La domesticazione degli animali e l'allevamento: mondo greco e romano
di Antony C. King
Nella Grecia classica era particolarmente diffuso l'allevamento degli ovini, mentre altre specie, come i bovini e i suini, avevano minore importanza. Del resto, anche nelle fonti letterarie l'allevamento non figura tra le espressioni di maggiore rilievo nel campo delle attività rurali greche, specialmente se rapportato all'agricoltura. Allevatori e pastori erano infatti considerati socialmente inferiori rispetto agli agricoltori, se non addirittura incivili e barbari. Tale atteggiamento nacque probabilmente in conseguenza del nesso tra civiltà e virtuosa perseveranza nel coltivare i campi, ma anche perché i cereali rappresentavano un elemento base nell'alimentazione, mentre i prodotti di derivazione animale ricoprivano un ruolo secondario nel contesto di una dieta fondamentalmente vegetariana. Gli animali non erano però lasciati in aree di pascolo ai margini delle città-stato, come si è ritenuto in alcuni casi. La maggior parte delle fattorie di minori dimensioni allevava una selezione di varie specie animali in modo da ottenere prodotti di immediata utilità, quali la lana e il latte. Sotto il profilo economico, l'allevamento associato all'agricoltura limitava i rischi legati all'eventualità di cattivi raccolti, dovuti a sempre possibili avverse condizioni climatiche o a epidemie; in altri termini, dal punto di vista della rendita, in caso di raccolto scarso gli animali avrebbero potuto compensare le conseguenti perdite finanziarie, fornendo un'adeguata fonte di guadagno. Sia gli autori antichi, come ad esempio Senofonte, sia i dati archeologici confermano che tale prassi era consolidata e che, in linea generale, gli animali rappresentavano una voce sussidiaria nell'economia globale di una fattoria. Diversamente da quanto avviene per la Grecia preistorica, per l'Italia antica e per l'Impero romano, in cui l'abbondanza di resti ossei animali consente di trarre informazioni attendibili, poco è noto circa l'allevamento della Grecia di età classica a causa della relativa scarsezza di dati osteologici. Dagli elementi in nostro possesso si può comunque arguire che pecore e capre non venivano allevate per la carne, quanto invece per i loro prodotti derivati, come la lana, il latte, i formaggi e principalmente il concime. Greggi e mandrie sono frequentemente menzionate dalle fonti classiche quale strumento di fertilizzazione e rappresentano dunque un elemento fondamentale nel processo di coltivazione dei campi. Ciò induce a chiedersi dove fosse alloggiato il bestiame nei periodi dell'anno in cui avveniva la crescita delle colture; il dibattito sviluppatosi su tale tema ha evidenziato la questione della transumanza in rapporto all'agricoltura greca e romana. Riguardo alla transumanza, appare evidente la necessità di tenere lontane le greggi (composte in massima parte da pecore) dalle varietà di piante la cui crescita è primaverile ed estiva. Tale necessità aveva indotto, già nella preistoria, a definire percorsi di transumanza, su distanze sia brevi che lunghe, per portare gli animali ai pascoli estivi, generalmente in zone montane. Il metodo consueto era per così dire "verticale": le greggi venivano condotte in pascoli montani vicini; vi sono tuttavia esempi in cui la transumanza seguiva una direttrice "orizzontale", o meglio "mediterranea", in base alla quale gli animali percorrevano distanze anche di centinaia di chilometri per raggiungere i terreni di pascolo, sia montuosi sia di pianura. L'ampiezza del fenomeno, specie sulle lunghe distanze, è questione degna di attenzione, in quanto è necessaria una considerevole capacità organizzativa per condurre a buon fine lo spostamento degli animali; nel mondo antico questa sembra essersi realizzata con l'intervento da parte di un potere politico centralizzato. Le fonti epigrafiche e letterarie suggeriscono che le condizioni per la transumanza su grandi distanze dovevano già esistere nell'Attica in età classica e ancor più lungo gli Appennini durante l'Impero romano; in altri periodi e aree la portata del fenomeno dovette essere più limitata. È probabile che regimi specializzati nella pastorizia, che comportavano la transumanza su lunghe distanze, rappresentassero una forma di investimento per quegli allevatori-fattori particolarmente facoltosi e con proprietà molto estese in grado di impegnare l'elevato numero di esemplari per gregge necessario a giustificare l'impresa e renderla remunerativa. Le piccole fattorie invece non mantenevano un numero tale di animali da dover anche provvedere al loro spostamento; probabilmente i capi di bestiame venivano mandati a pascolare sui campi coltivati a maggese durante i periodi di raccolto. Nel Mediterraneo antico l'allevamento dei bovini era di minore importanza rispetto a quello degli ovini: ad esempio, i buoi venivano di preferenza utilizzati per il traino dell'aratro e per il trasporto. In sostanza, solo i proprietari delle fattorie più ricche, anche se di limitate proporzioni, potevano permettersi di possedere bovini, in quanto la necessità di dedicare terreni pianeggianti al pascolo e campi al foraggio sottraeva terra altrimenti da destinare alla coltivazione. I buoi ripagavano in parte tale inconveniente fornendo forza-lavoro utile all'aratura. In alcune zone del Mediterraneo, come l'Egitto, questa funzione era svolta dagli asini. Per quanto riguarda l'aspetto alimentare, i bovini costituivano una parte trascurabile come fonte di cibo, poiché la loro carne non veniva consumata se non occasionalmente, a seguito di riti sacrificali. Al contrario, i maiali venivano allevati espressamente per la loro carne, che rappresentava una delle componenti essenziali della dieta romana; ville come quella di Settefinestre in Toscana prevedevano vere e proprie unità appositamente strutturate per la produzione su vasta scala di carne suina e per l'allevamento di maialini da latte. Anche nella Spagna sud-occidentale veniva praticato su larga scala l'allevamento del maiale, favorito dalla grande quantità di ghiande prodotta dai querceti locali. La maggior parte dei suini veniva macellata in giovane età, come confermano i dati osteologici; questo contrasta con la tendenza, osservabile per i bovini e gli ovini, a macellare capi per lo più adulti. Un importante aspetto dell'allevamento, a cui fanno riferimento autori antichi come Varrone e Columella e che risulta confermato dall'analisi dei resti ossei animali, è quello relativo alla cura posta nella definizione delle razze. I testi antichi fanno menzione di diverse varietà di pecore, ognuna delle quali è identificata con un nome preciso: le misure delle ossa rivelano le variazioni di taglia in singole specie collegabili alle diverse razze. Nelle province romane in particolare, vennero introdotte razze nuove, più robuste e pesanti: in Britannia, a esempio, le razze autoctone di pecore, dopo un periodo iniziale di coesistenza con quelle introdotte dall'esterno, presero a incrociarsi con queste ultime dando luogo a un graduale miglioramento degli esemplari in termini di robustezza e di dimensioni, soprattutto nel versante meridionale della provincia; il processo ebbe inoltre influenza anche sulla qualità e sulla finezza della lana fornita dai capi. Una crescita nelle dimensioni è osservabile anche nei bovini e nei maiali, a testimonianza della conoscenza e dell'applicazione di nozioni fondamentali circa i processi di selezione finalizzati a modificare le caratteristiche degli animali. Molte delle osservazioni fatte a proposito della Grecia antica sono valide anche per l'Italia romana. L'esistenza di grandi ville e di vasti latifondi in determinate aree come la Sicilia consentì l'affermarsi di forme di allevamento su vasta scala, con un evidente e marcato sviluppo dei metodi di conduzione delle fattorie e della transumanza al fine di controllare e gestire il rapporto tra le necessità degli animali e quelle proprie dei raccolti. Tuttavia numerosi piccoli allevatori-fattori rimasero in prossimità delle città, dove i prodotti ortofrutticoli potevano trovare mercato. Le fattorie si fondavano infatti su un'economia agricola composita, basata sulla terra circostante la fattoria stessa e nella quale il bestiame ricopriva un ruolo di minore importanza, se si esclude l'interesse nei confronti dei prodotti derivati, quali il latte e la lana. Per quanto attiene all'allevamento, è necessario fare una precisa distinzione tra il Mediterraneo e l'Europa settentrionale. In quest'ultima aveva grande importanza il bestiame, particolarmente i bovini, le cui ossa rappresentano spesso l'elemento predominante dei depositi osteologici. È probabile che la minore densità di popolazione delle aree abitabili abbia consentito una più facile convivenza tra uomo e bestiame, senza che venisse ridotta la disponibilità di terreno fertile, come può essere stato invece il caso delle aree mediterranee. La carne era consumata di frequente, quando non costituiva addirittura la componente principale della dieta; questo implica che il bestiame fosse messo al pascolo in radure a esso dedicate o che i campi arabili venissero destinati, a rotazione, a fornire il foraggio necessario. Inoltre, il clima più umido in estate può avere favorito la maggiore inclinazione nord-europea verso l'allevamento e i suoi prodotti, poiché nel periodo estivo difficilmente si verificavano condizioni di siccità tali da provocare scarsità di cibo per gli animali. Le pecore venivano allevate secondo un metodo non molto diverso da quello praticato nel Mediterraneo: gli ovini pascolavano nei terreni circostanti le ville durante la primavera e l'estate, mentre in autunno venivano condotti in recinti interni, anche allo scopo di ottenere concime. Contrariamente a quanto avveniva in alcune ville italiane, i maiali non erano tenuti in edifici appositi, ma lasciati liberi nella boscaglia che ricopriva buona parte del territorio delle province nord-occidentali. I maiali erano dunque semiselvatici, come confermato dalla particolare conformazione delle ossa, ma sempre di dimensioni inferiori a quelle di un cinghiale. Essi venivano macellati a un'età superiore a quella osservata in Italia: ciò può essere indice di un'economia più povera, nella quale era evidente il bisogno di massimizzare la produzione di carne per singolo capo di bestiame, nonché di ottenere prodotti particolari, quali il prosciutto, come menzionato dalle fonti. Minori sono le nostre conoscenze riguardo ad altre specie da allevamento: i resti di capra non ricorrono spesso nei depositi osteologici, mentre ossa di cavallo sono frequenti in alcuni siti delle province nord-occidentali e in aree come le pianure dei Fens in Gran Bretagna, dove veniva praticato anche l'allevamento di capre e pecore. È possibile ipotizzare l'allevamento specifico di cavalli per fornire animali all'esercito in certe zone di frontiera, come quella danubiana. In molte aree dell'Impero romano si conservarono tradizioni agricole locali, nonostante il processo di romanizzazione: in Britannia, ad esempio, le pecore venivano allevate in numero superiore rispetto alle vicine province della Gallia e della Germania. È questa una conseguenza della diffusione dell'allevamento degli ovini nell'Inghilterra preromana, in contrasto con la Gallia settentrionale dove il maiale era, già dall'età del Ferro, un elemento importantissimo nell'economia. L'esercito romano stanziato alle frontiere ebbe certamente influenza sull'andamento dell'agricoltura e dell'allevamento, in rapporto alla richiesta di prodotti vegetali e animali. Nel Nord della Britannia la fornitura dei prodotti di derivazione animale alle forze schierate lungo il Vallo di Adriano era probabilmente attuata in ambito locale, come sembra confermare l'elevato numero di fattorie coloniche sorte nelle zone limitrofe al Vallo e certamente legate alla domanda determinata dalla presenza dell'esercito.
O. Keller, Die antike Tierwelt, Leipzig 1963⁴; K.D. White, Roman Farming, London 1970; E. Gabba - M. Pasquinucci (edd.), Strutture agrarie e allevamento transumante nell'Italia romana, Pisa 1979; R.M. Luff, A Zooarchaeological Study of the Roman North-Western Provinces, Oxford 1982; J.M. Frayn, Sheep-Rearing and the Wool Trade in Italy during the Roman Period, Liverpool 1984; S. Payne, Zooarchaeology in Greece: a Reader's Guide, in N.C. Wilkie - W.D.E. Coulson (edd.), Contributions to Aegean Archaeology. Studies in Honor of William A. McDonald, Minneapolis 1985, pp. 211-44; M.S. Spurr, Arable Cultivation in Roman Italy, London 1986; P. Méniel, Chasse et élevage chez les Gaulois, Paris 1987; C.R. Whittaker (ed.), Pastoral Economies in Classical Antiquity, Cambridge 1988; A.C. King, Villas and Animal Bones, in K. Branigan - D. Miles (edd.), Villa Economies, Sheffield 1989, pp. 51-59.
di Barbara Belelli Belelli Marchesini
In ambiente italico e romano la diffusione di piscinae di acqua dolce risale almeno al III sec. a.C. (Plaut., Poen., 293; Truc., 35), con lo sfruttamento di specchi d'acqua interni, in particolare di bacini lacustri (Colum., VIII, 16, 1-2), oppure con la realizzazione di apposite vasche sulla terraferma. Gli esemplari allevati erano pescati dai fiumi (Varro, Rust., III, 3, 2- 10), catturati con particolari tipi di dispositivi in prossimità degli emissari dei laghi (Plin., Nat. hist., IX, 74). Le fonti antiche insistono sull'aspetto economico-produttivo di questo tipo di attività, che possiamo immaginare a carattere estensivo e destinata a rifornire il mercato di prodotti ittici (Varro, Rust., III, 3-4, 9; Colum., VIII, 16, 2; Plut., Cat. Ma., XXI, 5). Esempio emblematico di azienda produttiva dotata di vivai ittici era la villa di Varrone a Cassino, provvista di due piscinae di forma allungata alimentate da un ruscello (Varro, Rust., III, 5, 16), con la quale possono confrontarsi almeno gli impianti connessi alle residenze di Manlio Vopisco e Quintilio Varo, nell'immediato suburbio di Tivoli, la grande piscina rinvenuta sulla via Portuense e quella connessa alla villa di Grottarossa nei pressi di Roma. Tra la fine del II e l'inizio del I sec. a.C. si assiste ad un progressivo trasferimento degli impianti lungo la fascia costiera, con lo sfruttamento delle lagune e la creazione di installazioni in diretto rapporto con il mare aperto (piscinae salsae). Agli occhi degli autori antichi questo tipo di attività si configura, almeno inizialmente, con una forte connotazione imprenditoriale, come risulta dall'operazione condotta da Sergio Orata nel territorio di Baia, impiantando nelle acque del Lago Lucrino un parco di allevamento di molluschi (Plin., Nat. hist., IX, 168-69; Macr., Sat., III, 15, 3), selezionati e trasportati dalla zona di Brindisi (Plin., Nat. hist., IX, 169; Gell., VI, 16, 5), e vivai per orate (Val. Max., IX, 1, 1; Mart., Epigr., XIII, 90). Alla medesima categoria del Lago Lucrino, connesso al mare mediante opere di canalizzazione attribuite a Ottaviano, si possono ascrivere l'impianto di forma circolare, interamente costruito e ripartito al suo interno, presso il canale di emissione del Lago di Paola (cd. "piscina di Lucullo"), apparentemente isolato e inquadrabile alla fine dell'età repubblicana, e il grandioso complesso di Cosa, realizzato in rapporto con la sistemazione dell'area portuale, tra la metà e la fine del II sec. a.C. L'allestimento di vivai connessi a impianti residenziali, concentrati inizialmente nel litorale campano, ha registrato un decisivo incremento, tra la fine del I sec. a.C. e l'inizio del I sec. d.C., parallelamente alla rapida diffusione della moda delle villae maritimae, esemplificazione del potere economico della nuova classe dirigente, interessando in particolare il litorale medio-tirrenico. Questo genere di impianti, legati per lo più a esigenze di tipo privato e di costosa manutenzione, sono bersaglio di polemiche che ne contrappongono il principio ispiratore alla prisca rusticitas degli avi (Varro, Rust., III, 3, 4; 17, 2-3), sottraendoli alla sfera delle attività economiche. Tale giudizio può essere in parte attenuato considerando gli accenni al valore produttivo e al valore immobiliare di certe installazioni litoranee, ma soprattutto valutando complessivamente l'evidenza archeologica, che comprende esempi di notevole complessità e dislocati presso bacini portuali (si pensi, ad es., a Torre Astura), e, più raramente, connessi a impianti per la lavorazione del pesce (Briatico, Santa Irene, in Calabria; Santa Foca, in Puglia; Puerta del Arenal, in Spagna). Il corpus delle peschiere dislocate sul litorale medio-tirrenico comprende almeno 55 esempi, che vengono realizzati e mantenuti in funzione tra il I sec. a.C. e il II sec. d.C., periodo oltre il quale l'attività sembra subire una forte contrazione; l'accenno di Rutilio Namaziano (vv. 380-82) circa l'esistenza di stagna presso Piombino (417 d.C.) si riferisce probabilmente allo sfruttamento di ambienti lagunari. Le fonti antiche forniscono indicazioni puntuali sulla realizzazione degli impianti. In base alle caratteristiche geomorfologiche del litorale, le peschiere venivano ambientate in gallerie ricavate lungo alte scogliere (costa di Bauli e Miseno, Ponza e Ventotene), oppure realizzate a cielo aperto, per lo più sfruttando l'affioramento di una piattaforma rocciosa che veniva sottoposta a intaglio e usata come base di imposta per opere in muratura; meno frequenti sono le peschiere su fondale sabbioso e interamente costruite, adatte ai pesci piatti e alle murene. Le peschiere si compongono di tre distinte unità funzionali: elementi di protezione e delimitazione dell'impianto, rappresentati da scogliere naturali o da veri e propri moli in muratura; canali di captazione e adduzione dell'acqua, al cui interno il flusso idrico era regolamentato mediante un sistema di chiuse e saracinesche e, in corrispondenza dello sbocco, di griglie; sistema articolato di vasche comunicanti, caratterizzate da ripartizioni geometriche a carattere decorativo (losanghe, cerchi), destinate a ospitare esemplari di taglia e caratteristiche etologiche diverse. Il funzionamento delle peschiere si basava anzitutto sul sistema di ricambio idrico, cioè sull'effetto concomitante del sovralzo dell'onda di marea con le correnti dominanti, garantito dalla corretta distribuzione dei canali e dall'efficacia del sistema di circolazione dell'acqua all'interno delle vasche. Importanti erano anche la dislocazione, in corrispondenza di baie riparate e di approdi, e la prossimità di corsi di acqua dolce, sia per il particolare effetto trappola esercitato su alcune specie dalle foci dei fiumi, sia per la necessità di stemperare la salinità dell'acqua delle vasche. La funzione precipua delle peschiere era quella di garantire una riserva costante di prodotto ittico, attraverso la stabulazione del pescato; non è dimostrabile la possibilità di ottenere la riproduzione degli esemplari in stato di cattività. I parchi di allevamento ospitavano il tipo di fauna caratteristico del litorale medio-tirrenico, come risulta non soltanto dalle fonti antiche, ma anche dalle decorazioni pittoriche e musive delle domus dell'area vesuviana, di chiara ambientazione vivaistica e destinate per lo più ad abbellire gli acquari diffusi nei giardini: cefali, spigole, merli di mare, tordi, orate, dentici, occhiate e, in generale, i pesci piatti (ombrine, rombi, sogliole e passere); in acqua dolce o salmastra anche anguille, murene, triglie di scoglio e triglie di fango. Eventualmente, per motivi di natura gastronomica, si provvedeva a importare su navi-vivaio e successivamente acclimatare sul litorale tirrenico determinate specie pregiate, quali lo scaro, introdotto dal Mediterraneo orientale sotto il regno di Claudio.
R. Del Rosso, Pesche e peschiere antiche e moderne nell'Etruria marittima, Firenze 1905; J. d'Arms, Romans on the Bay of Naples, Cambridge (Mass.) 1970; J.M.C. Toynbee, Animals in Roman Life and Art, London 1973, pp. 209-15; W.F. Jashemsky, The Gardens of Pompei, Herculaneum and the Villas Destroyed by Vesuvium, New York 1979; A.M. Mc Cann, The Roman Port and Fishery of Cosa. A Center of Ancient Trade, Princeton 1987; L. Giacopini - B. Belelli Marchesini - L. Rustico, L'itticoltura nell'antichità, Roma 1994; J.A. Higginbotham, Piscinae. Artificial Fishponds in Roman Italy, Chapel Hill 1997; L. Rustico, Peschiere romane, in MEFRA, 111 (1999), pp. 51-66; La saveur de la mer: luxe et consommation des produits de la mer. Atti del Seminario (Roma, 25-26 maggio 1998) (c.s.).
di Armando Cherici
Un particolare aspetto legato alla pratica dell'allevamento è quello rappresentato dall'apicoltura, particolarmente diffusa in Grecia e nel mondo romano. L'apicoltura, di cui Aristeo è considerato il mitico iniziatore, cominciò quando l'uomo abbandonò la raccolta casuale del miele e della cera e cercò di disporre di un numero sicuro e crescente di sciami. La Grecia antica conobbe un'apicoltura specializzata, ma sono i trattatisti romani (in particolare Varro, Rust., III, 16 ss.; Verg., Georg., IV, 33 ss.; Colum., IX, 5 ss.; Plin., Nat. hist., XXI, 80; Pallad., I, 37) a parlarci dell'apicoltura, in particolare delle arnie. Le prime furono quelle naturali dove si rifugiavano le api selvatiche: tronchi di alberi cavi, tagliati e disposti vicino all'insediamento umano; quindi si privilegiarono arnie facilmente trasportabili e di buone caratteristiche termiche, tali da evitare forti escursioni di temperatura tra il giorno e la notte e da assicurare una temperatura non troppo calda d'estate e non troppo fredda d'inverno. Ottime erano considerate quelle in corteccia, specie in sughero, ma buone venivano ritenute anche le arnie di assi di legno, di ferula o vimini intrecciati, di paglia impastata con argilla o sterco di vacca. Le fonti ricordano anche arnie costruite in mattoni, solide e resistenti, ma non trasportabili: difetto grave per un'apicoltura che prestava molta attenzione al microclima della zona in cui le arnie erano disposte e alla vicinanza dei diversi luoghi di pastura delle api. Infine sono ricordate arnie in terracotta che, se erano economiche e più durature di quelle vegetali, erano pessime per le escursioni termiche al loro interno. Plinio ricorda arnie in lamine di corno trasparenti e in lapis specularis, per poter osservare l'attività delle api all'interno. A seconda del materiale le arnie si presentavano cilindriche, cupoliformi, quadrangolari, con due o tre piccoli fori di volo che permettevano l'accesso alle sole api, talvolta con un portello d'ispezione e, forse, con favi mobili per facilitare il prelievo non distruttivo del miele e della cera. Di recente è stato proposto di interpretare una serie di modellini fittili provenienti da tombe attiche del IX e dell'VIII sec. a.C. come riproduzioni di arnie rotonde in vimini: interessante è il caso di una tomba dell'Agorà di Atene con cinque arnie allineate, ciascuna con una coppia di fori di volo alla base e un probabile portello superiore d'ispezione e aerazione. Non sono giunti fino a noi esemplari di arnie in materiali deperibili, ma in Grecia sono stati rinvenuti diversi esemplari in terracotta, databili dal IV sec. a.C. all'età romana. Tali arnie provengono soprattutto da insediamenti agricoli, ma anche da necropoli dove erano utilizzate per tombe a enchytrismòs. Si può distinguerne un tipo verticale a kalathos, con fessura di volo alla base, e un tipo cilindrico orizzontale, con i fori di volo sul coperchio a disco.
Ch. Morel, s.v. Apes, in DAnt, I, 1877, pp. 304-305; F. Olck, s.v. Bienenzucht, in RE, III, 1897, coll. 450-57; H.M. Frazer, Beekeeping in Antiquity, London 1931; E. Crane, The Archaeology of Beekeeping, London 1983; A. Cherici, Granai o arnie? Considerazioni su una classe fittile attica tra IX e VIII sec. a.C., in RendLinc, 44 (1991), pp. 215-30.