le colonie greche a partire dal 1353 e introdotta in circolazione anzitutto mediante i pagamenti operati dagli ammiragli, rettori e castellani del comune (91).
Risaliva al 1331 o 1332, invece, un meccanismo che da allora permise di realizzare utili regolari e consistenti su buona parte dell'attività della Zecca: la cessione obbligata alla Zecca, a prezzi inferiori a quelli correnti, di un quinto dell'argento importato a Venezia. Ciò fra l'altro consentiva un utile netto per la Zecca di addirittura il 25-30% sul prezzo d'acquisto: margine assai più elevato di quello realizzabile con l'acquisto "libero", tanto da creare una specie di tassa di fatto, di circa il 4%, su tutto l'argento importato a Venezia. Pur con modifiche il meccanismo rimase in atto per tutto il '300, con chiare finalità di introito - anche se la misura dell'utile effettivo sfugge al calcolo (92).
Vanno infine ricordati gli utili - pur essi difficili da quantificare - realizzati nelle operazioni di incasso ed esborso per effetto degli aggi, già ricordati sopra, fra moneta pregiata e divisionale.
Ci furono anche introiti di natura più prettamente occasionale, ma è dubbio se quelli apparentemente più consistenti lo fossero anche realmente. Firenze, per esempio, saldò solo nel 1352 i 31.719 ducati dovuti a Venezia come quota di perequazione delle spese sostenute contro i della Scala in alleanza con Venezia nella guerra conclusasi nel 1339; e non è da supporre che il comune abbia incassato più di una frazione dell'indennità di guerra di 250.000 ducati promesso nel 1373 dallo sconfitto signore di Padova (93).
Variazioni praticate alle tariffe dei dazi consentirono di aumentare il prelievo fiscale ordinario nel corso del secolo, ma le singole emergenze - guerra, carestia o epidemia - che provocarono un improvviso bisogno di maggiori introiti tendevano a coincidere con una contrazione dell'attività economica tassata, quindi - a parità di tariffa - anche del gettito daziario. A maggior ragione, perciò, il prelievo straordinario era costituito in primo luogo da oneri diretti. Nel corso del '200 era scomparsa dall'uso l'imposta diretta a fondo perduto, anche se permanevano alcuni oneri a carattere personale. Questi erano connessi principalmente all'esecuzione dei lavori pubblici e al servizio di milizia, e la loro organizzazione era imperniata anzitutto sulle contrade; per alcuni oneri l'obbligo si estendeva alle comunità del Dogado (94).
In sostituzione dell'imposta a fondo perduto si erano introdotti prestiti forzosi, variabili nell'ammontare e nella frequenza d'imposizione, pagati dai singoli in base a dichiarazioni ed eventuali accertamenti del proprio patrimonio imponibile. A contribuire ai prestiti era principalmente ma non esclusivamente l'élite di governo, come evidenziano le norme impositive e anche il primo elenco a noi noto - risalente al 1379 e conservato in copia tarda - dei nominativi e del rispettivo imponibile. Secondo il computo di Luzzatto l'imponibile complessivo fu allora di 6.294.040 ducati, diviso fra duemilacentoventotto contribuenti laici (milleduecentonove nobili e novecentodiciannove popolani) - forse un capofamiglia su otto in rapporto alla popolazione di Venezia - e trentotto enti religiosi (95).
Le norme in vigore a fine '200 obbligavano al contributo tutti i soggetti - laici ed ecclesiastici - proprietari di beni immobili, i quali venivano stimati a dieci volte la loro rendita; nel 1313 l'obbligo venne esteso a proprietà situate fuori Venezia. Per i laici era computato anche il patrimonio mobiliare, con l'esclusione di tutti i titoli di prestito (a quanto pare a partire dal 1346), del vestiario e delle suppellettili. Per la componente mobiliare, stimata in base a dichiarazioni rese dai contribuenti, è presumibile un'incidenza notevole di sottovalutazione e occultamento, soprattutto per capitali commerciali impiegati fuori Venezia. L'imponibile non comprendeva redditi derivanti dall'esercizio di professioni e mestieri, e neppure la retribuzione delle cariche pubbliche, con la sola eccezione di quella ducale (96). Fino al 1325 la soglia di esenzione dal contributo per i meno abbienti fu di 5o lire d'estimo (allora equivalenti a 50 lire a grossi); venne allora elevata a 100, e poi nel 1339 a 300, restando invariata per il resto del secolo (97).
Col prolungarsi dell'attesa per il rimborso i prestiti avevano assunto, nel secondo '200, il carattere dei titoli negoziabili e fruttiferi di un debito consolidato, forse il primo d'Europa; gli interessi, liquidati in rate semestrali, erano del 5% annuo del valore nominale, cosicché i rendimenti reali erano spesso superiori. Il debito consolidato, solo più tardi detto Monte, costituiva un elemento strutturale del capitalismo mercantile e di tutta l'economia veneziana del '300, del cui andamento era allo stesso tempo spia e fattore causale fondamentale (98). Furono infatti nefaste, come si vedrà, le conseguenze economiche della crisi dell'intero assetto del prelievo diretto e del debito consolidato causate dalla guerra di Chioggia (1378-1381), quando si ebbe un parziale ritorno all'imposizione diretta a fondo perduto.
Fino a quell'epoca, tuttavia, il debito fu una forma d'investimento generalmente gradita ai Veneziani, spesso scelta dai procuratori di S. Marco per i patrimoni da essi amministrati, e gradita anche ai vari forestieri facoltosi che nel corso del secolo ottennero il permesso di acquistare titoli. Attirò in ogni momento, inoltre, l'interesse di speculatori, grazie anche a fluttuazioni di mercato come quelle attestate a fine secolo da lettere scambiate tra i fratelli Contarini, da cui risulta che nell'agosto 1392 gli "imprestedi in 3 di saltò da L. 49 1/2 in L. 55 e mo' è andadi a 53" (99). Non sembrano aver influito molto, quindi, i dubbi espressi dai teologi del '300 sul rischio di usura connesso agli interessi percepiti da chi acquistava titoli, anziché da chi semplicemente versava - forzosamente - i prestiti richiesti dal fisco a fine di pubblica utilità (100). Nonostante i titoli attirassero anche piccoli investitori piuttosto numerosi, il mercato dei prestiti tendeva comunque a ingrossare i patrimoni soprattutto dei contribuenti con maggiore disponibilità di liquidità: il loro acquisto speculativo dei titoli veniva agevolato particolarmente in fasi di ribasso delle quotazioni, quando altri si trovavano costretti al realizzo di prestiti vecchi per poterne pagare di nuovi.
Era essenzialmente il gettito dei dazi, compresi quelli sui consumi di massa, a coprire il pagamento degli interessi e la restituzione dei capitali del debito, e a Venezia nel '300 crebbe il tasso complessivo di prelievo daziario, pur oscillando notevolmente come - del resto accadde a Firenze (101). Perciò conviene a questo punto allargare i termini dell'analisi per offrire delle brevi considerazioni sul profilo sociale complessivo del prelievo fiscale, in rapporto anche al contesto europeo trecentesco di numerose proteste fiscali, che nell'Italia centro-settentrionale furono spesso un fenomeno urbano. A Firenze nel 1378 i Ciompi contestarono un meccanismo "classista" di ridistribuzione della ricchezza del tutto analogo al rapporto veneziano fra entrate daziarie e prestiti (meccanismo comune un po' a tutte le grandi città-stato italiane) (102).
Le tensioni in materia fiscale a Venezia, tuttavia, attestate con insistenza anche se un po' sfuggenti nella loro configurazione precisa, non sfociarono in sommosse. Ebbero infatti una focalizzazione politica sostanzialmente diversa dalla protesta dei Ciompi, sebbene anche a Venezia la massa del popolo fosse indubbiamente parte fiscalmente lesa (103). Esse si concentrarono all'interno degli organi e dello stesso ceto di governo, e furono in buona parte imperniate sul rapporto fra la conduzione della politica commerciale ed estera in Levante e la gestione di dazi e debito consolidato. Esse investirono, in particolare, la scelta fra regime liberista o vincolato delle importazioni, e la diversa ripartizione rispettivamente degli interessi economici specifici tutelati dalle guerre e dei costi collettivi da esse provocati (104).
La guerra contro Genova del 1294-1299 infatti inaugurò una serie intermittente ma secolare di conflitti i cui risvolti finanziari pesarono maggiormente ora sull'intera élite di governo, ora sulla minoranza di armatori e mercanti principalmente attivi negli scambi col Levante. L'interesse dei più veniva toccato dall'imposizione di consistenti nuovi prestiti, come pure dalla compressione dei fondi disponibili per le cariche retribuite, attuata a favore del bilancio della difesa e del servizio del debito. Tornava certamente a danno della minoranza, invece, la maggiorazione del prelievo daziario sugli scambi levantini. Risultano meno unilaterali le implicazioni della caduta delle quotazioni dei titoli del debito, causata dal moltiplicarsi dei nuovi prestiti e/o dallo storno dei fondi destinati a ridimensionarlo. Tale caduta doveva essere maggiormente dannosa per i grandi armatori e mercanti, che possedevano ampie quote del debito, ma essi spesso disponevano anche dei mezzi per l'acquisto speculativo dei titoli in ribasso. D'altronde era socialmente diffuso, per esempio, l'impatto dell'obbligo imposto ai procuratori di S. Marco, di sostenere i titoli del debito a condizioni di favore per il governo investendo in essi i capitali delle commissarie perpetue da loro amministrate (che erano probabilmente quasi un migliaio a fine '300 (105). A questa contrapposizione un po' confusa di interessi corrispose una politica finanziaria soggetta a improvvisi mutamenti di consenso e quindi d'indirizzo, perciò per certi versi contraddittoria e di corto respiro. Di questi scontri fece parte anche il ricorso, già ricordato, a speciali consigli più o meno plenipotenziari in tempo di guerra.
D'altronde, prevalse a sufficienza l'interesse comune perché non si corresse il rischio di consegnare la finanza pubblica nelle mani di pochi creditori, come invece accadde a Genova. Soprattutto nella prima metà del secolo, quando i traffici e tutta l'economia godettero di salute complessivamente molto buona (106), il loro rapporto con la finanza pubblica fu prevalentemente di reciproco sostegno, come si vedrà nella vicenda del debito consolidato, ma anche fino alla guerra di Chioggia il comune riuscì a gestire il debito con una certa coerenza di fondo. Seppe contenere l'ammontare e anche il tasso d'interesse su livelli significativamente inferiori, soprattutto nella prima metà del '300, a quelli attestati per la grande rivale, Genova (107). Pagò regolarmente gli interessi semestrali dovuti, e soprattutto fino a metà secolo sfruttò periodi di pace per impiegare somme consistenti nell'ammortamento, ridando ala alle quotazioni dei titoli e restituendo ai contribuenti risorse con cui affrontare future richieste. Ed è bene aggiungere che la recente correzione di errori di interpretazione commessi da Luzzatto ha notevolmente abbassato il valore percentuale del prelievo in rapporto al totale d'estimo per buona parte del '300. Perciò, come si vedrà, i prestiti richiesti durante la guerra di Chioggia ammontarono al 40% del totale d'estimo: valore percentuale pur sempre elevatissimo (e corrispondente alle stesse somme di denaro calcolate da Luzzatto), ma assai meno del 107 % precedentemente attribuito (108).
In appendice a questa discussione occorre ricordare che la politica finanziaria e fiscale veneziana del '300 provocò tensioni politiche talvolta assai gravi nei territori legati al comune e soprattutto a Creta, come attesta una storiografia consolidata. La ribellione dell'isola nel 1363, ampiamente sostenuta dai Veneziani di Creta e molto costosa da reprimere, fu in buona parte dovuta a cause finanziarie e fiscali: oltre allo stretto controllo veneziano sulla gestione finanziaria locale, quindi, l'imposizione non pattuita di nuove forme di prelievo fiscale, i bassi prezzi pagati dal comune nell'acquisto del frumento isolano, e principalmente - motivo anche di insurrezioni precedenti - il peso dei contributi di uomini, vascelli, granaglie e denaro chiesti con frequenza sin dagli anni Trenta per azioni belliche contro i Turchi, come pure contro Zara ribelle (109).
L'intero sistema della finanza pubblica veneziana fu caratterizzato dalla relativa rigidità delle uscite regolari e soprattutto delle entrate ordinarie, in contrasto con le oscillazioni di spese belliche, interessi e ammortamento del debito consolidato e imposizione di prestiti forzosi. A far convivere rigidità e oscillazioni, a coprire bisogni troppo urgenti rispetto ai tempi di riscossione dei prestiti forzosi, ma anche a tamponare brevi fasi di gestione deficitaria, servì il debito fluttuante. Questo si basava su una varietà di strumenti, compresi i ritardi di pagamento per i creditori del comune, ma sfruttava anzitutto mutui volontari, grandi e piccoli, accesi con privati. Si trattava prevalentemente di depositi vincolati e fruttiferi, a tassi fissi o negoziati che nel '300 spesso superavano semmai di poco gli utili conseguibili con i prestiti. Anche se il comune fece ricorso in più occasioni, con modi talvolta spicci, ai fondi dei patrimoni amministrati dai procuratori di S. Marco, la fonte principale di capitali era il libero mercato, compresi settori per così dire specializzati come il denaro riservato alle doti (110).
I mediatori istituzionali privilegiati del debito fluttuante erano i procuratori di S. Marco e, come si è già anticipato, le camere del frumento e del sale, le quali assunsero alcune delle funzioni di una banca di Stato. La restituzione dei crediti della camera del frumento, fino alla guerra di Chioggia mediatore di gran lunga più importante dei tre (e quindi periodicamente gravato da indebitamento notevole), venne spesso assicurata dall'assegnazione di futuri introiti fiscali, piuttosto che dal ricavato delle vendite delle granaglie, e talvolta anche la camera del sale procedette in modo analogo. Va aggiunto che nel '300 le due camere e anche i procuratori di S. Marco accolsero consistenti depositi pure da parte di forestieri, in buona parte governanti desiderosi di accantonare una parte della propria fortuna e attratti dalla garanzia di sicurezza che assunse addirittura il carattere di uno statuto (111).
Potendo disporre ampiamente di credito a breve termine mediante le istituzioni appena ricordate, anzitutto la camera del frumento, il comune sembra aver chiesto prestiti ai banchieri assai raramente prima della guerra di Chioggia. Ma il dissesto allora provocato nelle finanze della camera del frumento impose al comune cambiamenti di strategia, fra cui l'avvio già durante la guerra stessa di quello che nel '400 sarebbe divenuto un ricorso assiduo alle banche (112). Nel corso del '300 divenne comunque diffuso l'impiego della moneta di banco in alcune operazioni riguardanti il comune, particolarmente nei versamenti dovuti agli ufficiali all'estraordinario (per noli di galee, dazi, ecc.) (113). Questo fenomeno va rapportato al generale incremento delle operazioni bancarie durante il '300, in parte provocato dai problemi monetari - e sia nel 1356 che nel 1374, in momenti di crisi dei banchi privati, il senato considerò proposte di creazione di un banco di Stato che svolgesse prevalentemente operazioni di giro fra privati (114).
Il pesante prelievo di prestiti forzosi nella seconda guerra contro Genova del 1294-1299 aveva aumentato il debito consolidato a un totale di circa 1,5 milioni di lire a grossi, e nel 1299 le quotazioni dei titoli erano scese a un minimo storico di 60%. La Tab. 2 evidenzia l'enorme scarto fra nuova imposizione e restituzioni negli anni 1287-1313: prestiti imposti per il 75,5% dell'imponibile, contro restituzioni per forse un quarto di quel valore. La politica estera del primo ventennio del nuovo secolo richiese nuovi prestiti di entità secondaria, per esempio per il pattugliamento navale dell'Adriatico e per la guerra contro Padova del 1304, ma il prelievo principale si concentrò negli anni 1308-1313: per la guerra di Ferrara, per il conseguente versamento di 100.000 fiorini di indennizzo al papa, per vincere la ribellione di Zara (115).
Nel settembre 1304 Si dovette aumentare la somma mensile accantonata per pagare gli interessi (117), e anche se fino al 1309 vennero redenti prestiti di vent'anni prima, negli anni subito successivi il totale del debito consolidato fu quasi raddoppiato: nel 1313 sommava a circa 2,8 milioni di lire a grossi, con interessi annui di circa 140.000. Va sottolineato che i tempi ormai lunghi di redenzione segnano un mutamento strutturale e irrevocabile nella vicenda del debito, come evidenzia la Tab. 2. Tempi medi di
restituzione ormai assestatisi sui trent'anni diedero ai prestiti un profilo economico ben diverso rispetto al secondo '200, esaltandone la funzione di investimento a lungo termine e di fonte di rendita: cambiamento che fra l'altro più o meno coincise, nel contesto europeo, col diffondersi di forme di investimento mercantile a durata più lunga da parte di mercanti che diventavano via via più sedentari (119).
Nei decenni fra il 1313 e la metà del '300, comunque, nonostante una certa incidenza di prestiti nuovi, il comune riuscì ad abbassare notevolmente il totale del debito: a 1,8 milioni di lire a grossi nel 1334, a 1,1 milioni nel 1343 (e probabilmente a circa un milione all'indomani della Peste Nera, ossia a due terzi del totale del 1299). Di conseguenza le quotazioni, rimaste nell'ambito del 60-80% fra il 1303 e il 1320, nel trentennio successivo furono fra l'80% e il 102%. Va ricordato a questo proposito un provvedimento adottato nel 1333, quando i prestiti si scambiavano al 100%, che ebbe l'effetto di sostenerne ulteriormente le quotazioni: per arginare il crescente possesso immobiliare da parte di enti ecclesiastici e pii ma anche, indirettamente, per convogliare capitali verso l'acquisto di titoli di prestiti, venne fissato un limite decennale al loro possesso di beni immobili a Venezia per effetto di lasciti testamentari (120).
Il risanamento venne avviato dalla legge di regolamentazione finanziaria votata dal senato nel 1314, che ebbe come obiettivo primario la copertura dell'ammortamento del debito consolidato. L'assegnazione non consisteva più nelle eventuali entrate residue, non assorbite dai versamenti d'interessi sui vecchi titoli e dalle spese correnti, ma in un deposito specifico presso i procuratori di S. Marco cui si destinavano 5.000 lire a grossi ogni mese. La delibera del 1314 venne più volte riconfermata nel periodo fino alla guerra scaligera del 1336, con un'assegnazione poi aumentata: fu generalmente di 6.500 lire a grossi, ma toccò punte di 7.000 fra il 1324 e il 1325, e di 7.500 dal 1335. Furono pochi, in confronto, i prestiti imposti: 2,5% dell'imponibile nel 1315, e poi fino al 1334 un altro 4% soltanto, anche se fra il dicembre 1324 e il luglio 1330 si preferì deviare a spese correnti il fondo di ammortamento pur di non imporre prestiti (121).
Il periodo fra il 1335 e la metà secolo ebbe una maggiore incidenza di spese belliche e di conseguenti nuovi prestiti: soprattutto l'intervento antiscaligero del 1336-1338 e i combattimenti per il controllo di Zara fra il 1345 e il 1348. Ciononostante le quotazioni dei titoli rimasero alte: calarono all'85% durante la guerra scaligera, ma negli altri anni non scesero sotto il 94%, e nel 1344 toccarono il 102%, massimo assoluto per tutto il '300. La redenzione dei vecchi titoli fu interrotta nel 1337-1338, ma l'intenzione di tagliare drasticamente l'indebitamento è chiara dall'aumento del fondo di ammortamento votato nel 1339: da 7.500 a 25.000 lire a grossi al mese, poi ridotte a 22.500 nel 1340. Le cifre annue di questo stanziamento - 270-300.000 lire a grossi all'anno - vanno rapportate a un bilancio di circa 670.000, in cui ammortamento e interessi (circa 55.000) ammontavano a circa la metà delle uscite. Dopo il 1343, tuttavia, si operarono storni e lo stesso stanziamento fu ridotto a 16.000 lire mensili nel 1344, per coprire il deficit di bilancio di 60.000 lire l'anno. Seguirono ulteriori riduzioni, a 12.000 nel 1347 e a 8.000 nel marzo 1348 (quando si ritenne di avere un'eccedenza di bilancio di circa 80.000 lire). Intanto le restituzioni di prestiti divennero sporadiche grazie a deviazioni dello stanziamento per coprire spese belliche, contro i Turchi e poi in Istria e Dalmazia, e anche - come si vedrà - per risanare la camera del frumento (122).
Per quanto riguarda le spese diverse da quelle legate alla politica estera e al debito consolidato, in particolare il livello di retribuzione delle cariche, la documentazione non testimonia modifiche clamorose durante il primo '300. Sembra essersi verificato un loro graduale aumento, almeno in parte da considerarsi come adattamento alle vicende monetarie, assieme a brevi oscillazioni di senso alterno legate alle contingenze belliche. La pace del 1299 fu infatti seguita dalla revoca di economie da poco imposte e avviò un decennio di sporadici incrementi, nonostante si prescrivessero impedimenti come l'obbligo di ottenerli solo mediante grazia (obbligo deliberato nel 1302 per il personale subalterno delle magistrature, e poi esteso nel 1317 ai titolari patrizi) (123). Ci fu un'analoga alternanza fra economie e aumenti attorno al 1312-1314, e poi molti incrementi nel 1341-1342, peraltro in sintonia con spese cospicue per lavori pubblici (124).
Il limite delle 3.000 lire a grossi mensili di spese ordinarie, posto dalla ligatio del 1262, resistette a lungo, seppure con valenza sempre più simbolica. Nel 1322 falli una proposta di aumentare lo stanziamento, e nel 1335 si condannò la copertura con altri fondi delle spese ordinarie ad esso assegnate. Sono comunque numerosi i segni della consapevolezza di fatto che molte spese erano da considerarsi regolari o ricorrenti, se non proprio ordinarie ai sensi della ligatio: per esempio la creazione, nel 1323 e 1324, di depositi mensili con la durata di qualche anno per meglio assicurare spese specifiche (50 lire di grossi al mese per l'Arsenale, 2.000 lire a grossi per lavori ai pozzi della città, ai lidi, alle paludi); oppure i tagli al fondo d'ammortamento operati negli anni Quaranta, come pure parecchi degli storni dello stesso fondo (125).
Nel novembre 1349 lo stanziamento della ligatio venne finalmente aumentato da 3.000 a 6.000 lire a grossi mensili, ossia 72.000 lire all'anno (126). La delibera del 1349 indicava come ordine di priorità complessiva per la gestione delle uscite: le tradizionali spese ordinarie (soprattutto salari) coperte dalle 72.000 lire annue; il pagamento degli interessi sui prestiti; poi altre spese divenute di fatto ordinarie ma comunque variabili - principalmente la guardia navale dell'Adriatico, i lavori al Lido, il saldo dei costi di governo e di difesa dell'Istria, di Zara e di Negroponte, e le spese dell'Arsenale. Il residuo, da depositare presso i procuratori di S. Marco, si destinava alla restituzione dei prestiti.
A mo' di appendice a questi cenni sulle spese conviene ricordare che nei primi anni del suo diretto controllo sul Trevigiano il comune dovette coprire un deficit nei costi locali di governo e difesa. Praticò aumenti dei dazi e nominò più volte apposite commissioni, in analogia con i provvedimenti periodici per ridurre deficit relativi ai possedimenti veneziani da mar (come quelli del 1336, presi in diretta relazione ai costi bellici della guerra scaligera). Nel 1344, e almeno per qualche anno, la situazione era sufficientemente migliorata perché Treviso cominciasse a restituire 26.000 ducati inviati da Venezia negli anni precedenti per saldare il deficit del bilancio locale (che comportava uscite dell'ordine di 20.000 ducati all'anno) (127).
Nei primi decenni del '300 l'incidenza di costi bellici non provocò importanti variazioni nell'intensità di prelievo daziario, il cui gettito quindi mutò anzitutto in relazione all'andamento dell'economia. Fu marginale l'impatto di una commissione temporanea incaricata di rivedere i dazi fra il 1299 e il 1301. Poi le notevoli spese di guerra fra il 1309 e il 1313 furono coperte essenzialmente da storni e prestiti nuovi, e proposte di aumenti daziari temporanei nel 1312 sortirono molte controversie e un unico risultato di rilievo: la messetteria fu elevata allo 0,5% del valore delle merci trattate, e applicata a transazioni precedentemente non tassate (noli di naviglio, cambi, ecc.). Nel 1312-1313 si fece ricorso anche a espedienti finanziari: pressioni perché Creta mettesse a disposizione parte delle sue entrate, e vendita di galee del comune come pure degli immobili da esso comperati (esclusi gli stabili di Rialto e i magazzini del sale e del grano) (128).
Tra la fine del terzo e l'inizio del quarto decennio vi fu qualche intervento sui cespiti daziari: limiti posti alle grazie concesse in deroga dei dazi, provvedimenti per tutelare il gettito del dazio della messetteria, ma anche incrementi sostanziali del prelievo soprattutto sulla vendita del vino (129). Solo con la guerra scaligera, tuttavia, vi furono incrementi sostanziali e generalizzati del prelievo daziario, introdotti nel 1338 per coprire spese militari. Poi il grande aumento, a partire dal 1339, degli stanziamenti per l'ammortamento dei prestiti richiese il mantenimento di buona parte di questi incrementi, deciso mediante rinnovi annuali in cui s'introdussero alcuni alleggerimenti ma anche importanti modifiche tecniche. Nel 1346, infatti, si applicò a molti dazi doganali una tariffa a peso, in sostituzione di aleatorie dichiarazioni di valore, e nel 1347 vi fu una radicale riorganizzazione della vendita del vino al dettaglio. Nel complesso questo maggior prelievo interessava principalmente voci di consumo come il vino, l'olio, le beccherie, le carni salate, i formaggi, il sego. Dopo la guerra scaligera, infatti, il dazio della messetteria, sebbene esteso anche alla compravendita di naviglio, immobili e terre site nel Dogado, fu riportato al tasso dello 0,25% a carico di ciascun contraente, mentre per i dazi doganali sui grandi commerci buona parte del maggior carico imposto sembra essere cessata (130).
Anche per quanto concerne il gettito dei singoli prestiti forzosi, le spese belliche e la connessa frequenza di prelievo furono la causa principale degli interventi periodici per aggiornare gli estimi e per consolidare o incrementare l'imponibile complessivo. L'estimo nuovo ordinato nel 1312 durante la guerra di Ferrara aumentò sostanzialmente l'imponibile dai valori del 1291; la revisione successiva, del 1323, doveva anche adeguare le aliquote a una situazione monetaria mutata, e venne peraltro applicata retroattivamente a un prestito decretato contemporaneamente con l'ordine di revisione. Nel 1346, di nuovo in periodo bellico, venne ordinata un'ulteriore revisione (131).
Alle vicende dell'estimo si aggancia una questione di portata più generale, insieme economica e politica. Nei primi decenni del '300 l'indirizzo prevalente di politica economica e finanziaria mirava, come s'è visto, a ridurre il debito consolidato, anche per incoraggiare l'investimento commerciale; ma allo stesso tempo tendeva a porre discriminazioni più chiare alla partecipazione ai commerci marittimi da parte dei forestieri e, in qualche misura, anche degli operatori veneziani meno ricchi. Norme e conseguenti interventi di verifica insistettero sugli obblighi di residenza, di iscrizione all'estimo e di pagamento dei prestiti per chi acquisiva la cittadinanza e i connessi privilegi daziari. Un'apposita commissione del 1316 dovette controllare se i capitali impiegati nei commerci dai nuovi cittadini dell'ultimo quarto di secolo si rispecchiassero nelle loro condizioni d'estimo, e poi la legge de navigantibus del 1324 fissò per tutti i Veneziani un tetto massimo di investimento nei commerci marittimi pari all'imponibile posto in estimo. Si trattò di una politica che abbinava l'incentivazione verso dichiarazioni più elevate dei capitali mercantili ai fini dell'estimo (e quindi rese più elevate dei prestiti), agli scopi discriminatori già accennati - scaturiti, peraltro, in un contesto di eccessive giacenze di merci levantine, non esitate nei mercati europei. Applicata brevemente nel 1324, la legge fu ripristinata nel 1331-1338 (e poi ancora nel 1361-1363); significativamente, la delibera di abolizione del 1338 pose gravi ostacoli all'eventuale riduzione dell'imponibile di singoli contribuenti nel quinquennio successivo (132).
Fin dai primi anni del '300 il ricorso al debito fluttuante fu assiduo, e spesso spiccio ed estemporaneo nei metodi adottati; non di rado prese la forma di ritardare i pagamenti a creditori, titolari di cariche compresi. All'epoca della guerra di Ferrara s'indebitarono le camere del sale e del frumento, si chiesero consistenti prestiti ai procuratori di S. Marco e a privati, e si accumularono gravi ritardi nel liquidare i creditori dell'Arsenale (133). I vincoli di spesa posti nel 1314, allo scopo di favorire l'ammortamento del debito consolidato, semmai accentuarono la necessità di ricorrere spesso al credito a breve termine. Ciò venne talvolta fatto aggirando gli stessi vincoli: per esempio, questi consentivano alla Zecca di attingere fondi per acquistare oro, e vennero quindi operati storni dirottando tali fondi. Allo stesso tempo, comunque, diventava sempre più sistematico l'impiego della camera del frumento come collettore di credito, e ad essa si destinarono cespiti specifici - fra cui il ricavato delle grazie - per restituire le somme prestate. Il rafforzamento di questa sua funzione fu confermato, nel 1328-1329, da delibere del maggior consiglio per incrementarne la liquidità, convogliando verso essa fondi gestiti dai procuratori di S. Marco, e per snellirne le procedure, delegando ai responsabili l'autorizzazione ad accogliere autonomamente depositi fino a un valore di circa 2.000 ducati (134).
Con la guerra contro i della Scala del 1336-1338 cominciò un nuovo periodo di ampliamento del debito fluttuante e anche di ricorso allo storno di entrate (135), cosicché nei primi anni Quaranta la camera del frumento entrò in un periodo di gravi difficoltà. Queste furono dovute anche alle forti oscillazioni di disponibilità e di prezzi delle granaglie, cosicché più volte si dovettero svendere scorte accumulate. I debiti verso fornitori di grano si assommarono a quelli verso i depositanti, mentre risultavano difficilmente esigibili i suoi crediti col comune, che ancora nel 1343 sfruttò la camera per coprire spese di politica estera. Nel 1344 le si destinò per due anni lo stanziamento per l'ammortamento del debito consolidato, ora ridotto a 16.000 lire a grossi mensili, e si revocò la sua facoltà autonoma di accogliere depositi fruttiferi.
Risulta davvero notevole l'entità del suo indebitamento: lo storno del fondo di ammortamento deciso nel 1344 - più volte interrotto, poi, da ulteriori storni - le assegnò inizialmente un totale di 384.000 lire a grossi, mentre un computo del 1345 le attribuiva passivi di 620.000 lire contro un attivo di 430.000. L'assegnazione in realtà durò ben oltre il biennio inizialmente fissato, per effetto degli storni ma anche di ulteriori prestiti chiesti dal comune. All'indomani della Peste Nera, nel gennaio 1349, la camera era ancora gravemente indebitata, anche perché afflitta da grandi giacenze di granaglie; era destinataria di un'assegnazione di efficacia molto dubbia, ma fra marzo e giugno venne di nuovo autorizzata ad accettare grossi prestiti al 3-4%, principalmente per saldare vecchi debiti di circa 22.000 ducati. Quell'estate si decisero ulteriori rimedi, distribuendo ancora grano ai Veneziani (peraltro già morosi nel pagamento di precedenti distribuzioni), e deliberando una nuova assegnazione di 4-5.000 ducati mensili per un anno, nonché prestiti alla camera da parte di altre casse comunali: soluzioni a quanto pare efficaci, se a novembre si revocò l'assegnazione, giudicando la camera "satis bene furnita pecunia" (136).
La relativa robustezza complessiva della finanza pubblica a metà secolo è confermata dall'esito dello sconvolgimento dovuto alla Peste Nera, che si abbatté su Venezia nella primavera del 1348. All'indomani di una delibera del marzo 1348, che accennò a un saldo positivo di 80.000 lire a grossi nel bilancio e assegnò 8.000 lire mensili all'ammortamento del debito consolidato, si dovettero affrontare le implicazioni finanziarie dell'epidemia (137).
Il comune annullò l'assegnazione di ammortamento per poter far fronte simultaneamente al minor gettito dei dazi e a consistenti spese straordinarie. Dovette sostituire personale dei propri uffici e rafforzare l'azione di polizia urbana a tutela della proprietà; dopo di aver richiamato in città al compimento del dovere i medici pubblici, tentò di assumerne altri, più coraggiosi, offrendo compensi anche elevati; provvide a far raccogliere, trasportare e seppellire i morti, nonché a sollecitare preghiere per le loro anime. Allo stesso tempo ridusse l'impegno navale contro i Turchi, sospese i lavori alla nuova sala del maggior consiglio e tagliò alcuni costi di governo, per esempio decretando la fusione tra magistrature (come gli uffici alle rason de intus e de extra). Sul versante delle entrate, il comune decise di non imporre prestiti, ma travasò fondi dalla camera del frumento, chiese denaro a Creta, revocò in buona parte la riforma restrittiva delle osterie deliberata nel 1347 e riaprì le osterie stesse prima che cessasse l'epidemia. Tentò inoltre di raggiungere un accordo col vescovo di Castello riguardo alle decime ecclesiastiche sulle eredità, offrendogli un pagamento forfettario in cambio del diritto di riscuoterle.
Già nel 1349 si colgono i segni di assestamento: la previsione (espressa ad agosto) di un saldo positivo di bilancio di 50-60.000 lire a grossi e la ripresa dei lavori nel palazzo Ducale; il riassetto della camera del frumento e - a novembre - la già ricordata riforma della ligatio, assieme alla ripresa della restituzione dei vecchi prestiti.
Durante questo quarto di secolo il debito consolidato si moltiplicò a dismisura, facendo perdere a Venezia il consistente vantaggio - per totale assoluto del debito e per indebitamento pro capite di popolazione - che negli anni Quaranta aveva avuto in confronto a Genova e Firenze (138). Come evidenzia la Tab. 1, il totale passò da 1,1 milioni di lire a grossi nel 1343 (e forse 1 milione nel 1350) a 3,1 milioni nel 1353, poi a 3,7 milioni nel 1363, 6 milioni nel 1373 (e 8,5 milioni nel 13 79) (139). L'aumento d'indebitamento - in linea con la tendenza più generale fra metà '300 e metà '400 che interessò anche Genova e Firenze - fu dovuto alla serie di guerre e di conseguenti nuovi prestiti attestati dalla Tab. 3: per combattere Genova nel 1350-1354, il re d'Ungheria nel 1356-1358, i ribelli cretesi nel 1363-1364, Trieste nel 1369-1370, Francesco da Carrara nel 1372-1373, e il duca d'Austria nel 1376. Le richieste complessive, per somme dell'ordine di 5,2 milioni di lire a grossi, ammontarono al 36,38% dell'imponibile (secondo criteri di computo mutati rispetto al primo trentennio del secolo). Furono assai minori, invece, le somme impiegate nell'ammortamento: rovesciamento, anche questo, della tendenza generale evidente nella prima metà del secolo, e anticamera della crisi finanziaria poi scatenata dalla guerra di Chioggia.
Ancora in gennaio e aprile 1350, infatti, furono restituiti prestiti vecchi, ma nell'agosto di quell'anno l'assegnazione del fondo d'ammortamento venne stornata verso spese belliche. Nel febbraio 1351 i consigli dovettero addirittura rintuzzare sospetti e timori per il futuro del debito consolidato, votando una delibera per bandire ogni eventuale proposta "de diminuendo vel suspendendo vel revocando de capitali vel prode imprestitorum". I titoli infatti persero circa un quarto del loro valore di mercato, rispetto a quotazioni che tra il 1349 e l'inizio del 1350 erano state fra il 95% e il 99%. Tra i rimedi parziali adottati ci fu l'obbligo imposto ai procuratori di S. Marco nel 1353, e rispettato fra il 1353 e il 1354, di vendere gli immobili situati a Venezia e appartenenti alle commissarie perpetue da essi amministrate, accettando in pagamento titoli di prestiti al loro valore nominale - mentre le quotazioni erano allora dell'ordine del 70-76%. Sebbene prospettato con altre motivazioni, il provvedimento mirava anzitutto a sostenere le quotazioni (e anche a sottoporre a prestiti alcune proprietà precedentemente esenti). Va aggiunto che i circa 175.000 ducati di titoli così acquistati dalle commissarie aumentarono la loro dipendenza dall'investimento nei titoli pubblici, anche perché si proibì la futura redenzione o alienazione dei titoli in questione (141).
A guerra seguì guerra, accrescendo le già notevoli tensioni politiche attorno al ricorso ai prestiti forzosi, e nel maggio 1357, pur di non imporne di nuovi, si decise uno storno temporaneo del denaro assegnato agli interessi dei vecchi titoli. Le quotazioni scesero al 65%, e a dicembre il senato dovette votare un'ulteriore proibizione contro future proposte di storno. Poi un decennio molto meno gravoso in termini di nuovi prestiti allontanò pericoli e paure di manomissione dei titoli, cosicché le quotazioni salirono dal 77,5-80% nel 1359 a valori minimi e massimi, fra il 1361 e il 1372, dell'86% e del 96%. Nel 1373-1374 esse caddero ancora dopo l'imposizione di nuovi prestiti molto consistenti, ma poi si ripresero presto, passando dal 77% nel dicembre 1374 al 92,5% nell'agosto 1375.
Sullo sfondo di questo andamento più fiducioso, nonostante il grande incremento progressivo dell'indebitamento, vi furono anche iniziative sporadiche di ammortamento. Dopo la restituzione di due prestiti nel novembre 1355, e nonostante si continuasse in seguito a stornare ad altro uso denaro a ciò destinato, se ne restituirono altri sei fra il 1359 e il 1363, grazie anche a una nuova assegnazione specifica di entrate nel marzo 1361 (142).
L'ammortamento fu sospeso nel 1363, e quando venne rilanciato nel 1375 con un'apposita assegnazione di 3.000 ducati al mese, s'era deciso di non onorare più uno degli impegni originali e basilari del rapporto fra comune e contribuente. La redenzione dei titoli vecchi al loro pieno valore nominale fu ufficialmente sostituita, infatti, dalla loro cessione volontaria al comune a prezzi di mercato, quindi a condizioni molto meno gravose per l'erario. Nuove guerre, tuttavia, non consentirono di ricavare benefici sostanziali immediati dall'impiego di questa procedura (invero più volte autorizzata in precedenza per liquidare singoli crediti di ammontare modesto, al fine di semplificare il versamento degli interessi e la contabilità connessa) (143).
Se guardiamo per questi anni le uscite non derivanti da guerre e dal debito pubblico, troviamo alcuni costi aggiuntivi ineluttabili, come quelli per affrontare ulteriori epidemie nel 1360-1361 e 1371 (144). Ma riscontriamo soprattutto sforzi per tagliare le spese, mediante provvedimenti anche contingenti: durante la guerra genovese, per esempio, furono decurtati di metà i salari e altri guadagni dei nobili titolari di cariche, e di un terzo quelli dei loro subordinati (145). Quanto a economie più strutturali, s'è già ricordata la riduzione dei lavori pubblici svolti in ambito urbano lungo tutto il secondo '300. Per altri settori le iniziative di riassetto furono particolarmente numerose fra il 1358 e il 1363: per rivedere molti salari e guadagni, aumentandone alcuni e tagliandone altri, e anche (nell'agosto 1359) per aumentare lievemente l'assegnazione complessiva della ligatio a 6.700 lire a grossi al mese; per ridurre costi di difesa in luoghi e/o periodi considerati tranquilli, e per limitare il bilancio dell'Arsenale; per estirpare spese non autorizzate, a Venezia e fuori; per arginare - con misure ripetute e minuziose - il deficit del Trevigiano (146). Dopo iniziative più sporadiche negli anni successivi, principalmente per tagliare costi di difesa, nel 1371 si intervenne di nuovo con economie a vasto raggio, riguardanti molte spese di difesa ma anche la diplomazia, la gestione di varie magistrature a Venezia, e ancora il Trevigiano. Anche nei cinque anni successivi furono piuttosto fitti i provvedimenti, in buona parte riguardanti il Dogado, l'Istria e il Levante (147).
La stentata azione di ammortamento di questo periodo, se per un verso dovuta al maggior peso di spese belliche e di interessi sui prestiti, sembra attribuibile anche a un calo di risorse e attività imponibili dovuto a circostanze economiche meno felici, e in particolare alle epidemie. Se dopo il 1348 la popolazione urbana fu per più decenni poco superiore alla metà delle centodieci-centoventimila unità degli anni precedenti, se ne deve dedurre un calo non dei patrimoni soggetti all'estimo, ma dei consumi e delle relative importazioni, e quindi di una parte consistente dell'imponibile colpito dai dazi - anche se la concentrazione dei patrimoni favorì il recupero dell'attività commerciale e artigianale, come pure la tendenza al consumo voluttuario (148).
Il comune comunque provvide fin dal 1348 a incentivare il recupero di popolazione con misure dai risvolti fiscali. Oltre a liberare i Veneziani incarcerati perché suoi debitori, esso incoraggiò l'immigrazione soprattutto di mercanti con i loro capitali e di artigiani, raccorciando drasticamente i tempi di accesso degli immigrati ai diritti di esercitare attività commerciali connessi ai diversi gradi di cittadinanza. Ottenne risultati positivi, ma poi le condizioni avverse della guerra contro Genova, compresi il maggior prelievo daziario e il peso dei prestiti e degli obblighi connessi al servizio navale, sortirono conseguenze in parte contrarie, di fuga di capitali e anche di artigiani. Negli anni successivi - in particolar modo tra la fine del sesto e l'inizio del settimo decennio - il regime di obblighi fiscali e agevolazioni commerciali concessi ai mercanti e artigiani immigrati oscillò fra liberalità e restrizioni, per effetto del più ampio dissidio in atto all'interno del patriziato riguardo all'accesso ai traffici levantini (149).
Da siffatte tensioni, oltre che dall'alternarsi di guerra e pace, derivarono mutamenti d'indirizzo anche nel quadro delle entrate. La guerra contro Genova portò, tra l'autunno del 1350 e l'inizio del 1351, incrementi diffusi e massicci dei dazi, senza escludere i traffici (la messetteria aumentò allo 0,75% per ciascuno dei contraenti) ma colpendo soprattutto i consumi, con maggiorazioni tariffarie dell'ordine del 50% (l'olio, buona parte del vino) e anche del 100% (la carne fresca); provvedimenti affini interessarono diversi territori sotto controllo veneziano. La misura di molti aumenti decretati per Venezia stessa, però, si rivelò presto controproducente, provocando cali dei consumi e carenza di prodotti, anche allontanando transazioni dalla città, cosicché nel gennaio 1351 alcune maggiorazioni tariffarie sui consumi vennero ridimensionate, e s'impose una sovratassa doganale sui grandi traffici, nella misura del 3% sulle importazioni e del 2% sulle esportazioni (150). Nel 1355, tuttavia, la fine della guerra contro Genova fu segnata dall'alleggerimento dei dazi sui grandi traffici marittimi, molto più che di quelli sui consumi e su altri commerci - e poi la guerra ungherese portò nuovi aumenti nel tardo 1356. Per la maggioranza dei dazi, quindi, compresi quelli di parecchi territori soggetti alla Repubblica, si può considerare rappresentativa la parabola del prelievo riguardante il setificio veneziano, che conobbe ribassi significativi solo dalla fine del decennio in poi (151).
Anche i primi anni Settanta furono caratterizzati da provvedimenti daziari di segno alterno. Nel 1371 si ridusse il prelievo sui consumi di carne e vino (intervenendo pure sui dazi del vino del Trevigiano, forse in segno della crescente interdipendenza di mercato tra esso e la Dominante sotto questo aspetto). Venne deliberata ma quasi subito annullata una revisione del dazio della messetteria, che ne avrebbe dovuto ampliare la sfera di applicazione e riportare il tasso principale dallo 0,5% (in vigore dal 1355) allo 0,75% per ciascun contraente. Poi la guerra contro Padova portò incrementi daziari generalizzati, compresa una sovratassa dello 0,33-1% sul commercio levantino; il successivo alleggerimento di tariffe, praticato nel 1375, non fu rovesciato nella breve guerra del 13 76 (152).
Quanto alla base imponibile dei prestiti, la terza guerra contro Genova provocò l'aggiornamento dell'estimo nell'agosto 1350. Il totale forse aumentò grazie all'inclusione dei patrimoni di nuovi immigrati, e anche all'assoggettamento agli obblighi diretti dei Veneziani residenti in luoghi fra l'Italia del Nord e le coste adriatiche. Il rendimento dei prestiti fu tuttavia colpito da un'incidenza via via maggiore di morosità, sanzioni ed esecuzioni forzate, e a guerra finita si dovette procedere, pur con cautela, a una sorta di amnistia parziale nei confronti dei morosi assentatisi da Venezia, oltre a togliere una proibizione imposta contro l'abbassamento delle singole quote d'estimo. L'elevata tensione politica connessa a prestiti ed estimo è confermata dal rifiuto del maggior consiglio, espresso nel novembre 1356, di votare una revisione dell'estimo allo scopo di aumentare l'imponibile; l'estimo venne poi rivisto sotto lo stimolo di nuove guerre nel dicembre 1363 - quando furono ammesse riduzioni - e nell'agosto 1376 (153).
Quanto al debito fluttuante, le scarse notizie disponibili per la guerra contro Genova indicano la consueta varietà di interventi (col consueto strascico a ostilità concluse): storni fra casse pubbliche, mutui non fruttiferi chiesti alle commissarie amministrate dai procuratori di S. Marco, prestiti accesi dalla camera del frumento e più in generale dal comune (154). Negli anni successivi sono attestati prestiti da parte di soggetti meno consueti, come i Lucchesi dell'Arte della seta che nel 1358 mutuarono 30.000 ducati, ottenendo concessioni in cambio; ma un ruolo centrale l'ebbe ancora la camera del frumento, peraltro soggetta a interventi sporadici di riassetto organizzativo e finanziario riguardanti anche la sua funzione annonaria (155). Divennero sistematici, inoltre, i ritardi di pagamento da parte della camera del sale agli importatori di sali, dando luogo all'attività speculativa condotta da patrizi facoltosi come Tommaso Zane negli anni Sessanta: questi acquistavano le "fedi" di credito, a prezzi spesso fortemente scontati, da importatori bisognosi di denaro contante prima dei tre o quattro anni che intercorrevano fra il deposito del sale e il versamento (156).
Influirono certamente, in questi decenni, risvolti della situazione economica più generale: scarsa liquidità, difficoltà monetarie, aggi elevati e diffidenza verso i banchieri - problemi che provocarono la discussione di vari provvedimenti contro l'usura e anche di proposte di un banco gestito "per comune" (157).
La guerra di Chioggia, analizzata sotto il profilo politico e militare altrove in questo volume, fu evidentemente un evento di crisi profonda anche e soprattutto in termini finanziari, data l'assoluta necessità di affrontare grandi spese militari in condizioni economiche assai avverse anche al prelievo fiscale.
Con l'evolversi dell'emergenza si presero provvedimenti per tagliare al minimo ogni spesa non finalizzata alla guerra. Nell'aprile 1379, per esempio, venne sospesa per la durata del conflitto la percezione, da parte dei patrizi titolari di cariche, dell'intero salario e di metà degli altri guadagni, e al comune venne pure destinata la metà dei salari e degli altri guadagni dei loro subordinati. Ma il taglio di gran lunga più drastico e drammatico fu - come vedremo - la sospensione del versamento degli interessi sul debito consolidato, che venne applicata dal secondo semestre del 1379 al secondo del 1381, risparmiando più di 400.000 lire a grossi all'anno.
Quanto alle entrate, la sospensione dei commerci col Levante comportò ingenti perdite di introiti daziari e sconsigliò aumenti tariffari generalizzati. Gli incrementi daziari documentati riguardano, prevedibilmente, i consumi e le transazioni in generale: nel 1378 il dazio della messetteria salì allo 0,75% del valore della transazione a carico di ciascun contraente, e nel maggio 1379 fu maggiorato il dazio sul vino venduto nelle taverne del Dogado (probabilmente in linea con aumenti affini a Venezia) (159).
Furono numerosi e assai vari gli espedienti finanziari adottati per effetto dell'emergenza, ma il più clamoroso fu senz'altro la promessa, fatta nel dicembre 1379, dell'ammissione al patriziato a guerra conclusa per trenta popolani che si fossero particolarmente prodigati nella difesa di Venezia. Le offerte risultanti, molto diverse per carattere ed entità, promettevano fra l'altro prestazioni militari proprie o altrui, la paga di rematori
e balestrieri, la rinuncia a interessi dovuti sui prestiti versati o a diritti su naviglio requisito per uso bellico, oltre a doni sotto forma di denaro, titoli di prestiti o grano. Contributi simili, soprattutto per armare galee, vennero chiesti a titolo volontario a membri del patriziato. Il provvedimento del dicembre 1379 inoltre prometteva la concessione agevolata della cittadinanza agli stranieri residenti che avessero dato aiuto fattivo (160). Un altro espediente notevole, praticato allo scopo anche di rimediare alla carenza di circolante, fu costituito dagli sforzi compiuti per convogliare in Zecca la maggior quantità possibile di metalli preziosi, compresi quelli tesaurizzati, sia mediante donazioni, sia tramite l'acquisto (161).
Dallo stallo dell'ordinaria attività commerciale derivò anche una carenza di liquidità pregiudiziale per l'imposizione di prestiti forzosi. Furono necessariamente questi, tuttavia, lo strumento principale del prelievo straordinario, usato in questa guerra con una frequenza senza precedenti, così da imporre ai soggetti posti in estimo il versamento del 40% dell'imponibile accertato nei cinque anni 1377-1381. Dopo una fase d'avvio non troppo gravosa fra il 1377 e l'estate del 1378, con richieste per il 3,83% dell'imponibile, seguì una serie impietosa di prestiti fra novembre 1378 e febbraio 1381, per un totale del 32,55% (162). L'ammontare del debito consolidato perciò salì a 8,5 milioni di lire a grossi nel 1379 e poi a 12,3 milioni nel 1381. Allo stesso tempo le quotazioni dei titoli scesero a livelli disastrosi, assolutamente senza precedenti, a causa anzitutto della sospensione del pagamento degli interessi e del contestuale infittirsi dei prestiti nuovi. Il valore di mercato dei titoli infatti passò dal 92,5% del 1375 al 30% dell'ottobre 1380, per poi toccare il minimo del 18-19% tra marzo e aprile 1381.
Ai gravi problemi di liquidità incontrati dai contribuenti, peggiorati dalla sospensione del pagamento degli interessi sui vecchi titoli, si tentò di rimediare autorizzandoli, per alcuni prestiti, a scontare somme ad essi dovute per interessi su titoli vecchi e impositiones (di queste si dirà fra breve). Moltissime, poi, furono le alienazioni di titoli vecchi, a condizioni di mercato sempre più svantaggiose. Nel marzo 1380 si nominò una commissione per individuare i contribuenti impotentes (al massimo un terzo di essi, fra cui ci sarebbe stato lo stesso doge); a costoro si offrì l'opzione di pagare solo il 40% dei nuovi prestiti imposti, ma a fondo perduto anziché in cambio di un titolo fruttifero - le quotazioni dei titoli erano allora attorno al 45%. Nel maggio 1381, però, venne abolita questa opzione, considerati il numero sempre maggiore di impotentes, il calo delle quotazioni e anche il fatto che per esigenze d'incasso s'imponevano prestiti con obbligo di pagamento integrale.
Si fece inoltre sempre più diffuso e incisivo il ricorso all'esazione forzosa, che venne affidata a savi alle cazude appositamente nominati nell'aprile 1380, peraltro aggravando il già teso rapporto fra interessi collettivi e individuali. Ai problemi sorti nella vendita soprattutto degli immobili sequestrati si cercò rimedio fra l'altro consentendo l'acquisto con titoli di prestiti, e permettendo a forestieri di comperarli (con la facoltà di impiegare somme uguali al prezzo pagato nel commercio marittimo) - anche se poi si moderò l'azione contro gli insolventi, offrendo termini di pagamento per gli oneri imposti e tutelando meglio eventuali diritti dotali e di laterani legati ai beni sequestrati.
L'introduzione temporanea del pagamento a fondo perduto di una parte dei prestiti si ricollegava in qualche modo alle impositiones: prelievi straordinari che già dal 1378 s'erano affiancati ai prestiti per integrarne il gettito, e anche per contenerne il numero e il conseguente carico d'interessi per il comune. Furono per la maggior parte anticipi non fruttiferi e non trasferibili di prestiti forzosi, non caratterizzati da durata certa, ma in alcuni casi furono vere e proprie imposte a fondo perduto. Le quote dei singoli contribuenti, determinate in base all'estimo, vennero riscosse a ritmo mensile a partire dal marzo 1378; esse raggiunsero un'entità annua molto più contenuta dei prestiti, poiché l'ammontare fu fissato o come percentuale modesta dell'imponibile posto in estimo, o talvolta come somma fissa da ripartire proporzionalmente fra i contribuenti. All'estimo fece riferimento pure un contributo straordinario legato all'obbligo di servizio navale, che si basava sulle duodene (164): i contribuenti allibrati per più di 8.000 lire dovettero versare la paga e il vitto di rematori, in ragione di un rematore (fino a un massimo di tre) per ogni 4.000 lire d'estimo sopra la soglia delle 8.000.
Per quanto riguarda l'estimo, ancora una volta l'infittirsi dei prestiti per cause belliche diede luogo a una sua revisione, compiuta a quanto pare senza importanti modifiche tecniche - nel 1379 e vigente dall'inizio del 1380. Ma i repentini sconvolgimenti patrimoniali suscitarono malumori e portarono, già nel maggio 1381, all'avvio di un'ulteriore revisione. Questa doveva fra l'altro contenere la riduzione complessiva della ricchezza imponibile entro 1,5 milioni di lire d'estimo (circa 1/4 del totale del 1379): novità tecnica dovuta a preoccupazioni di incasso, che ispirarono anche norme per inibire successive riduzioni dell'imponibile di singoli contribuenti e per contenere la portata di eventuali grazie concesse loro.
Nella guerra di Chioggia lo scarto più che mai vasto tra l'entità e l'urgenza delle spese belliche, e l'ammontare e i tempi di percezione delle varie entrate, sollecitò al massimo l'impiego del debito fluttuante. La generale crisi di liquidità limitò le possibilità di accendere mutui, anche se vennero chiesti prestiti consistenti a soggetti come i banchieri e i procuratori di S. Marco (165). La consueta capacità di raccolta della camera del frumento risentì anche dei grossi debiti accumulati nell'acquisto di granaglie con cui affrontare un temuto assedio di Venezia stessa. Una componente molto ampia dell'intero debito fluttuante fu infatti costituita dai ritardi spesso gravi incorsi nei pagamenti dovuti a creditori del comune, come evidenziano i provvedimenti presi in seguito.
Il rilancio dei grandi scambi, scopo prioritario della politica economica dopo la pace di Torino, incontrò gravi difficoltà nel reperimento di capitali - dovute in qualche misura anche all'attrazione esercitata dall'acquisto speculativo di titoli del debito pubblico a prezzi stracciati (166). Le varie iniziative prese per attirare capitali e per indirizzarli verso i commerci ebbero anche significativi risvolti fiscali. Se il privilegio della cittadinanza fu tolto a chi era fuggito durante la guerra per evadere ai vari oneri diretti imposti, l'accesso agevolato alla cittadinanza e ai commerci marittimi venne offerto nel 1382 a immigranti disposti a comprare casa e anche titoli del debito. Un altro provvedimento dello stesso anno offrì cinque anni di esenzione dagli onera et factiones ad artigiani disposti a stabilirsi a Venezia. Si diede inoltre un'incentivazione fiscale all'attività dei mercanti fiorentini, che si sarebbe infatti rivelata di fondamentale importanza per il rilancio dei traffici, mediante la soppressione nel 1382 della tratta da essi dovuta sulle merci importate a Venezia (167).
Il quadro generale delle uscite fu quasi stravolto dal peso dell'indebitamento, ma non si conosce con precisione l'andamento del debito consolidato lungo gli ultimi due decenni del '300 anche perché nei mesi e anni successivi alla cessazione della guerra la carenza di liquidità suggerì di compiere importanti transazioni finanziarie mediante i prestiti. Così, per esempio, si convertirono in titoli molti oneri straordinari imposti durante e anche dopo la guerra; si scalarono interessi congelati, dovuti ai contribuenti sui titoli vecchi, dal loro pagamento di prestiti nuovi; dopo più tentativi si riuscì a convertire in titoli gli interessi congelati dovuti a non-contribuenti detentori di prestiti; numerosi altri creditori del comune (per mutui in scadenza, per somme dovute dalla camera del frumento, per compensi spettanti) furono indotti o costretti ad accettare il pagamento in titoli, in certi casi a una valutazione ben superiore al prezzo libero dei titoli - per esempio al 60% nella primavera del 1382, contro il 40% circa della piazza. Le commissarie amministrate dai procuratori di S. Marco, creditrici per un totale di circa 69.000 ducati, scontarono 23.000 ducati di interessi congelati contro prestiti forzosi nuovi, e convertirono in titoli 46.000 ducati: 34.000 (dati in mutuo al comune) al 60%, e 12.000 (interessi congelati per il 1381) alla pari (168).
I dati sull'entità del debito consolidato e sul corso dei titoli in questo ventennio indicano fasi e dinamiche ben differenziate nel tempo. Da 12,3 milioni di lire a grossi del 1381 l'indebitamento passò a 12,8 milioni nel 1386, poi a I I milioni nel 1390, 12,5 milioni nel 1393 (aumento da attribuire al consolidamento di molte impositiones degli anni precedenti), 10 milioni nel 1395, e infine 9,5 milioni nel 1402. Quanto al corso dei titoli, esso superò presto il minimo storico del 18-19%, raggiungendo il 40-45% nel 1382, ma nell'ottobre 1385 ricadde al 34%; fra il 1389 e il 1391 fu attorno al 43%, e solo da allora guadagnò progressivamente quota, attestandosi su valori superiori al 60% dopo il luglio 1396, con una punta del 66% nel 1403 (169).
Entrambe queste serie di dati chiudono il secolo con un miglioramento sostanziale a breve termine, sebbene non rovescino il graduale deterioramento complessivo evidente dal sesto decennio. Dimostrano chiaramente, inoltre, come i tempi di risanamento dovettero attendere piuttosto che anticipare quelli della ripresa economica generale. Nonostante la grande parsimonia usata nella conduzione della politica estera, l'ammortamento effettivo iniziò a circa un decennio dalla pace di Torino. Nelle serie di dati s'intravede, infine, anche al di là dei numeri, un ridimensionamento difficilmente recuperabile della fiducia dei contribuenti-azionisti verso il comune.
Non fu subito possibile ridurre la massa di vecchi titoli e risollevarne il valore di mercato anche perché si dovette prima ripristinare il versamento degli interessi. Questo ricominciò nel primo semestre del 1382, per effetto di un'assegnazione votata il novembre precedente e alimentata da otto cespiti d'entrata, compresi i dazi di maggior rendimento; furono liquidate le tre rate semestrali sospese del 1379-1380 (buona parte delle quali già scontate dai contribuenti nel pagamento di altri prestiti), mentre quelle del 1381 vennero convertite in capitali di prestito. Va sottolineato che questa ripresa dei pagamenti fu possibile anche per effetto di una radicale modifica unilaterale dei rapporti fra comune e detentori dei titoli, decisamente più grave del passaggio - di pochi anni precedente - dalla redenzione dei titoli al pieno valore nominale, all'ammortamento a prezzi di mercato. Il comune infatti pagò gli interessi correnti al tasso del 4% invece del consueto 5%, grazie all'introduzione di una tassazione alla fonte, e nel 1386 lo abbassò ulteriormente al 3% per quei prestiti i cui possessori non risultavano iscritti all'estimo. Ciononostante le somme versate per interessi furono elevatissime, oscillando - secondo la Cronaca Alberegna - fra massimi e minimi di 246.690 e 188.950 ducati tra il 1386 e il 1398 (170).
Quanto all'ammortamento, ad esso fu assegnata fin dal novembre 1381 l'eventuale eccedenza degli introiti allora stanziati per il versamento degli interessi, ma senza nessuna priorità rispetto ad altre spese. Nel febbraio successivo si creò un fondo apposito, alimentato anzitutto da metà della trattenuta operata sugli interessi, ma ci si dovette attingere ripetutamente per altre necessità, a partire dalle spedizioni inviate per garantire l'effettivo abbandono di Tenedo nel rispetto della pace firmata con Genova. L'estrema riluttanza a contrarre nuovi debiti infatti motivò ripetuti storni di questo fondo verso spese straordinarie, e solo dopo la ripresa del Trevigiano nel 1388 iniziò un periodo migliore, connotato anche da costi contenuti di politica estera, e destinato a durare fino alle guerre di espansione in terraferma dell'inizio del '400. Nonostante il maggior indebitamento dovuto ai prestiti e impositiones del penultimo decennio del secolo, e anche qualche storno dei fondi d'ammortamento, la riduzione realizzata fra il 1393 e il 1402 fu di circa 3 milioni di lire a grossi (171).
Si stentò ad avviare l'ammortamento anche perché durante la guerra s'era accumulato un enorme debito fluttuante, gravante in buona parte sulla camera del frumento. Nel febbraio 1382 il comune istituì un apposito fondo per pagare questo debito, e finì col convertirne in prestiti gran parte, riuscendo a liquidare buona parte delle pendenze vecchie entro metà 1383. Fu comunque lento, per esempio, a liquidare i grandi crediti dei Gonzaga, in parte derivanti da granaglie fornite in epoca di guerra, obbligandoli ad accettare parte del pagamento sotto forma di partite di sale; allo stesso tempo umili creditori veneziani - balestrieri, rematori della flotta, soldati - furono liquidati in grano, di cui si erano accumulate scorte eccessive. Nel 1384, inoltre, si colse ogni pretesto per imporre a Fregnano della Scala di accettare una rendita annuale di 1.500 ducati al posto di più di 250.000 ducati di capitali, depositati fra la camera del frumento e i procuratori di S. Marco e dovutigli come eredità del padre Cangrande II (172).
Queste difficoltà della camera del frumento ne segnarono la fine come grande cassa del debito fluttuante, anche se sembra esserle rimasta una gestione finanziaria consistente (nel novembre 1383 si prevedeva un fabbisogno nei termini consueti di 15-20.000 ducati) (173). La camera del sale, invece, crebbe d'importanza in questo senso: fu incaricata di riscuotere - oltre che di restituire - prestiti forzosi temporanei e infruttiferi, nel 1383 e successivamente, e si consolidò l'impiego come debito fluttuante delle somme dovute ai suoi fornitori di sali. Si ampliarono infatti sia i ritardi di pagamento di questi crediti, sia il mercato connesso, cosicché i crediti finirono col diventare capitali imponibili ai fini dei prestiti, secondo le nuove regole dell'estimo del 1403 (174).
Acquisì importanza duratura nella gestione pubblica, come s'è detto sopra, anche il credito offerto dalle banche. Il comune attinse inoltre, in modo più saltuario, ad altre fonti: oltre ai fondi amministrati dai procuratori di S. Marco (175), ricorse anche ai banchieri ebrei (ammessi a prestare a Venezia fra il 1382 e il 1397 a condizioni che prevedevano anche l'impiego come pegno di titoli del debito pubblico). Nel 1387, per esempio, essi prestarono grosse somme ad Antonio della Scala di Verona su richiesta del comune (176).
Per quanto concerne le voci di spesa diverse dal debito, la stessa finanza governativa fu anche vittima, oltre che causa primaria, della generale strettezza di denaro, e dovette praticare economie drastiche un po' in tutta la gamma delle uscite consuete anche se non poté sottrarsi a spese straordinarie come quelle presumibilmente prodotte da ulteriori epidemie nel 1382, 1388-1389, 1397 e 1400 (177). Nel settembre 1381, su proposta di una delle tante commissioni speciali allestite per questioni finanziarie in questi anni, furono decretati tagli quinquennali ai compensi degli uffici pubblici, fino alla sospensione totale del salario e con tassazione anche dei guadagni connessi all'esercizio della carica (178). Nello stesso periodo venne rivista la gestione finanziaria dei territori levantini, allo scopo anche di alleviare il bilancio centrale; fra le economie previste compaiono pure la cessione a un privato, vita natural durante, di una località minore (Pteleon), e l'alienazione di un'altra (Carystos) al miglior offerente (179).
Come evidenziano questi esempi, considerazioni di bilancio limitarono radicalmente l'eventuale spesa militare, condizionando le scelte di politica estera in misura assai maggiore che nei decenni precedenti. All'avanzata turca nei Balcani, e alla connessa instabilità del quadro politico fra coste e isole greche, Venezia poté reagire solo con iniziative sporadiche, anche se finì con l'acquisire nuovi territori e quindi nuovi impegni di difesa. Nel movimentato scacchiere dell'Italia settentrionale essa privilegiò l'azione diplomatica rispetto all'intervento militare, nell'avversare sia Francesco da Carrara, sia - poi - Giangaleazzo Visconti (anche se nel 1395 non perse l'occasione di impossessarsi del Polesine di Rovigo come pegno per 50.000 ducati prestati a Nicolò d'Este) (180).
Sul versante delle entrate si trova un'incidenza significativa di espedienti, soprattutto negli anni Ottanta: per esempio verifiche contabili della gestione finanziaria pregressa, che sfociarono anche in processi per ricuperare denaro pubblico da chi aveva occupato cariche nella Zecca e nelle magistrature annonarie. Si fecero ulteriori sforzi per riscuotere gli oneri imposti in tempo di guerra, verificando lo status di beni dichiarati dotali per sottrarli all'esazione forzosa e procedendo a vendere immobili sequestrati anche sotto il valore della stima. Si inondarono le colonie greche di torneselli di bassa lega: nel 1386 si calcolò che 4,5 milioni di monete prodotte all'anno, per un valore di 14.000 ducati, davano un utile di 4.000 ducati. I territori soggetti furono interessati da iniziative per aumentare il prelievo fiscale, come per esempio i provvedimenti adottati a Modone e Corone riguardo allo zovaticum (181).
Il ricorso a siffatte misure, assieme agli altri fenomeni appena analizzati, tradisce anche il basso rendimento, nei primi anni del dopoguerra, del prelievo fiscale più o meno ordinario a Venezia stessa. Ciò fu dovuto alla situazione economica complessiva, oltre che all'eccessiva spremitura appena praticata; l'alleggerimento del prelievo era evidentemente necessario per il rilancio dell'economia, ma scarsamente compatibile con esigenze di bilancio. Ogni intervento sul prelievo, inoltre, era carico di implicazioni politiche interne, poiché le vicende fiscali della guerra avevano sconvolto il quadro della ricchezza privata, causando fenomeni di drastica perdita e di altrettanto drastica ridistribuzione sociale che qui non vengono analizzate (182).
Il principale indirizzo che emerse negli anni Ottanta fu l'affidamento notevole su vari oneri diretti nel breve periodo, assieme a maggiore cautela nella manovra sui dazi, il cui andamento rimase comunque l'elemento decisivo. Quanto ad essi, già per i traffici della muda autunnale del 1381 si applicò un dazio supplementare del 2%, aumentando pure l'introito dai noli, e nel febbraio 1382 - contestualmente a una revisione generale delle tariffe - venne applicata una sopratassa dell' 1 % sia sulle importazioni che sulle esportazioni, via terra e mare. A questa si affiancò, dall'aprile successivo, una tassa straordinaria dell'1% sugli scambi interni, dovuta da acquirenti veneziani qualora non esportassero la merce entro termini stabiliti. Fra settembre 1381 e ottobre 1382 s'intervenne più volte per calibrare i vari dazi sul vino. I principali provvedimenti del 1382, votati inizialmente per un quinquennio, furono confermati fino a fine secolo. Nel gennaio 1386 si votarono misure per inasprire significativamente - nella misura di 38.000 ducati l'anno - il prelievo su scambi, noli e consumi; vennero confermate nel marzo 1389 per contribuire, assieme agli utili futuri della camera del sale e all'ipotetico saldo positivo del Trevigiano, all'ammortamento dei prestiti vecchi(183).
Per quanto concerne il prelievo diretto, si dimostrò necessario imporre ancora tradizionali prestiti forzosi in alcune fasi. Come evidenzia la Tab. 5, una prima serie riscossa con notevoli difficoltà - cadde subito dopo la fine della guerra, e ne rappresentò sostanzialmente uno strascico finanziario; ad altri imposti fra settembre 1386 e febbraio 1390 seguirono più di tredici anni di tregua, fino a novembre 1403 (184).
Furono più assidue nel tempo, invece, altre forme di prelievo, anzitutto le impositiones. Quelle richieste in tempo di guerra terminarono nell'agosto 1381, ma soltanto per fare ritorno già l'anno successivo, quando venne applicata anche una tassa sugli immobili, nella misura complessiva dello 0,5% del loro valore. Le impositiones furono in gran parte prestiti forzosi infruttiferi a breve termine, concepiti anche per ridurre le somme che il comune doveva sborsare a titolo di interessi sui titoli dei prestiti. Nel 1382-1383, per esempio, ne furono imposte quattro per un totale del 3,2% dell'imponibile; in seguito, a
partire dal 1386, vennero richieste anche a quei detentori di titoli di prestiti che non fossero iscritti all'estimo (186).
Il provvedimento più importante di tassazione diretta, per gettito e per permanenza, fu comunque la trattenuta introdotta nel febbraio 1382 sugli interessi pagati sui prestiti vecchi, così da ridurre il tasso netto corrisposto dal 5 al 4% e far risparmiare quasi 50.000 ducati annui al comune negli anni Ottanta. Questa trattenuta fu decretata inizialmente per un quinquennio, contestualmente alla tassa sugli immobili; nel febbraio 1387 si decise di abolire quest'ultima appena cessate le spese belliche del momento in terraferma, ma la trattenuta fu rinnovata, e poi divenne permanente. Analoga conferma ebbe l'abbassamento del tasso effettivo al 3%, introdotto nel 1386 per i prestiti i cui possessori non erano iscritti all'estimo: discriminazione che fra l'altro rovesciò strategie precedenti di evasione fiscale, incoraggiando gli acquirenti di titoli a intestarli a prestanome presenti in estimo invece che a nullatenenti (187).
In una delibera dell'ottobre 1384 il maggior consiglio aveva protestato per l'erosione, anche da parte delle impositiones, del valore e rendimento dei titoli, tentando di proibire ogni ulteriore manovra di riduzione. Erano effettivamente minacciati gli interessi dei contribuenti ai prestiti, assieme alla credibilità futura dello stesso debito consolidato, e dal 1386 il prelievo supplementare interessò maggiormente cespiti indiretti. Tuttavia, come dimostra l'accenno appena fatto all'evasione, la scelta complessiva di colpire fiscalmente i prestiti mirava anche a una maggiore equità fiscale. Solo nel 1403, infatti, i titoli sarebbero stati compresi nella ricchezza imponibile assoggettata ai prestiti, ma durante la guerra di Chioggia molti erano passati a basso prezzo in mano a speculatori, veneziani e forestieri, talvolta con la copertura di transazioni fittizie. La conseguenza fu che persone abbienti - peraltro abilitate durante la guerra a usare i titoli nell'acquisto di immobili sequestrati per debiti d'imposta - risultarono presenti nell'estimo con modeste aliquote o furono addirittura assenti (188).
Le vicende dell'estimo furono perciò segnate da sforzi sia per tassare chi s'era arricchito, sia per alleggerire il carico dei meno fortunati. La revisione del 1381 fu presto seguita da un'altra nel gennaio 1383, quando venne anche ridotto da 25 a 16,66 il moltiplicatore usato per convertire in capitale imponibile l'affitto di un immobile, con l'effetto di aumentare l'importanza relativa del patrimonio mobile. Per un'ulteriore revisione disposta nel marzo 1387 il senato autorizzò un calo complessivo di 200.000 ducati d'imponibile, pur sollecitando l'inclusione di ricchezza non censita (189).
Roberto Cessi rivolse critiche acerbe alla conduzione della finanza pubblica veneziana nel '300. Ne condannò in particolare l'"amministrazione spicciola, gretta e miope, che vive alla giornata", e rimproverò all'ordinamento "l'imprecisione delle attribuzioni, l'imperfezione degli organi, il disordine dei sistemi di controllo", nonché "la frammentarietà e l'eccessivo ed inorganico decentramento delle funzioni e legislativa ed esecutiva" (190). Nelle pagine che precedono, comunque largamente debitrici verso le ricerche di Cessi, compaiono osservazioni che riprendono questi concetti, ma in sede di conclusione è bene attenuare - in sintonia con il parere espresso da Gino Luzzatto - il tono calcato e talvolta un po' astorico delle sue critiche (191). Alla valutazione dei fenomeni indicati deve infatti concorrere la constatazione di caratteristiche più o meno analoghe in numerosi contesti statuali coevi, italiani ed europei, accomunati dalla centralità della finanza pubblica nell'esercizio del potere pubblico e nel connesso gioco di interessi politici (192). Se si considera la finanza pubblica veneziana secondo criteri molto prammatici di conduzione come il pareggio di bilancio e la gestione del debito, è indubbio che resse piuttosto bene la prima metà del secolo; quanto al secondo cinquantennio, seppe perlomeno uscire dalla grave crisi della guerra di Chioggia e avviarsi verso il risanamento. Il '400 ricevette in eredità non solo un pesante fardello di indebitamento ma anche prassi impositive e gestionali che avevano dato prova di duttilità e funzionalità, se non proprio di impiego lungimirante.
1. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 140 ss.; Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1991, pp. 224 s.
2. Michael Knapton, La finanza pubblica, in Storia di Venezia, II, L'età del comune, a cura di Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1995, pp. 371-407. Il principale limite della documentazione trecentesca sta nella sopravvivenza scarsa di materiale diverso dalle serie di delibere consiliari pertinenti (esse stesse caratterizzate da qualche lacuna): mancano serie archivistiche utili per organi basilari come per esempio la camera di comun, la camera degli imprestiti, la camera del frumento e l'ufficio delle rason. Molte fra le principali fonti sono comunque già state edite o analizzate nella collana dei "Documenti finanziari della Repubblica di Venezia": Bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Fabio Besta, Venezia 1912; La regolazione delle entrate e delle spese (sec. XIII-XIV), a cura di Roberto Cessi-Pietro Bosmin, Padova 1925, con cenni sullo stato delle fonti a pp. 3-6; I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-XV), a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929; Problemi monetari veneziani fino a tutto il secolo XIV), a cura di Roberto Cessi, Padova 1937. Cf. inoltre: Gino Luzzatto, recensione a La regolazione, "Archivio Veneto-Tridentino", 6, 1924, pp. 273-279; Id., Il debito pubblico nel sistema finanziario veneziano dei secoli XIII-XV, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 211-224; Id., Storia economica di Venezia; Frederic C. Lane, The Funded Debt of the Venetian Republic, 1262-1482, in Id., Venice and History, Baltimore 1966, pp. 87-98; Id., Public Debt and Private Wealth: Particularly in Sixteenth-Century Venice, in Id., Profits from Power. Readings in Protection Rent and Violence-controlling Enterprises, Albany 1979, pp. 72-81. Le lacune nelle serie di delibere consiliari consistono, per il senato, nella conservazione delle sole rubriche fra il 1304 e il 1332; per la quarantìa, nella sopravvivenza solo parziale di registri a partire dal 1342, epoca in cui era già venuta meno una sua competenza importante in materia di finanza pubblica. Non furono generalmente conservate, inoltre, le delibere dei consigli temporanei, più o meno plenipotenziari, creati per affrontare importanti crisi belliche come la guerra di Chioggia (per la quale mancano anche molte delibere del senato). Per questa e altre questioni istituzionali cf. il paragrafo successivo a questo, e in generale Maria Francesca Tiepolo, Archivio di Stato di Venezia, in AA.VV., Guida generale degli Archivi di Stato italiani, IV, Roma 1994, pp. 857-1148.
3. Oltre alla bibliografia citata in M. Knapton, La finanza, n. 8 (in particolare Enrico Besta, Il Senato veneziano [Origini, costituzione, attribuzioni e riti], Venezia 1899), cf. Giorgetta Bonfiglio Dosio, Controllo statale e amministrazione della zecca veneziana fra XIII e prima metà del XVI secolo, "Nuova Rivista Storica", 69, 1985, nrr. 5-6, pp. 463,476; Jean-Claude Hocquet, Guerre et finance dans l'Ètat de la Renaissance: la Chambre du Sel et la dette publique à Venire, in Actes du 102e Congrès national des Sociétés Savantes, Paris 1979, pp. 109-131; Id., Contribution à l'histoire de l'administration financière de Venire au Moyen Âge: dès Salinarii aux provediteurs au sel, "Studi Veneziani", n. ser., 29, 1995, pp. 51-90; Le deliberazioni del Consiglio dei XL della Repubblica di Venezia, a cura di Antonino Lombardo, I, 1342-1344, Venezia 1957, partic. pp. XXI-XXII; II, 1347-1350, Venezia 1958, partic. pp. XIII-XIV; e III, 1353-1368, Venezia 1967; Giannina Magnante, Il Consiglio dei Rogati a Venezia dalle origini alla metà del sec. XIV, "Archivio Veneto", ser. V, 1, 1927, pp. 102 ss. (pp. 70-111); Giuseppe Maranini, La Costituzione di Venezia, II, Dopo la serrata del Maggior Consiglio, Firenze 1931; Consiglio dei Dieci, Deliberazioni Miste. Registri I-II (1310-1325); ibid., Registri III-IV (1325-1335" ibid., Registro V (1348-1363), a cura di Ferruccio Zago, Venezia 1962-1993; Reinhold C. Mueller, The Procurators of San Marco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: A Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 105-220; Id., La Camera del frumento: un "banco pubblico" veneziano e i gruzzoli dei signori di terraferma, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 321-360; Il Capitolare degli Ufficiali sopra Rialto. Nei luoghi al centro del sistema economico veneziano (secoli XIII-XIV), a cura di Alessandra Princivalli - Gherardo Ortalli, Milano 1993; Franco Rossi, Le magistrature, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 687-760.
4. Cf. per es. gli ulteriori limiti inseriti nella promissione ducale alla morte di Andrea Dandolo: Vittorio Lazzarini, Marino Faliero, Firenze 1963, p. 119.
5. G. Magnante, Il Consiglio, pp. 102- 103.
6. La regolazione, pp. LXXII ss., LXXX-LXXXII, 62-63, 67 69; I prestiti, pp. LXXXI-LXXXV, 109-111; G. Magnante, Il Consiglio, pp. 105-106.
7. G. Magnante, Il Consiglio, p. 107.
8. Bilanci generali, p. 66; Samuele Romainin, Storia documentata di Venezia, III, Venezia 1973, p. 50; Dennis Roniano, The Aftermath of the Querini-Tiepolo Conspiracy in Venice, "Stanford Italian Review", 7, 1987, pp. 147-159; V. Lazzarini, Marino Faliero, pp. 202 ss.; Guido Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, pp. 35-41, da integrare con Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venire à la fin du Moyen Âge, I-II, Roma 1992: I, pp. 269 ss.
9. S. Romanin, Storia documentata, pp. 13 ss.; G. Magnante, Il Consiglio, pp. 100, 108-110; Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, Firenze 1981, pp. 311, 437.
10. M. Knapton, La finanza, pp. 375-377.
11. Frederic C. Lane, Venice and Histoy, Baltimore 1966, pp. 221, 249-250; I prestiti, p. 116.
12. La regolazione, pp. CCXVII n. 3, CCXXI-CCXXII, CCXXIV, CCXXXVIII-CCXLII, CCLX; M.F. Tiepolo, Archivio, pp. 933-935.
13. Roberto Cessi, La finanza veneziana al tempo della guerra di Chioggia, in Id., Politica ed economia di Venezia nel Trecento, Roma 1952, p. 236 (pp. 179-248).
14. M. Knapton, La finanza, p. 381; La regolazione, pp. 23-24, 52-53, 129, 141, 148.
15. I prestiti, pp. CXXXIV n. 1, CLX, CXCI ss., 216.
16. La regolazione, p. 116.
17. Ibid., pp. 96, 109-110 (delibere del senato che riportano solo questi totali): nel 1341 entrate di 667.271 lire a grossi, e uscite di 670.646; nel 1342 entrate di 684.000 e uscite annue stimate di circa 744.700, con deficit di circa 60.000.
18. Dati per il 1432 dalla Cronaca detta di Gasparo Zancaruolo, riportati in Freddy Thiriet, Les chroniques vénitiennes de la Marcienne et leur importante pour l'histoire de la Romanie gréco-vénitienne, in Id., Stato. Ètudes sur la Romanie gréco-vénitienne (Xe-XVe siècles), London 1977, p. 284 (pp. 241-292); per il secondo '400, Bilanci generali, pp. 146-150, 163-165, 171-173. Per Firenze cf. Anthony Molho, Fiorentine Public Finances in the Early Renaissance, 1400-1433, Cambridge (Mass.) 1971, pp. 21, 28 e bibliografia citata.
19. Molte questioni qui accennate vengono riprese in seguito. Sulle tendenze economiche tra fine '300 e primo '400 cf G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 146-152, 164 ss.
20. Cf. in generale M. Knapton, La finanza, pp. 377-380. Per la situazione del Trevigiano, Id., Venezia e Treviso nel Trecento: proposte per una ricerca sul primo dominio veneziano a Treviso, in AA.VV., Tomaso da Modena e il suo tempo, Treviso 1980, pp. 47-49, 58-60 (pp. 41-78); Jean-Claude Hocquet, Il sale e l'espansione veneziana nel Trevigiano (secoli XIII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 285-288 (pp. 271-289); nonché qui sotto, testo corrispondente alle nn. 127, 146-147. Per indicazioni generali ma incomplete riguardanti le colonie levantine nel '300, Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959, pp. 219-235.
21. Giuseppe Giomo, Lettere di Collegio rectius minor consiglio 1308-1310, Venezia 1910, passim. Cf. anche il minuzioso controllo esercitato dai consigli veneziani sull'assunzione di medici da parte di Treviso e di altre località del Trevigiano: Bartolomeo Cecchetti, La medicina in Venezia nel 1300, "Archivio Veneto", 25, 1883, p. 379 (pp. 361-381) e 26, 1883, pp. 252-253 (pp. 77-111, 251-270).
22. Roberto Cessi, La politica dei lavori pubblici della Repubblica di Venezia, estr. da L'azione dello Stato italiano per le opere pubbliche (1862-1924), Roma 1925, p. 13 (pp. 3-55); cf. anche F. Thiriet, La Romanie, p. 221.
23. Marvin Becker, Florence in Transition, II, Baltimore 1968, cap. III; un quadro aggiornato in Anthony Molho, Lo Stato e la finanza pubblica. Un'ipotesi basata sulla storia tardomedioevale di Firenze, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di Giorgio Chittolini - Anthony Molho - Pierangelo Schiera, Bologna 1994, pp. 225-280.
24. Per quanto segue: Problemi monetari; Gino Luzzatto, L'oro e l'argento nella politica monetaria veneziana dei sec. XIII-XIV, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 259-270; Louise Buenger Robbert, Monetary Flows - Venice 1150-1400, in Precious Metals in the Later Medieval and Early Modern Worlds, a cura di John F. Richards, Durham (N.C.) 1983, pp. 53-77; Frederic C. Lane - Reinhold C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Coins and Moneys of Account, Baltimore - London 1985, partic. pp. 123 ss., 168 ss., 174 ss., e capp. 13-19; Giulio Mandich, Delle prime valutazioni del ducato d'oro veneziano (1285-1346), "Studi Veneziani", n. ser., 16, 1988, pp. 15-31; anche il saggio di Jean-Claude Hoc Uet edito nel presente volume.
25. Cf. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, cap. 18 (partic. tab. 16) e app. D. In rapporto al grosso, il piccolo passò dall'1:32, equivalenza ufficiale del tardo '200, a 1:36 nel 1331-1332, a 1:41 nel 1344 e 1352, poi a 1:44, forse anche 1:48, entro il 1370, per fermarsi a 1:48 in occasione del riassetto monetario del 1379. In rapporto al ducato aureo, l'equivalenza del soldo di piccoli (corrispondente a 12 piccoli) si mantenne spesso vicino a ducati 1 = 64 soldi negli anni 1305-1328, pur con impennate fino a 67,167. Dopo uno slittamento con punta massima di 70 soldi negli anni 1328-1331, Si registrano valori fra 64-68, 11 soldi nel periodo 1333-1353; ci fu un altro slittamento fra 1354-1362, fino a un massimo di 74 soldi, cui seguirono valori fra 70-74,67 soldi nel periodo 1362-1377; fra 1378 e 1381 si ebbe ancora uno slittamento, con valori oscillanti fra 74-86 soldi, cui seguirono valori fra 78-84,3 soldi nel periodo 1382-1394; il secolo finì con un ulteriore slittamento (valori di 88-93 soldi nel 1397-1400).
26. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, partic. pp. 329, 332, 349, 355-360, 393; Reinhold C. Mueller, Il circolante manipolato: l'impatto di imitazione, contraffazione e tosatura di monete a Venezia nel tardo medioevo, in AA.VV., Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo, Pistoia 1993, p. 223 (pp. 217-232); V. Lazzarini, Marino Faliero, pp. 74-75; Problemi monetari, pp. 114-115, 129.
27. Problemi monetari, pp. CXLVIII, 182-183; a fine 138o s'era sostituita la lira di grossi alla lira a grossi nella contabilità della camera degli imprestiti: I prestiti, pp. CXLVIII, 206-207. Per la gradualità della transizione cf. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, pp. 355 ss.
28. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, pp. 295 ss., 416 ss. Per alcune operazioni di finanza pubblica computate in iperperi e per i cambi con la moneta veneziana cf. Tommaso Bertelé, Moneta veneziana e moneta bizantina, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 40 ss. (pp. 3-146).
29. Problemi monetari, pp. L, 70-71; La regolazione, p. 51; Reinhold C. Mueller, The Role of Bank Money in Venice, 1300-1500, "Studi Veneziani", n. ser., 3, 1979, pp. 68 ss. (pp. 47-96).
30. M. Knapton, La finanza, pp. 380-381.
31. Sulle forze di polizia cf. sopra, n. 8. Cenni generali sullo sviluppo di "un precoce e funzionale apparato burocratico" in Gherardo Ortalli, Scuole, maestri e istruzione di base tra Medioevo e Rinascimento. Il caso veneziano, Vicenza 1993, pp. 90 ss.
32. Il Capitolare, pp. LIII, 40, 48; cf. Antonio Ivan Pini, La "burocrazia" comunale nella Toscana del Trecento, in La Toscana nel secolo XIV. Caratteri di una civiltà regionale, a cura di Sergio Gensini, Pisa 1988, partic. pp. 224-226 (pp. 215-240).
33. Per l'assegnazione a fini assistenziali delle cariche cf. Cassiere della Bolla Ducale. Grazie. Novus liber (1299-1305), a cura di Elena Favaro, Venezia 1962, passim; Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987, cap. II, partic. pp. 79-83; Dennis Romano, "Quod cibi fiat gratia": Adjustment of Penalties and the Exercise of Influence in Early Renaissance Venice, "The Journal of Medieval and Renaissance Studies", 13, 1983, nr. 2, pp. 256-259, 264-265 (pp. 251-268); Id., Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore - London 1987, pp. 124 ss.; V. Lazzarini, Marino Faliero, p. 165; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, p. 241.
34. D.E. Queller, Il patriziato, pp. 304 ss., 313 ss.; Stefano Piasentini, ((Alla luce della luna". I furti a Venezia (1270-1403), Venezia 1992, pp. 62 ss.; La regolazione, pp. CCXLII-CCXLIII.
35. I prestiti, pp. CXXII-CXXIII; Roberto Cessi, Le relazioni commerciali tra Venezia e le Fiandre nel sec. XIV, in Id., Politica ed economia, p. 148 (pp. 71-172).
36. Donald E. Queller, Early Venetian Legislation on Ambassadors, Genève 1966, pp. 14-20, 63-79; anche La regolazione, pp. CXCI-CXCII, 190-194; più in generale AA.VV., Aspetti e momenti della diplomazia veneziana, Venezia 1982.
37. D.E. Queller, Early Venetian, pp. 54-55, 73-74; S. Romanin, Storia documentata, pp. 63 n. 11, 80, 156; AA.VV., Mestieri e arti a Venezia 1173-1806, Venezia 1986, pp. 17-18; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 529 ss. (partic. p. 556); II, pp. 932 ss.; Bartolomeo Cecchetti, La vita dei veneziani nel 1300, I-III, Venezia 1885-1886: I, pp. 50, 152, e II, p. 183; più in generale Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 261-295.
38. B. Cecchetti, La vita, I, pp. 73-74.
39. G. Ortalli, Scuole, partic. pp. 24-36, 115 ss.
40. Guido Ruggiero, The Status of Physicians and Surgeons in Renaissance Venice, "Journal of the History of Medicine and Allied Sciences", 36, 1981, nr. 2, pp. 171 ss. (pp. 168-184); B. Cecchetti, La medicina, 26, pp. 77 ss., 104-105; anche E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", II, pp. 864 ss.
41. Le deliberazioni, II, pp. 28-29, 50; III, pp. 9, 42: somme di circa 600 lire per volta.
42. Bartolomeo Cecchetti, Documenti risguardanti fra Pietruccio di Assisi e lo spedale della Pietà, "Archivio Veneto", 30, 1885, pp. 141-147; più in generale E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", II, pp. 776-798, partic. p. 778 n. 166.
43. Per pensioni di guerra, cf. per es. La regolazione, p. CXX; per i poveri al pepe, Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, Roma 1982, p. 230 (e più in generale sugli ospedali pp. 222 ss.).
44. B. Cecchetti, La medicina, 26, pp. 108, 251; Vittorio Lazzarini, Proprietà e feudi, offizi, garzoni, carcerati in antiche leggi veneziane, Roma 1960, p. 38; R.C. Mueller, The Procurators, pp. 186-187 e 209-211: si asseriva nel 1359 che la capienza degli ospedali fino ad allora fondati a Murano fosse di 1.000 persone, fenomeno da collegare col divieto decretato nel 1347 di costruire nuovi monasteri e ospedali a Venezia stessa.
45. Cf. in generale R. Cessi, La politica, partic. pp. 16 ss.; anche Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia. Tecniche e istituzioni dal medioevo all'età moderna, Milano 1984, pp. 36, 40 ss.; AA.VV., Laguna, lidi, fiumi. Cinque secoli di gestione delle acque, Venezia 1983, partic. pp. 20-23.
46. Per l'assegnazione ai lavori dei lidi: La regolazione, pp. XXX n. 1, 14, 105- 106 (fondi tratti dalle grazie per l'esportazione di vino e legname); I prestiti, p. CXXIII (a. 1324-1325); Bilanci generali, p. 64 (a. 1349); E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 346-347 (nel 1389 si assegnò al consolidamento del litorale parte del ricavato di un dazio sul vino importato). Cf. anche varie delibere in Le deliberazioni, I-III, compreso l'annuale ordo maranorum per regolamentare il rifornimento di pietra d'Istria. La proposta del 1388 in AA.VV., Laguna, lidi, p. 23.
47. Sui lavori, E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 338-359; B. Cecchetti, La vita, I, pp. 108 ss., partic. pp. 129-130; Paolo Morachiello, Le bocche lagunari, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 81-84 (pp. 77-110); Id., Fortezze e lidi, ibid., pp. 111-112 (pp. 111-134).
48. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 300 ss., 347, e carta lo (f.t.), con riferimento a un piano organico di lavori del terzo decennio del '300; nel 1361 l'Arsenale ricevette uno stanziamento temporaneo di 1.000 ducati mensili per allestire draghe. Cf. inoltre, anche per i lavori a carico delle contrade e dei sestieri, B. Cecchetti, La vita, I, pp. 38 ss., 56 ss., 130 n. 1.
49. Cf. Il Capitolare, pp. XXIX-XLIII; Roberto Cessi - Annibale Alberti, Rialto. L'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934, pp. 35-49, 312-317; B. Cecchetti, La vita, I, pp. 52-53, 56, 81 ss.; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 181-222.
50. Egle R. Trincanato, Il Palazzo Ducale, in AA.VV., Piazza San Marco. L'architettura, la storia, le, funzioni, Padova 1970, pp. 111 ss. (pp. 111-137); Giovanni Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell'età moderna, Roma 1979, cap. I; le notizie sul '300 in entrambe queste opere sono tratte anzitutto da Giambattista Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, I, Venezia 1868, partic. pp. 7-48; Cf. anche B. Cecchetti, La vita, I, pp. 71 ss.
51. B. Cecchetti, La vita, I, pp. 31-32. Cf. ibid. e I prestiti, pp. 88-89: il comune acquistava anche altri edifici sparsi, non destinati a usi pubblici, e talvolta - come nel 1313 - li alienava o impegnava come espediente finanziario.
52. B. Cecchetti, La vita, I, p. 72.
53. Ibid., pp. 102 ss.
54. Ibid., II, pp. 6 ss., partic. pp. 10, 15, 18-19, 32; La regolazione, pp. CVI, CVIII, CXXI; S. Piasentini, "Alla luce della luna", pp. 81 ss. (con cenni sull'incidenza di carestie). Nel 1341 il comune acquistava a io grossi lo staio, e vendeva ai cittadini attorno ai 13; si citano prezzi inspiegabilmente elevati (22 grossi allo staio) per il 1342-1343, quando il comune aveva troppo frumento, in Gino Luzzatto, Il costo della vita a Venezia nel Trecento, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 290, 294 (pp. 285-297).
55. Sulle granaglie cf. B. Cecchetti, La vita, II, pp. 6 ss., partic. pp. 12 e 21; La regolazione, pp. 149-150; Hans Conrad Peyer, Zur Getreidepolitik oberitalienischer Städte im 13. Jahrhundert, Wien 1950, partic. pp. 97-111 (per i primi decenni del '300); Freddy Thiriet, Les vénitiens à Thessalonique dans la première moitié du XIVe siècle, in Id., Études sur la Romanie gréco-vénitienne (Xe-XVe siècles), London 1977, p. 329 (pp. 323-332). Soprattutto per il sostegno alle costruzioni navali cf. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, I-II, Lille 1978-1979: II, pp. 541 ss., partic. p. 543; Gino Luzzatto, L'economia, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Firenze 1979, p. 55 (pp. 51-61).
56. Le deliberazioni, II, pp. 5-6, 48, 138 ss.; B. Cecchetti, La vita, I, pp. 65 ss., e II, pp. 126-127, 146-171, 176 ss.
57. B. Cecchetti, La vita, I, pp. 27-28; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 246 ss.; Massimo Costantini, L'acqua di Venezia. L'approvvigionamento idrico della Serenissima, Venezia 1984, pp. 16, 22-25: delibera del 1324, solo in parte eseguita, per costruire cinquanta nuovi pozzi pubblici con uno stanziamento di 1.000 lire (probabilmente a grossi).
58. J.-C. Hocquet, Le sei, I, capp. III-IV e pp. 248-256, 299-300, 314-315.
59. Ibid., cap. V, e II, cap. IV e pp. 255 ss., 293-296, 351 55., 369 ss., 392-393, 447-450, 518-520. Hocquet generalmente indica valori unitari per prezzi e noli del sale, piuttosto che somme complessive; da notare, comunque, il loro consistente e duraturo incremento subito dopo la guerra contro Genova del 1350-1354, quando a noli attorno a 6-8 ducati al moggio veneziano corrispondevano tempi più lunghi per il paga-mento ai mercanti, cosicché la maggiorazione delle somme pagate comprendeva ciò che si può considerare una quota di interessi (ibid., II, pp. 360 ss.).
60. Cf. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, capp. lo e 12, partic. pp. 205, e 373-379, 544 ss.; Frederic C. Lane, Exportations vénitiennes d'or et d'argent de 1200 à 1450, in Etudes d'histoire monétaire, a cura di John Day, Lille 1984, pp. 33-34 (pp. 29-48); Problemi monetari, pp. 70, 83-85.
61. Per quanto segue: Frederic C. Lane, Merchant Galleys, 1300-34: Private and Communal Operation, in Id., Venice and History, Baltimore 1966, pp. 193-226; Id., Storia di Venezia, pp. 144 ss.; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 75-76; R. Cessi, Le relazioni; Bernard Doumerc, Le galere da mercato, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 357-395, nonché il contributo al presente volume dello stesso Doumerc.
62. F.C. Lane, Public Debt, pp. 72-74.
63. Anche per quanto segue cf. Frederic C. Lane, Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, pp. 127-128; Alberto Tenenti, Venezia e la pirateria nel Levante: 1300 c.-1460 c., in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 747 ss. (pp. 705-771); David Jacoby, Les gens de mer dans la marine de guerre vénitienne de la mer Egée aux XIVe et XVe siècles, in Id., Studies on the Crusader States and on Venetian Expansion, Northampton 1989, pp. 169-201.
64. Per questi risvolti cf. M. Knapton, La finanza, pp. 386-387.
65. Frederic C. Lane, Diet and Wages of Seamen in the Early Fourteenth Century, in Id., Venice and History, Baltimore 1966, pp. 264-267 (pp. 263-268); Id., Storia di Venezia, p. 59. All'epoca della guerra di Chioggia la paga mensile corrente sembra essere stata attorno a 4 ducati per i rematori (valore nominale poco cambiato dall'inizio del secolo, ma eroso dall'inflazione) e 8 ducati per i balestrieri: Vittorio Lazzarini, Le offerte per la guerra di Chioggia e un falsario del Quattrocento, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 4, 1902, pp. 202-213.
66. Frederic C. Lane, Venetian Seamen in the Nautical Revolution of the Middle Ages, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, pp. 416 ss. (pp. 403-429); Id., The Crossbozew in the Nautical Revolution of the Middle Ages, in AA.VV., Econome, Society and Government in A1edieval Italy. Essays in Memore of Robert L. Reynolds, Kent (Ohio) 1969, pp. 168-169 (pp. 161-171); Id., Storia di Venezia, pp. 198 ss.
67. F.C. Lane, Venetian Seamen, p. 424.
68. Id., Navires, pp. 147-148.
69. Id., The Venetian Galleys to Alexandria, 1344, in AA.VV., Wirtschaftskräfte und Wirtschaftswege. Festschrift für Hermann Kellenbenz, I, Stuttgart 1978, p. 434 (pp. 431-440).
70. Id., Navires, pp. 128-130.
71. Gino Luzzatto, Per la storia delle costruzioni navali a Venezia nei secoli XV-XVI, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 38-39 (pp. 37-51); F.C. Lane, Navires, pp. 129-130; E. Concina, L'Arsenale, pp. 46-48.
72. La regolazione, pp. 118, 153; nel 1348 furono comunque assegnati altri 2.000 ducati per saldare vecchi debiti: ibid., p. 126.
73. Ennio Concina, La casa dell'Arsenale, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, p. 154 (pp. 147-210); Id., L'Arsenale, pp. 25 ss. (ove si sottolinea anche l'importanza di lavori compiuti negli arsenali dei provvedimenti levantini nei primi decenni del '300); Giorgio Bellavitis, L'Arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, Venezia 1983, pp. 46 ss.; I prestiti, p. LXI; Donatella Calabi, Canali, rive, approdi, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, p. 777 (pp. 761-788); Ead., Magazzini, fondaci, dogane, ibid., pp. 801-802 (pp. 789-818).
74. Cf. Michael E. Mallett - John R. Hale, The Militare Organization of a Renaissance State. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge 1983, cap. I, partic. pp. 12, 17; Gino Belloni - Marco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, pp. 79-80, 82-85 e relativi rinvii; Bilanci generali, p. 63 (i bersagli); il saggio di Aldo Settia edito nel presente volume. Un esempio di dati analitici sui costi di assoldare mercenari in Giovanni Battista Di Sardagna, Il conte Armanno di Wartstein al soldo di Venezia (ottobre 1356), "Archivio Veneto", 9, 1875, pp. 1-45: circa 9.000 ducati mensili per la condotta di ottocento uomini d'armi e trecento fanti.
75. La regolazione, pp. CLXVII n. 1 e CCXVIII n. 1; F.C. Lane, The Funded Debt, p. 93; M.E. Mallett - J.R. Hale, The Militare Organization, p. 13; Freddy Thiriet, Venise et l'occupation de Ténédos au xive siècle, in Id., Etudes sur la Romanie gréco-vénitienne (Xe-XVe siècles), London 1977, pp. 222-225, 235-236 (pp. 219-245); Id., Les interventions vénitiennes dans les iles ioniennes au XIVe siècle, ibid., pp. 381-382 (pp. 374-385); Roberto Cessi, Venezia e l'acquisto di Nauplia ed Argo, in Id., Politica ed economia, pp. 256 ss. (pp. 249-273).
76. Cf. in generale M. Knapton, La finanza, pp. 388 ss.
77. B. Cecchetti, La vita, II, pp. 140, 144 Ss.; nel 1307 il dazio delle beccherie venne assegnato per 9.455 lire a grossi.
78. Francesco Balducci Pegolotti, La pratica della mercatura, a cura di Allan Evans, Cambridge (Mass.) 1936, pp. 137 ss.
79. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, p. 188.
80. R. Cessi, Le relazioni, partic. pp. 81 ss.; Id., Un trattato tra Venezia e Ludovico di Savoia nel 1338, in Id., Politica ed economia, partic. p. 66 (pp. 63-70).
81. Fra gli studi sulla politica commerciale e daziaria veneziana cf. per es. Vittorio Lazzarini, Storia di un trattato tra Venezia, Firenze e i Carraresi, 1337-1399, "Nuovo Archivio Veneto", 18, 1899, pp. 243-282; Gino Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane (1141-1345), "Nuovo Archivio Veneto ", n. ser., 11, 1906, pp. 5-91; Laura Giannasi, Rapporti tra Venezia e Mantova nei secoli XIII e XIV, "Archivio Veneto", ser. V, 100, 1973, pp. 33-111; Trevor Dean, Venetian Economic Hegemony: the Case of Ferrara, 1220-1500, "Studi Veneziani", n. ser., 12, 1986, pp. 45-98; I patti con Brescia 1252-1339, a cura di Luca Sandini, Venezia 1991.
82. J.-C. Hocquet, Il sale, pp. 281 ss.; M. Knapton, Venezia e Treviso, pp. 44-45.
83. D. Calabi, Canali, rive, pp. 777 ss.; Ead., Magazzini, fondaci, p. 808.
84. Luca Molà, La comunità dei lucchesi a Venezia. Immigrazione e industria della seta nel tardo Medioevo, Venezia 1994, pp. 222-225; Nella Fano, Ricerche sull'arte della lana a Venezia nel XIII e XIV secolo, "Archivio Veneto", ser. V, 18, 1936, partic. pp. 107-108, 131, 136, 139, 141, 143, 200 (pp. 73-213); sulle tariffe daziarie del 1339, particolarmente nei confronti dei mestieri della lana e del ferro, La regolazione, pp. XCIII-XCV, 71-86.
85. Oltre ai cenni sull'impiego di questi introiti (sopra, testo corrispondente a nn. 49-50), cf. La regolazione, pp. 47-49, provvedimenti del 1319 indirizzati ai procuratori di S. Marco per aumentare gli affitti degli immobili (case, taverne, osterie) dell'opera di S. Marco, del comune e delle commissarie da essi amministrati; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", II, pp. 940-941: dati sulla cessione degli spazi di vendita della carne e del pesce a S. Marco, che indicano introiti significativi per i procuratori di S. Marco. La concessione a privati di spazi pubblici da bonificare generalmente comportava, invece, un riconoscimento nominale o simbolico: ibid., I, pp. 74 ss., e B. Cecchetti, La vita, I, p. 16. Dati sugli introiti di Rialto e sui canoni di cessione delle valli da pesca in ambito lagunare, in ambedue i casi significativi, ibid., I, pp. 92-93, e II, pp. 36, 90, 125-126.
86. E. Concina, L'Arsenale, p. 36. Risulta analogo lo spirito di un provvedimento del 1349, per por fine all'uso domestico da parte di massari e pesatori della Zecca, del carbone dolce di quest'ultima; le eventuali eccedenze si dovevano vendere al maggior offerente: Problemi monetari, p. 93.
87. M. Knapton, La finanza, p. 394.
88. D. Romano, "Quod sibi fiat gratia", partic. pp. 260-261; Cassiere della Bolla Ducale; Bartolomeo Cecchetti, Delle leggi della Repubblica veneta sulle carceri, "Atti dell'Ateneo Veneto", ser. II, 3, 1866, partic. p. 112 (pp. 95-131).
89. Freddy Thiriet, Quelques observations sur le trafic des galées vénitiennes d'après les chiffres des incanti (XIVe-XVe siècles), in Id., Etudes sur la Romanie gréco-vénitienne (Xe-XVe siècles), London 1977, pp. 502-505 (pp. 495-522).
90. J.-C. Hocquet, Le sei, II, p. 393. Per le granaglie cf. sopra i rinvii delle nn. 54-55, partic. B. Cecchetti, La vita, II, pp. 32 ss.
91. Sulle entrate connesse alla monetazione, F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, cap. 11 e anche app. A. A p. 200 si ipotizzano le entrate ricavate a metà '300 dalla produzione di monete pregiate: solo ducati 2.400 di profitti di Zecca per la coniazione dei ducati, contro fino a ducati 19.200 derivanti dal quinto (cf. qui sotto) e dal dazio di messetteria che colpiva i metalli preziosi impiegati nella monetazione. Quanto alla moneta divisionale, fino a metà '300 sia i profitti di Zecca, sia il prelievo daziario sull'argento impiegato furono di scarso rilievo, e nel 1370 la Zecca accusava perdite nella coniazione del piccolo; tuttavia, il profitto di Zecca sui torneselli introdotti dopo metà secolo nelle colonie levantine fu di circa il 20-25%, in rapporto a una produzione annua che nel 1386 valeva 14.000 ducati (ibid., pp. 202, 424 ss., 521-523; Problemi monetari, pp. CXXII, 146).
92. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, pp. 169-171, 194-196, 402-403. Nel 1350, con lo scoppio della guerra contro Genova, la quota obbligata - già dimezzata nel 1342 0 1343 - venne riportata a un quinto; viceversa, in occasione della guerra di Chioggia la necessità di attirare argento impose l'adozione di un regime temporaneamente sgravato degli acquisti, ma a conflitto terminato il meccanismo venne ripristinato.
93. La regolazione, pp. LXXXVIII-LXXXIX; I prestiti, p. CXIV (i 250.000 ducati erano dovuti in quindici anni).
94. Per i secc. XII-XIII cf. M. Knapton, La finanza, pp. 396 ss.
95. I prestiti, pp. CXLI-CXLV, 138-195; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 129 ss.; Stanley Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Centuy, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 59 ss. e bibliografia cit. (pp. 47-90). L'imponibile totale fu comunque maggiore, poiché risultano escluse dall'elenco, ma tenute a contribuire, soprattutto le commissarie amministrate dai procuratori di S. Marco.
96. I prestiti, pp. XXI-XXV, XLIV-XLIX. Luzzatto ipotizzò che fino al 1346 i prestiti vecchi non alienati fossero esclusi dall'estimo, ma che quelli posseduti per acquisto fossero compresi nell'imponibile degli acquirenti, salvo eccezioni prescritte forse attorno al 1330: ibid., pp. LXV ss., XCI, 113-114. Non è ben chiaro in che rapporto stiano con gli estimi le stime ufficiali di immobili urbani conservate in varie cronache, articolate per singole contrade e relative al 1367, al 1425 e a una data non nota (probabilmente trecentesca) fra queste due. I totali delle stime trecentesche, non molto dissimili, sono di circa 2,8-2,9 milioni di ducati: cf. B. Cecchetti, La vita, I, p. 33; Bilanci generali, pp. 100-103.
97. I prestiti, pp. XLV ss., 105, 111.
98. Ibid., pp. LIX ss.
99. Ibid., p. CCIII.
100. Julius Kirshner, The Moral Theology of Public Finance. A Study and Edition of Nicholas de Anglia's Quaestio Disputata on the Public Debt of Venice, "Archivum Fratrum Predicatorum", 40, 1970, partic. p. 62 (pp. 47-72).
101. Charles De La Roncière, Indirect Taxes or "Gabelles" at Florence in the Fourteenth Centuy: the Evolution of Tane and Problems of Collection, in Florentine Studies. Politics and Society in Renaissance Florence, a cura di Nicolai Rubinstein, London 1968, pp. 140-192; A. Molho, Florentine Public Finances, pp. 45 Ss., partic. p. 51.
102. M. Becker, Florence, pp. 191-192.
103. Sul rapporto complessivo fra patriziato e popolo cf. D. Romano, Patricians, e Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250 - c. 1650, London 1987, cap. I.
104. Questa linea interpretativa riceve la sua esposizione più calzante nell'introduzione di Roberto Cessi a La regolazione, discussa da Luzzatto nella sua recensione (cit. qui sopra, n. 2) e da S. Chojnacki, In Search, pp. 48-49. Al riguardo cf. anche G. Cracco, Società e stato nel Medioevo veneziano, Firenze 1967, pp. 379-443, passim; Id., Patriziato e oligarchia a Venezia nel Tre-Quattrocento, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, I, Firenze 1979, pp. 71-98.
105. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 118, 193 ss.
106. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 139.
107. Anthony Molho, Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova e Venezia, in AA.VV., Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo, Pistoia 1993, pp. 1 90 ss. (pp. 185-215).
108. Reinhold C. Mueller mi ha gentilmente concesso la lettura in dattiloscritto dell'appendice D di Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, II, The Venetian Money Market: Banks, Panics and the Public Debt 1200-1500, in corso di stampa. A differenza di quanto creduto da Luzzatto (I prestiti, e anche Storia economica di Venezia) e poi da Lane (The Funded Debt), a partire forse dal 1328 una riforma contabile mutò l'equivalenza della lira d'estimo (usata per esprimere l'imponibile dei singoli contribuenti) da 1 lira a grossi in i ducato. Fu un mutamento indipendente da variazioni della ricchezza imponibile effettiva, ma il rapporto percentuale fra prelievo e totale d'estimo calcolato da Luzzatto per gli anni del '300 successivi al 1328 va corretto dividendo le sue cifre per 2,611.
109. F. Thiriet, La Romanie, pp. 164, 173-174, 210, 232, 273; Id., Sui dissidi sorti tra il Comune di Venezia e i suoi feudatari di Creta nel Trecento, in Id., Études sur la Romanie gréco-vénitienne (Xe-XVe siècles), London 1977, partic. pp. 705-711 (pp. 699-712); S. Romanin, Storia documentata, pp. 159 ss; D. Jacoby, Les gens de mer, passim.
110. Cf. in generale M. Knapton, La finanza, pp. 397-400.
111. Cf. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 125 ss.; Id., La Camera del frumento; J.-C. Hocquet, Guerre et finance; anche I prestiti, partic. pp. LIV-LV.
112. Reinhold C. Mueller, The Procuratori di San Marco and the Venetian Credit Market: A Study of the Development of Credit and Banking in the Trecento, New York 977; pp. 220-221; Id., The Role, pp. 78 ss.; Id., "Quando i banchi no' ha fede, la terra no' ha credito". Bank Loans to the Venetian State in the Fifteenth Centuy, in AA.VV., Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell'Europa preindustriale, I, Genova 1991, pp. 290-292, 301 (pp. 277-308).
113. R.C. Mueller, The Role, pp. 68 ss.
114. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 102.
115. Per i prestiti imposti e le quotazioni dei titoli cf. I prestiti, pp. XL-LIX, LXX-XCVI, CXXI-CXXIX.
116. Dati da F.C. Lane, The Funded Debt.
117. La regolazione, p. 21.
118. Questa e le tabelle che seguono riprendono e correggono, in base alle indicazioni di Mueller (sopra, n. 108), dati tratti dalle appendici in I prestiti, pp. CXVII-CXXV, CCLXIX, e dalle tabelle in F.C. Lane, The Funded Debt, pp. 88 ss. Le notizie dei singoli prelievi decretati - tot lire a grossi per ogni lira d'estimo (col. 3) - vanno rapportate al totale dell'imponibile (col. 4), noto solo per il 1379 e quindi ipotizzato da Lane per il resto del '300. Da questi due elementi di calcolo si ricavano indicazioni, con margine d'errore per forza ampio, della quantità di denaro pretesa dal comune (col. 2). Le date di rimborso (col. 5) sono ipotesi plausibili avanzate da Lane. Tutti i valori sono espressi in cifre arrotondate.
119. I prestiti, pp. LX ss.; Jacques Bernard, Trade and Finance in the Middle Ages 900-1500, in The Fontana Economie History of Europe, a cura di Carlo M. Cipolla, I, London 1972, pp. 307 ss. (pp. 274-338).
120. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 193-194.
121. La regolazione, pp. XLIX ss., 39, 48-49, 57-58, 60, 62-63, 67-68; I prestiti, pp. LXXI-LXXIII.
122. La regolazione, pp. 83, 88, 90, 96, 107, 109-110, 114-115, 127-128; I prestiti, pp. LXXXV-LXXXVII, LXXXIX-XC, CXXVIII-CXXIX.
123. La regolazione, pp. XXIV-XXVI, 8, 13-16, 19-23, 25-26, 46.
124. Ibid., pp. XXIII, XLV-XLVI, LI, CII-CIII, 36, 92-94, 98-102.
125. I prestiti, p. LXXXI; La regolazione, pp. LXII, 53-59, 69; la delibera del 1322 fu contestuale a tagli delle spese per rettori e ambasciatori.
126. La regolazione, pp. CXLI-CXLV, 151-155. Fra le spese ordinarie specificate, oltre alla retribuzione di cariche, si trovano molte voci già ricordate in questo saggio: le elemosine, le prigioni, il leone del Palazzo, i medici, lo scavo dei canali ecc.
127. Fu analoga la politica seguita in questi anni nell'Istria veneziana; per il Trevigiano si ritrovano gli stessi problemi, e le stesse soluzioni attuate da Venezia, anche nei decenni successivi. Cf. M. Knapton, Venezia e Treviso, p. 58 e nn. 128, 133 ss.; La regolazione, pp. LXXXV, XCVI-XCVIII, C-CI, CXVII-CXVIII, CLXXVI-CLXXVIII, CCXXI, CCXXVII.
128. La regolazione, pp. XIX-XX, XXVI, XXXV-XXXVI, XLIII, XLV, 9-10, 16, 28-29, 31-33, 35-37; I prestiti, pp. 88-89. Luzzatto (ibid., p. LXXI) accenna ad aumenti daziari introdotti nel 1314 per alimentare l'ammortamento dei prestiti, ma non se ne trova traccia in La regolazione.
129. La regolazione, pp. 61-62, 64-65; Antonio Stella, Il dazio sul vino e sull'uva nella Dominante. Studio, Torino 1891, p. 291; B. Cecchetti, La vita, II, pp. 140, 143, 145.
130. La regolazione, pp. LXXXVI, XC-XCIV, CI, CXX, 71-83, 87-90, 95-96, 102-105, 111, 113, 120-125; Bilanci generali, pp. 61-62.
131. F.C. Lane, The Funded Debt, pp. 91-92; I prestiti, pp. XLIII ss., LXXVIII-LXXIX, XC-XCI, 112-113.
132. Cf. Roberto Cessi, L'"officium de navigantibus" e i sistemi della politica commerciale veneziana nel sec. XIV, in Id., Politica ed economia, partic. p. 36 (pp. 23-61); Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, pp. 26-27, 31-32; La regolazione, pp. LIV, 42; I prestiti, pp. LXXIV-LXXV.
133. I prestiti, pp. LIV-LVIII; La regolazione, pp. XXXIV, XXXVI-XL, XLIII-XLVII, 25, 27-31, 33-34, 36-38.
134. I prestiti, pp. LXXIII-LXXVIII, LXXX-LXXXI; La regolazione, pp. XLIX, LIV, LIX-LX, LXIII, LXV-LXVI, 38, 40-41, 43-45, 51, 56-57, 59-60; R.C. Mueller, La Camera, partic. pp. 330-331.
135. La regolazione, pp. LXXXVI, 70.
136. I prestiti, pp. LXXXVII-XCIII; La regolazione, pp. CIV-CIX, CXIX, CXXXI-CXXXIV, 93-150, passim; anche Mario Brunetti, Venezia durante la peste del 1348, "Ateneo Veneto", 32, 1909, nr. 1, pp. 309-310 (pp. 289-311) e 32, 1909, nr. 2, pp. 5-7 (pp. 5-42).
137. Cf. (anche per quanto segue) La regolazione, pp. CXXV-CXXXIV, I27-155; I prestiti, pp. XCII-XCV; M. Brunetti, Venezia, partic. nr. 1, pp. 291, 297-307, nr. 2, p. 7; B. Cecchetti, La medicina, 25, pp. 377 ss.; Reinhold C. Mueller, Dalla reazione alla prevenzione, in AA.VV., Venezia e la peste 1348/1797, Venezia 1979, pp. 77-79 (pp. 77-92).
138. A. Molho, Tre città-stato, pp. 193-194.
139. Dove non indicato diversamente, i dati che seguono sono tratti da I prestiti, pp. XCV-LXVI, CXXIV-CXXIX, 114-138 (da notare che non sopravvive documentazione delle decisioni prese dai consigli speciali istituiti in epoca di guerra, anzitutto quella genovese).
140. Cf. le indicazioni in calce a Tab. 2.
141. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 196-200 e bibl. cit.
142. La regolazione, p. 213.
143. I prestiti, pp. CXIII-CXIV, 90, 107, 111, 134 (nel 1316 per somme fino a 10 lire a grossi, al 70% del valore nominale; nel 1326 fino a 15 lire, all'80%; nel 1339 fino a 15 lire, al 90%; nel 1374 fino a 60 lire, all'87%).
144. Reinhold C. Mueller, Aspetti sociali ed economici della peste a Venezia nel medioevo, in AA.VV., Venezia e la peste 1348/1797, Venezia 1979, p. 73 (pp. 71-76).
145. La regolazione, pp. 172- 174, 186-188 (provvedimento specifico per le camere dell'armamento e degli imprestiti).
146. Ibid., pp. CCXXI-CCXXII, CCXXIX, CCXXXII, 205-21I, 215, 218-226, 228-230.
147. Ibid., pp. CCXLI, CCXLIX-CCL, CCLX-CCLXII, 234-241, 245, 247-261.
148. R.C. Mueller, Aspetti sociali, pp. 74-75; Id., Peste e demografia. Medioevo e Rinascimento, in AA.VV., Venezia e la peste 1348/1797, Venezia 1979, pp. 94-95 (pp. 93-96) A. Zannini, Burocrazia, pp. 29-30; L. Molà, La comunità, pp. 38-41;
149. R.C. Mueller, Aspetti sociali, p. 74; M. Brunetti, Venezia, nr. 2, pp. 17 ss., partic. p. 22; La regolazione, pp. CXCV, CCIII-CCIV, CCVII-CCX, CCXIX, CCXXVII-CCXXXI, CCXXXVII-CCXXXVIII, CCXLVII, CCLV-CCLVI, 202; R. Cessi, Storia della Repubblica, p. 318. Anche sopra, testo corrispondente a n. 132.
150. La regolazione, pp. CLIX-CLX, CLXII-CLXIII, CLXX-CLXXIV, 157- 186, passim; M. Brunetti, Venezia, nr. 1, p. 301, nr. 2, pp. 10-11.
151. La regolazione, pp. CCIV-CCVI, CCVIII, CCXI, CCXVII-CCXVIII, CCXX, 194-202, 218; L. Molà, La comunità, pp. 78-79; A. Stella, Il dazio, p. 30; B. Cecchetti, La vita, II, p. 143.
152. La regolazione, pp. CCXLIX, CCL, CCLIII, CCLVI, CCLXIV, 241-247, 249-250; A. Stella, Il dazio, pp. 30-31; B. Cecchetti, La vita, II, 143-144, 153-154.
153. I prestiti, pp. XCVII-XCVIII, C-CI, CXII, CXII-CXIII, 114-116, 122, 131, 137-138; La regolazione, pp. CLXI-CLXII, CCVII-CCVIII, CCXI, CCXL, 163-164, 202.
154. La regolazione, pp. CXC, CCII, CCIX, 158; I prestiti, pp. CI, 118-119; R.C. Mueller, The Procurators, pp. 216-217.
155. L. Molà, La comunità, pp. 78, 90; La regolazione, pp. CCXXIII, CCXXVIII, CCXXXII, CCXLIII-CCXLIV, CCLIX, 205, 212-213, 216, 227.
156. J.-C. Hocquet, Le sei, II, pp. 455 ss.
157. Gino Luzzatto, Les banques publiques de Venise, siècles XVI-XVIII, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 227-229 (pp. 225-258); Reinhold C. Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen Âge, "Annales E.S.C.", 30, 1975, nr. 6, pp. 1279-1280 (pp. 1277-1302).
158. Dove non indicato diversamente, i dati che seguono sono tratti da: I prestiti, pp. CXXXI-CXLI, CLXI-CLXXV, CCLXIX, CCLXXIV, 196-218; La regolazione, pp. CCLXV-CCLXXIII; Roberto Cessi, Prestiti pubblici e imposta diretta nell'antica Repubblica veneta, e La finanza veneziana al tempo della Guerra di Chioggia, entrambi in Id., Politica ed economia, pp. 173-178 e 179-248; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 141 ss.; AA.VV., Dalla guerra di Chioggia alla pace di Torino, Venezia 1981, partic. pp. 36-37, 73 ss. Da ricordare che per questi anni non venne conservata la maggior parte della documentazione pertinente.
159. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, p. 188 (nel 1386 risultava invariata la tariffa della messetteria); La regolazione, pp. CCLXV-CCLXVII, 262.
160. S. Romanin, Storia documentata, pp. 204-205; Bilanci generali, pp. 68-78; I prestiti, p. CXL n. 3; V. Lazzarini, Le offerte; Daniele di Chinazzo, Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi, a cura di Vittorio Lazzarini, Venezia 1958, pp. 73 ss.
161. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, pp. 410-411; Problemi monetari, pp. 157 ss., 167-169.
162. I prestiti, p. CXXXIII.
163. Cf. le indicazioni in calce a Tab. 2; le date si riferiscono alla riscossione, non all'imposizione. Dove c'è una lieve discrepanza di dati fra I prestiti, pp. CXXXIII-CXXXV e CCLXIX, s'è preferita la seconda versione.
164. Cf. sopra, testo corrispondente a n. 67.
165. R.C. Mueller, The Procurators, p. 217; Id., The Procuratori, p. 222; I prestiti, pp. CXL, 220-221.
166. R.C. Mueller, The Procurators, p. 164.
167. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 146; Reinhold C. Mueller, Effetti della Guerra di Chioggia (1378-1381) sulla vita economica e sociale di Venezia, "Ateneo Veneto", n. ser., 19, 1981, nrr. 1-2, pp. 38-39 (pp. 27-41); L. Molà, La comunità, p. 57.
168. R.C. Mueller, Effetti, pp. 31-32; R. Cessi, La finanza, partic. pp. 234-235.
169. Sopra, Tab. 1; I prestiti, pp. CLXII-CLXIII, CCLXIX.
170. I prestiti, pp. CLII-CLIV, CLIX-CLX, CXCVII, CXCIX, CCLXXIV; Bilanci generali, pp. 78-80.
171. I prestiti, pp. CLX-CLXI, CLXXXIX-CXCII, CXCVII, 224, 230, 232-236; Bartolomeo Cecchetti, Appunti sulle finanze antiche della Repubblica di Venezia, "Archivio Veneto", 35, 1888, pp. 29-55, e 36, 1888, pp. 70-98: in partic. 35, p. 45.
172. I prestiti, pp. CLXVIII-CLXIX, CLXXVIII, 219-221, 226-227; R. Cessi, La finanza, p. 210; R.C. Mueller, Effetti, pp. 31-32; Id., La Camera, pp. 333-340, 348-349; B. Cecchetti, Appunti, 35, pp. 43 ss.
173. R. Cessi, La finanza, p. 242.
174. J.-C. Hocquet, Guerre et finance, pp. 113-114, 117-118; Id., Le sei, II, pp. 397-399, 402-403.
175. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 217-218; I prestiti, pp. CLXXVII-CLXXVIII.
176. R.C. Mueller, Les prêteurs, partic. pp. 1281 ss.; David Jacoby, Les Juifs à Venise du XIVe au milieu du XVIe, siècle, in AA. VV., Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, I, Firenze 1977, partic. pp. 166-167, 188 ss., 216 (pp. 163-216).
177. R.C. Mueller, Aspetti sociali, p. 74; Id., Peste, pp. 94-95.
178. R. Cessi, La finanza, p. 201; B. Cecchetti, Appunti, 35, pp. 53-55; anche I prestiti, p. CLVIII.
179. R. Cessi, La finanza, pp. 238-239; Giorgio T. Dennis, Problemi storici concernenti i rapporti tra Venezia, i suoi domini diretti e le signorie feudali nelle isole greche, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/1, Firenze 1973, p. 225 (pp. 219-235).
180. S. Romanin, Storia documentata, pp. 221 ss., partic. p. 237.
181. I prestiti, p. CLXXVIII; Alan Stahl, Office-holding and the Mint in Early Renaissance Venice, "Renaissance Studies", 8, 1994, nr. 4, pp. 404 ss. (pp. 404-415); R. Cessi, La finanza, p. 203; qui sopra, n. 91; David Jacoby, Un aspect de la fiscalité vénitienne dans la Péloponnèse aux XIVe et XVe siècles: le "zovaticum", in Id., Société et démographie à Byzance et en Romanie latine, London 1975, pp. 407-409 (pp. 405-420).
182. Per esempi di drastici mutamenti di ricchezza cf. I prestiti, pp. CLXX-CLXXII; R.C. Mueller, Effetti, pp. 36-37.
183. I prestiti, pp. CLIX-CLX, CLXXXIX, CXCI-CXCIII; B. Cecchetti, La vita, II, pp. 144, 154-155; A. Stella, Il dazio, pp. 32-33.
184. I prestiti, pp. CLXXVIII-CLXXIX, CLXXXVI-CLXXXVII, CXCIII, 222; ai prestiti riscossi nel dicembre 1381 andrebbe aggiunto un altro, dell' 1,15%, versato alla camera del frumento: ibid., pp. CXXXIII-CXXXIV.
185. Cf. le indicazioni in calce a Tab. 2. Le date si riferiscono alla riscossione, non all'imposizione.
186. Ibid., pp. CLVIII-CLX, CLXXIX ss., CLXXXVI-CLXXXVII, 222-223, 241; Bilanci generali, p. 81.
187. I prestiti, pp. CLIX-CLX, CLXXXI-CLXXXIII, CXC. Sin dal 1360 l'ufficio degli imprestiti aveva coperto proprie spese amministrative effettuando piccole trattenute sugli interessi pagati (fra 1'1,25% e il 3,33% della somma versata): ibid., pp. CXI-CXII.
188. Ibid., pp. CLXXXVII-CLXXXIX, CXCV, 230-231.
189. Ibid., pp. CLXXVIII-CLXXIX, CXCIII-CXCIV, 224-226, 237-238.
190. La regolazione, pp. III-VII, partic. pp. V-VI.
191. Nella sua recensione al volume di Cessi, citata sopra, n. 2, Luzzatto ritenne il giudizio di Cessi "forse troppo severo", l'"eccesso opposto" allo scriteriato elogio dello Stato veneziano. Tutto il saggio di Cessi infatti si caratterizza per insistite valutazioni negative, e anche per attribuzioni non sempre ben comprovate di opposte politiche finanziarie allo scontro fra specifici gruppi d'interesse.
192. A titolo d'esempio cf. Gino Luzzatto, Storia economica d'Italia. Il medioevo, Firenze 1963, cap. X; Edward Miller, Govemment Economie Policies and Public Finance 1000-1500, in The Fontana Economie History of Europe, a cura di Carlo M. Cipolla, I, London 1972, pp. 339-370; Sergio Bertelli, Il potere oligarchico nello stato-città medievale, Firenze 1978, pp. 117-128; Lauro Martines, Power and Imagination. City-States in Renaissance Italy, New York 1979, pp. 240-252 (trad. it. Potere efantasia. Le città stato nel Rinascimento, Roma-Bari 1981); Antonio Ivan Pini, Dal comune città-stato al comune ente amministrativo, in AA.VV., Comuni e signorie: istituzioni, società e lotte per l'egemonia, Torino 1981, pp. 544 ss., 582-585 (pp. 451-587); A. Molho, Tre città-stato; Id., Lo Stato, e gli altri contributi sulla finanza pubblica in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di Giorgio Chittolini-Anthony Molho-Pierangelo Schiera, Bologna 1994, pp. 225-327; Economie Systems and State Finance, a cura di Robert Bonney, Oxford 1995.