La disgregazione dell'impero romano
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La disgregazione politica dell’impero romano d’Occidente è l’esito di un percorso storico di lunga durata, riconoscibile già nel III secolo, di regionalizzazione dei territori imperiali, che si configurano sempre più come aree autonome e non integrate. La deposizione di Romolo Augustolo nel 476 è solo un momento, forse il più visibile a livello storiografico, di questa lunga transizione.
La frammentazione politica dell’impero romano non è l’esito diretto della deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente nel 476, data convenzionale dell’inizio del Medioevo.
Tendenze centrifughe si sono infatti manifestate nella compagine imperiale più di due secoli prima: nel corso della “crisi del III secolo”, e in particolare durante il regno di Gallieno, l’impero si ritrova spezzato in tre tronconi autonomi. A ovest, la rivolta di Postumo porta alla costituzione di un impero gallico (formato da Gallia, penisola iberica e Britannia) che dura per 13 anni sotto Postumo stesso, Mario, Vittorino e Tetrico. A Oriente, invece, la potenza economico-commerciale di Palmira porta alla costituzione di un vero e proprio impero incentrato sulla città carovaniera, sotto il regno di Odenato prima, di Vaballato poi, ma soprattutto, a detta delle fonti, sotto la guida della moglie del primo e madre del secondo, Zenobia. Solo l’imperatore Aureliano riesce a riprendere i due regni “secessionisti” nel 273 e a ricostituire l’unità imperiale. Già da quel momento, e ancor più nel corso del IV secolo però, si mostra con sempre maggior evidenza la presenza di spinte centrifughe e più in generale di una regionalizzazione in aree sempre più autonome l’una dall’altra e meno integrate in un complesso. Ne sono prova le varie usurpazioni, sempre più legate a un determinato territorio. Lo scopo è spesso proprio la costituzione di regni secessionisti e il riconoscimento di una pari autorità rispetto agli imperatori già esistenti: è il caso ad esempio della ribellione di Carausio, che controlla Britannia e Gallia settentrionale, lasciate alla sua morte ad Alletto e riprese da Costanzo Cloro, ma anche di Magnenzio, Magno Massimo, Costantino III.
Sono sintomatiche di questo stato anche le rivolte bagaudiche, una serie di fermenti di ribellione che si protraggono, con diverse fasi acute, tra il III e il V secolo in area gallica, dalla distruzione di Autun (269) all’intervento militare di Massimiano, alle periodiche esplosioni di violenza nel V secolo, fino all’ultimo episodio noto, la sconfitta subita nel 453-454 dal visigoto Federico. Le rivolte bagaudiche hanno uno spiccato carattere etnico: il nome stesso sembra di origine celtica, e il movimento risulta caratterizzato da una forte rivendicazione di un’identità “indigena” e rurale contrapposta alla cultura cittadina romanizzata.
È inoltre lo stesso potere imperiale spesso a provvedere alla spartizione del territorio tra diverse figure di regnanti, per quanto di grado diverso, per la difficoltà di governare l’impero come unità e per rispondere alle specificità sempre più marcate di macroregioni differenti (soprattutto diviene forte la differenza, in generale, tra Oriente e Occidente).
Se la tetrarchia di Diocleziano si occupa di questa spartizione non solo con la divisione dell’impero in quattro parti, ma anche con la ristrutturazione del sistema delle province e con la loro articolazione nelle diocesi e nelle prefetture al pretorio – struttura piramidale che permette una maggiore considerazione delle specificità locali, nelle micro come nelle macroaree –, Costanzo II decide di nominare Cesari prima Gallo poi Giuliano, nella consapevolezza che un potere accentrato è difficilmente gestibile e favorisce l’insorgere di usurpazioni.
In seguito, Valentiniano I, salito al trono, è responsabile di una vera e propria spartizione dell’impero, associando al trono il fratello Valente, al quale lascia la regnanza sull’Oriente per tenersi il controllo dell’Occidente. La storiografia sta mettendo sempre più in luce come tale spartizione sia già una prefigurazione della grande scissione dell’impero del 395, e abbia dato vita di fatto a due distinte realtà istituzionali vere e proprie in cui, ad esempio, la promulgazione di una legge in una parte non ne comporta l’automatica validità nell’altra e gli eserciti vengono trasferiti da una parte all’altra in caso di bisogno, ma dietro una specifica richiesta di aiuto, come se si trattasse di un altro stato – come accade durante le invasioni gotiche del 378, quando l’esercito occidentale guidato da Graziano è mobilitato dietro richiesta di Valente, ma non arriva in tempo per impedire il disastro di Adrianopoli.
È dunque da attribuire un peso molto meno forte al gesto di Teodosio che, in punto di morte, lascia l’impero ai due figli: l’Occidente a Onorio, il minore, sotto la guida di Stilicone, e l’Oriente ad Arcadio, il maggiore. L’idea di Teodosio non è quindi molto diversa da quella di Valentiniano, tanto più che è esplicitamente detto che l’impero continua a essere uno solo, divisis tantum sedibus. Ciò che realmente segna una svolta è piuttosto la mancata accettazione a Oriente della supervisione di Stilicone, forse voluta dallo stesso Teodosio su entrambe le parti, che genera una situazione di conflitto, anche armato, tra le due metà, e l’assenza, da questo momento in poi, di una figura che riassuma in sé entrambe le corone.
Se l’impero d’Oriente, però, con diverse vicissitudini e anche una notevole riduzione territoriale nel corso del VII secolo, a seguito delle invasioni arabe, rimane in piedi come stato centralizzato, in Occidente la disgregazione è piuttosto rapida. Nel 410, il medesimo anno in cui le difficoltà politiche e militari dell’Occidente portano al sacco di Roma da parte di Alarico, è deliberato l’abbandono della Britannia, lasciata a se stessa e ben presto invasa da Angli, Sassoni e Juti (a partire dal 449), che possono insediarsi in un territorio privo di un’autorità statuale organizzata, forse accolti dalle popolazioni locali sulla base di un “patto” analogo a quelli che Roma stipula nell’Europa continentale.
Diversa invece è la genesi dei regni romano-barbarici sul territorio continentale. Questi non nascono da potenze straniere che occupano un’area precedentemente imperiale, ma si stabiliscono sul territorio a seguito della stipula di foedera, strumenti diplomatici in uso fin dall’alto impero, tramite cui Roma si intromette nelle questioni interne delle tribù germaniche residenti oltre confine. A partire dall’epoca di Marco Aurelio infatti ha inizio l’uso di accogliere entro il territorio dell’impero barbari inquilini, coltivatori legati alla terra; con Diocleziano si affianca l’uso di accoglierli come laeti e gentiles, coltivatori semiliberi vincolati a un impegno militare, collocati forse su terre pubbliche, e organizzati, a differenza dei precedenti, in gruppi etnicamente compatti.
Da un’ulteriore evoluzione di queste pratiche, che non sono pertanto un’innovazione tardoantica, derivano i foedera del V secolo, che prevedono lo stanziarsi della popolazione barbarica in una determinata area dell’impero, area in cui un sovrano fa il reggitore in vece dell’imperatore, e in cui le truppe, barbariche, sono da considerarsi a tutti gli effetti truppe di foederati romani – i Visigoti, ad esempio, nel 451 combattono insieme ai Romani contro Attila ai Campi Catalaunici. La legittimazione del potere dei re viene da una delega imperiale che si concreta con l’assunzione da parte loro, oltre che del titolo di rex internamente alla loro comunità, anche di un incarico ufficiale romano, in genere quello di magister militum. Sono realtà possibili dunque solo all’interno dell’impero, nelle quali l’elemento barbarico è sempre numericamente molto inferiore a quello romano. Anche le strutture fiscali e amministrative romane sono in genere mantenute, ad esempio l’organizzazione provinciale capeggiata dai duces rimane nel regno visigoto, spesso lasciando in carica i medesimi personaggi, e in generale dalle cariche romane di dux e di comes derivano i conti e i duchi franchi e longobardi.
Tra i più importanti foedera di questo tipo ci sono certo da ricordare: quello stipulato nel 382 da Teodosio I con i Goti, cui è consentito di stanziarsi in Tracia in seguito al disastro di Adrianopoli; i due patti del 411 e del 443 che danno vita ai due regni burgundi; il patto che nel 418 concede ai Visigoti – cui già nel 413 è stato consentito di stanziarsi in Narbonense – anche l’Aquitania II, con annessi alcuni territori della Novempopulonia e della Narbonensis I, con capitale Tolosa, da dove si espandono fino a conquistare la Spagna sveva; quello concesso nel 435 e poi violato dai Vandali che occupano tre province dell’Africa settentrionale; e infine il patto fatto con gli Ostrogoti, accolti solo dopo il crollo dell’Impero unnico, nel 456-457, tra la Sava e la Drava.
Il controllo assunto dalle popolazioni germaniche sul territorio diviene solo progressivamente più completo e indipendente dal potere imperiale, che resta formalmente superiore a livello gerarchico: l’autorità dei reges risulta, per tutto il V secolo, delegata da quella imperiale.
Lo si vede, ad esempio, nella monetazione, in particolare quella aurea: i regna cominciano quasi subito a battere moneta propria, ma lo fanno a nome degli imperatori; anche in caso di conflitto con l’impero non si mette sulla moneta il nome del re, al massimo si sostituisce il regnante attuale con uno passato, ad esempio quello che aveva stabilito originariamente il foedus. È il caso dei solidi ostrogoti di Totila e Teia con il volto di Anastasio.
Nel campo del diritto, se pure i regna promulgano leggi autonome, lo fanno nello sforzo di conciliare lo ius romano con il loro diritto consuetudinario: a una prima fase di coesistenza di due diversi diritti per le due popolazioni segue la codificazione in latino delle leggi, che superano limiti di applicazione e sono intese come rivolte all’intera popolazione. Restano come monumenti significativi il Breviarium Alaricianum (506), con cui il re visigoto Alarico II dà al suo popolo (il primo per cui è prodotta legge scritta, con il Codex Euricianus del 470 ca.) un sunto del Codice Teodosiano, e le Variae di Cassiodoro, che riprendono anche le forme dell’editto e del rescritto per testimoniare l’attività legislativa di Teodorico il Grande. La stessa presenza alla sua corte di Cassiodoro, di Boezio e di altri appartenenti all’élite romana è stata più volte notata come segno del desiderio di integrazione del sovrano ostrogoto.
Nel 476, dunque, soldati di stanza in Italia, non ottenendo dal magister militum Oreste lo statuto di foederati, eleggono come re Odoacre, procedendo alla deposizione del figlio di Oreste, Romolo Augustolo. Che l’evento sia stato o meno una “caduta senza rumore”, come viene definita da Arnaldo Momigliano, è certo che si tratta di un gesto che si inserisce in una trama di lunga durata, che ha alle spalle una storia di frammentazione regionale, acquisizione e desiderio di autonomie che si fanno sempre più marcati e di una compagine mediterranea inizialmente integrata che si disgrega in una serie di regioni miranti a una propria autosufficienza politica ed economica.