La dipendenza dalle droghe
La dipendenza: un fenomeno naturale
La dipendenza dalle droghe è un fenomeno conosciuto dal genere umano da millenni (Nencini 2004). In realtà, la dipendenza da fattori esterni è una costante degli esseri viventi. Sin dalle loro origini, i viventi ‘dipendono’ da fonti esterne per ottenere i nutrienti necessari alla sopravvivenza e alla riproduzione. Più si sale nella scala evolutiva, più i fattori di dipendenza aumentano di numero e complessità. Si pensi, per es., che gli animali a riproduzione sessuata ‘dipendono’ dall’incontro e dal contatto con congeneri del sesso opposto per riprodursi. Con il modificarsi del sistema nervoso negli animali più evoluti, la regolazione dei comportamenti legati a varie forme di dipendenza naturale è divenuta progressivamente più complessa e sofisticata. Per es., la ricerca del cibo o la ricerca e la realizzazione di rapporti sociali con i propri conspecifici assumono, negli animali evoluti e soprattutto nei mammiferi, livelli molto complessi e sono alla base di gran parte dei nostri comportamenti quotidiani. In generale, i comportamenti complessi legati alla ricerca di cibo e a quella del partner rappresentano forme di regolazione di questi fenomeni di dipendenza. Nel tentativo di adattarsi alla complessità dell’ambiente, l’evoluzione ha portato all’insorgere di ‘pulsioni’ comportamentali che, semplificando, si possono indicare con il termine motivazione. Infatti, sono le motivazioni che regolano la maggior parte dei comportamenti e le più forti sono quelle legate a stimoli da cui si è dipendenti, come la nutrizione o la riproduzione.
Se la dipendenza è quindi un fenomeno fisiologico e, anzi, è la base sulla quale si è evoluto il comportamento umano, è lecito domandarsi perché la parola dipendenza è oggi divenuta sinonimo di patologia. In realtà non è lo stato di dipendenza in sé, ma l’oggetto di essa che causa la patologia. In altri termini, dipendenze da stimoli che favoriscono la sopravvivenza dell’individuo o della specie, come il cibo e l’attività sessuale, sono presenti in tutti gli individui sani e non possono essere considerate patologiche. Mentre gli stimoli che risultano irrilevanti per la sopravvivenza e, anzi, la mettono in pericolo (come le droghe, il gioco d’azzardo o le attività fisiche estreme ad alto rischio) trasformano la dipendenza in stato patologico. Negli animali più evoluti, quali i mammiferi e tra essi l’uomo, i meccanismi della motivazione che permettono di compiere attività complesse per rispondere a stimoli da cui si è dipendenti hanno raggiunto livelli molto raffinati e, nel cervello, sono serviti da circuiti neuronali specifici. Le caratteristiche di questi meccanismi sono oggetto di intensi studi da molti anni senza, peraltro, che le varie discipline che se ne sono occupate (dalla filosofia alla psicologia alle neuroscienze) siano ancora giunte a una completa comprensione del fenomeno.
In generale, quando la dipendenza da droghe di abuso si orienta verso stimoli irrilevanti o nocivi anziché importanti per la sopravvivenza diviene una patologia legata ad alterazioni dei meccanismi della motivazione. Infatti, dal punto di vista neurobiologico, tutte le cosiddette droghe di abuso, quali la caffeina, la nicotina, gli oppiacei, la cocaina o l’alcol, solo per citarne alcune, vedono la loro azione convergere su circuiti neuronali cerebrali che sembrano implicati nei processi fisiologici della motivazione. Per es., si sa da molto tempo che la regolazione della dopamina, un neurotrasmettitore fondamentale nei meccanismi di motivazione (oltre che in numerose altre funzioni), rappresenta un obiettivo comune delle droghe di abuso. Al riguardo, esistono pubblicazioni molto dettagliate, che descrivono con dovizia di particolari come queste droghe siano in grado di alterare in maniera acuta o cronica tali circuiti neuronali (Gessa 2008).
Molto meno conosciuti sono i meccanismi che portano dal consumo di un determinato farmaco (o droga) al suo uso indiscriminato (abuso), fino alla vera e propria dipendenza, e ciò costituirà il tema centrale di questo saggio. Innanzi tutto, affronteremo alcune definizioni che appaiono chiare intuitivamente, ma che in realtà possono essere controverse e sottili, quali le distinzioni fra l’uso di un farmaco, il suo abuso e la dipendenza (farmacodipendenza o tossicodipendenza). In particolare, si discuterà delle recenti trasformazioni nella definizione di tossicodipendenza dal punto di vista neuropsichiatrico. Ci si occuperà inoltre di alcune recenti scoperte che hanno probabilmente aperto la via per una migliore comprensione dei meccanismi che portano al passaggio dall’uso di un farmaco alla vera e propria dipendenza da tale uso.
Il repertorio comportamentale e la dipendenza
Dal punto di vista dei comportamenti, le attività umane e degli animali più evoluti possono essere schematicamente racchiuse in alcune categorie. Le attività dedicate alla consumazione (di alimenti, di farmaci a uso terapeutico ecc.), alla ricreazione (per es., il gioco o altre attività creative), alla produzione (il lavoro) e alla riproduzione (ricerca di un partner ecc.) costituiscono la vita degli esseri umani, ma anche degli altri animali. Nell’ambito di queste attività rientra anche l’assunzione di farmaci o droghe. Questo è ovvio quando la motivazione all’assunzione di un farmaco è di tipo terapeutico, consente cioè di guarire da un determinato stato patologico, ma può anche riferirsi a ragioni extraterapeutiche, per es. per alcuni effetti che rendono le droghe piacevoli e ricreative. Tale uso non può essere definito necessariamente patologico, altrimenti si sarebbe costretti a definire malati i miliardi di persone che bevono un bicchiere di buon vino, o che non riescono a iniziare una giornata di lavoro senza consumare una tazza di caffè.
In realtà, il problema non consiste nel fatto che queste attività siano presenti nel repertorio comportamentale che caratterizza la vita degli individui, ma nel tempo e nel consumo di energia dedicato a ciascuna di esse. In condizioni normali, esiste una proporzione fra il tempo e l’energia dedicati a ciascuna di queste categorie di comportamenti (fig. 1). Il repertorio comportamentale del soggetto sano è quindi plastico e flessibile: si può passare facilmente da un’attività all’altra. Esso inoltre è equilibrato: il tempo e le energie spesi in ogni attività tendono, nel lungo periodo, ad aggiustarsi per mantenere un equilibrio. In termini generali, si può affermare che uno stato patologico interviene quando queste proporzioni sono alterate e un’attività prende il sopravvento sulle altre, sebbene le cause del passaggio dalla normalità alla tossicodipendenza siano ancora ignote. Ciò che appare evidente è il fatto che si assiste a un ‘irrigidimento’ del repertorio comportamentale del soggetto, che quasi sempre corrisponde a quella che viene comunemente chiamata malattia mentale e questo si verifica per tutte le attività e gli stati emozionali. Per es., attività ricreative, come una partita a carte con gli amici, sono sicuramente normali. Invece, quando una persona comincia a passare ore al tavolo da gioco e spende tutti i suoi risparmi in questa attività, si assiste alla comparsa di un comportamento patologico. Simili considerazioni sono valide anche per le emozioni. In seguito a una brutta notizia (per es., una perdita o una delusione amorosa), il sopraggiungere di uno stato di tristezza e di prostrazione è certamente normale. Quando però, in seguito a un evento triste o, talvolta, anche in mancanza di un evento identificabile, la prostrazione e la malinconia diventano perenni e inarrestabili si entra in una patologia molto nota, la depressione. Nel caso specifico dell’assunzione di farmaci per il loro effetto ricreativo, la quantità di tempo ed energie a essa dedicati e la possibilità dell’individuo di interrompere quest’attività per passare ad altro, segnano la differenza tra una condizione normale e una chiaramente patologica. Nei tossicomani, infatti, l’assunzione di droga può in effetti assumere proporzioni enormi in relazione alle altre attività che vengono così completamente trascurate. Se inoltre tale sproporzione si associa agli effetti deleteri che un farmaco assunto in dosi massicce può avere, rappresenta una vera minaccia per il benessere dell’individuo e del suo entourage sociale e deve, quindi, essere considerata vero e proprio stato patologico.
Si può, quindi, parlare di uso normale e uso patologico di droghe. Anche se alcune di esse sono socialmente o legalmente accettate (l’alcol, la nicotina, la caffeina) e altre non lo sono (oppiacei, cannabinoidi, stimolanti quali cocaina o anfetamine), non cambia il fatto che possano essere usate non alterando in maniera significativa la proporzione fra le diverse attività fisiologiche dell’individuo. Al contrario, in altri soggetti le attività dedicate all’uso della droga assumono proporzioni abnormi che li conducono a passare dall’uso normale a quello patologico, chiamato generalmente dipendenza.
Evoluzione delle definizioni di tossicodipendenza
Si è visto come l’uso patologico di una sostanza può essere definito in maniera schematica un’amplificazione aberrante (con conseguenze devastanti per l’individuo, il suo ambiente e la società) del tempo e delle energie dedicate a tale uso. Ci si renderà conto, comunque, che tale definizione rimane quanto mai vaga. Quando avviene che la proporzione fra le varie attività assume caratteri aberranti? Nel campo della salute vi sono ambiti dove lo stato patologico è molto chiaro e ben definibile. Dolori muscolari, febbre, infezioni secondarie alle vie respiratorie e/o gastrointestinali sono sintomi che chiunque, anche senza essere un medico, può riconoscere come caratteristici dell’influenza. Alterazioni di determinati parametri dei valori ematici associati a sintomi immediatamente individuabili da un medico assumono subito il significato di una patologia in atto.
Nel campo della psichiatria le cose non sono così evidenti. Varie condizioni storiche, scientifiche, sociali possono modificare le definizioni delle malattie neuropsichiatriche. Le patologie psichiche spesso rappresentano alterazioni quantitative di tratti comportamentali che sono comuni a soggetti sani o chiaramente malati. Ciò non significa assolutamente che la malattia psichiatrica sia solo una variazione sul tema o addirittura sia inesistente. Significa solo che la sua definizione e la sua identificazione diagnostica sono generalmente piuttosto complesse. A causa di questa complessità, negli ultimi decenni ci si è trovati nella necessità di uniformare a livello internazionale la definizione delle malattie neuropsichiatriche, anche per favorire la comunicazione fra gli operatori del settore. Tale operazione, con tutti i suoi limiti che non verranno qui discussi, rappresenta un passo avanti molto importante, perché permette alla comunità scientifica, ai terapeuti e alla società di utilizzare un ‘codice’ comune nella diagnosi delle malattie neuropsichiatriche, elemento decisivo nella lotta per ottenere terapie efficaci e verificabili. Questo problema apparve subito chiaro ai pionieri della moderna neuropsichiatria, che già nel 19° sec. proposero diverse classificazioni delle malattie psichiche, senza tuttavia trovare unanimi consensi. Negli anni Cinquanta del 20° sec., la comunità scientifica (a maggioranza anglosassone, ma con contributi da ogni parte del mondo occidentale) elaborò il primo Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM) curato dall’American psychiatric association. È interessante notare che dalla data della sua prima pubblicazione, nel 1952, il DSM ha subito numerose revisioni, che hanno portato, fra le altre, all’edizione di tre successive versioni: DSM II (1968), DSM III (1980) e DSM IV (1994). Per quanto riguarda la dipendenza dalle droghe, le ultime due edizioni del DSM sono alquanto differenti e riflettono un cambiamento profondo nel modo di valutare e definire la malattia.
Nel DSM III la comparsa di uno stato di dipendenza viene identificato in sintesi valutando le modificazioni degli effetti della sostanza che sopraggiungono con il suo uso cronico (v. la prima colonna della tabella). Infatti, per poter parlare di abuso e dipendenza, l’elemento determinante è l’uso cronico di una determinata sostanza. È altrettanto ovvio, però, che l’uso cronico di un farmaco non può essere definito di per sé una tossicodipendenza. Per es., nessuno immaginerebbe di definire tossicodipendente un diabetico che si autosomministra quotidianamente insulina, anche se è profondamente dipendente da questa sostanza. Il DSM III identifica dunque due ulteriori elementi atti a definire la farmacodipendenza, ossia la tolleranza e la cosiddetta crisi di astinenza che appare all’interruzione della somministrazione.
La tolleranza indica che la dose da autosomministrarsi per ottenere il medesimo effetto aumenta progressivamente. Questo fenomeno è ben conosciuto e i suoi meccanismi neuronali sono stati chiariti in maniera piuttosto approfondita. La maggior parte delle droghe di abuso agisce tramite l’interazione diretta o indiretta con specifici recettori localizzati sulle membrane dei neuroni. I recettori sono proteine che agiscono come vere e proprie ‘serrature’ molecolari. Le droghe rappresentano una categoria di ‘chiavi’ di queste serrature (denominate ligandi del recettore). L’interazione di un ligando con il suo recettore specifico (in grado di riconoscerlo, proprio come una serratura riconosce la sua chiave) genera dei cambiamenti all’interno del neurone ospite che si riflettono nell’alterazione dell’attività del neurone stesso e, in ultima analisi, negli effetti specifici della droga. In condizioni fisiologiche, l’attivazione dei recettori è rigorosamente controllata. Numerosi meccanismi permettono alle cellule di regolare tale attivazione e di mantenerla entro limiti normali. Uno di questi meccanismi, per es., comporta che un recettore eccessivamente attivato venga riassorbito all’interno della cellula stessa. La cellula riduce così il numero dei recettori esposti all’esterno e si difende da un’eccessiva stimolazione. Ovviamente, quando un farmaco che agisce su un tipo di recettore viene assunto in maniera costante e abbondante, ne deriva una progressiva riduzione della presenza dei recettori esposti all’esterno delle cellule. Ecco, così, che la dose per ottenere il medesimo effetto deve necessariamente aumentare, portando il tossicodipendente alla ben conosciuta escalation nell’assunzione della droga.
L’altro elemento diagnostico descritto del DSM III, la crisi di astinenza, è legato a meccanismi simili. Molte droghe di abuso agiscono su sistemi endogeni all’organismo, soprattutto quelli legati alla percezione e alla motivazione. La ragione per cui le droghe sono attrattive è che esse potenziano funzioni fisiologiche positive, provocando intense sensazioni. Dopo un lungo periodo di autosomministrazione, fenomeni simili a quello della tolleranza portano a una riduzione dell’attività di questi sistemi endogeni, le cui funzioni sono ormai sostenute quasi esclusivamente dalla loro stimolazione artificiale con la droga. Quando si interrompe bruscamente l’assunzione del farmaco, quindi, l’organismo si trova per così dire ‘scoperto’ e precipita nella situazione opposta. Per es., oppiacei quali la morfina e l’eroina agiscono su recettori (i cosiddetti recettori oppioidi) che giocano un ruolo fisiologico molto importante nel controllo e nella riduzione delle sensazioni dolorifiche. Un eroinomane che interrompa bruscamente l’assunzione della droga si trova in una situazione in cui il dolore non è più controllato, né in maniera fisiologica, né in maniera farmacologica. La crisi di astinenza è la conseguenza dovuta alla mancanza di una serie di funzioni (diverse a seconda del tipo di droga) progressivamente sostituite dall’assunzione del farmaco stesso. In conclusione, secondo il DSM III, un individuo che si somministrasse una droga cronicamente, a dosi crescenti, e che presentasse i segni di una crisi di astinenza in seguito all’interruzione dell’autosomministrazione, sarebbe definito tossicodipendente.
Il DSM IV, apparso nel 1994, ha provocato una vera e propria rivoluzione. In questa edizione la tossicomania non è più esclusivamente identificata dall’analisi dei cambiamenti degli effetti della droga sull’individuo, come nel DSM III, ma analizzando le modificazioni della relazione comportamentale dell’individuo con la droga. In altri termini, l’attenzione si sposta dagli effetti della droga (DSM III) ai cambiamenti riscontrabili nel comportamento del soggetto nei confronti della droga (DSM IV). Si introduce, in sostanza, il concetto che la tossicodipendenza è una patologia del ‘controllo’ e che la malattia insorge soltanto quando appare una perdita di controllo dell’uso della droga. Nel DSM IV i sintomi della tolleranza e della crisi di astinenza sono ancora considerati, ma la loro presenza non è più necessaria per diagnosticare una tossicomania in atto. Ciò che diviene necessario è la presenza di almeno uno degli altri cinque sintomi (nonché criteri diagnostici: cfr. la seconda colonna della tabella) che definiscono una perdita di controllo nell’uso della droga stessa: il soggetto usa la sostanza in quantità superiori o per un tempo maggiore di quanto egli intendesse inizialmente; non riesce, una volta iniziato, a interrompere o a limitare l’assunzione della droga; spende una parte considerevole del suo tempo in attività legate alla sostanza (ricerca, uso, recupero psicofisico dai suoi effetti); trascura profondamente importanti attività (sociali, lavorative, ricreative) a vantaggio di quelle legate all’uso della droga; non riesce a smettere di usare la sostanza nonostante sia perfettamente a conoscenza degli effetti negativi che tale uso comporta. Considerando anche la tolleranza e la crisi di astinenza, il DSM IV presenta, quindi, sette sintomi che aiutano a definire un paziente tossicodipendente. La malattia viene rilevata dalla presenza di tre o più di questi sintomi. Ecco così che il verificarsi di una modificazione degli effetti del farmaco non è più necessaria per indicare una patologia di tossicodipendenza in atto. In conclusione, quindi, un soggetto che non presenti né tolleranza né crisi di astinenza, ma che non riesca a controllare la quantità di droga assunta, che trascuri le sue attività normali a causa di essa e che non riesca a smettere nonostante sia perfettamente cosciente del danno che tale uso gli causa, viene oggi definito tossicodipendente a tutti gli effetti.
Ma qual è la causa di un’evoluzione così profonda della concezione della tossicomania? La risposta è in realtà molto semplice. Nel periodo del DSM III le due tossicomanie prevalenti erano quelle da oppioidi (oppio, morfina ed eroina) e da alcol. Per queste droghe, i fenomeni di tolleranza e i sintomi di astinenza sono molto importanti, clinicamente evidentissimi e accompagnano perfettamente lo sviluppo della perdita di controllo sull’uso della droga. Nell’ultimo ventennio del 20° sec., sono apparsi però due fenomeni nuovi. Il principale è stato l’epidemia di tossicomania da crack, che non è altro che cocaina in forma tale da poter essere assunta tramite il fumo, associata a una recrudescenza delle metanfetamine e dell’ecstasy. Il secondo è stato il tentativo largamente infruttuoso di diminuire l’uso del tabacco nella popolazione, a causa della presa di coscienza dei suoi effetti devastanti sulla salute.
Ci si è infatti resi conto che il tabagismo è probabilmente una delle più gravi e resistenti forme di tossicomania. Per tutte queste ‘nuove’ droghe (crack, metanfetamine, nicotina) i criteri del DSM III si sono rivelati immediatamente del tutto inadeguati. Infatti, nessuna di queste droghe provoca in pratica alcuna tolleranza misurabile. Anzi, alcune di esse inducono un fenomeno inverso, quello della sensibilizzazione (un fenomeno per cui gli effetti di un farmaco aumentano invece di diminuire con l’uso cronico). Non solo la tolleranza non fa parte del repertorio di queste tossicodipendenze, ma anche la crisi di astinenza è un fenomeno sporadico fra i tossicodipendenti da queste droghe e difficile da diagnosticare. Un tabagista, per es., può non presentare fenomeni di tolleranza (spesso i fumatori consumano più o meno la stessa quantità di nicotina giornaliera per molti anni), e una crisi di astinenza chiara, con sintomi fisici precisi in caso di interruzione improvvisa, è un fenomeno poco comune. Nel DSM III, un paziente che avesse fumato costantemente venti sigarette al giorno, ma che non avesse né tendenza ad aumentare la quantità né una crisi di astinenza all’interruzione, non sarebbe stato definito tossicodipendente. Oggi, si sa che questo tipo di paziente probabilmente non sarebbe capace di rinunciare ad alcuna delle sue venti sigarette nonostante la volontà e l’intenzione di farlo (sintomo 4 del DSM IV). Inoltre, se non ha sigarette la domenica sarà capace di percorrere molti chilometri per riuscire a trovarle, magari rinunciando a passare la giornata in famiglia (sintomi 5 e 6), e continuerà a fumare (trovando decine di scuse) nonostante sappia che ciò danneggerà molto probabilmente la sua salute (sintomo 7). L’osservazione clinica e l’elaborazione teorica degli aspetti legati a queste ‘nuove’ tossicomanie hanno permesso di comprendere che, in ultima analisi, sono la variazione del comportamento del soggetto e la sua relazione con la sostanza che definiscono in modo preciso e onnicomprensivo tutte le tossicodipendenze.
Un elemento importante da rilevare in base a tutte queste considerazioni è che l’uso di una droga non può e non deve essere assimilato a uno stato di dipendenza di per sé, ma che esso insorge in alcuni soggetti in cui tale uso acquista caratteri compulsivi e diviene incontrollabile. È per questa ragione che gli studi più recenti si sono focalizzati sul fenomeno della transizione dall’uso di un farmaco al suo abuso e alla vera e propria dipendenza. Di questi studi ci si occuperà nel prosieguo di questo saggio.
Basi neuropsichiatriche della transizione: due teorie a confronto
Gli effetti attrattivi delle droghe di abuso sono ampiamente presenti lungo la catena evolutiva. Animali molto semplici quali vermi, api, roditori e primati non umani sono in grado di distinguere gli effetti di queste droghe. Per es., se messi in condizioni sperimentali in cui un particolare ambiente è stato associato con una somministrazione di droga, essi preferiranno frequentare tale ambiente rispetto a un altro associato con uno stimolo neutro. La vera e propria autosomministrazione di droghe di abuso negli animali, cioè la capacità di un animale di produrre un lavoro per ottenere come sola ricompensa un’iniezione di droga, fu dimostrata per la prima volta nel 1962, quando James R. Weeks negli Stati Uniti dimostrò che ratti di laboratorio sono capaci di premere un numero rilevante di volte una leva per ottenere un’iniezione di morfina per via intravenosa (Experimental morphine addiction. Method for automatic intravenous injections in unrestrained rats, «Science», 1962, 138, 3537, pp. 143-44).
Il fatto che l’assunzione spontanea e volontaria di droghe di abuso non esiste solo nell’uomo, ma anche negli animali, ha esteso le possibilità di elaborazione teorica sul fenomeno della tossicomania. Il confronto e l’integrazione fra dati clinici ed epidemiologici (ottenuti nel mondo reale, ma di difficile controllo e interpretazione) e dati sperimentali ottenuti con l’uso di modelli animali (più controllabili e misurabili) hanno permesso di estendere in maniera considerevole le nostre conoscenze sull’argomento. Nel corso degli ultimi decenni, sulla base di dati sperimentali simili al modello di Weeks e di osservazioni cliniche sempre più dettagliate si sono sviluppati due filoni teorici per spiegare il fenomeno della transizione dall’uso di una droga alla dipendenza. Uno di questi filoni è centrato sulla droga, mentre l’altro è invece centrato sull’individuo. Essi sono basati rispettivamente su due osservazioni cliniche comunemente accettate: il fatto che la transizione avviene solo dopo un uso prolungato della droga ha dato origine alle teorie centrate sulla droga, mentre il fatto che fra gli individui che fanno uso di una droga anche per lunghi periodi la tossicomania insorge solo in un numero molto limitato di soggetti ha prodotto le teorie centrate sull’individuo.
Le teorie centrate sulla droga sono sicuramente le più esplorate dai ricercatori e hanno guidato gli sforzi terapeutici, purtroppo piuttosto infruttuosi, indirizzati alla cura della malattia negli ultimi 40-50 anni. Secondo queste teorie, la transizione dall’uso alla dipendenza deriva dagli effetti neurobiologici e psicologici dovuti all’uso prolungato di una droga, che, attraverso profonde modificazioni del cervello e del comportamento, renderebbero l’individuo tossicodipendente. Secondo le differenti scuole di pensiero susseguitesi nel corso degli anni (Kalivas, Volkow, Seamans 2005; Nestler 2005; Hyman, Malenka, Nestler 2006; Robinson, Berridge 2008), sono stati considerati principali fenomeni associati a questi effetti della droga la tolleranza, l’astinenza e, più recentemente, la sensibilizzazione motivazionale (cioè la riorientazione della motivazione dagli stimoli naturali alla droga) nonché il condizionamento (l’acquisizione di stimoli dell’ambiente associati all’assunzione di droga, capaci cioè di ricordarla e indurre uno stato di desiderio per essa). Numerosi esperimenti di laboratorio forniscono un chiaro e dettagliato supporto a queste teorie, mostrando che la durata e l’intensità di esposizione alla droga inducono in maniera proporzionale fenomeni di tolleranza, sensibilizzazione, astinenza e condizionamento sempre più importanti. Inoltre gli animali tendono ad aumentare il consumo delle sostanze di abuso con il passare del tempo, e questa tendenza è proporzionale alla quantità di droga assunta dagli individui. Un sostegno molto importante alle teorie centrate sulla droga è venuto anche da ricerche puramente neurobiologiche che hanno mostrato come l’uso cronico di una droga sia spesso associato a profondi cambiamenti molecolari, cellulari o sinaptici (le sinapsi sono i siti di contatto e comunicazione fra diversi neuroni) nel cervello (Grimm, Hope, Wise, Shaham 2001; Nestler 2005; Hyman, Malenka, Nestler 2006). Pertanto, è indiscutibile che l’uso prolungato di farmaci a effetto psicotropo scateni alterazioni profonde nel cervello e nel comportamento dell’individuo che potrebbero essere alla base della transizione dall’uso alla dipendenza.
Per queste teorie la tossicomania è dunque una malattia iatrogena, cioè un effetto collaterale dell’assunzione ripetuta di una sostanza farmacologica. Per capire meglio questo concetto è importante ricordare che alcune droghe sono anche farmaci. La cocaina fu introdotta inizialmente come anestetico locale e suoi derivati sono ancora utilizzati a questo scopo. La morfina, che in sostanza equivale all’eroina, è l’analgesico più potente che si conosca ed è ancora universalmente utilizzato in medicina. La Cannabis sativa (marijuana) era presente in tutte le farmacopee ufficiali come strumento terapeutico per numerose malattie fino agli anni Trenta del 20° sec., quando i suoi effetti collaterali psicotropi, appunto, ne provocarono l’interdizione.
Le teorie centrate sull’individuo sono state finora molto meno studiate. Esse furono proposte molto più tardi (circa vent’anni fa), e sono basate sull’osservazione che ‘solo’ un numero variabile (dal 10 al 30%, a seconda delle sostanze) delle persone che fanno uso di droghe per periodi anche prolungati, ne diviene clinicamente dipendente (Piazza, Deminière, Le Moal, Simon 1989; Piazza, Le Moal 1996). Tali teorie individuano la transizione dall’uso alla dipendenza come una risposta patologica alla droga che dipende da specifiche caratteristiche dell’individuo. La tossicomania sarebbe cioè una risposta anormale alla droga in alcuni soggetti, e non una conseguenza inevitabile del suo uso prolungato. Questo tipo di teoria porta a classificare la tossicomania come vera patologia del comportamento.
Per comprendere tale concetto, esempio illuminante è quello della depressione, una delle malattie psichiche più diffuse e gravi. In Europa, la depressione si manifesta clinicamente con maggiore frequenza in seguito a due eventi piuttosto comuni, i divorzi e i traslochi. Nessuno può però considerare la depressione una conseguenza diretta dei divorzi o dei traslochi e pensare, quindi, che basterebbe eliminare queste due situazioni per ridurre l’incidenza della malattia. È invece evidente come la malattia nasca dall’interazione tra stimoli che non sono obbligatoriamente patologici e un terreno (l’individuo) vulnerabile. Le teorie centrate sull’individuo identificano questo stesso tipo di interazione tra droga, terreno vulnerabile e tossicomania. Esistono numerose evidenze cliniche e sperimentali in favore delle teorie centrate sull’individuo. Per es., profonde differenze individuali esistono negli animali da laboratorio per quanto riguarda l’autosomministrazione delle droghe di abuso. Tali differenze possono essere di origine genetica ma anche ambientale, in particolare come conseguenza di situazioni di stress.
Negli ultimi anni, le due teorie sono state contrapposte anche in maniera accesa. L’esistenza della variabilità individuale non è mai stata messa in discussione, ma i fautori della teoria centrata sulla droga hanno spesso cercato di spiegarla con fattori esterni all’individuo. Per es., la disponibilità di una determinata droga e la ‘pressione sociale’ al suo uso potrebbero essere la causa di tale variabilità individuale nell’uomo, mentre l’errore sperimentale (la variabilità intrinseca in ogni esperimento condotto su materiale vivente, dovuto a fattori incontrollabili e ai limiti delle tecniche di misurazione) sarebbe all’origine della variabilità individuale negli esperimenti condotti in laboratorio. In altre parole, alcune persone avrebbero più tendenza a divenire tossicodipendenti di altre, semplicemente perché hanno più possibilità di accedere alla droga o hanno pressioni sociali più importanti per farlo, senza che il loro fenotipo (l’insieme dei caratteri fisici, psicologici e comportamentali di un individuo) sia parte in causa in questo processo. Come spesso succede nella scienza, le due teorie contengono entrambe una dose di evidenza rilevante: la droga ha sicuramente un effetto biologico sul cervello, che contribuisce allo sviluppo della dipendenza, ma ogni individuo possiede un suo fenotipo psicofisico che lo espone o meno a questo rischio. Mentre, però, la prima evidenza è conosciuta da lungo tempo e largamente accettata, la seconda è stata fortemente criticata negli ultimi anni, fino ad affermare che la variabilità individuale non ha alcuna rilevanza nella transizione dall’uso di una droga alla sua dipendenza. Tali affermazioni sono state chiaramente smentite negli ultimi 10-20 anni da studi su modelli animali di uso delle droghe, fino ad arrivare alla più recente dimostrazione che la variabilità individuale esiste e può essere studiata in laboratorio in condizioni sperimentali controllate fino alla vera e propria transizione dall’uso alla dipendenza.
Per quanto riguarda le evidenze in favore della vulnerabilità individuale all’uso della droga, si è visto che tali variazioni individuali non dipendono dalle condizioni sperimentali e dal loro errore. Infatti, alcune variabili comportamentali indipendenti dalla droga stessa predicono la maggiore o minore predisposizione all’assunzione volontaria di droga in laboratorio. Fattori individuali come la risposta allo stress, i livelli di ansietà o l’impulsività sono elementi predittivi di un maggiore o minore uso di droga da parte di individui specifici. In altre parole, numerosi studi hanno mostrato che gli animali che presentano una maggiore o minore capacità di adattarsi allo stress, o sono più o meno inclini ad agire impulsivamente, consumeranno maggiori o minori quantità di droga, quando esposti alla possibilità di autosomministrarsela. Ovviamente, questi fattori non possono dipendere da un errore sperimentale, perché altrimenti dovremmo pensare che lo stesso errore, che è per definizione casuale, dovrebbe regolarmente riprodursi in maniera identica in esperimenti successivi su comportamenti diversi degli stessi individui. Ciò è chiaramente impossibile. Inoltre, le variabilità individuali persistono negli animali quando le dosi di droga sono esattamente le stesse per tutti gli individui e si mantengono su un largo spettro di dosi. Questo indica chiaramente che la disponibilità della droga non può da sola spiegare la variabilità del suo uso e che anche in condizioni come quelle umane, in cui la dose di droga presa può essere liberamente scelta dall’individuo, alcuni soggetti saranno maggiormente indotti a consumarla. Infine, numerosi studi più recenti hanno rivelato vere e proprie basi biologiche associate alla maggiore o minore vulnerabilità all’assunzione di droga e che lo stato di ciascun individuo (per es., la sua previa esposizione a diversi tipi di stress) può determinare tale vulnerabilità. È fondamentale notare che le modificazioni biologiche che causano la vulnerabilità concernono proprio quei sistemi motivazionali che controllano la dipendenza fisiologica dal cibo o dal sesso, sistemi che nei soggetti vulnerabili si attivano in maniera aberrante in risposta alla droga.
In conclusione, oggi si sa che alcuni individui sono maggiormente esposti ai rischi delle droghe a causa delle loro caratteristiche individuali. Anche i ricercatori più riluttanti ad ammettere l’importanza di questi fenotipi sono oggi convinti che essi esistono e hanno un ruolo fondamentale nella fisiopatologia della dipendenza.
Dall’uso alla dipendenza: necessità di modelli
Si è finora accennato alla differenza fra uso della droga e vera e propria dipendenza o tossicomania. Per quanto riguarda l’uso, si è visto che dati clinici e sperimentali convergono sull’idea che, oltre agli effetti della droga stessa, alcuni fattori biologici intrinseci del soggetto (fenotipo) determinano la maggiore o minore vulnerabilità dei singoli individui all’autosomministrazione. Fino a pochi anni fa, però, non era ancora chiaro se fosse realmente possibile riprodurre in laboratorio una vera e propria transizione dall’uso alla dipendenza, per poterne studiare i meccanismi biologici. A questo punto occorre sottolineare ancora una volta che l’uso di una droga non è assimilabile completamente al suo abuso e alla dipendenza e che anche un aumento progressivo della consumazione non è obbligatoriamente un sintomo di dipendenza. Come definito dal DSM IV del 1994, la dipendenza appare quando l’assunzione di droga diviene compulsiva e, soprattutto, incontrollabile.
Per ottenere modelli sperimentali di questi ultimi aspetti della patologia, è necessario individuare i singoli sintomi, ottenere osservazioni equivalenti misurabili negli animali da laboratorio, valutarle durante un periodo esteso di esposizione all’uso volontario della droga e, infine, considerare i risultati per singolo animale, in maniera da evidenziare il potenziale impatto della variabilità individuale su di essi. Tutto ciò appare semplice teoricamente, ma comporta notevoli difficoltà tecniche. Infatti è necessario individuare comportamenti e reazioni degli animali che possano, nel modo più preciso possibile, rappresentare i sintomi umani. Negli ultimi dieci anni, alcuni gruppi di ricerca hanno raccolto la sfida. Il gruppo di Pier-Vincenzo Piazza in Francia è stato il primo a elaborare un modello plurisintomatico di transizione dall’uso alla dipendenza dalle droghe (Deroche-Gamonet, Belin, Piazza 2004). Inoltre, altri gruppi hanno ottenuto modelli che, pur basandosi su singoli aspetti (sintomi) come segni della transizione (modelli monosintomatici), hanno contribuito alla ricerca in questo campo (Grimm, Hope, Wise, Shaham 2001; Belin, Mar, Dalley et al. 2008).
Il modello plurisintomatico
Questo modello è stato sviluppato usando la cocaina come droga di abuso, ratti da laboratorio come soggetti e procedure di autosomministrazione intravenosa (Deroche-Gamonet, Belin, Piazza 2004). I ratti sono esposti alla possibilità di autosomministrarsi cocaina per due ore al giorno a una dose prefissata. In queste condizioni, tutti gli animali imparano a premere una leva per ottenere le loro dosi di cocaina, senza grandi variabilità individuali. Quanti di questi animali a un certo punto passeranno la soglia e diventeranno francamente dipendenti dalla cocaina? Per rispondere a questa domanda, è necessario ritornare al DSM IV.
Come si è visto in precedenza, il manuale individua cinque sintomi basati sulla perdita di controllo dell’individuo. In pratica, i soggetti dipendenti sono disposti a superare qualsiasi barriera pur di ottenere la droga. Per semplificare, nelle condizioni sperimentali, questi cinque sintomi possono essere raggruppati in tre criteri diagnostici comportamentali, cui un animale dipendente dovrà rispondere per essere definito tale (v. la terza colonna della tabella): dovrà avere una forte motivazione per la droga; sarà incapace di frenare la ricerca della droga, anche se sa che questa è resa indisponibile dallo sperimentatore; continuerà ad autosomministrarsi la droga anche in presenza di chiare conseguenze negative causate da tale comportamento. Il primo criterio viene valutato mediante un aumento del lavoro necessario per ottenere l’iniezione di una singola dose. In pratica, mentre in condizioni normali basta che il ratto prema tre volte per ottenere una dose, durante il test, l’animale deve progressivamente aumentare il numero di pressioni sulla leva per ottenere una singola iniezione. In questo modo, a un certo punto tutti gli animali smetteranno di premere (il numero di pressioni può arrivare anche a livelli molto alti, 2000-3000 per una singola iniezione). La soglia a cui ogni individuo si arresta è usata come indice della sua motivazione per la droga e sarà più elevata per ratti dipendenti. Il secondo criterio è valutato introducendo un segnale (una luce o un suono) che indica l’indisponibilità della droga. In pratica, se il segnale è acceso, il ratto può premere quanto vuole, ma non riceverà alcuna dose di cocaina. Un segno di dipendenza sarà, quindi, il fatto che alcuni animali continueranno a premere durante il segnale, anche se sanno che l’azione non verrà ricompensata. Il terzo criterio è forse uno dei più determinanti. Per valutarlo, si presenta uno stimolo (diverso da quello del secondo criterio), durante il quale la pressione della leva che provoca normalmente l’iniezione della droga viene anche associata a una punizione (per es., una leggera scossa elettrica alle zampe). In queste condizioni, i ratti non dipendenti smetteranno di premere la leva alla presenza dello stimolo, mentre quelli dipendenti continueranno ad assumere la droga nonostante le conseguenze negative. Questi tre test diagnostici sono eseguiti a intervalli regolari durante un periodo piuttosto lungo (alcuni mesi). Ogni individuo è valutato secondo il suo livello di risposta in rapporto alla media della popolazione degli animali nell’esperimento. I risultati mostrano come, in un primo periodo, quasi nessun animale risulti positivo ai test: quasi tutti mostrano una motivazione simile e abbastanza bassa (criterio 1), sono in grado di frenare la pressione della leva durante il segnale di inaccessibilità della droga (criterio 2) e smettono completamente di premere la leva quando imparano che il nuovo stimolo è associato alla punizione, rinunciando, pertanto, alla loro dose (criterio 3). Con il passare delle settimane, però, ci si rende conto di come individui che avevano smesso di richiedere la droga quando questa era inaccessibile e di prenderla quando il lavoro era troppo importante o la dose era associata a una punizione, cambino il loro comportamento durante i test diagnostici, mostrando una vera e propria incapacità di controllare le azioni dirette all’assunzione della cocaina.
Gli animali, quindi, vengono classificati a seconda del numero di criteri per cui risultano positivi. In questo modo, si possono distinguere quattro popolazioni, caratterizzate dal numero di criteri incontrati: da zero a tre. In analogia con i criteri diagnostici del DSM IV (la presenza di tre sintomi su una lista di sette), questo metodo permette di distinguere animali che non hanno sviluppato dipendenza (quelli che non sono positivi ad alcun criterio), animali che presentano una dipendenza intermedia (con uno o due criteri), e animali che sono veramente dipendenti, ossia positivi a tutti e tre i criteri. Sempre attraverso metodi statistici, è possibile trasformare i valori registrati in ciascun test in un punteggio di dipendenza, che può essere considerato analogo a un altro strumento diagnostico usato su pazienti umani, la scala di gravità della dipendenza (ASI, Addiction Severity Index). In questo modo si possono ottenere valori qualitativi (presenza o meno dei criteri) e quantitativi (scala di gravità) molto simili a quelli utilizzati dagli psichiatri. I risultati di questi esperimenti mostrano che, in maniera simile agli esseri umani, solo il 17% dei ratti consumatori di cocaina diviene veramente cocainomane (diversi studi epidemiologici indicano che questa percentuale negli esseri umani oscilla fra il 15 e il 20%). Inoltre, ancora in analogia con gli esseri umani, i ratti tossicomani con tre criteri mostrano una forte tendenza alla ricaduta nell’uso della droga, anche dopo lunghi periodi di astinenza e disintossicazione (Deroche-Gamonet, Belin, Piazza 2004).
Probabilmente la scoperta più importante di questi studi è stata la dimostrazione che la quantità totale di droga consumata dai ratti con tre criteri (dipendenti) non è diversa da quella consumata dagli animali che, invece, non sviluppano la patologia e mantengono un controllo perfetto sull’uso di droga (zero criteri). Si tratta di un’osservazione fondamentale che dimostra definitivamente l’importanza della vulnerabilità individuale rispetto alle teorie iatrogene che predicono come la quantità di droga assunta sia direttamente proporzionale alla probabilità di cadere nella transizione dall’uso alla dipendenza. Si può, quindi, parlare di vera e propria tossicodipendenza anche per gli animali da esperimento e i dati indicano in maniera molto netta come la transizione dall’uso non patologico all’abuso patologico risulti dalla combinazione di due fattori principali: un’esposizione prolungata a una sostanza con potenziale di abuso e un fenotipo individuale vulnerabile.
Tutto ciò offre la possibilità ai ricercatori di affrontare in maniera efficace la cura e la prevenzione di questa patologia. Sarà, infatti, possibile studiare i meccanismi neuronali della transizione in condizioni sperimentali e, soprattutto, individuare le caratteristiche psicobiologiche degli individui vulnerabili. Nell’impossibilità pratica di eliminare tutte le droghe dalla società umana, infatti, la speranza offerta dalla ricerca è quella di identificare le specifiche reazioni alla droga degli individui vulnerabili, in modo da instaurare terapie che possano combatterle e vincere così la tossicomania. Naturalmente, i ratti da laboratorio non presentano la complessità psichica, sociale, economica tipica degli esseri umani in cui la malattia si sviluppa. La possibilità, però, di studiare i dettagli neurobiologici di questi processi rappresenta il contributo che le neuroscienze possono fornire alla comprensione e, forse, alla cura e prevenzione della tossicodipendenza.
Basi psicobiologiche della transizione alla dipendenza
Nel tentativo di trovare i fattori causali della tossicodipendenza, numerosi studi epidemiologici e clinici si sono focalizzati su aspetti psicologici, come per es. l’impulsività o la capacità di adattarsi allo stress, o a patologie spesso associate alla dipendenza, quali i disturbi di ansia o la depressione. Sebbene questi studi siano molto complessi e i risultati a volte contraddittori, si può oggi affermare che esistano delle associazioni fra l’uso prolungato di alcune droghe e queste condizioni o patologie neuropsichiche. Ancora una volta, però, studiare i dettagli di questi meccanismi nel mondo reale è molto difficile e, soprattutto, studi clinici ed epidemiologici non permettono di stabilire se un dato carattere psicologico o patologia psichica è una conseguenza dell’uso delle droghe o ne è la causa. Alcuni modelli animali (come quello discusso in precedenza) hanno permesso negli ultimi anni di chiarire certi aspetti della relazione causale fra la tossicodipendenza e tali caratteri psicologici e psicopatologici.
Adattamento allo stress
L’esposizione a eventi stressanti come fattore di rischio della tossicodipendenza è un leitmotiv degli studi epidemiologici sull’uomo. Gli studi sperimentali supportano questa ipotesi e hanno permesso di mostrare una relazione causale tra i due fenomeni (Piazza, Le Moal 1997 e 1998).
Alla fine degli anni Ottanta del 20° sec. si dimostrò, con esperimenti di laboratorio condotti su ratti, che certi individui mostrano una vulnerabilità più pronunciata all’autosomministrazione di droghe di abuso rispetto ad altri congeneri (Piazza, Deminière, Le Moal, Simon 1989). Essi assumono più droga e mostrano una sensibilità accresciuta ai suoi effetti. Questa maggiore tendenza al consumo di droga può essere prevista analizzando alcune semplici reazioni a situazioni stressanti. Per es., per i roditori, che sono animali notturni abituati a spazi ristretti, l’esplorazione di spazi aperti e sconosciuti è un evento piuttosto stressante e la reattività a tale stress può essere valutata semplicemente misurando l’attività locomotoria degli animali in tali circostanze. Gli studi hanno mostrato che gli animali con una maggiore reattività allo stress sono anche quelli che svilupperanno un maggiore consumo di droga in test successivi. Inoltre, eventi stressanti a diversi stadi dello sviluppo possono indurre lo stesso effetto: rendere, cioè, più disponibili al consumo soggetti che erano inizialmente resistenti alla droga (Piazza, Le Moal 1997 e 1998). Una volta sviluppato il nuovo modello animale di transizione dall’uso alla dipendenza, era logico supporre che tale comportamento avesse valenza predittiva anche per individuare gli animali che avrebbero sviluppato una reale tossicomania. Purtroppo, però, gli stessi parametri si sono rivelati insufficienti per predire la transizione. Questi risultati confermano ancora una volta che non esiste una relazione diretta fra la tendenza a consumare più droga e quella a sviluppare tossicodipendenza a livello individuale. Resta oggi da comprendere se esiste una relazione fra l’esposizione a eventi stressanti e una maggiore vulnerabilità alla tossicodipendenza in condizioni sperimentali. In altre parole, si sa che eventi stressanti possono portare a un uso maggiore di droga, ma non è certo ancora se gli stessi eventi possano facilitare la transizione dall’uso alla dipendenza.
Impulsività
Dal punto di vista psicologico, l’impulsività è un tratto della personalità caratterizzato dalla scarsa capacità di concepire decisioni e comportamenti appropriati a diverse situazioni. In altre parole, decisioni e comportamenti affrettati e poco meditati definiscono il carattere impulsivo. L’impulsività è un tratto complesso, formato da componenti multiple, quali la mancanza di inibizioni comportamentali, l’intolleranza alle ricompense ritardate e l’incapacità di valutare in maniera appropriata le conseguenze dei propri comportamenti. Nell’uomo, i consumatori regolari di droga presentano un’incidenza di impulsività superiore alla media. Inoltre, malattie legate a disturbi impulsivi, come per es. il disturbo di attenzione e di iperattività (ADHD, Attention Deficit Hyperactivity Disorder), sembrano essere associate a una maggiore vulnerabilità alla tossicodipendenza (Belin, Mar, Dalley et al. 2008). Esistono vari approcci sperimentali per determinare i livelli di impulsività negli animali da laboratorio, che non verranno qui discussi. Tuttavia alcune evidenze indicano come alcuni aspetti dell’impulsività possano agire da fattori predittivi della maggiore assunzione di droga.
Per quanto riguarda la transizione dall’uso alla dipendenza, studi recenti hanno mostrato che l’impulsività potrebbe rappresentarne un fattore predittivo (Belin, Mar, Dalley et al. 2008). È interessante notare che gli aspetti dell’impulsività associati con l’aumentata tendenza a consumare la droga non sembrano essere gli stessi che possono predire la transizione alla dipendenza. Inoltre, una volta che la dipendenza si è instaurata, l’impulsività non sembra più essere un fattore determinante. Infatti, ratti tossicomani con tre criteri non presentano differenze rispetto ai ratti non tossicomani con zero criteri in comportamenti impulsivi legati all’assunzione della droga (Deroche-Gamonet, Belin, Piazza 2004).
Disturbi di ansia
La tossicodipendenza è spesso associata a disturbi di ansia, ma non è ancora chiaro quale sia la relazione temporale/causale fra le due patologie (Koob, Le Moal 2008). In animali da laboratorio, sia l’assunzione di droga sia la sospensione possono causare disturbi di ansia misurabili, ma non è ancora chiaro se un’aumentata risposta ansiosa può essere un fattore di rischio per l’uso della droga. Entrambi i casi sono stati descritti in letteratura e molti fattori sembrano dipendere dalle condizioni sperimentali. Il rapporto fra ansia e transizione verso la dipendenza è ancora relativamente poco esplorato. Sembra, comunque, che un livello di ansia più elevato sia associato a una più grande predisposizione a prendere droga in quantità importanti (Koob, Le Moal 2008). Invece i ratti dipendenti (con tre criteri) non sembrano più ansiosi dei ratti resistenti.
In conclusione, questi studi mostrano fondamentalmente l’esistenza di due fenotipi vulnerabili indipendenti. Il primo fenotipo è associato a una più grande vulnerabilità a stress, ansietà e impulsività, e predispone ad aumentare l’assunzione di droga per lunghi periodi. Nel secondo si verifica un passaggio da consumo cronico alla tossicomania, ma le sue caratteristiche psicofisiche sono a tutt’oggi ancora sconosciute.
Una visione unificata della tossicodipendenza
La comparsa di modelli animali pertinenti e l’accumulo delle conoscenze descritte in precedenza permette oggi di riconciliare i due maggiori filoni teorici sullo sviluppo della tossicodipendenza, quello centrato sulla droga e quello centrato sull’individuo. Oggi siamo in grado di proporre una teoria generale della tossicomania secondo la quale la patologia è un’interazione tra la droga e l’individuo che si sviluppa secondo un processo in due tappe e richiede l’associazione di due tipi di vulnerabilità indipendenti. Infatti, la tossicomania appare solo dopo un’esposizione prolungata alla droga, ma nonostante l’assunzione di quantità simili di droga in tutti i soggetti, essa si sviluppa solo in alcuni individui vulnerabili. È quindi l’interazione fra l’esposizione alla droga e un fenotipo vulnerabile, ma non ciascuno di questi due fattori indipendenti, che determina lo sviluppo della tossicodipendenza (fig. 2).
Inoltre, dati più recenti indicano che esistono due vulnerabilità indipendenti. La prima è quella che porta all’uso della droga, mentre la seconda porta alla transizione verso la dipendenza. Il primo tipo di vulnerabilità è quello che conduce a consumare droga in maniera regolare perché ha effetti piacevoli e motivazionali particolarmente elevati. Questa fase di consumo sostenuto non corrisponde alla vera tossicomania, ma è una tappa fondamentale e necessaria per arrivarci. Si sa, infatti, che per compiere la transizione dall’uso alla tossicomania bisogna prendere la droga in maniera ripetuta per lungo tempo. Comunque, solo gli individui che presentano anche il secondo tipo di vulnerabilità, quello alla dipendenza, di cui purtroppo oggi si sa ancora poco, passeranno dall’uso sostenuto alla vera tossicomania.
La strada è ancora lunga, ma l’unione e l’integrazione delle teorie e dei dati provenienti sia dall’esperienza clinica sia dal laboratorio cominciano a portare all’identificazione di fattori e meccanismi importanti per determinare una patologia complessa e grave come la tossicodipendenza. La speranza è che questi studi, associati a sforzi sociali, economici e politici, possano portare a una riduzione dell’impatto devastante che questa malattia può avere sulla vita degli individui come anche sul loro ambiente.
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