La domesticazione delle piante e l'agricoltura: mondo bizantino
Varietà e variabilità delle situazioni climatiche e geomorfologiche furono senz'altro tra i fattori che maggiormente condizionarono lo sviluppo dell'agricoltura di età bizantina; persi definitivamente, con l'invasione islamica, i territori siriani e nordafricani, le terre coltivabili si ridussero in generale ad appezzamenti pianeggianti di estensione limitata bordati da catene montuose, il cui terreno, di qualità non mediocre, era però poco consistente. Laddove la tendenza climatica costante prevedeva inverni notevolmente rigidi e spesso secchi e un regime di precipitazioni assai variabile, le uniche zone favorevoli allo sviluppo di colture di tipo mediterraneo (cereali, ulivo, vite) erano circoscritte, in pratica, ai margini occidentali dei Balcani e dell'Anatolia. In questo quadro, in cui il rapporto tra terra lavorata e suolo incolto era certo sfavorevole, lo sfruttamento agricolo avveniva secondo criteri estensivi, limitati al raggiungimento dell'autosufficienza senza una reale ricerca di ottimizzazione delle risorse. Sulla base di un consistente bagaglio di conoscenze teoriche (da cui derivarono opere come i Geoponica attribuiti a Costantino VII e il Perì georgikòn di Michele Psello) e di una tecnologia sofisticata, se rapportata alle condizioni di lavoro (attrezzi con rilevanti percentuali di parti metalliche, aratro perfettamente congeniale alla natura del suolo), la lavorazione dei campi, votata in primo luogo alla coltura dei cereali, avveniva secondo un ritmo di rotazione biennale. Dopo la mietitura, effettuata tra giugno e luglio, il terreno veniva lasciato al pascolo brado, ricevendo in tal modo una buona dose di fertilizzante naturale, e restava incolto fino all'anno successivo. Gli unici ammendamenti praticati per le colture di campo libero, a parte la concimazione naturale, si limitavano alla pratica del debbio, tecnica impiegata tanto per ottenere nuove terre lavorabili quanto per rigenerare quelle già coltivate. Limitatamente ad alcune regioni particolari, la documentazione archeologica ha permesso di individuare forme di coltivazione più elaborate: è il caso della zona semidesertica del Negev, dove gli scavi di Nessana (VI sec.) hanno messo in luce resti di muretti di sbarramento e di canalizzazione che servivano a convogliare e a conservare le scarse acque piovane e le deboli piene nel fondo del wādī, entro il quale, grazie a questa riserva di umidità, era possibile coltivare legumi e cereali. Altrove, sistemi di irrigazione e di adduzione delle acque erano estremamente rari, se non altro rispetto a quanto veniva realizzato nella contemporanea agricoltura islamica; qualora compiute, come nel caso delle canalizzazioni fatte scavare da Atanasio per il monastero di Lavra sul monte Athos (XI sec.), queste opere venivano ricordate con stupore dalle fonti contemporanee. Un discorso a parte merita la coltivazione di orti e giardini, piccoli appezzamenti in prossimità dei centri abitati o addirittura all'interno delle città (fonti agiografiche e una novella di Giustiniano ne attestano la diffusione nella stessa Costantinopoli), provvisti di recinzioni e abbondantemente irrigati, nei quali venivano coltivati alberi da frutto, varie specie di legumi e talvolta anche cereali, che garantivano al contadino un minimo di raccolta per il consumo personale e, in qualche caso, anche un surplus economico. La vite, la coltura più diffusa a tutti i livelli e in tutti i climi (se ne è trovata traccia persino nell'arida regione di Nessana), veniva ugualmente curata entro zone orticole, sovente in un sistema misto di colture arboricole (fichi, ulivi, ciliegi), ma anche in terreni aperti e non di rado si configurava come un'attività specializzata a rilevante sbocco commerciale. Gli sforzi compiuti in età mediobizantina da grandi proprietari terrieri, come Eustazio Boilas, Gregorio Pakourianos, Michele Psello e Atanasio, per migliorare la rendita delle proprie terre, non devono far dimenticare che la tendenza generale dell'agricoltura bizantina, il cui nerbo era costituito dalla piccola proprietà, fu sempre orientata al mantenimento di uno standard minimo di produttività (la autourgia di cui parla Kekaumenos nell'XI sec.) e alla rinuncia deliberata a migliorie tecniche e produttive, i cui eventuali proventi non avrebbero potuto sostenere il peso di una maggiore pressione fiscale.
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