La disuguaglianza dei redditi
Il reddito è un indicatore fondamentale del grado di sviluppo di un Paese. Per valutare il benessere complessivo occorre tuttavia conoscerne non solo il livello medio pro capite, ma anche la ripartizione nella popolazione. Verso la fine del 20° sec., per es., si è accelerata l’integrazione dei mercati mondiali, la cosiddetta globalizzazione, e molte economie in via di sviluppo hanno conseguito ritmi di crescita assai sostenuti. Come si sono distribuiti i frutti di questa crescita? La disuguaglianza mondiale dei redditi è diminuita o aumentata? Queste domande sarebbero irrilevanti se gli individui fossero identici tra loro e consumassero lo stesso paniere di beni e servizi, o se il prodotto si distribuisse in modo in un qualche senso ‘ottimale’, ma queste sono condizioni astratte che mai si verificano nel mondo reale (Sen 1976). D’altro canto, il principio di ottimalità ‘paretiana’ – secondo cui una distribuzione è ottimale quando non è possibile raggiungerne una alternativa in cui migliori la condizione di almeno un individuo e non peggiori quella di tutti gli altri – non è di alcuna utilità in tutte quelle situazioni (la grande maggioranza) in cui vi è un conflitto di interessi sulla suddivisione del prodotto (Sen 1973). Per valutare il benessere sociale che si associa a un dato reddito, occorre quindi prestare attenzione al modo in cui si ripartisce, specificando la struttura delle preferenze collettive. Se, per es., si attribuisse a ciascun euro addizionale di reddito un peso proporzionale alla posizione che una persona occupa nella scala dei redditi, il benessere sociale potrebbe essere misurato dall’indicatore W=μ(1−G), dove μ è il reddito medio e G l’indice di disuguaglianza di Gini (che verrà definito in seguito, v. il paragrafo Strumenti analitici). Una distribuzione ineguale provoca una perdita di benessere pari a G volte il reddito medio μ; a parità di μ, il benessere risulta essere maggiore dove la distribuzione è meno disuguale (G è minore). Interpretato in senso dinamico, l’indicatore W mostra come l’aumento di benessere collettivo generato dalla crescita economica possa essere controbilanciato da un incremento della disuguaglianza.
La conoscenza della distribuzione del reddito non è solo essenziale sul piano normativo. È anche rilevante sul piano analitico, quando i modi in cui si divide il prodotto sono intrinsecamente connessi con il funzionamento di un’economia, in particolare con il processo di crescita economica. Per gli economisti classici, marxisti e postkeynesiani, alla ripartizione del reddito tra le classi sociali era attribuito il compito di garantire le condizioni di accumulazione del capitale. Nell’economia neoclassica la variabile ‘classe sociale’ non ha alcun ruolo analitico e la stessa divisione tra profitti e salari perde significato con l’affermarsi in macroeconomia della finzione dell’‘agente rappresentativo’. L’attenzione tende a spostarsi sulla distribuzione delle risorse tra le persone e vi è spesso implicita una visione, rivelatasi empiricamente infondata, secondo cui una ripartizione sbilanciata verso i più ricchi aumenta il risparmio complessivo e quindi l’accumulazione. Negli anni più recenti, gli economisti hanno esplorato canali alternativi che collegano disuguaglianza e crescita economica (Bénabou 1996). Alcuni hanno formalizzato un meccanismo politico per effetto del quale l’entità della redistribuzione pubblica dipende dalle preferenze dell’elettore ‘mediano’: quanto più questi è povero rispetto alla media, tanto più opterà per una maggiore redistribuzione che, influenzando negativamente gli incentivi a investire, andrà a detrimento della crescita economica. Altri hanno sottolineato le imperfezioni nei mercati dei capitali, che possono rendere più difficile indebitarsi ai meno abbienti, privi di sufficienti garanzie patrimoniali, precludendo loro la possibilità di sfruttare appieno le occasioni di investimento o di conseguire un’istruzione adeguata. La disuguaglianza ha effetti negativi per la crescita economica in entrambi gli approcci, ma la visione dell’intervento pubblico sottesa è antitetica: causa di distorsione delle scelte private nel primo, generatore di guadagni di efficienza, quando esso rimuova le imperfezioni, nel secondo. Seguendo questo ragionamento, l’interesse empirico per la disuguaglianza tende a divenire strumentale, non più intrinseco, e si concentra sui modi in cui essa può condizionare l’evoluzione del fenomeno oggetto di attenzione, la crescita economica.
La misurazione della disuguaglianza
Strumenti analitici
La stima della disuguaglianza di una distribuzione dei redditi pone problemi teorici ed empirici complessi. L’ampia letteratura scientifica che li ha approfonditi ha evidenziato come il livello misurato di disuguaglianza risenta fortemente delle soluzioni date a questi problemi, imponendo di prestare grande attenzione alle caratteristiche degli strumenti analitici di misurazione, alla qualità dei dati, alla loro comparabilità e alle scelte metodologiche compiute (Handbook of income distribution, 2000; Atkinson, Brandolini 2001).
Storicamente, la misurazione della disuguaglianza si è sviluppata privilegiando la costruzione di indici descrittivi, nella convinzione che gli stessi metodi fossero applicabili tanto al reddito o alla ricchezza quanto a ogni altra caratteristica quantitativa. Ne è un tipico esempio l’indice di Gini, che calcola la distanza media dei redditi di tutti gli individui da quelli di tutti gli altri, e varia, per valori non negativi, tra 0, quando vi è perfetta uguaglianza, e 1, quando tutto il reddito è concentrato nelle mani di una sola persona. Altre statistiche descrittive sono i percentili: ponendo i redditi in ordine crescente, l’x-esimo percentile è il valore di reddito superiore all’x% dei redditi e inferiore al restante 100−x%. Così il 10° percentile, eventualmente espresso rispetto alla mediana (P10), è un indicatore di basso reddito, mentre il rapporto interdecilico, il rapporto tra il 90° e il 10° percentile, è una misura di disuguaglianza. A questa impostazione puramente descrittiva sono stati successivamente contrapposti gli indici etici, che identificano la disuguaglianza con la perdita di benessere sociale causata da una distribuzione ineguale dei redditi. A titolo di esempio, l’indice di Atkinson si basa sulla media di ordine (1−ε) dei redditi individuali, dove il parametro ε rappresenta il grado di avversione alla disuguaglianza implicito nelle preferenze collettive: quanto più alto è ε, tanto maggiore è il peso che nella valutazione viene assegnato ai redditi più bassi.
Per costruzione, gli indici sintetici di disuguaglianza, siano essi descrittivi o etici, riassumono le informazioni sulla distribuzione dei redditi in un singolo numero che consente di definire sempre quale distribuzione sia più disuguale tra quelle prese in esame. Il raggiungimento di un ordinamento completo si ottiene al costo di imporre un elevato grado di struttura alla misurazione, poiché utilizzare un certo indice significa fissare il peso dato a ciascuna osservazione. Sul piano empirico ciò implica che vi possano essere situazioni in cui due indici ordinano diversamente le distribuzioni confrontate. In molti casi, tuttavia, per effettuare il confronto basta definire una regola che permetta di dire che un reddito pesa più di un altro, senza specificare di quanto, come avviene invece con un indice sintetico. Il ricorso a criteri ordinali, come quello di dominanza secondo Lorenz, presuppone ipotesi meno restrittive di quelle sottostanti a un indice sintetico, ma dà luogo a un ordinamento parziale, poiché esistono confronti in cui il risultato rimane indeterminato.
Fonti statistiche
I dati sulla distribuzione del reddito possono essere di natura amministrativa o campionaria. Quelli amministrativi, in particolare quelli fiscali, sono spesso disponibili per molti decenni e si prestano ad analizzare le tendenze di lungo periodo, ma offrono una copertura parziale sia dei redditi, per l’esclusione delle entrate esenti o assoggettate a tassazione separata, sia della popolazione, essendo limitati ai soli contribuenti e non comprendendo gli individui esentati dall’obbligo di dichiarazione (Top incomes over the twentieth century, 2007). Presentano anche discontinuità temporali in corrispondenza di modifiche rilevanti della normativa tributaria e sono distorti dall’elusione e dall’evasione fiscale e contributiva. I dati delle indagini campionarie consentono di superare alcuni di questi limiti e di utilizzare concetti di reddito e unità di analisi più appropriati dal punto di vista teorico, ma presentano anch’essi problemi: la rappresentatività del campione può essere alterata da comportamenti di risposta correlati con le variabili oggetto di rilevazione e gli intervistati possono essere restii o non in grado di fornire una valutazione precisa delle loro entrate. Inoltre, la variabilità campionaria aggiunge incertezza alle stime. Anche in considerazione di quanto è stato appena detto, negli anni recenti si è andata diffondendo la prassi di integrare i dati di fonte campionaria con informazioni di provenienza amministrativa e, talora, con stime ottenute da modelli microeconomici che simulano l’operare del sistema di imposte e trasferimenti sociali.
Ipotesi di misurazione
Oltre che per la fonte, le statistiche sulla distribuzione si differenziano rispetto a numerosi aspetti metodologici. L’unità di aggregazione dei redditi può essere il contribuente, la persona o la famiglia; la definizione di famiglia può seguire criteri anagrafici o fiscali e può comprendere solo persone legate da un vincolo di coppia o dal rapporto genitore-figlio, o tutti i conviventi uniti da un legame di parentela o affetto, o tutte le persone che condividono la stessa abitazione, indipendentemente dai rapporti affettivi. L’unità di riferimento rappresenta invece l’unità elementare per cui viene valutato il tenore di vita: la famiglia o la persona. Nel primo caso il reddito di una famiglia viene contato una sola volta, nel secondo tante volte quanti sono i componenti della famiglia.
I redditi aggregati per ciascuna unità possono essere lasciati grezzi o possono essere corretti con una scala di equivalenza. Un dato ammontare di reddito può consentire una vita confortevole a una persona sola, ma può essere del tutto insufficiente per una coppia con due figli. I coefficienti di equivalenza permettono di rendere ‘equivalenti’, cioè confrontabili in termini di tenore di vita, i redditi di queste due famiglie. Essi danno così conto della variabilità dei bisogni con l’età e delle economie di scala generate dalla convivenza familiare (per es., le spese di riscaldamento di un appartamento sono relativamente indipendenti dal numero di persone che vi abitano). Il reddito equivalente è ottenuto dividendo le entrate familiari per il numero di adulti-equivalenti. Con la scala di equivalenza della radice quadrata questo divisore è n0,5, dove n è il numero di componenti della famiglia e 0,5 è un valore che coglie le economie di scala; con la scala dell’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development) modificata, consigliata dall’Eurostat, il divisore da applicare al reddito è calcolato assegnando valore 1 al primo adulto, 0,5 a ogni altra persona di 14 e più anni, e 0,3 a ogni bambino con meno di 14 anni; dividendo per n, infine, i redditi familiari vengono espressi in termini pro capite e si ipotizza che le economie di scala siano assenti.
Le nozioni di reddito sono molteplici. Il reddito di mercato (o originario) è definito come la somma dei redditi da lavoro e capitale e dei trasferimenti privati al lordo delle imposte; il reddito lordo è ottenuto aggiungendo a quello di mercato i trasferimenti pubblici; il reddito netto o disponibile è derivato da quello lordo detraendo le imposte dirette e i contributi sociali. Queste definizioni generali possono differire a seconda che vengano incluse o meno voci come gli affitti imputati sulle abitazioni in proprietà, gli interessi pagati sui mutui, i trasferimenti pubblici non tassati, i guadagni e le perdite in conto capitale, o possono derivare dal periodo di riferimento dei redditi (per es., l’ultimo periodo di paga o l’anno solare o l’anno fiscale), dalla valutazione delle entrate delle persone che hanno percepito redditi solo per una parte dell’anno, perché emigrate o impegnate in corsi scolastici nella restante parte, o dal trattamento dei dati estremi, che possono essere eliminati o ricodificati secondo valori prefissati per motivi statistici o di riservatezza.
Misurazione della distribuzione in entità sovranazionali
La stima della disuguaglianza nell’Unione Europea (UE) o nel mondo, considerati nel loro complesso, impone di rendere comparabili i redditi guadagnati in Paesi diversi. I tassi di cambio di mercato offrono un modo semplice e trasparente per operare la conversione in un’unità di conto comune, ma non rappresentano l’intera struttura dei prezzi che prevale in un Paese, rispondendo soprattutto a fattori come i flussi di commercio internazionale e i movimenti speculativi dei capitali. In particolare, essi non riflettono i prezzi dei beni e servizi non-tradables, solitamente ad alta intensità di lavoro e più a buon mercato nelle economie meno sviluppate, generando una sottostima del reddito reale degli abitanti dei Paesi più poveri. Per ovviare a questo problema si adottano gli indici di parità di potere d’acquisto (PPA), che utilizzano la valutazione di un paniere prefissato di beni e servizi in ciascuna valuta nazionale per derivare i tassi di conversione in una valuta artificiale comune, come lo standard di potere d’acquisto dell’Eurostat o i dollari internazionali dell’ICP (International Comparison Project). L’uso degli indici PPA è ormai prassi consolidata, ma va tenuto presente che quelli utilizzabili sono numerosi, variando per fonte, metodologia e aggregato di contabilità nazionale per cui sono calcolati, e la scelta dell’uno o dell’altro influenza i risultati finali.
Oltre a convertirli in una stessa unità di conto, gli indici di PPA correggono i redditi per le differenze internazionali nel livello dei prezzi. Qualora il costo della vita variasse considerevolmente tra i territori di un Paese, la stessa correzione andrebbe effettuata anche nelle stime nazionali, ma la mancanza di indici di prezzo appropriati in genere lo impedisce. La scelta di considerare solo la variabilità del costo della vita tra Paesi, usando gli indici di PPA, si giustifica se essa è più importante di quella all’interno dei singoli Paesi, per es. perché riflette la diversità nei sistemi di assistenza pubblica o la struttura dei mercati dei prodotti. È tuttavia difficile valutare la portata di questa ipotesi, perché si conosce poco delle differenze territoriali interne relativamente al costo della vita.
La stima di una distribuzione sovranazionale dei redditi solleva due ulteriori problemi. In primo luogo, l’uso di un’unica scala di equivalenza accresce la comparabilità, ma può non essere appropriato quando vi siano considerevoli divari di sviluppo economico. Nel caso della UE, per es., le economie di scala implicite nella scala consigliata dall’Eurostat potrebbero essere troppo accentuate per i Paesi meno sviluppati dell’Europa orientale, in cui le spese per i beni alimentari pesano più sui bilanci familiari di quelle per l’abitazione. L’uso di formulazioni più flessibili delle scale di equivalenza, che riflettano il diverso livello delle entrate reali, potrebbe essere consigliabile. In secondo luogo, i differenziali di reddito tra Paesi possono variare, anche considerevolmente, se calcolati in base ai conti nazionali o ai dati microeconomici sui redditi familiari. Per es., nel 2004 il reddito disponibile pro capite polacco era pari al 20% di quello britannico secondo i conti nazionali per il settore delle famiglie, ma solamente al 13% secondo i dati campionari. Ciò ha portato alcuni autori ad allineare le medie campionarie agli aggregati di contabilità nazionale, contraddistinti da un più alto grado di standardizzazione a livello internazionale; altri autori hanno eccepito che le due fonti rispondono a criteri e obiettivi intrinsecamente differenti e che solo in parte le discrepanze che emergono sono riconducibili alle insufficienze delle rilevazioni campionarie. La scelta di allineare i valori campionari a quelli aggregati è rilevante in fase di stima: dal momento che la discrepanza tra le due fonti è correlata negativamente con il reddito pro capite, essa tende a determinare una diminuzione del livello misurato di disuguaglianza.
La disuguaglianza nelle economie avanzate
Gli Stati Uniti si distinguono, tra i Paesi sviluppati, per la distribuzione personale dei redditi più ineguale; l’Italia si colloca su livelli di disuguaglianza relativamente elevati. Nella tab. 1 sono sintetizzate alcune statistiche sulla distribuzione dei redditi personali nel 2004 o in un anno vicino (2000 per la Russia, 2001 per Israele, 2002 per la Svizzera, 2005 per Taiwan) in 33 Paesi a reddito alto o medio (secondo la classificazione della Banca mondiale). I valori per i Paesi della UE, per l’Islanda e per la Norvegia sono calcolati sui dati dell’indagine EU-SILC (European Union - Statistics on Income and Living Conditions); quelli per i rimanenti Paesi (Canada, Israele, Messico, Russia, Svizzera, Taiwan e Stati Uniti) sono stimati sui dati del LIS (Luxembourg Income Study), un progetto avviato nel 1983 con l’obiettivo di creare un archivio standardizzato di dati economici e sociali rilevati in indagini nazionali. Anche se non sono esattamente coincidenti, le definizioni di reddito che vengono utilizzate nelle due fonti sono molto simili e non sono state apportate correzioni per eliminare le differenze residue. Si considera il reddito disponibile il quale, in entrambe le fonti, include tutte le entrate monetarie al netto di imposte e contributi sociali ed esclude gli affitti imputati sulle abitazioni in proprietà. È stata utilizzata la scala di equivalenza dell’OECD modificata, ed è stata applicata una procedura in maniera tale da smussare i valori estremi: i redditi equivalenti inferiori all’1% della media sono stati così aumentati fino a questa soglia (bottom-coding), mentre i redditi disponibi-li superiori a dieci volte la mediana sono stati troncati a questo valore (top-coding).
La tabella contiene per ogni Paese i rapporti percentuali rispetto alla mediana nazionale del 10° e del 90° percentile, P10 e P90. Il rapporto interdecilico P90/P10 misura il divario tra ‘ricchi’ e ‘poveri’ in termini relativi. Mentre queste statistiche si riferiscono a punti specifici della distribuzione, l’indice di concentrazione di Gini, che vediamo riportato nell’ultima colonna, tiene conto dell’intera distribuzione.
Come si vede, i redditi personali sono distribuiti in maniera assai diversa all’interno dei Paesi considerati. Relativamente ai più poveri, nelle nazioni nordiche, nei Paesi Bassi e nella Repubblica Ceca una persona al 10° percentile ha un reddito pari al 58-61% del reddito mediano; in Irlanda, in Canada, nel Regno Unito e nell’Europa meridionale questa proporzione scende al 45-48% e negli Stati Uniti addirittura al 37% (solo in Russia e in Messico si riscontrano valori più bassi, rispettivamente il 30 e il 34%). Differente è anche la distribuzione relativamente ai più ricchi. In Italia, Canada e Spagna le persone al 90° percentile hanno un reddito quasi doppio del valore mediano; la distanza dei ricchi dalla mediana è inferiore nel resto dell’Europa continentale e nordica, ma è invece ancor più ampia nel Regno Unito, negli altri Stati meridionali europei, nei Paesi baltici, in Polonia, negli Stati Uniti e, soprattutto, in Russia e Messico.
Se ordinati per livello di disuguaglianza, i Paesi della tab. 1 si dividono in gruppi ben definiti. Il rapporto interdecilico risulta minore nei Paesi nordici (Svezia, Danimarca, Norvegia, Islanda, Finlandia) e nei Paesi Bassi, con valori inferiori a 3; seguono gli altri Paesi dell’Europa centrale (Slovenia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Germania, Austria, Belgio, Lussemburgo, Francia, Svizzera), con valori compresi tra 3 e 3,3; vengono quindi tre Paesi di lingua inglese (Irlanda, Canada, Regno Unito) e tre dell’Europa meridionale (Italia, Spagna, Grecia), tra 3,9 e 4,5; i Paesi baltici e la Polonia, con Israele e Portogallo, hanno valori compresi tra 4,6 e 5,5; gli Stati Uniti mostrano il valore più alto tra le economie ad alto reddito, 5,8; lo stesso rapporto sale fin quasi a 9 in Russia e Messico. Analoghi raggruppamenti si ottengono considerando l’indice di Gini, anche se l’ordinamento dei Paesi non coincide perfettamente con quello basato su P90/P10: la Slovenia, per es., ha il terzo valore più basso dell’indice di Gini, ma registra il settimo valore più basso del rapporto interdecilico. Come mostra questo esempio, nei confronti tra Paesi o periodi diversi è consigliabile esaminare l’intera distribuzione dei redditi e più indici di disuguaglianza.
I Paesi classificati dalla Banca mondiale tra quelli a medio reddito, cioè le economie in transizione dell’Europa orientale e il Messico, non si distinguono per un grado di sperequazione dei redditi sistematicamente maggiore o minore di quello che si registra nei Paesi più ricchi. Le distribuzioni ceca, slovacca e ungherese sono tra quelle meno disuguali, mentre le distribuzioni russa e messicana sono di gran lunga le più ineguali della tabella. Più in generale, la correlazione tra disuguaglianza e reddito reale medio, o mediano, appare negativa, ma contenuta.
I confronti della tabella riguardano la distribuzione dei redditi disponibili equivalenti all’interno di ciascun Paese e prescindono dalle differenze nel tenore di vita medio tra i vari Paesi. Quando vi siano differenze cospicue, i risultati possono essere tuttavia molto diversi se il reddito di una persona viene confrontato non con il reddito mediano del suo Paese, ma con quello di un altro Paese. Questo secondo confronto tiene conto sia della distribuzione nazionale sia dei divari internazionali e richiede, per poter essere effettuato, di esprimere tutti i redditi in un’unità di conto comune. La tab. 2 (per la quale valgono le precisazioni fatte per la tab. 1) presenta questo confronto tra le distribuzioni dei redditi reali, espressi cioè a PPA in dollari internazionali, nei 33 Paesi considerati.
Nella tab. 2, P10 rappresenta il reddito di una persona povera che si posiziona al 10° percentile della distribuzione nazionale, valutato in proporzione alla mediana degli Stati Uniti, anziché a quella nazionale come nella tab. 1. Come mostra l’ultima colonna, il reddito mediano dei russi e dei messicani è meno di un quinto del valore mediano degli Stati Uniti e quello degli altri Paesi dell’Europa orientale (esclusa la Slovenia) non arriva al 40%. Il reddito mediano italiano è il 69% di quello statunitense, al di sotto dei valori registrati dalle nazioni di lingua inglese e dai Paesi dell’Europa centrale e settentrionale. Soltanto i lussemburghesi e gli svizzeri superano gli statunitensi, rispettivamente del 29 e del 2%.
Il tenore di vita reale dei cittadini europei riflette questi divari medi di sviluppo, oltre alle distribuzioni nazionali. In Ungheria il reddito della persona al 10° percentile della distribuzione è pari al 55% della mediana nazionale, ma solo al 16% di quella statunitense; una persona a basso reddito in Lussemburgo ha entrate di entità paragonabile al francese o svedese mediano. Nonostante i più bassi redditi medi, in quasi tutti i Paesi dell’Europa centrale e settentrionale i redditi reali delle persone povere, cioè tali da collocarli al 10° percentile della distribuzione nazionale, sono superiori a quelli degli statunitensi in analoga posizione. Gli Stati Uniti sono il Paese, tra quelli considerati, dove più ampio è il divario assoluto tra ricchi e poveri.
La distribuzione del reddito nella UE
Aggregando le informazioni nazionali, è possibile calcolare le statistiche distributive per la UE nel suo complesso. Nella parte inferiore delle tabb. 1 e 2, i valori per la UE nel 2004 (indicata con UE-25, anche se Malta non è compresa per mancanza di dati) sono riportati insieme con quelli per altri tre aggregati sovranazionali: l’area dell’euro, l’insieme dei quindici Stati membri della UE prima dell’allargamento a Est (UE-15) e l’area di libero scambio nordamericana costituita da Canada, Messico e Stati Uniti (NAFTA).
Nella tab. 1, l’aggregazione è stata effettuata sia utilizzando i redditi convertiti in euro o in dollari ai tassi di cambio di mercato medi, sia trasformando i redditi in dollari internazionali con un indice di PPA. La disuguaglianza risulta più elevata nel primo caso, in cui non si tiene conto del diverso costo della vita tra i Paesi membri: la differenza è modesta per l’area dell’euro e la UE-15, ma è più pronunciata per la UE-25 e il NAFTA. Se si calcolasse la dispersione dei redditi nella UE-25 con la media dei valori nazionali ponderata per la popolazione, come nelle pubblicazioni della Commissione europea, si stimerebbe un indice di Gini pari a 0,298, un valore sensibilmente inferiore a quelli della tab. 1 perché non incorpora i divari di reddito medio tra i Paesi.
Nel 2004 il grado di disuguaglianza della distribuzione dei redditi personali era simile nell’area dell’euro e nella UE-15. Considerando i redditi a PPA, l’indice di Gini era in entrambe le aree pari a circa 0,30, un valore a metà tra il minimo di Svezia e Danimarca, 0,23, e il massimo del Portogallo, 0,38. Il decimo più ricco della popolazione guadagnava nella UE-15 almeno l’88% in più della persona mediana, mentre il reddito del decimo più povero non superava la metà di quello mediano, una situazione simile a quella irlandese. L’allargamento ai Paesi dell’Europa orientale ha determinato un aumento sostanziale della dispersione dei redditi. L’indice di Gini cresce di oltre tre punti percentuali, a 0,339, e si allarga tutta la distribuzione: il 10° percentile scende sotto il 40% della mediana, mentre il 90° percentile sale a quasi il doppio di quest’ultimo valore.
La distribuzione del reddito negli Stati Uniti è assai più disuguale che nella UE-15 e nell’area dell’euro, indipendentemente dall’unità di conto; è anche più disuguale che nella UE-25, quando i redditi sono valutati a PPA (in base alle imperfette informazioni disponibili, la correzione per i differenziali di costo della vita all’interno degli Stati Uniti non altererebbe questa conclusione). L’indice di Gini, per es., è 0,339 nella UE-25 e 0,378 negli Stati Uniti. Le differenze non riguardano la parte inferiore della distribuzione, essendo molto simili i valori di P10 e P20 (non riportato), ma si concentrano sui redditi più alti: l’80° e il 90° percentile statunitensi sono più lontani dalla mediana dei loro corrispondenti europei. Nell’area di libero scambio nordamericana presa nel suo insieme la disuguaglianza è nettamente più alta che in quella europea: l’indice di Gini è pari a 0,468. Ciò è soprattutto dovuto al notevole differenziale di sviluppo che separa il Messico dal Canada e dagli Stati Uniti.
A PPA, il reddito equivalente mediano più alto tra i Paesi della UE-25 è 6,1 volte il reddito mediano più basso, 4,1 volte se si esclude il ricco Lussemburgo. A fronte di divari di reddito così accentuati rispetto a quelli che si registrano all’interno degli Stati Uniti, non superiori a 2 a PPA, è degno di nota che la disuguaglianza sia inferiore nella UE-25. Nonostante la maggiore sperequazione interna, i nordamericani a più basso reddito hanno comunque entrate reali più elevate degli europei in posizione analoga nella scala dei redditi della UE, in virtù di livelli mediani di reddito reale di circa la metà superiori (tab. 2).
L’andamento della disuguaglianzanei Paesi avanzati
Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito ma anche in altri Paesi, a un forte aumento delle disparità salariali. Alcuni hanno ricondotto queste tendenze alla diffusione di tecnologie che hanno favorito il lavoro qualificato a scapito di quello meno qualificato, altri alla globalizzazione e alla crescente concorrenza subita dalle economie più avanzate da parte di quelle emergenti, altri ancora all’indebolimento delle rappresentanze sindacali o di istituti quali i minimi salariali fissati per legge: sono meccanismi diversi, ma tutti generano un allargamento dei differenziali retributivi tra lavoratori qualificati e non. Quale che sia la causa principale, queste tendenze si sarebbero poi trasferite ai redditi familiari complessivi. Va tuttavia tenuto presente che questi ultimi riflettono anche i movimenti di altre componenti di reddito primario, i redditi da lavoro autonomo, le entrate da capitale e proprietà e i cambiamenti nella redistribuzione attuata dai governi con le imposte e i trasferimenti sociali, che possono contrastare o assecondare le tendenze dei sottostanti redditi primari.
La figura riportata nella pagina successiva, mostra l’andamento dell’indice di Gini del reddito disponibile in nove Paesi avanzati tra il 1975 e il 2005. Le serie storiche rappresentate sono state selezionate dalle fonti nazionali privilegiando la coerenza temporale, in mancanza di statistiche comparabili nel tempo e nello spazio, e non sono quindi confrontabili tra Paesi, né con i valori della tabella 1.
Come si vede, i movimenti della distribuzione dei redditi disponibili variano tra i Paesi. Negli anni Ottanta si osserva un considerevole aumento della disuguaglianza negli Stati Uniti e, soprattutto, nel Regno Unito, che però partiva, secondo statistiche comparabili, da livelli più bassi; dagli anni Novanta questa tendenza ascendente è proseguita negli Stati Uniti, ma si è arrestata nel Regno Unito. In Canada, Finlandia e Svezia la distribuzione è divenuta più diseguale negli anni Novanta, dopo essere variata poco nei quindici anni precedenti. Un repentino aumento alla fine degli anni Ottanta seguito da un lungo periodo di stabilità caratterizza la disuguaglianza nei Paesi Bassi. Nei Länder occidentali della Germania essa è cresciuta sensibilmente dal 2000, dopo essere salita leggermente nel quindicennio precedente. Il profilo è più incerto in Italia, ma sostanzialmente invariato dal 1993. In Francia non sembra essersi manifestata alcuna spinta verso un ampliamento delle disparità di reddito. In breve, le esperienze nazionali differiscono e manca un tratto comune; tuttavia, dalla metà degli anni Settanta gran parte dei Paesi ha attraversato fasi di aumento della disuguaglianza, seppure di intensità e durata assai diversa.
Le brusche oscillazioni da un anno all’altro dell’indice di Gini in Svezia derivano dall’inclusione, nella definizione di reddito, dei guadagni realizzati in conto capitale: essendo molto concentrati, le modifiche alla loro tassazione hanno un impatto considerevole sul livello stimato di disuguaglianza, a riprova del peso che possono avere i redditi da capitale.
Nei sei Paesi per cui si hanno informazioni per i redditi di mercato (Canada, Germania Ovest, Finlandia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti), la disuguaglianza appare evolversi in maniera più sincrona per questi che per i redditi disponibili: si osserva un aumento negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta e una successiva fase di sostanziale stabilità. Queste diverse dinamiche testimoniano un effetto apprezzabile dei bilanci pubblici sugli andamenti distributivi nelle economie avanzate. Misurato con la differenza tra l’indice di Gini dei redditi di mercato e quello dei redditi disponibili, l’impatto perequativo del sistema fiscale e di sicurezza sociale è prima aumentato e successivamente diminuito in tutti i Paesi, tranne che negli Stati Uniti, dove si è mantenuto sostanzialmente invariato; differiscono tuttavia il livello dell’impatto, maggiore nei Paesi nordici, e l’entità delle sue variazioni. Un netto spostamento verso un sistema di imposte e trasferimenti meno redistributivo si manifesta a partire dalla metà degli anni Ottanta nel Regno Unito, ma è difficile separare gli effetti delle modifiche normative volute dal legislatore dalle risposte automatiche di un sistema progressivo alle variazioni nella distribuzione dei redditi primari.
La distribuzione del reddito tra i cittadini del mondo
Secondo le stime di Angus Maddison (2003), tra il 1973 e il 2001 il prodotto interno lordo (PIL) pro capite, valutato ai prezzi internazionali del 1990, è aumentato del 72% nei Paesi più sviluppati e del 63% nel resto del mondo. Mentre nell’area che comprende l’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Canada, l’Oceania e il Giappone la crescita è stata relativamente omogenea, pur tra disparità nazionali, nelle altre aree del pianeta le differenze sono risultate cospicue. Il reddito pro capite è aumentato, in media, del 166% nei Paesi asiatici (escluso il Giappone), che rappresentano oltre la metà della popolazione mondiale; è invece cresciuto solo del 29% negli Stati dell’America Latina, di appena il 6% in quelli africani ed è diminuito del 12% nei Paesi dell’Europa orientale e dell’ex Unione Sovietica. Per effetto di questi andamenti e della crescita demografica, la quota sul totale mondiale di beni e servizi prodotti nel continente asiatico (Giappone escluso) è quasi raddoppiata, a scapito delle quote dei Paesi avanzati e delle economie in transizione.
La diversità nei ritmi di sviluppo del reddito pro capite è tale da lasciar intuire una significativa redistribuzione del prodotto mondiale nell’ultimo quarto del 20° sec., il cui segno complessivo è però reso incerto dai diversi andamenti tra le aree geografiche. Parimenti rilevante per definire la direzione in cui sono cambiate disuguaglianza e povertà nel mondo è l’evoluzione della distribuzione dei redditi all’interno di ciascun Paese. A questo fine i calcoli più recenti della Banca mondiale incorporano le informazioni relative ai redditi, o alla spesa per consumi, tratte da 417 indagini per 116 Paesi (Chen, Ravallion 2008). Tra il 1981 e il 2005 si stima che sia avvenuta una continua riduzione della povertà nel mondo, esclusi i Paesi più sviluppati. Prendendo come linea di povertà la media di quelle usate nei 15 Paesi più poveri, pari a 1,25 dollari internazionali al giorno ai prezzi del 2005, il numero di indigenti è diminuito da 1896 milioni a 1377 milioni e la loro quota sulla popolazione si è più che dimezzata (dal 51,8% al 25,2%). Le differenze regionali sono però considerevoli, sia nei livelli sia nella dinamica. Progressi significativi si sono manifestati nei Paesi dell’Asia orientale e del Pacifico, dove il numero dei poveri è diminuito di 755 milioni, mentre la loro quota sulla popolazione totale è scesa dal 77,7% al 16,8% circa. Nell’Asia meridionale, che comprende l’India, il loro numero è invece aumentato di quasi 50 milioni: la diffusione della povertà, pur scesa di 19 punti percentuali, raggiunge ancora il 40%. In America Latina e nei Caraibi il loro numero rimaneva nel 2005 abbastanza simile a quello del 1981 (46 milioni contro 42), ma il loro peso sulla popolazione totale era sceso dall’11,5 all’8,4%. Anche nel Medio Oriente e nel Nord Africa l’incidenza è calata dal 7,9% al 3,6%. Nell’Africa subsahariana, la quota degli indigenti è rimasta sostanzialmente stabile e sempre superiore alla metà della popolazione, mentre il loro numero è quasi raddoppiato. Nell’Europa orientale e nell’Asia centrale, infine, la diminuzione dei redditi pro capite notata in precedenza si è tradotta in un notevole aumento, sia assoluto sia relativo, della povertà (valori più che raddoppiati). Da questi andamenti diversi è conseguito un mutamento della distribuzione geografica della popolazione povera, che tra il 1981 e il 2005 è andata sempre più concentrandosi nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale.
Non vi è alcuna ragione, a priori, perché le variazioni relative alla disuguaglianza dell’intera distribuzione ricalchino quelle della povertà assoluta. Un miglioramento delle condizioni dei più poveri può evidentemente accompagnarsi a un aumento, anche considerevole, della disuguaglianza, qualora gli incrementi di reddito siano relativamente più sostenuti per i più ricchi, come sembra essere avvenuto in Cina in questi ultimi anni.
Vari studi hanno cercato di stimare la distribuzione del reddito tra i cittadini del mondo, ottenendo risultati assai diversi. Una prima ragione di questa diversità è costituita dal trattamento dei dati sottostanti: la limitata comparabilità internazionale e intertemporale richiede di vagliare le informazioni disponibili, di selezionarle in base a criteri che possono risultare più o meno stringenti, eventualmente di integrarle con valori imputati. Una seconda ragione è rappresentata dalle molte ipotesi di calcolo alternative che possono essere impiegate, dal tasso di conversione con cui i redditi dei vari Paesi vengono riportati a una medesima unità di conto, all’allineamento dei dati microeconomici su quelli di contabilità nazionale. Tenendo conto dell’insieme di questi elementi, non è al momento possibile raggiungere alcuna solida conclusione sull’andamento della disuguaglianza mondiale dei redditi nell’ultimo trentennio (Anand, Segal 2008).
Tutti gli studi concordano tuttavia sul fatto che il livello della disuguaglianza mondiale sia molto elevato. Considerando redditi o consumi espressi a PPA, François Bourguignon e Christian Morrisson (2002) hanno calcolato un indice di Gini pari a 0,66 sia per il 1980 sia per il 1992; al decimo più ricco della popolazione mondiale andava nel 1992 il 53% del reddito complessivo, circa il doppio che in Italia e negli Stati Uniti (rispettivamente, 26% nel 1993 e 28% nel 1994, sulla base dei dati del LIS). Con dati e metodi diversi, Branko Milanović (2005) ha stimato valori dell’indice di Gini che passano da 0,62 nel 1988 a 0,65 nel 1993 e a 0,64 nel 1998. Le disparità di reddito a livello mondiale appaiono quindi considerevolmente più ampie di quelle rilevate nelle economie a medio e alto reddito della tab. 1, o nelle loro aggregazioni sovranazionali.
Oltre il reddito medio come indicatore di benessere
Come discusso in apertura, il reddito medio è un indicatore parziale del grado di sviluppo di un Paese, perché non dà conto di come il reddito si ripartisce nella popolazione. Le statistiche sul grado di concentrazione dei redditi discusse finora mostrano un’ampia variabilità e una debole correlazione con il reddito medio. Come cambia la valutazione del benessere sociale considerando anche la disuguaglianza? A PPA, il reddito equivalente è in Danimarca pari, in media, al 71% di quello degli Stati Uniti, ma la sua distribuzione è assai meno ineguale. Calcolando l’indice W=μ(1−G), che sottrae dalla media il costo della disuguaglianza, il benessere sociale danese sale all’88% di quello statunitense. Nella tab. 3 si riportano, per ciascun Paese preso in esame, il reddito equivalente medio e l’indice di Sen, entrambi espressi in percentuale del valore degli Stati Uniti.
Come si vede, in molti Paesi nordici e dell’Europa continentale, la minore disuguaglianza compensa una parte significativa del più basso livello di reddito medio: in Islanda, Norvegia e Svizzera questa compensazione è totale e il criterio proposto da Sen porta a ordinare questi tre Paesi davanti o alla pari degli Stati Uniti in termini di benessere sociale. All’opposto, Messico e Russia, che al più basso livello di reddito uniscono una distribuzione molto sperequata, si allontanano ancor più dagli altri Paesi. Considerando tutta la distribuzione dei redditi equivalenti e non solo il suo valore medio, si può influenzare la valutazione del grado di progresso raggiunto da un Paese.
La qualità della vita dipende non solo dalle risorse economiche disponibili, ma anche da altre importanti variabili non economiche come le condizioni fisiche e di salute, la qualità delle abitazioni, lo stato dell’ambiente naturale, l’organizzazione sociale. Secondo l’approccio delle capacità (Sen 1992), il benessere umano è costitutivamente un concetto multidimensionale, che dipende sia dai ‘funzionamenti’ (functionings), ossia gli stati dell’essere e del fare che le persone ritengono abbiano valore, sia dalle ‘capacità’ di perseguire liberamente combinazioni diverse di tali funzionamenti (capabilities). Adottando questa visione multidimensionale, il ruolo del reddito nella valutazione del progresso umano non viene meno, ma cambia da valore in sé a determinante indiretta della capacità che una persona ha di affrontare la vita, di far fronte alle spese necessarie sia per il sostentamento e il benessere fisico – cibo, abitazione, salute – sia per potersi presentare in pubblico senza vergogna e partecipare a pieno titolo alla vita della collettività.
Questa estensione del concetto di benessere umano è un esercizio complesso sul piano empirico, che può essere affrontato con strumenti e metodi molteplici. Una delle applicazioni di maggior successo, per quanto assai semplice e per questo criticabile, è rappresentata dall’indice di sviluppo umano elaborato dallo United Nations development programme (UNDP 2008), che integra l’informazione sul reddito medio di un Paese con quella sulla speranza di vita alla nascita e i tassi di scolarizzazione della popolazione. I valori dell’indice di sviluppo umano, in percentuale sul valore statunitense, sono contenuti nell’ultima colonna della tab. 3. La considerazione di indicatori non monetari, oltre al reddito, modifica, anche sostanzialmente, la posizione dei vari Paesi sulla scala del benessere sociale: la Svezia, per es., sale dalla 19a posizione in termini di reddito equivalente medio alla 15a in base all’indice W=μ(1−G) e addirittura alla 4a secondo l’indice di sviluppo umano, mentre i più ricchi Lussemburgo e Stati Uniti perdono alcune posizioni.
Prospettive
Rispetto al grado di disuguaglianza della distribuzione dei redditi, le economie sviluppate si suddividono in gruppi ben delineati. I Paesi nordici e dell’Europa continentale mostrano distribuzioni meno ineguali dei Paesi di lingua inglese e dell’Europa meridionale; la dispersione dei redditi è ancora maggiore negli Stati baltici e in Polonia; gli Stati Uniti si caratterizzano per il livello di disuguaglianza più elevato, superati solo dalle economie assai meno sviluppate del Messico e della Russia. Questo quadro ha registrato cambiamenti, anche importanti, ma nelle sue grandi linee si mantiene abbastanza persistente. È significativo che a metà degli anni Ottanta i Paesi dell’Europa orientale, ancora caratterizzati da un’economia di piano, si collocassero in un ordine non molto diverso da quello del 2004: già allora, per es., la Cecoslovacchia mostrava livelli di disuguaglianza nettamente inferiori a quelli evidenziati dall’Unione Sovietica (Atkinson, Micklewright 1992).
Questa osservazione non implica l’immutabilità della distribuzione dei redditi nel tempo e nello spazio, come affermava Pareto alla fine del 19° sec., ma sottolinea il peso che hanno i fattori nazionali. In ciascun Paese, la disuguaglianza appare muoversi in modo irregolare, configurando una successione di episodi piuttosto che un trend di lungo periodo ben definito (Atkinson 1997). Mutamenti cospicui si concentrano spesso in lassi di tempo relativamente brevi, intercalati da periodi in cui poco cambia. Le cause di fondo comuni, come l’evoluzione delle tecnologie o la globalizzazione, interagiscono con quelle specifiche dei singoli Paesi, riconducibili ai cambiamenti delle imposte e delle prestazioni sociali, degli istituti del mercato del lavoro o della struttura proprietaria.
Questi molteplici fattori non sono necessariamente indipendenti l’uno dall’altro e possono a volte compensarsi, a volte rinforzarsi vicendevolmente. È quindi difficile non solo valutarne il contributo specifico ai movimenti della disuguaglianza, ma anche predire la direzione dei movimenti futuri. L’analisi basata sui dati di fonte fiscale mostra una forte caduta della quota di reddito dei più ricchi nel periodo tra le due guerre mondiali in molte economie avanzate, per effetto di fattori straordinari che hanno alterato la distribuzione della ricchezza e ridotto i redditi da capitale dei rentiers; nell’ultimo ventennio del 20° sec., la quota di reddito dei più ricchi è fortemente aumentata negli Stati Uniti e in generale nei Paesi di lingua inglese, non nei Paesi dell’Europa continentale, sotto la spinta di una maggiore concentrazione dei redditi da lavoro e di un’esplosione dei compensi dei manager ai vertici delle grandi società (Top incomes over the twentieth century, 2007). La profonda crisi che ha investito l’economia mondiale a partire dal 2007 non può non incidere su queste tendenze. Nel breve periodo, è prevedibile che nei Paesi più avanzati verrà posto un freno ai compensi dei top managers e che il crollo dei corsi azionari ridurrà le rendite da capitale dei più ricchi, determinando una diminuzione della disuguaglianza; in direzione opposta andranno le conseguenze della recessione sull’occupazione e sulla dinamica dei redditi, pur attutite dal sistema di protezione sociale. È difficile stimare l’effetto netto di queste tendenze, ma è ancor più difficile immaginare quanto saranno persistenti negli anni a venire.
Bibliografia
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