La distruzione di beni culturali come crimine internazionale
Il contributo offre una trattazione sintetica delle norme internazionali sulla responsabilità penale individuale per la distruzione di beni culturali e della recente giurisprudenza internazionale in materia, considerando altresì gli attacchi contro il patrimonio culturale condotti negli ultimi anni in Siria, Iraq, Mali e altri Paesi.
Negli ultimi anni, la distruzione sistematica di edifici religiosi, monumenti storici e siti archeologici da parte di gruppi armati islamici radicali, in particolare Al-Qaeda e l’ISIS, ha indignato l’opinione pubblica mondiale. Invero, la distruzione deliberata di beni culturali che non siano usati per scopi militari costituisce un crimine di guerra sia nei conflitti armati internazionali che nei conflitti armati interni, secondo il diritto internazionale consuetudinario1. Lo Statuto del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (TPIJ) è stato il primo statuto di un tribunale internazionale a prevedere espressamente come crimine di guerra il sequestro, la distruzione e il danneggiamento deliberato di monumenti storici, edifici dedicati alla religione, all’istruzione, alle arti, alle scienze o a scopi caritatevoli e opere d’arte e di carattere scientifico (art. 3, lett. d). Per questo crimine sono stati condannati dal TPIJ, tra gli altri, Pavle Strugar e Miograd Jokić, giudicati responsabili del bombardamento nel 1991 della Città Vecchia di Dubrovnik (dichiarata patrimonio mondiale dall’UNESCO) da parte delle forze armate della Repubblica federale di Jugoslavia2. Anche lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI) contempla, tra i crimini di guerra su cui la Corte ha giurisdizione, l’attacco deliberato contro monumenti storici ed edifici dedicati alla religione, all’istruzione, alle scienze o a scopi caritatevoli che non costituiscano obiettivi militari, sia in un conflitto internazionale (art. 8, par. 2, lett. b - ix) che in un conflitto interno (art. 8, par. 2, lett. e (iv)). Come si vedrà meglio in seguito, la CPI ha emesso la sua prima sentenza di condanna per il crimine de quo, perpetrato in un conflitto interno, nel 2016. Ahmad Al Faqi Al Mahdi è stato giudicato colpevole della distruzione nel 2012 a Timbuktu della porta sacra della moschea di Sidi Yahia e di nove mausolei3.
La distruzione intenzionale di beni culturali non utilizzati per scopi militari può anche costituire una forma di persecuzione e dunque un crimine contro l’umanità, quando sia condotta con intento discriminatorio nell’ambito di un attacco esteso o sistematico contro una popolazione civile, come ha chiarito il TPIJ nella sua giurisprudenza. Ad esempio, nel caso Šainović e altri, il TPIJ ha qualificato la distruzione di alcune moschee in Kosovo nel 1999 da parte delle forze della Repubblica federale di Jugoslavia e del Ministero dell’interno serbo come una forma di persecuzione nei confronti dei civili kosovari di etnia albanese4.
Infine, la distruzione del patrimonio culturale può costituire una prova dell’esistenza del dolo specifico richiesto per il crimine di genocidio, ovvero della volontà di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, razziale, etnico o religioso, quando siano distrutti siano beni che esprimono l’identità del gruppo, come ha affermato il TPIJ nel caso Krstić5. In questo caso, il TPIJ ha considerato la distruzione della principale moschea di Srebrenica una prova della volontà genocidiaria delle forze serbo-bosniache6.
Di fronte alla distruzione deliberata di siti, monumenti ed edifici che rappresentano l’eredità dell’intera umanità in Siria, Iraq, Mali e in misura minore in altri Paesi, la condanna del maliano Al Mahdi da parte della CPI ha assunto un forte valore simbolico. Nel 2012, durante l’occupazione di Timbuktu da parte dei gruppi armati Al-Qaeda nel Maghreb Islamico e Ansar Dine, Al Mahdi aveva guidato la cd. Brigata della moralità. In tale qualità, eseguendo l’ordine del capo di Ansar Dine e del governatore di Timbuktu, egli aveva organizzato la distruzione della porta sacra della moschea di Sidi Yahia e di nove mausolei, presso i quali la popolazione locale era solita recarsi in preghiera.
La distruzione della porta mirava a sradicare l’antica credenza che la sua apertura avrebbe segnato l’inizio del Giorno del Giudizio, mentre l’abbattimento dei mausolei era dovuto al divieto di costruzioni sulle tombe imposto dalla dottrina islamica seguita dagli occupanti. Nove dei dieci siti distrutti erano inseriti nella Lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO.
Il processo si è aperto dinanzi alla VIII Camera di primo grado della CPI il 22 agosto 2016. Al Mahdi ha ammesso la propria colpevolezza per il crimine di cui era imputato. Ciò ha consentito di arrivare alla sentenza già il 27 settembre successivo. Al Mahdi è stato condannato a nove anni di reclusione in qualità di responsabile, in concorso con altri, del crimine di guerra di attacco contro beni protetti in un conflitto armato interno, ai sensi degli artt. 8, par. 2, lett. e (iv), e 25, par. 3, lett. a, dello Statuto7. Il 17 agosto 2017, la stessa Camera ha emesso l’ordinanza sulle riparazioni dovute da Al Mahdi per i danni causati agli abitanti di Timbuktu, alla popolazione del Mali e alla comunità internazionale, valutandole in complessivi 2.700.000 euro. Dato lo stato di indigenza del condannato, i giudici hanno rivolto al Fondo fiduciario per le vittime (organo responsabile dell’esecuzione delle riparazioni) l’invito a contribuire per quanto possibile alle riparazioni
stabilite e ad impegnarsi nella raccolta dei fondi necessari per la loro completa esecuzione8.
Purtroppo, diversamente dagli attacchi contro il patrimonio culturale in Mali, quelli in Siria e Iraq non rientrano allo stato nella giurisdizione della CPI, tranne che gli autori siano cittadini di Stati parti dello Statuto di Roma o di Stati non parti che abbiano dichiarato di accettare la giurisdizione della Corte. In proposito, occorre ricordare che, salvo il caso in cui vi sia un referral al Procuratore da parte del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite, la CPI può processare i responsabili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio solo qualora questi abbiano commesso i crimini sul territorio di uno Stato parte dello Statuto o di uno Stato non parte che ha formulato la dichiarazione di accettazione suddetta oppure siano cittadini di uno degli Stati in questione.
La Siria e l’Iraq non sono parti dello Statuto di Roma e non hanno effettuato alcuna dichiarazione di accettazione della giurisdizione della CPI. Nel 2014, il CdS non ha potuto adottare un progetto di risoluzione che deferiva la situazione in Siria al Procuratore della CPI, a causa del veto di Russia e Cina9. In considerazione di tutto ciò, nel 2015, il Procuratore ha dichiarato di non poter intraprendere un esame preliminare sui crimini commessi dall’ISIS in Siria e Iraq. Questi ha precisato che, malgrado le migliaia di foreign fighters, molti dei quali cittadini di Stati parti, l’ISIS è guidato principalmente da cittadini siriani e iracheni e che, di conseguenza, la giurisdizione della Corte è allo stato troppo limitata per poter avviare un esame preliminare10.
La giurisdizione della CPI, tuttavia, è solo complementare a quella dei tribunali nazionali. La repressione dei crimini internazionali, inclusi quelli relativi alla distruzione del patrimonio culturale, spetta in via primaria agli Stati. Al riguardo, è auspicabile che né la Siria né l’Iraq, una volta terminato il conflitto interno in corso, concedano un’amnistia ai responsabili di crimini internazionali, conformemente al principio consuetudinario in via di formazione che proibisce la concessione di amnistie per detti crimini11.
1 V. la sentenza di primo grado del TPIJ nel caso Strugar: IT-01-42-T, 31.01.2005, Procuratore c. Pavle Strugar, par. 230. La distruzione estesa di beni culturali non costituenti obiettivi militari, sia in un conflitto internazionale che in un conflitto interno, integra una violazione grave del II Protocollo addizionale alla Convenzione dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (art. 15, par. 1, lett. c). Gli Stati parti del Protocollo sul cui territorio si trovino i responsabili di una siffatta violazione hanno l’obbligo di processarli dinanzi ai propri tribunali, se non procedono alla loro estradizione (art. 17, par. 1).
2 V. IT-01-042/1-S, 18.3.2004, Procuratore c. Miodrag Jokić; IT-01-42-T, 31.1.2005, Procuratore c. Pavle Strugar.
3 ICC-01/12-01/15-171, 27.9.2016, Procuratore c. Ahmad Al Faqi Al Mahdi.
4 IT-05-87-T, 26.2.2009, Procuratore c. Milan Milutinović, Nikola Šainović e altri, vol. 2, par. 1209, 1218, 1234, 1249.
5 IT-98-33-T, 2.8.2001, Procuratore c. Radislav Krstić, par. 580.
6 Ivi, par. 595.
7 ICC-01/12-01/15-171, 27.9.2016, Procuratore c. Ahmad Al Faqi Al Mahdi.
8 ICC-01/12-01/15-236, 17.8.2017, Procuratore c. Ahmad Al Faqi Al Mahdi.
9 SC/11407, 22.5.2014, comunicato stampa.
10 Statement of the Prosecutor of the International Criminal Court, Fatou Bensouda, on the Alleged Crimes Committed by ISIS, 8.4.2015.
11 V. la decisione della Camera d’appello della Corte Speciale per la Sierra Leone nel caso Procuratore c. Morris Kallon e Brima Bazzy Kamara del 13.3.2004, par. 82.