La domesticazione degli animali e l'allevamento: periodo tardoantico e medievale
Da tempo è stato sottolineato il ruolo di primo piano svolto dall'allevamento nell'Alto Medioevo. Ne troviamo tra l'altro un'indiretta conferma nelle fonti legislative barbariche, le quali riconoscono ad alcune categorie di lavoratori, tra queste i pastori, un ruolo socialmente rilevante: l'uccisione di un magister porcarius, infatti, nella normativa dell'Editto di Rotari prevedeva un corrispettivo molto alto, cioè 50 soldi, pari a due volte e mezzo quello che si sarebbe dovuto pagare per un massaro conduttore di podere ed eguale solamente a quello di un maestro artigiano. Nonostante la diffusione anche del pascolo suino, i costumi alimentari in epoca romana non si discostavano da quelli delle varie popolazioni mediterranee, privilegiando l'allevamento e il consumo di ovini. Si deve alle modificazioni del paesaggio e al progressivo assorbimento dei costumi propri delle popolazioni seminomadi, tra cui principalmente i Longobardi, se nell'Alto Medioevo l'allevamento in genere, e quello dei suini in particolare, divenne una fonte economica predominante. Tale pratica, infatti, in una società che si stava sempre più ruralizzando e che, secondo un modello storiografico corrente, veniva a connotarsi per il binomio colto/incolto, si integrava in maniera organica e naturale con i modi di sfruttamento delle risorse e con i modelli di organizzazione del territorio. Per la sua attuazione, infatti, non era sempre strettamente necessaria una specifica finalizzazione delle colture, a causa della possibilità di impiegare utilmente le risorse spontanee dell'ambiente, come i pascoli naturali, le brughiere e il bosco; anche gli stessi campi, dopo il raccolto dei cereali, diventavano preziose fonti di sostentamento per il bestiame allo stato brado, venendosi così a creare una sorta di circolarità tra l'allevamento e il sistema produttivo a base agricola. All'allevamento, dunque, è da riconoscersi un ruolo decisivo nell'ecosistema delle società altomedievali, sia come fonte diretta di sostentamento alimentare (connessa con la produzione di carne e quindi di proteine), sia come forma di sfruttamento intensivo delle capacità di forza-lavoro o di trasporto di talune specie, come i bovini, i cavalli e gli asini. Anche le fonti scritte riconoscono questa sostanziale dualità quando dividono il bestiame in due grandi categorie: alle bestie minute, soprattutto maiali e caprovini, era destinata una prevalente funzione di carattere alimentare (non si dimentichi poi che l'allevamento delle pecore era anche alla base di quella che nel Tardo Medioevo sarà l'industria pesante del tempo, cioè la produzione della lana), mentre al bestiame grosso, bovini e cavalli, veniva attribuita una funzione principale di sussidio alle attività agricole, artigianali o di trasporto. Il Polittico di Santa Giulia, uno dei pochi testi documentari altomedievali che ci fornisca anche dati quantitativi e non solo qualitativi sul bestiame allevato, ribadisce questa dualità e riferisce che il numero del menuto peculio era di gran lunga superiore a quello dei bovini e degli equini. Ciò significherebbe un maggiore investimento nell'allevamento del bestiame piccolo, che era strettamente funzionale al consumo, piuttosto che di altre specie animali, il cui ruolo alimentare sarebbe stato ininfluente e secondario. Questo fatto ha portato poi a riconoscere una sostanziale alternativa di carattere alimentare tra maiali e pecore, esplicitamente riflessa nella diversa connotazione culturale di determinate aree geografiche (come, ad es., nella regione padana, tra Langobardia e Romania), specificamente e settorialmente votate a diversificate scelte di consumo. Tale modello ha però forse eccessivamente condizionato anche l'interpretazione delle fonti materiali. Lo studio archeozoologico dei resti faunistici ha infatti spesso teso a generalizzare e a trasferire questa tendenza, tipica di specifici ecosistemi, anche ad ambiti socioeconomici e cronologici molto diversi: è ad esempio il caso dei siti urbani e talora di quelli incastellati, nei quali durante il Basso Medioevo si registra invece un alto consumo di carne bovina giovane, che non è affatto conseguenza di un utilizzo secondario del bestiame (le cd. bestiae inutiles). Uno dei problemi maggiori che riguardano l'allevamento e che ha visto impegnati numerosi studiosi anche sul piano archeologico è comunque quello della continuità o meno del fenomeno della transumanza. Gli storici sono sostanzialmente d'accordo nel ritenere che, a partire dalla Tarda Antichità e per tutto l'Alto Medioevo, l'allevamento transumante abbia registrato una flessione, almeno sul piano dello sfruttamento regolare e ufficiale dei pascoli complementari, anche a causa di quella frammentazione politica e amministrativa del territorio che certamente non ne favoriva l'utilizzo. La grande transumanza non scomparve però del tutto, come attestano peraltro le fonti scritte, almeno a partire dall'VIII secolo, ma dovette sopravvivere convivendo con forme di allevamento stanziale, oppure ridotta ad ambiti geografici più ristretti con trasferimenti di bestiame a breve raggio. Ma la riconoscibilità archeologica di un percorso è estremamente complessa: per quanto immutate restassero le direttrici, assai variabile risultava il tracciato, che si adattava ai vari condizionamenti che durante i secoli potevano frapporsi. Per questi motivi, ma anche per la specifica connotazione semantica delle fonti archeologiche medievali, la possibilità di recuperare dati circa il fenomeno della transumanza durante i secoli di mezzo si dimostra piuttosto difficoltosa. Per ovviare a tali problemi sono stati tentati, in territori definiti, approcci che comprendessero insieme alla ricognizione (e allo scavo) anche studi di carattere etnoantropologico. Questi ultimi sono risultati estremamente utili per la conoscenza degli elementi connessi con il fenomeno del pastoralismo, ma mostrano ancora forti lacune sul piano della differenziazione archeologica. Ancora una volta, come per il periodo romano, a proposito del fenomeno della transumanza lo spessore delle conoscenze archeologiche è dunque minimo, solo parzialmente utilizzabile e comunque non ben calibrato. L'indagine condotta sul territorio di Cicolano, in Molise, per menzionare una delle aree della penisola dove maggiore è stato l'impegno in questa direzione, ha finora mostrato difficoltà nel riconoscere caratteri specifici alle strutture insediative dei pastori stanziali rispetto a quelle dei transumanti, se non la presenza/assenza di campi cintati per la produzione del fieno, evidentemente non strettamente funzionali per l'attività di questi ultimi. Pastoralismo stanziale e pastoralismo transumante costituiscono anche per il Medioevo le due principali forme di allevamento. Ma tra questi due modelli esistono varie sfumature e accenti, poiché non sempre l'allevamento rappresenta l'unica forma di sostentamento economico di una società o di un gruppo sociale, ma anzi talora non è che una delle componenti di un modello economico più articolato di utilizzo e di ottimizzazione delle risorse di un territorio. I modi di conduzione dell'allevamento nell'ambito dello sfruttamento delle risorse sono poi direttamente consequenziali con le specifiche competenze e i saperi che le varie comunità avevano acquisito e si erano tramandate: saperi e competenze le cui tracce fossili sopravvivono talora nella stessa toponomastica, nella fitotoponomastica, nella cartografia storica, ma che sono rintracciabili ancora una volta nella stessa documentazione archeologica. Come i pollini e i semi possono indicare coperture arboree oggi scomparse e quindi l'esistenza di un habitat un tempo diversamente votato ad altre forme di sfruttamento, così pure i resti archeozoologici, direttamente influenti nel ricostruire l'evoluzione e la trasformazione delle specie animali, possono indicare forme mutate di allevamento, come ad esempio nel caso dei bovini, la cui diminuzione dimensionale nella specie durante l'Alto Medioevo potrebbe essere diretta conseguenza di una selezione meno rigorosa negli accoppiamenti.
E. Gabba - M. Pasquinucci (edd.), Strutture agrarie ed allevamento transumante nell'Italia romana, Pisa 1979; M. Baruzzi - M. Montanari, Porci e porcari nel medioevo, Bologna 1981; G. Barker, The Archaeology of the Italian Shepherd, in ProcCambrPhilSoc, 215 (1989), pp. 1-19; Id., Archaeological Survey and Ethnoarchaeology in the Cicolano Mountains, Central Italy. Preliminary Results, in Archeologia della pastorizia nell'Europa Meridionale. Atti della Tavola rotonda internazionale (Chiavari, 22-24 settembre 1989), in RStLig, 56 (1990), pp. 109-21; D. Moreno, Dal documento al terreno. Storia e archeologia dei sistemi agro-silvo-pastorali, Bologna 1990; D. Moreno - O. Raggio, The Making and Fall of an Intensive Pastoral Land-use-system. Eastern Liguria, 16-19th Century, in RStLig, 56 (1990), pp. 193-217; M. Pasquinucci, Aspetti dell'allevamento transumante nell'Italia centro-meridionale fra l'età arcaica e il medioevo. Il caso della Sabina, ibid., pp. 165-77.