La domesticazione delle piante e l'agricoltura: Americhe
di Christine Niederberger
Antiche pitture, quali quelle di J. White, eseguite intorno al 1585 nel villaggio indiano di Secotan in North Carolina, offrono un quadro estremamente vivace delle tradizioni agricole precolombiane, ancora presenti nell'America Settentrionale agli inizi del XVI secolo. All'epoca i nativi coltivavano mais, fagioli, girasole, peperoncino, alberi da frutto, cotone, avocado e forse, nella Florida meridionale, anche manioca. Le pratiche agricole non costituivano tuttavia un fenomeno generalizzato: in epoca precolombiana vaste regioni rimanevano occupate da gruppi seminomadi di cacciatori-raccoglitori, mentre l'agricoltura si concentrava soprattutto nel Sud-Ovest, nella valle del Mississippi e nelle regioni orientali. Lo studio diacronico della distribuzione di questi due tipi di economia di sussistenza è molto complesso. L'elaborazione di tecniche idrauliche e di sistemi di irrigazione ‒ che condussero, ad esempio, allo sviluppo della cultura Hohokam nel Sud-Ovest ‒ permise di trasformare in terreni agricoli alcune regioni semiaride, prima sfruttate dai cacciatori-raccoglitori. Peraltro, all'epoca del contatto con gli Europei è stato osservato che alcuni gruppi seminomadi di cacciatori, quali i Blackfoot del Missouri, conoscevano le pratiche agricole e coltivavano il tabacco; tuttavia essi erano essenzialmente dediti alla caccia, soprattutto del bisonte. Lo sviluppo dell'agricoltura fu reso possibile dall'intensificazione, durante l'Arcaico, delle relazioni tra uomo e ambiente: intorno al 5000 a.C. nel sito di Koster (Illinois) si frantumavano grani con macine e macinelli ed erano già utilizzati recipienti di zucca e una varietà di zucca (Cucurbita texacum), la cui domesticazione è chiaramente attestata intorno al 2000 a.C. Nelle aree boschive orientali si osservano nello stesso periodo gli inizi dell'arboricoltura della noce di hickory (Caray), la manipolazione del girasole (Helianthus annuus), di Chenopodiacee (Chenopodium berlandieri) e di grani di iva (Iva annua). Un'economia prevalentemente agricola è attestata intorno al 1000 a.C.: essa era fondata, oltre che sulle piante sopra citate, sulle Poligonacee (Polygonum erectum) e su una sorta di orzo (Hordeum pusillum). Il polline di mais (Zea mays) è presente fin da epoche molto antiche in numerosi siti. Sebbene un gran numero di dati indichi una graduale evoluzione verso le pratiche agricole, gli influssi provenienti dalla Mesoamerica attraverso la Sierra Madre Occidentale sembrano avere assolto ovunque un ruolo determinante nell'accelerazione dei processi di domesticazione. Le prime testimonianze di mais coltivato, di origine messicana, provengono dal sito di Bat Cave (New Mexico) e sono datate al 3500 a.C. Intorno al 1000 a.C. si diffuse rapidamente la coltura del fagiolo (Phaseolus vulgaris) e della zucca (Cucurbita pepo), anch'essi di provenienza meridionale. Lo sviluppo dell'economia agricola produsse in alcune regioni profondi mutamenti nei modelli di vita e nello strumentario. La nascita di insediamenti permanenti e la produzione di eccedenze alimentari ebbero inoltre effetti sull'organizzazione sociale e sul sistema di credenze, come attesta lo studio dei primi siti con tumuli funerari della valle del Mississippi, datati al 1000 a.C. Occupati da società stratificate, tali centri possedevano diversi tipi di architettura pubblica monumentale in terra e tra il 900 e il 1200 d.C. la civiltà agricola del Mississippi raggiunse il suo apogeo con il centro di Cahokia (Illinois), che contava circa 30.000 abitanti. I fertili suoli alluvionali delle pianure circostanti assicuravano un alto rendimento, soprattutto nella produzione di mais, zucche e fagioli; è stata inoltre segnalata la presenza di "calendari circolari" del diametro di varie decine di metri, provvisti di alti pali, la cui posizione in rapporto al movimento del sole permetteva forse di programmare i cicli agricoli. In Mesoamerica, l'ampia varietà di specie vegetali domesticate dalle popolazioni amerindiane comprende in primo luogo la triade nutritiva mais, fagiolo (Phaseolus spp.) e zucca (Cucurbita spp.), in uso presso tutte le grandi civiltà agricole americane. A essa si aggiungono peperoncino (Capsicum spp.), amaranto (Amaranthus spp.), avocado (Persea americana), patata dolce (Ipomoea batatas), vaniglia (Vanilla planifolia), manioca (Manihot spp.), tabacco (Nicotiana tabacum), cotone (Gossypium hirsutum), ananas e papaia (Carica papaya), pomodoro (Physalis ixocarpa) e cacao (Theobroma cacao). La Grotta di Guilá Naquitz (Oaxaca) ha fornito le più antiche e attendibili testimonianze di sperimentazioni agricole. La zucca (Lagenaria siceraria), della quale sono stati rinvenuti resti nei livelli archeologici antichi del Tamaulipas e dell'Oaxaca e che i cacciatori paleoindiani utilizzarono diffusamente come recipiente, fu probabilmente la più antica pianta domesticata. La presenza di resti di zucche coltivate della specie Cucurbita pepo nei livelli D di Guilá Naquitz, datati tra l'8750 e il 7840 a.C., consente di affermare che l'agricoltura veniva praticata nella valle di Oaxaca intorno all'8000 a.C. Gli scavi effettuati nelle grotte della semiarida valle di Tehuacán (Puebla) hanno inoltre permesso di ricostruire una lunga sequenza archeobotanica che copre 9000 anni, a partire dal 6500 a.C., e di tratteggiare un primo schema esplicativo sulle modalità di sviluppo dell'economia agricola. Anche se alcune piante come l'alopecuro (Setaria), il peperoncino, l'avocado o il frutto del cosahuico (Sideroxylon) sembrano essere state oggetto di cure particolari a partire dal 6500 a.C., evidenze più chiare di pratiche orticole si rilevano solo nel corso della fase culturale Coxcatlan (5000-3500 a.C.). Nella famiglia delle Cucurbitacee i più antichi semi delle specie Cucurbita mixta e Cucurbita moschata appartengono a questi livelli. I semi coltivati di Cucurbita pepo appaiono invece tardivamente nella sequenza di Tehuacán, contrariamente a quanto documentato nella Grotta di Ocampo nel Tamaulipas, dove queste specie di zucca, forse coltivate, sono attestate intorno al 7000 a.C. Il peperoncino sembra essere stato domesticato a partire dal livello XI della Grotta di Coxcatlan (4121 a.C.), come il fagiolo comune coltivato nella stessa epoca nel Tamaulipas. Il genere Phaseolus è rappresentato anche dalla specie Phaseolus acutifolius, di cui è stata raccolta una buona campionatura di semi coltivati nel livello VIII della fase Abejas (3010 a.C.). Gli scavi di Tehuacán hanno fornito il primo importante corpus di dati sul controverso problema della domesticazione del mais (Zea mays L. ssp. mays). La metà dei circa 24.000 campioni raccolti è composta da pannocchie pressoché intatte. Il loro studio ha permesso di identificare le trasformazioni evolutive di questa pianta, dalle piccole pannocchie di circa 2,5 cm del 5000 a.C. fino a quelle di 14 cm dell'epoca della Conquista. La ricerca dell'antenato selvatico del mais ha suscitato accesi dibattiti. Una delle prime ipotesi, formulata da P. Mangelsdorf, è stata quella secondo cui le più antiche pannocchie di Tehuacán sarebbero derivate da un mais selvatico attualmente scomparso; questa posizione è stata successivamente messa in discussione da G. Beadle, J.R. Harlan, W. Galinat e H.H. Iltis, secondo i quali l'antenato del mais sarebbe una graminacea annuale selvatica della Mesoamerica, il teosinte, che nella classificazione tassonomica di Iltis si divide in diverse sottospecie, tra cui la Zea mays ssp. mexicana, caratteristica dell'altopiano centrale e dell'area meridionale della Valle di Messico, e la Zea mays ssp. parviglumis, molto diffusa nel Guerrero e nel Messico occidentale, così come in Guatemala. Il teosinte e il mais sono parenti stretti, con lo stesso numero di cromosomi, e dunque la vecchia classificazione in due generi diversi è stata abbandonata. Per spiegare la trasformazione del teosinte in mais, Iltis e la sua équipe hanno ipotizzato una mutazione sessuale dell'inflorescenza maschile del teosinte in pannocchia femminile del mais, il che spiegherebbe l'assenza di testimonianze archeologiche su un cambiamento genetico progressivo teosinte-mais. È stato comunque spesso sottolineato che, sebbene la valle di Tehuacán abbia fornito il miglior complesso di dati archeobotanici postpleistocenici, questa regione semiarida non sembra avere mai rappresentato un centro di primaria importanza per la domesticazione delle piante; il teosinte, in particolare, non vi è mai cresciuto e il mais fu introdotto solo dopo un periodo di domesticazione iniziale, avvenuto in una o più regioni ancora sconosciute. Attualmente è molto sentita la necessità di effettuare scavi archeobotanici in altre zone della Mesoamerica, in particolare in ambienti a clima temperato. Ricerche preliminari sono state condotte in tal senso a Tlapacoya-Zohapilco, lungo le sponde di un antico lago nel Sud della Valle di Messico; tali ricerche hanno permesso di ricostruire una lunga sequenza di occupazione che copre i sei millenni precedenti la nostra era. I depositi sedimentari offrono eccellenti condizioni per la conservazione di resti biotici in generale e di polline in particolare; semi di teosinte sono stati raccolti in livelli di occupazione datati al 5090 a.C., accanto a resti di amaranto, pomodoro e zucca. Nel corso del III millennio a.C. queste piante, a cui si aggiunsero il peperoncino e il chayote (Sechium), subirono trasformazioni morfologico-genetiche favorevoli e divennero pienamente domestiche. Di contro, abbiamo pochi dati sulla domesticazione nelle basseterre caldo-umide di piante quali la gomma (Castilla elastica), il cacao e il cotone. Per molto tempo si è ritenuto che le società precolombiane (in particolare le comunità Maya delle foreste pluviali tropicali) ottenessero la maggior parte dei prodotti vegetali da una semplice agricoltura pluviale, dipendente cioè dalle piogge stagionali. In effetti questo tipo di agricoltura venne praticata, ma non costituì certamente l'unico sistema agricolo in uso. L'agricoltura pluviale implica il disboscamento e la bruciatura della vegetazione selvatica di una parte del terreno e la messa a coltivazione, durante uno o più anni, seguita da un periodo di maggese. Nell'America tropicale, a più di 2000 m di altitudine, il mais (che ha un ciclo vegetativo breve, da 80 a 160 giorni) può essere seminato con le prime precipitazioni primaverili, crescere durante la stagione delle piogge, da aprile a ottobre, ed essere raccolto prima di eventuali gelate invernali; in questo quadro, l'agricoltura pluviale permette un solo raccolto l'anno. Nelle regioni calde e umide a bassa altitudine, come la Costa del Golfo, che è caratterizzata da precipitazioni invernali, il breve ciclo del mais permette due o tre raccolti l'anno. In tali campi, detti milpa dalle popolazioni Nahuatl del Messico, i casi di monocoltura, legati a uno specifico sistema di scambi o a obblighi di tributi, erano eccezionali. Sfruttando le associazioni più propizie, si seminavano nello stesso terreno tre piante essenziali nell'economia di sussistenza precolombiana: il mais, i fagioli e la zucca. Il mais proteggeva così la germinazione delle Leguminose e lo sviluppo degli steli rampicanti delle Cucurbitacee. La durata della messa a maggese era legata alle caratteristiche climatiche ed edafiche della regione. Come documentato da studi etnografici, tra i Totonachi della Valle di Messico un campo (milpa) di mais può essere coltivato per tre anni consecutivi, quindi ospitare per 10-12 anni arbusti di vaniglia ed essere infine messo a maggese per una dozzina di anni. Peraltro sono anche praticati brevi cicli di maggese, oppure intervengono diverse forme di fertilizzazione e di protezione dei suoli; è questo il caso degli appezzamenti di foresta pluviale artificiale. L'originalità di tale tipo di policoltura, osservata presso alcuni popoli Maya delle basseterre, è il disboscamento selettivo del terreno. Alcuni alberi, quali il ramón (Brosimum alicastrum) o il balché (Lonchocarpus sp.), la cui corteccia serve a preparare una bevanda fermentata, vengono mantenuti per il loro valore economico e per la loro capacità di frenare l'erosione dei suoli. Tra queste piante si coltivano, durante la stagione delle piogge, i tuberi, il mais, la vaniglia e il cacao. Ancora qualche decennio fa i sostenitori della teoria in base alla quale i popoli precolombiani si sarebbero di norma limitati a un'agricoltura pluviale per debbio, estensiva e a basso rendimento, erano la maggioranza, mentre i casi certi di agrosistemi più complessi costituivano eccezioni. Nel quadro di tale postulato è stata inoltre avanzata l'ipotesi secondo cui il crollo della civiltà Maya sarebbe dovuto soprattutto all'eccessivo sfruttamento e all'impoverimento dei fragili suoli tropicali, a causa della riduzione sistematica dei tempi di messa a maggese. Alla luce dei dati attuali tale argomentazione perde forza: la Mesoamerica non solo rappresenta uno dei più importanti centri di domesticazione delle piante del mondo, ma è stata anche caratterizzata da diversi tipi di agricoltura intensiva e con un alto grado di complessità tecnologica. Tali agrosistemi intensivi spesso servivano a fronteggiare due opposti fenomeni naturali dell'America tropicale: la mancanza d'acqua e la semiaridità di numerose regioni settentrionali o, al contrario, l'eccesso di acqua nelle zone calde e umide e negli ecosistemi lacustri o paludosi. In termini generali, circa la metà della Mesoamerica riceve meno di 700 mm annui di pioggia. Sotto questa isoieta l'agricoltura pluviale è rischiosa, fino a diventare, con l'abbassarsi del valore delle isoiete, non redditizia o impraticabile. Gli agrosistemi intensivi più originali del mondo mesoamericano sono senza dubbio le chinampas degli ecosistemi lacustri e i campi sopraelevati delle zone paludose. Terreni di policoltura intensiva e continua, le chinampas sono isolotti artificiali di forma rettangolare allungata e stretta, costruiti accumulando limo e vegetazione acquatica sul fondo di laghi poco profondi. Questo agrosistema, uno dei più produttivi dell'America precolombiana, ha il duplice vantaggio, con la regolare irrigazione e l'apporto vegetale, di trasformare laghi e paludi in terreni agricoli ad alto rendimento e di creare canali (habitat propizio per pesci, rettili e anfibi) e vie di navigazione attorno agli isolotti. Nel Sud della Valle di Messico, canali e chinampas coprivano in epoca azteca 120 km², di cui 9000 ha di sole chinampas. Alcune recenti ricerche archeologiche hanno dimostrato l'esistenza di chinampas ben al di là della Valle di Messico, nelle regioni occidentali della Mesoamerica. In area Maya le scoperte di campi rialzati che seguono gli stessi principi, costruiti in depressioni paludose o sulle rive di fiumi, si sono oggi moltiplicate grazie al rilevamento effettuato per mezzo di satelliti e alle prospezioni archeologiche, comprovando in tal modo la complessità e la varietà degli agrosistemi precolombiani.
America Settentrionale:
J.D. Jennings, Prehistory of North America, New York 1974; E.W. Haury, The Hohokam, Desert Farmers and Craftsmen. Excavations at Snaketown, 1964-1965, Tucson 1976; S.A. Chomko - G.W. Crawford, Plant Husbandry in Prehistoric North America. New Evidence for its Development, in AmAnt, 43, 3 (1978), pp. 405-408; B.D. Smith, Prehistoric Plant Husbandry in Eastern North America, in C.W. Wesley - P.J. Watson, The Origins of Agriculture. An International Perspective, Washington 1992, pp. 101-19.
Mesoamerica:
D.S. Byers (ed.), The Prehistory of Tehuacán Valley. I, Environment and Subsistence, Austin 1967; B.L. Turner - P.D. Harrison (edd.), Pre-Hispanic Maya Agriculture, Albuquerque 1978; Ch. Niederberger, Early Sedentary Economy in the Basin of Mexico, in Science, 203 (1979), pp. 131-42; H.H. Iltis, From Teosinte to Maize: the Catastrophic Sexual Transmutation, ibid., 222 (1983), pp. 886-94; T.R. Rabiela - W.T. Sanders (edd.), Historia de la agricultura. Época prehispánica - Siglo XVI, México D.F. 1985; K.V. Flannery, The Research Problem, in K.V. Flannery (ed.), Guila Naquitz. Archaic Foraging and Early Agriculture in Oaxaca, Mexico, New York 1986, pp. 3-18.
di Christine Niederberger
Dopo la fine del II millennio a.C. e fino alla Conquista, le civiltà mesoamericane assegnarono alle opere idrauliche un ruolo importante nello sfruttamento del territorio. Il sito di Teopantecuanitlan offre una delle più antiche testimonianze di canale di adduzione d'acqua legato all'irrigazione di terreni agricoli; una sezione di tale canale era costituita da un acquedotto megalitico, composto da grandi pietre levigate coperte da lastre calcaree. Nel Nord-Ovest della Valle di Messico, a Santa Clara Coatitlan, è stata segnalata l'esistenza di un sistema di irrigazione risalente all'800 a.C., con captazione delle acque di ruscellamento verso un canale principale e canali adduttori secondari nei campi coltivati. Nel corso del I millennio a.C. i casi noti di sistemi idraulici, connessi con pratiche agricole intensive, si moltiplicano: si può ad esempio citare quello di Xoxocotlan (Oaxaca), ai piedi della nascente città di Monte Albán, dove i canali adduttori erano collegati, a monte, a un serbatoio artificiale. Occorre sottolineare che il 50% circa del territorio della Mesoamerica, soprattutto le regioni settentrionali e occidentali, riceve meno di 700 mm di piogge annue e presenta un clima semiarido, poco propizio a un'agricoltura pluviale. Dunque, allo scopo di ridurre i rischi legati all'irregolarità delle precipitazioni, le società agricole del Classico e del Postclassico insediate in queste regioni ‒ ad esempio nei siti di Casas Grandes (Chihuahua), La Quemada e Chalchihuites (Zacatecas), Xiquila (Puebla), nelle pianure del Balsas (Guerrero) o a Tula (Hidalgo) ‒ progettarono e realizzarono vasti sistemi d'irrigazione, che implicavano la captazione di sorgenti, la costruzione di serbatoi o la deviazione di fiumi, oltre che la creazione di reti complesse di canali di distribuzione. Un'alta percentuale dei raccolti di mais, fagioli e zucche, triade della base alimentare mesoamericana, era assicurata dalla scrupolosa manutenzione di queste opere idrauliche. Il centro di Teotihuacan, nel settore nord-orientale semiarido della Valle di Messico, doveva gran parte della sua produzione alimentare all'esistenza di una complessa rete di canali, in grado di irrigare una superficie di circa 5000 ha. Teotihuacan offre anche un esempio di controllo della circolazione delle acque in ambito urbano: ciascun complesso residenziale era dotato di canali di scolo e di canalizzazioni di drenaggio collegate a collettori maggiori. Questi canali sotterranei, realizzati con malta o pietre tagliate a U rivestite di lastre, seguivano generalmente il tracciato ortogonale delle vie che delimitavano e collegavano ciascun gruppo di abitazioni. Nello stesso periodo, per irrigare i loro campi agricoli gli Hohokam dell'Arizona costruirono una vasta rete di circa 800 km di canali, approvvigionati da barriere di diversione costruite sui fiumi Gila e Salt River. In Mesoamerica, terra di contrasti climatici e biotici, la conquista di spazi agricoli non si limitava solo ad apportare acqua nelle regioni dalla scarsa piovosità, ma comprendeva anche la bonifica di ambienti paludosi. Nelle regioni lacustri del Sud della Valle di Messico, situate al di sotto dell'isoieta di 700 mm e nelle regioni paludose della Costa del Golfo o nelle foreste meridionali, dove le precipitazioni annue potevano raggiungere i 4000 mm, vennero ideati altri sistemi idraulici. Nelle regioni paludose la realizzazione di canali di drenaggio e la creazione, attraverso l'accumulo di strati di fango, di campi rialzati e di chinampas rispondevano a un duplice scopo: tali opere permettevano infatti di trasformare alcune zone, prima improduttive, in fertili appezzamenti orticoli e, contemporaneamente, di creare vie d'acqua navigabili per il trasporto di uomini e merci.
P. Armillas, Notas sobre sistemas de cultivos en Mesoamérica; cultivos de riego y de humedad en la cuenca del río de las Balsas, in AnINAH, 3 (1949), pp. 85-113; A. Palerm, Obras hidráulicas prehispánicas en el sistema del Valle de México, México D.F. 1973; W.E. Doolittle, Canal Irrigation in Prehistoric Mexico, Austin 1990.
di Marco Curatola Petrocchi
Nell'America Meridionale precolombiana esistettero fondamentalmente due grandi sistemi agricoli: uno imperniato sulla coltivazione itinerante della manioca, proprio delle foreste e delle savane tropicali a est delle Ande, l'altro, tecnologicamente più avanzato, sviluppatosi nella regione andina, basato sulla coltura intensiva, con irrigazione e terrazzamenti, di mais, fagioli, patate e quinoa. Benché le basseterre tropicali dei bacini del Rio delle Amazzoni e dell'Orinoco rappresentino un'area di estremo interesse in quanto probabile luogo di origine e di diffusione di numerosi cultigeni, fra cui la manioca (Manihot esculenta) e l'arachide (Arachis hypogaea), la documentazione archeologica al riguardo è carente e lacunosa, dato il clima caldo umido e l'elevata piovosità che determinano l'accelerata distruzione di ogni resto vegetale e anche di gran parte delle vestigia culturali. Evidenze indirette, consistenti in frammenti ceramici e litici di utensili associati alla preparazione di farina e di pani di manioca (chiamata anche, a seconda dei luoghi, yuca, tapioca o cassava), sembrano indicare che la coltivazione di tale pianta fosse praticata già nel III millennio a.C. Probabilmente allo stesso periodo risale la domesticazione della patata dolce o batata (Ipomoea batatas), coltivata in genere assieme alla manioca. Altre radici commestibili del complesso agricolo della Foresta Tropicale sono una specie di igname chiamato cara (Dioscorea sp.), l'achira (Canna edulis), una sorta di taro detto yautia (Xanthosoma sagittifolium) e un'arundinacea (Maranta arundinacea). All'arrivo degli Europei i popoli della Foresta Tropicale praticavano inoltre la coltura dell'ananas (Ananas sativus), della palma pejibaye (Guilielma gasipaes), dell'arachide, del mais (Zea mays), dei fagioli (Phaseolus vulgaris, Phaseolus lunatus e Canavalia sp.), del peperoncino o ají (Capsicum sp.), delle zucche (Lagenaria siceraria e Cucurbita sp.), dell'albero della zucca o higuera (Crescentia cujete), dell'urucú o achiote (Bixa orellana), della genipa (Genipa americana), del cotone (Gossypium barbadense), del tabacco (Nicotiana tabacum) e di vari alberi da frutto, fra cui l'anacardio (Anacardium occidentale), l'inga, detto anche shirada o pacae (Inga sp.), l'avocado (Persea americana), la papaia (Carica papaya) e una specie di zapote (Matisia cordata). Il principale strumento degli orticoltori della Foresta Tropicale fu il semplice bastone da scavo con punta indurita al fuoco. Oltre che per piantare tuberi e semi, esso veniva utilizzato per sarchiare e rovesciare il terreno, operazioni per le quali in talune regioni erano anche usate palette di legno duro. Con lo stesso materiale venivano fabbricate inoltre le cosiddette macana, sorta di mazze piatte a forma di spada, a uno o due tagli, usate sia come armi che per disboscare e smuovere la terra. A ogni modo, nei giacimenti archeologici gli unici strumenti che si ritrovano con una certa frequenza sono le asce litiche, che venivano adoperate soprattutto per tagliare gli alberi e dissodare il terreno, e la presenza di un alto numero di loro frammenti in un determinato sito può essere considerata indice di accentuata attività agricola. L'attività agricola prevedeva, nel corso della stagione secca, la preparazione del terreno secondo la primitiva tecnica del debbio, consistente nel disboscamento di piccole aree di foresta e nell'incendio del manto vegetale, le cui ceneri andavano ad arricchire i campi di sostanze organiche. Poi, all'inizio della stagione delle piogge, si effettuava la piantagione, praticando buchi nel suolo con un bastone da scavo e deponendovi i tuberi, le talee o le sementi. La terra non veniva rivoltata e la sarchiatura era ridotta al minimo. I campi, esposti a intenso soleggiamento e lisciviati da violente piogge, divenivano sterili nel giro di poche stagioni e dovevano essere abbandonati per 15-20 o più anni, il tempo necessario affinché vi ricrescesse la vegetazione spontanea e si potesse così ristabilire la fertilità agronomica del sostrato. Sebbene la maggior parte degli antichi orticoltori della Foresta Tropicale non abbia mai abbandonato questo tipo di coltivazione itinerante, praticata congiuntamente alla caccia, alla pesca e alla raccolta, nel corso del I millennio d.C., in zone rivierasche soggette a inondazioni stagionali (ecosistema denominato varzea), si svilupparono forme di agricoltura più sistematiche, con sfruttamento continuativo dei terreni agricoli. È il caso degli abitanti dell'isola di Marajó, che, in una fertile savana alla foce del Rio delle Amazzoni, tra il 400 a.C. e il 1300 d.C. circa diedero vita a una società complessa fondata sulla coltura stabile del mais e di altri cereali. Nelle Ande lo sviluppo dell'agricoltura, ossia il graduale passaggio da un'economia basata sull'appropriazione di risorse spontanee a una imperniata sulla coltivazione permanente della terra e sull'allevamento degli animali, durò vari millenni. Il lungo processo di sperimentazione e di diffusione delle principali piante coltivate ebbe luogo fra l'VIII e il III millennio a.C. con l'instaurarsi del clima temperato postglaciale. Le evidenze archeologiche, per quanto scarse, sembrerebbero indicare che tale processo prese avvio nelle valli della sierra. È infatti nel Callejón de Huaylas (Grotta del Guitarrero, 2580 m s.l.m.), nel Perù settentrionale, che sono stati rinvenuti i più antichi resti di piante coltivate: peperoncino (nel complesso IIA risalente all'8600-8000 a.C.) e fagioli (Phaseolus lunatus nel complesso IID, 6800-6200 a.C., e Phaseolus vulgaris nel complesso IIE, 5700 a.C.). Nel VI-V millennio a.C., quando l'optimum climatico raggiunse valori di temperatura e umidità superiori agli attuali, alcuni gruppi di cacciatori-raccoglitori della sierra (Callejón de Huaylas e bacino di Ayacucho) cominciarono a sperimentare la coltura di un primo importante nucleo di specie vegetali, fra cui, oltre a quelle già menzionate, zucche, quinoa (Chenopodium quinoa) e mais. Quest'ultimo, benché derivato da una specie selvatica originaria del Messico, fu forse nell'area andina frutto di una domesticazione indipendente, che potrebbe avere avuto luogo in qualche punto degli attuali dipartimenti peruviani di Huánuco e di Ancash. È stato anche ipotizzato, sulla base dell'identificazione di alcuni fitoliti, che essa sia invece avvenuta intorno al 6000 a.C. sulla costa centro-meridionale dell'Ecuador (Las Vegas), dove nel 3500-3000 a.C., a Real Alto, fece la sua comparsa anche una nuova specie coltivata di fagiolo, la Canavalia plagiosperma. Fra il V e il III millennio a.C. il mais cominciò a essere coltivato anche in vari siti del Cile settentrionale (Tiliviche, Tarapacá, San Pedro Viejo), dell'Argentina nordoccidentale (Grotta di Huachichocana), della Colombia (Hacienda El Dorado), dell'Amazzonia ecuadoriana (Lago Ayauch) e della costa centrale e centro-settentrionale del Perù (Ancón, Río Seco de León, Aspero, complesso Culebras). Qui già nel 2500-2000 a.C. si costruivano vasti complessi di silos interrati, come quelli di Los Gavilanes nella valle del Huarmey, per la conservazione del cereale, la cui coltivazione intensiva costituì uno degli elementi fondamentali per lo sviluppo delle alte civiltà precolombiane dell'area. Per la patata (Solanum tuberosum), l'altra fondamentale pianta alimentare andina consumata allo stato selvatico fin dal 10.000 a.C. (Monte Verde, Cile), sono stati proposti come possibili centri di domesticazione la sierra centrale peruviana, l'altopiano del Titicaca e l'area centro-meridionale cilena. A ogni modo, benché la sua presenza come specie domestica sia stata segnalata in fasi archeologiche (Chihua, Ayacucho) risalenti agli inizi del IV millennio a.C., finora questa è stata adeguatamente documentata solo in un giacimento costiero (Huaynuma, valle del Casma) del 2000 a.C. In numerosi siti del Tardo Preceramico della costa peruviana la coltivazione della patata appare associata a quella della patata dolce, della jíquima o jicama (Pachyrrhizus tuberosus) e dell'achira. Inoltre, a partire dal 2500 a.C. circa, o poco prima, lungo il litorale del Pacifico si andò rapidamente diffondendo la coltivazione del cotone, la cui domesticazione è stato ipotizzato possa essere avvenuta in una qualche zona tra il Sud dell'Ecuador e il Nord del Perù. Agli inizi del II millennio a.C. nelle Ande Centrali, grazie anche alla verticalità del territorio, caratterizzato dalla presenza in spazi assai ravvicinati di una grande varietà di zone climatico- ambientali, dominava ormai la produzione simultanea e combinata di un vasto complesso di piante, che si andò arricchendo nel corso del Periodo Iniziale (XVIII-X sec. a.C.) e dell'Orizzonte Antico (IX-III sec. a.C.). Già alcuni secoli prima dell'era volgare, con l'ausilio del semplice bastone da scavo, in alta montagna e sugli altipiani (ecosistema puna), oltre alla patata, si piantavano tuberi e radici, come l'oca (Oxalis tuberosa), l'olluco (Ullucus tuberosus), la mashua (Tropaeolum tuberosum), la maca (Lepidium meyenii), e si seminavano grani resistenti, quali la quinoa e la cañihua (Chenopodium pallidicaule). Nelle valli più basse dal clima temperato (ecosistema denominato quechua), invece, assieme a piante da tubero, erano coltivati mais, amaranto (Amaranthus sp.), lupino o tarhui (Lupinus sp.), zucca (Cucurbita sp.), pacae, yacón (Smallanthus sonchifolius), arracacha (Arracacia xanthorrhiza), lúcuma (Pouteria lucuma), molle (Schinus molle) e peperoncino. Sulla costa, oltre a mais, fagioli e zucche (tre piante complementari dal punto di vista dietetico), si producevano arachidi, manioca, patate dolci, peperoncino, achira, jíquima, ananas, guayaba (Psidium guajava), avocado, pacae, lúcuma, pepino (Solanum muricatum), ciruela de fraile (Bunchosia armeniaca) e cotone. Più tarda sembra essere stata la diffusione della guanábana (Annona muricata), la cui presenza è documentata solo in siti Chimú (XI-XV sec. d.C.). Infine, lungo i boscosi contrafforti orientali della cordigliera si ottenevano abbondanti raccolti di mais, manioca, coca (Erythroxylon coca) e tabacco, probabilmente originario della selva boliviana. Durante il II millennio a.C. la maggior parte dei gruppi delle Ande Centrali abbandonò forme di vita basate sulla raccolta, la pesca e la caccia e in minor misura sull'orticoltura ed entrò in una fase pienamente agricola. Inizialmente ci si dovette limitare allo sfruttamento di terreni soggetti a inondazioni stagionali o con livelli freatici poco profondi. Tuttavia, ben presto si cominciò a derivare le acque con canali di irrigazione che consentirono un progressivo ampliamento delle aree agricole. L'abbandono intorno al XVIII-XVII sec. a.C. di molti siti rivieraschi e lo spostamento a monte degli insediamenti, così come l'ubicazione di alcuni grandi centri cerimoniali di poco posteriori, quali Caballo Muerto nella valle del Moche e Sechín Alto in quella del Casma, inducono a ritenere che le prime opere idrauliche della costa siano state realizzate proprio nell'entroterra, là dove i fiumi raggiungono le pianure costiere e la pendenza del terreno risulta ottimale per il controllo del flusso e per la distribuzione delle acque. Fra i più antichi canali conosciuti vi sono quelli individuati vicino a Chavín de Huantar, risalenti alla prima metà del I millennio a.C. Allo stesso periodo, o a poco dopo, probabilmente risalgono le prime evidenze di opere di canalizzazione rinvenute nelle valli costiere del Santa, del Virú e del Moche, apparentemente connesse con siti dell'Orizzonte Antico (Cayhuamarca, Guañape) e degli inizi del Periodo Intermedio Antico (Vinzos, Puerto Moorin e Salinar). Successivamente in questa stessa regione i Moche (I - prima metà dell'VIII sec. d.C.), i Sicán (VIII-XIV sec. d.C.) e i Chimú (XI-XV sec. d.C.) realizzarono alcuni tra i più grandiosi sistemi di irrigazione dell'America precolombiana. I Chimú, così come vari altri popoli della costa peruviana (in particolare dalla valle del Chicama a quella del Nepeña a nord e da quella del Chilca a quella dell'Ica nel centro-sud) e del Cile settentrionale, sfruttarono a fini agricoli anche l'acqua sotterranea, scavando superfici più o meno ampie di terreno, in genere a ridosso del litorale, fino a raggiungere il livello umido sopra la falda freatica. Un gran numero di siffatti "campi affossati", profondi oltre 10 m, è stato individuato nei pressi di Chanchan. Chiamati localmente huachaques, erano probabilmente destinati alla produzione di totora (Scirpus sp.), giuncacea utilizzata per la fabbricazione di imbarcazioni. Il più vasto complesso di campi affossati è quello che venne realizzato nell'arida valle del Chilca, la cui intera fascia costiera venne messa a coltura mediante grandi fossi (hoyas) delimitati da terrapieni. Per quanto apparentemente assai antica, non si hanno evidenze dell'uso di tale tecnica di intervento sul terreno prima dell'800-1000 d.C. Sulla cordigliera la principale tecnica di ampliamento dei confini agricoli naturali fu la strutturazione dei terreni in terrazze, le quali consentivano inoltre la riduzione dell'erosione, l'accumulo del suolo e un'ottimale infiltrazione, ritenzione e distribuzione dell'acqua. Tale tecnica, conosciuta da varie popolazioni precolombiane dalla cordigliera di Mérida in Venezuela e dalla Sierra Nevada de Santa Marta in Colombia sino al Cile settentrionale e all'Argentina nord-occidentale, venne impiegata sistematicamente soprattutto sulle alteterre del Perù e della Bolivia. In quest'area, del resto, la pratica del terrazzamento appare assai più antica che altrove, risalendo almeno al I millennio a.C. Estesi complessi di terrazze, chiamate andenes o bancales, vennero realizzati fra gli altri dai Huarpa (III-VI sec. d.C.), dai Huari (VII-X sec. d.C.), dai Collagua e dai Churajón (XI-XV sec. d.C.), e soprattutto dagli Inca (XV - inizi del XVI sec. d.C.). Questi ultimi rimodellarono il paesaggio di interi tratti vallivi, come a Yucay, Pisac, Ollantaytambo, Chinchero e Cuyo Chico, nella regione del Cuzco, o Laraos, nell'alta valle del Cañete, trasformando scoscese pendici in gigantesche gradonature. I muri di contenimento, in pietre a secco, potevano raggiungere un'altezza di 9 m e snodarsi per centinaia di metri, seguendo l'andamento del rilievo montuoso. La parte interna delle terrazze, fra il muro e il fianco della montagna, era riempita con più strati inferiori di pietre e di pietrisco, onde favorire il drenaggio sotterraneo, e con uno superiore di terra fertile, all'occorrenza tratta anche da molto lontano. I terrazzamenti Inca più complessi ed estesi erano forniti di canali di irrigazione e di scolo e di scale di pietra, a pioli o a gradini, per passare da un ripiano all'altro. Lavorati con il caratteristico "aratro a piede" andino (chaqui-taclla) con punta di bronzo, tali andenes erano per lo più destinati alla produzione statale di mais. Alla coltivazione, forse sperimentale, di questo importante cultigeno dovette essere dedicato in particolare lo spettacolare complesso Inca di andenes di Moray, 34 km a nord-ovest del Cuzco, costituito da grandi terrazze circolari concentriche, disposte a "imbuto" all'interno di una serie ravvicinata di depressioni naturali del terreno opportunamente scavate e rimodellate. Un altro rilevante procedimento di sistemazione del terreno fu quello dei cosiddetti "campi rialzati", consistente nell'accumulo di terra sopra il livello medio della superficie, onde ottenere un adeguato drenaggio ed evitare la saturazione idrica del suolo. A tale tecnica si fece ricorso in zone soggette a inondazioni stagionali, nelle quali la coltivazione nel periodo delle piogge sarebbe stata altrimenti impossibile. Resti di antichi complessi di campi rialzati, comunemente chiamati camellones, sono stati individuati in Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia. Quelli della pianura del fiume Guayas (Guayaquil) parrebbero risalire addirittura al 2000 a.C., ossia alle ultime fasi della cultura Valdivia. Una delle maggiori concentrazioni di campi rialzati si trova sull'altopiano attorno al Lago Titicaca, a un'altezza compresa fra 3800 e 3900 m. Denominati in lingua Quechua waru-waru e in Aymara sukakollu, questi complessi erano costituiti da centinaia di basse piattaforme (alt. 50 cm, largh. 5-20 m, lungh. anche oltre 200 m), affiancate e attraversate da una rete di fossati per lo scolo e lo scorrimento delle acque, la cui ottimale irregimentazione era assicurata da ingegnosi sistemi di sbarramenti e di canali. Associazioni ceramiche e datazioni radiocarboniche indicano che i primi waru-waru vennero creati nel periodo Chiripa- Cusipata (VIII-III sec. a.C. ca.), anche se più ampi e ben pianificati complessi dovettero essere realizzati solo più tardi, in epoca Pucara (II sec. a.C. - III sec. d.C.) e Tiwanaku (IV-X sec. d.C.). Alla cultura Pucara sono attribuite anche le prime opere di terrazzamento dell'area e la sistemazione agricola di una serie di piccole conche, conosciute come cocha (o qocha) e tipiche della zona, sfruttate sia come serbatoi sia come campi affossati. Complessi di cocha sono stati individuati in differenti zone dell'altopiano del Titicaca, ma essi sono particolarmente numerosi soprattutto nell'area compresa tra i fiumi Azángaro e Pucará, nel dipartimento di Puno: con un diametro che va da 30 a oltre 200 m, ma poco profonde (2 m ca.), tali conche sono sovente connesse tra loro da piccoli canali ( yanii), in reti anche di 10-12 unità. Come concime, sulle alteterre si impiegò comunemente sterco umano e di Camelidi, mentre sulla costa teste di pesce, che venivano interrate con le sementi, ma soprattutto guano, prodotto dall'accumulo delle deiezioni e dei resti degli uccelli marini, del quale esistevano ricchi giacimenti in vari isolotti prospicienti il litorale peruviano. Dato il suo notevole potere fertilizzante, il guano rappresentò un prodotto altamente richiesto anche dagli abitanti della sierra ed è probabile che la grande prosperità di alcuni popoli costieri, come i Chincha (XI - inizi del XVI sec. d.C.), che grazie alle loro flottiglie di imbarcazioni potevano agevolmente raggiungere le isole, sia dipesa proprio dalla sua commercializzazione. Il ritrovamento di oggetti Moche nelle isole di Chincha indica del resto che tali giacimenti erano sfruttati già nei primi secoli dell'era volgare. Recenti ricerche etnostoriche hanno inoltre messo in evidenza come le popolazioni montane della regione a sud e a sud-ovest del Titicaca mantenessero stretti contatti con il litorale pacifico, proprio allo scopo di assicurarsi un costante rifornimento del prezioso concime.
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di Marco Curatola Petrocchi
Al momento dell'arrivo degli Europei erano numerose le popolazioni agricole dell'America Meridionale che utilizzavano alvei artificiali, dai più rudimentali ai più monumentali e idraulicamente perfezionati, per derivare acque da sorgenti e corsi d'acqua a fini irrigui o alimentari: fondamentalmente gli abitanti della fascia montuosa occidentale del subcontinente, dai Tairona della Sierra Nevada di Santa Marta nella Colombia settentrionale ai Calchaquí dell'Argentina nord-occidentale e agli Araucani Picunche del Cile centrale, ma anche alcuni orticoltori caribici della costa centro-orientale e Arawak della regione nord-occidentale del Venezuela (tradizione Guadalupe), che costruivano sbarramenti, bacini artificiali e canali per irrigare i loro terreni coltivati, e persino gruppi di tradizione amazzonica, quali i Tupí-Guarani di Itapiranga, nella Mata Atlantica (Santa Catarina, Brasile), che convogliavano acqua sorgiva mediante canali scavati nella roccia. Inoltre, in varie savane e pianure tropicali soggette a inondazioni stagionali (sulla costa del Suriname, nei Llanos dell'Orinoco nel Venezuela occidentale, nel basso San Jorge nella Colombia settentrionale, alla foce del Guayas in Ecuador, nei Llanos de Mojos nella Bolivia orientale) vennero realizzati estesi complessi di campi rialzati (camellones). Questi erano ottenuti accumulando terra in strisce più o meno ampie e lunghe di terreno e scavando tutt'intorno reticoli di fossati, i quali, oltre a fornire materiale di riporto ricco di sostanze organiche per l'elevazione dei coltivi e a consentire il drenaggio del sottosuolo e lo smaltimento delle acque nel periodo delle piogge, dovevano servire nella stagione secca come canali di irrigazione e, in taluni casi, anche per l'acquicoltura e la navigazione. Il più vasto complesso di camellones fu quello delle pianure alluvionali del San Jorge, con oltre 500.000 ha di estensione: esso fu realizzato dagli Zenú fra il III e l'VIII sec. d.C. e successivamente abbandonato a seguito dello spostamento a monte della popolazione. Campi rialzati sono stati individuati anche nella savana di Bogotà (Colombia), nella valle di Cayambe e in quella di Quito (Ecuador), nella valle costiera del Casma e nella regione orientale di Chachapoyas (Perù), così come a 3800-3900 m d'altezza intorno alle rive del Titicaca. Il flusso delle acque lacustri e fluviali dei vasti complessi di camellones della sponda orientale del lago, fra i fiumi Desaguadero e Catari, connessi con il grande centro di Tiwanaku (fasi III-V: IV-X sec. d.C.), era regolato da un sistema di sbarramenti, acquedotti, bacini e canali principali e secondari che assicurava un'alta produttività agricola in ogni epoca dell'anno. È del resto proprio nelle Ande Centrali (Perù-Bolivia), caratterizzate da una regione montuosa dalla piovosità marcatamente stagionale e irregolare e da una fascia costiera arida, che fu raggiunto il più alto livello di sviluppo nel campo dell'idraulica. Vennero costruiti canali sia in terra, impermeabilizzati con lo stesso sedimento, sia con alveo e sponde rivestiti di pietra e il sistema irriguo utilizzato fu del tipo a flusso continuo, con regolazione solo nei punti di immissione dell'acqua nei campi. La maggior parte delle antiche civiltà andine si fondò infatti su un'agricoltura intensiva su vasta scala, resa possibile dal razionale sfruttamento delle risorse idriche disponibili. Vi sono indizi che questo processo prese avvio nelle basse e riparate valli della sierra (dove la verticalità del territorio agevola lo scorrimento delle acque e non esistono problemi di saturazione né di salinizzazione dei suoli) verso la seconda metà del III millennio a.C. A tale periodo sembra risalgano i resti di due brevi canali rinvenuti nei pressi dei tumuli del centro cerimoniale di La Galgada, che dovettero servire vicine terrazze con coltivazioni di cotone e di varie piante alimentari. Nel corso del II millennio a.C., in concomitanza con il diffondersi della ceramica e della tessitura con liccio, la pratica irrigua si propagò verso la costa: in un primo momento nell'entroterra, là dove i fiumi raggiungono le piane costiere. In quel punto la pendenza del terreno risulta ottimale per il controllo e la distribuzione delle acque e sono sufficienti canali di limitata estensione per irrigare relativamente ampie superfici di suolo ben drenato. Lo spostamento a monte degli insediamenti di molte genti precedentemente stanziate lungo il litorale e dedite allo sfruttamento delle risorse marine, accompagnato da un notevole incremento di piante coltivate, è un chiaro indice di questa incipiente fase di costruzione di opere idrauliche. Inoltre, fra il XVIII e il XII sec. a.C. circa, all'interno delle valli costiere sorsero vasti centri cerimoniali, le cui principali funzioni dovettero essere quelle di organizzare la forza-lavoro per la costruzione e la manutenzione dei canali e di assicurare una pacifica ripartizione dell'acqua. Nei secoli seguenti gli abitanti dell'antico Perù raggiunsero un pieno dominio dell'idraulica. Lo prova, fra l'altro, la grande complessità degli impianti di Chavín de Huantar, il più significativo centro cerimoniale dell'Orizzonte Antico (IXIII sec. a.C.), ubicato a 3150 m s.l.m. alla confluenza del torrente Huachecsa col Mosna, nella sierra settentrionale. Chavín non solo risulta essere stato al centro di una vasta rete di canali irrigui, ma sotto le sue monumentali strutture cela numerosi condotti e piccoli canali, alcuni dei quali dovettero servire per lo scolo delle acque alluvionali, mentre altri pare abbiano fatto parte di un elaborato sistema di vasi comunicanti destinato a produrre, allo scorrervi dell'acqua, effetti sonori legati alle particolari funzioni oracolari del santuario. Alla stessa epoca sembra risalga anche il canale di Cumbemayo, lungo circa 9 km, il quale dal versante occidentale della cordigliera, superando la linea displuviale, portava acqua alla zona di Cajamarca: intagliato per gran parte del suo percorso nella viva roccia (per una larghezza di 30-50 cm e una profondità di 30-65), in alcuni punti del tratto iniziale presenta un preciso tracciato a zig-zag per ridurre la velocità del flusso di corrente, mentre in altri passa attraverso prominenze rocciose appositamente perforate. La rapida diffusione dell'irrigazione artificiale mediante canali si accompagnò a quella della coltura del mais, che gradualmente assurse a risorsa primaria di molte popolazioni dell'area, favorendo un progressivo incremento demografico e lo sviluppo delle prime formazioni statali. Nella costa settentrionale questo processo prese l'avvio nella piccola valle del Moche, e forse non per mera casualità. Qui infatti, la modesta quanto irregolare portata del fiume non dovette consentire la creazione di più canali derivatori di una certa importanza, come invece accadde in altre valli ove si poterono costruire varie reti irrigue indipendenti, ciascuna gestita da un gruppo corporato fondamentalmente autonomo. Nella valle del Moche, l'esistenza di un solo canale principale (Vichansao) dovette costituire uno dei fattori decisivi della sua precoce unificazione politica. Fra il III e la prima metà dell'VIII sec. d.C. i Moche, poveri di terra e d'acqua ma dotati di una superiore coesione sociopolitica, estesero la loro egemonia dalla valle del Piura a nord a quella del Huarmey a sud, arrivando a costituire uno o più stati, la cui economia si fondò sull'irrigazione su vasta scala mediante reti di canali che in taluni casi collegavano più bacini. Furono comunque i loro successori, Sicán (VIII-XIV sec. d.C.) e Chimú (XI-XV sec. d.C.), a realizzare i maggiori sistemi intervallivi, quali la rete che attraverso tre canali principali (il Raca Rumi, il Taymi e il Collique) collegava cinque bacini fluviali attorno a Lambayeque, o il grande canale conosciuto col nome di La Cumbre. Costruito intorno al XII secolo, quest'ultimo rappresenta il progetto idraulico più ambizioso di tutta l'America precolombiana: lungo circa 80 km e in alcuni tratti largo quasi 8 m, esso era destinato, confluendo nel Vichansao, a portare l'acqua del Chicama al comprensorio di Chanchan, nella valle del Moche. Onde mantenere il canale a un'altezza tale da consentire al flusso dell'acqua di superare la linea displuviale fra un bacino e l'altro, gli ingegneri Chimú lo fecero correre lungo pendici particolarmente scoscese e frastagliate, erigendo, ove non era possibile scavare la roccia, terrapieni e terrazzamenti alti anche 50 m. Nonostante ciò, per qualche errore di progettazione o per mutate condizioni ambientali, il canale venne abbandonato ancor prima di essere ultimato. All'occorrenza, per ottenere un declivio costante, vennero costruiti veri e propri viadotti, come quello di Ascope (Chicama), lungo 1,5 km e alto 15 m, e quello della Pampa de Zaña di circa 3 km. Sulla costa centro-settentrionale e centrale furono operanti altre tre reti di canali che collegavano più bacini: quella delle valli del Fortaleza, del Pativilca e del Supe, quella del Rímac e del Chillón e quella del Chincha e del Pisco. Più a sud, nella regione di Nazca, per rendere irrigue zone totalmente desertiche ma con corsi d'acqua sotterranei, vennero costruite intorno al VI-VII secolo particolari "gallerie filtranti", simili ai qanāt del Medio Oriente, capaci di captare l'acqua presente nel sottosuolo. Chiamate localmente puquios, queste consistevano, nel tratto iniziale, in fossati scavati all'aperto quasi orizzontalmente contro la pendenza del suolo (da valle a monte); poi, una volta raggiunta una profondità di 3 m circa, divenivano vere e proprie gallerie sotterranee, dette cajas, a sezione quadrangolare (mediamente larghe 60 cm e alte 120), con pareti a secco di ciottoli e copertura in lastre di pietra o tronchi di legno. Tali gallerie, lunghe anche centinaia di metri, giungevano a captare le infiltrazioni d'acqua dei corsi sotterranei per convogliarle all'esterno, in apposite cisterne (cocha) a pianta circolare, quadrangolare o rettangolare e con una capacità variabile tra 150 e 1000 m³, da cui si dipartivano i canali di irrigazione. Lungo il suo percorso ogni caja era collegata con la superficie per mezzo di una serie di grandi pozzi verticali (ojos) posti a intervalli regolari, taluni a forma di cono invertito con cammino di discesa a spirale, i quali evidentemente dovettero servire sia al momento della costruzione sia per le periodiche operazioni di manutenzione. Sulla cordigliera le opere di canalizzazione, anche quelle realizzate dalle maggiori formazioni statali, ebbero dimensioni più modeste rispetto a talune grandiose realizzazioni della costa: questo sia per la natura del territorio montano, in gran parte scosceso e quindi con limitate aree propizie all'agricoltura, sia per il clima, caratterizzato da intense precipitazioni stagionali che riducono la necessità di irrigazione artificiale. Dal punto di vista tecnologico, invece, grazie anche alla maggiore disponibilità d'acqua rispetto alla costa e alla verticalità del territorio che ne facilita il flusso e il controllo, da Chavín in poi vennero creati impianti di grande complessità e funzionalità per l'irrigazione di aree agricole, per lo più terrazzate, per il prosciugamento di terre e lo scolo di acque pluviali, per la fornitura d'acqua potabile e per usi cerimoniali. Sovente i sistemi idraulici della sierra erano alimentati da cisterne, comunemente utilizzate allora come oggi soprattutto per immagazzinare acqua nel corso della notte e assicurare un flusso regolare nell'irrigazione diurna dei campi. In molti casi si tratta di strutture di superficie, che tutt'al più sfruttavano piccoli avvallamenti del terreno, con muri perimetrali di ritenzione: nella cronaca di Felipe Guaman Poma de Ayala (1615) ne è illustrata una per l'irrigazione di campi di mais, peraltro molto simile a quella di Ch'ilaqotaqocha, nei pressi di Coporaque nella valle del Colca (Arequipa), con muri di terra rinforzati, alti fra 3 e 5 m e lunghi oltre 20, per una superficie totale di 3400 m² e con una sorta di paratoia di pietre nella parete sud. Furono probabilmente gli Inca, fra il XV e gli inizi del XVI secolo, a realizzare gli impianti idraulici più perfezionati dell'intero mondo andino. La stessa area del Cuzco, originariamente paludosa, venne bonificata e resa fertile mediante la canalizzazione, con poderose e ben rifinite opere murarie, del Huatanay e del Tullumayo e la creazione di estese reti di canali di irrigazione e di scolo, molti dei quali sotterranei. I canali di irrigazione, almeno quelli individuati nella regione del Cuzco, avevano alvei rivestiti di pietra, con larghezza compresa fra 40 e 80 cm, quando scavati direttamente nel terreno, oppure minore se ricavati su strutture murarie. In genere da ogni corso d'acqua erano derivati a una certa distanza l'uno dall'altro più canali, che finivano per correre paralleli lungo i fianchi delle montagne, così da assicurare contemporaneamente le stesse ottimali condizioni irrigue ai coltivi alti e a quelli bassi anche di uno stesso complesso di terrazzamenti. Inoltre, sempre a fini agricoli, gli Inca imbrigliarono il corso di vari fiumi, fra cui quelli dell'Urubamba e del suo affluente Cusichaca-Pampacahuana. Vi sono comunque numerose opere idrauliche che vennero create più per ragioni di prestigio che utilitarie. Il cronista Inca Garcilaso de la Vega (Comentarios reales de los Incas, 1609, parte I, capp. I e XXIV) ricorda al proposito come i signori del Cuzco non appena conquistavano nuove regioni vi costruissero grandiosi canali destinati, ancor prima che a favorire le attività agropastorali, a mostrare alle popolazioni locali tutta la loro superiore potenza tecnologica e organizzativa. In effetti furono sovente portati a termine progetti idraulici di un impegno assolutamente sproporzionato rispetto alle modeste superfici terrazzate da irrigare. "Di prestigio", se non cerimoniali, dovettero essere le dodici monumentali terrazze agricole di Tipón, una tenuta imperiale nei pressi del Cuzco, servite da un elaborato sistema di canali, vasche e fontane. Della rilevanza rivestita dalle opere di canalizzazione Inca è indice la stretta corrispondenza esistente fra il regime idraulico della valle del Cuzco e l'organizzazione spaziale e sociopolitica dei suoi abitanti. La valle venne infatti suddivisa dagli Inca in distretti (chapa), definiti in base all'area servita da ogni canale di irrigazione principale e ai luoghi sacri (sorgenti, laghetti o cime montane) associati a determinati ceque (linee immaginarie che partivano dal Tempio del Sole del Cuzco), da cui esso derivava le sue acque. Ogni sistema idraulico era gestito da un gruppo corporato di parentela, panaca (gens Inca) o ayllu (gens non Inca), che si identificava con il relativo distretto territoriale e la cui posizione gerarchica era connessa con le dimensioni e l'ubicazione dei suoi canali. Così risulta che le dieci panaca dell'aristocrazia Inca che governavano il Cuzco controllavano i canali più importanti e fra esse godevano di maggiore prestigio le cinque della parte alta (Hanan Cuzco), che avevano accesso alle migliori fonti d'acqua e possedevano le reti irrigue più estese.
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