La domesticazione delle piante e l'agricoltura: mondo greco e mondo romano
di Elizabeth Fentress
I resti più evidenti della civiltà mediterranea antica sono ovviamente costituiti dalle città, con i loro monumenti pubblici e i loro edifici; ciò non deve però far dimenticare che la maggioranza della popolazione in età greco-romana viveva nelle campagne. Salvo rare eccezioni, le città erano strettamente connesse con le loro aree rurali periferiche; le classi elevate basavano il loro sostentamento sui prodotti delle proprie fattorie, mentre le classi subalterne si rifornivano di generi alimentari presso i mercati locali. La complessa relazione tra vita umana e agricoltura costituisce uno dei pilastri del pensiero classico, come ben esprime Socrate: "Mi sorprenderei se un uomo di spirito libero trovasse una forma di proprietà più dilettevole di quella costituita da una fattoria, o trovasse attività di maggiore attrattiva... dell'agricoltura" (Xen., Oec., V, 11). Nella Grecia classica ai non aventi cittadinanza era negato possedere terra nelle città-stato. Peraltro, figure come Cincinnato, che abbandonò l'aratro per salvare Roma, sono emblematiche del mondo romano. In un periodo più tardo Catone il Censore fondò la carriera politica sulla sua immagine di integerrimo soldato-agricoltore, immagine ulteriormente sottolineata dal suo trattato agricolo, nel quale si sostiene che il proprietario di una fattoria deve sentirsi fortemente partecipe e responsabile della produzione. Il legame morale e ideologico tra le classi superiori e la terra fu inoltre rafforzato dal disprezzo nei confronti della partecipazione ad altre attività, quali il commercio e la fornitura delle merci. Ogni profitto ricavato dalla guerra, dall'acquisizione dei beni dei nemici o dalle eredità veniva usato per acquistare o estendere possedimenti terrieri. In questo modo, ad eccezione dell'esercito e delle grandi metropoli come Roma, Cartagine e Alessandria, le quali annoveravano al loro interno una classe artigiana, la maggior parte della popolazione era in qualche misura occupata nell'agricoltura.
Dobbiamo la nostra conoscenza dell'agricoltura del mondo classico a diverse fonti. Il più antico testo di importanza rilevante è il poema Opere e giorni di Esiodo, composto alla fine dell'VIII o all'inizio del VII sec. a.C., in cui si descrivono dettagliatamente i compiti di un agricoltore greco nel corso dell'anno. Di natura sostanzialmente diversa sono gli scritti di Teofrasto, del IV sec. a.C., i quali sono piuttosto veri e propri trattati di botanica. Lo spirito didattico ed esemplificativo di Esiodo viene esaltato nei trattati agronomici romani: il De agricultura di Catone, le Res rusticae di Varrone e il Res rustica di Columella e, per il periodo tardo, l'Opus agriculturae di Palladio. Molte notizie vengono inoltre fornite dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio (libri XII-XIX) e dalle Georgiche di Virgilio (nella tradizione di Teofrasto il primo, in quella di Esiodo il secondo). Anche le espressioni artistiche sono da annoverare tra le fonti: ad esempio, il mosaico tunisino del Dominus Iulius illustra le diverse attività agricole secondo le varie stagioni, mentre dobbiamo la conoscenza della "mietitrice gallica" a quanto raffigurato su alcuni monumenti funerari della Gallia. L'archeologia fornisce a sua volta dati oggettivi sull'agricoltura antica, non solo riguardo agli strumenti agricoli, ma anche alla struttura delle fattorie e alla loro organizzazione. Recentemente, l'analisi dei resti carbonizzati di grano provenienti dagli scavi ha consentito di acquisire una notevole quantità di dati sul tipo di raccolto, sulle piante, sulla produzione e sul consumo alimentare di un determinato sito. È inoltre possibile ottenere dati significativi sull'ambiente circostante mediante la raccolta e l'analisi dei pollini presenti nei terreni acidi. Infine, lo scavo permette di studiare le fosse delle vigne e i solchi dei campi antichi; in alcuni casi, come a Pompei, la lava ha consentito di rilevare le impronte delle piante e addirittura di conoscere con precisione anche l'aspetto del paesaggio naturale e delle coltivazioni.
Molto è stato scritto negli ultimi anni sulla "triade mediterranea", rappresentata da frumento, ulivo e vite. Queste tre forme di coltivazione strettamente connesse tra loro hanno costituito, dall'età del Bronzo in poi, la base della dieta mediterranea. Il paesaggio agricolo mediterraneo, con le sue arse colline a ridosso delle strette fasce di pianura lungo la costa, rappresenta il terreno ideale per la crescita di queste tre specie vegetali. La loro coltivazione è basata sulla complementarità: i cereali crescono tra i filari di viti e le piante di ulivo. Tale forma di interrelazione riesce particolarmente efficace nel caso dell'ulivo, in quanto il terreno tra le piante può continuare a essere arato anche dopo la mietitura, proprio quando gli ulivi iniziano il processo di maturazione. Gli ulivi possono inoltre essere piantati con successo sui versanti collinari del terreno. I cicli annuali di queste piante si alternano con ritmo armonico tra loro: i cereali danno il raccolto in inverno, nella tarda primavera e in estate, le viti in agosto e in settembre, gli ulivi in ottobre e in novembre. I prodotti alimentari della triade, integrati dalla frutta e dagli ortaggi, forniscono gli elementi fondamentali di una dieta di base. Ovviamente, gli orti antichi non erano così diversificati come quelli dei nostri giorni: non esistevano le melanzane, i carciofi, il riso e gli agrumi, introdotti dagli Arabi, o le patate, il mais e i pomodori, importati dal Nuovo Mondo. Gli stessi legumi si diffusero soprattutto a partire dal Medioevo, benché lenticchie e piselli compaiano con regolarità tra i ritrovamenti archeologici: Plinio il Vecchio raccomandava infatti il consumo di legumina. Anche vegetali selvatici, come la cicoria, venivano raccolti e messi in vendita in una certa quantità, come attestato dalle fonti. Per quanto riguarda la coltivazione dei cereali, benché in Grecia l'orzo fosse comune, come del resto il frumento, quest'ultimo divenne il raccolto alimentare preponderante in età romana. Nel Mediterraneo occidentale veniva coltivato soltanto il grano tenero (Triticum aestivum); il grano duro (Triticum durum) era forse la specie prevalente in Siria e in Palestina. Anche altre specie, come la segale e l'avena, venivano coltivate in determinate zone dal terreno particolarmente acido e compatto. La coltivazione delle Graminacee più antiche, come il farro e il miglio, proseguì più per tradizione che per reali necessità economiche. La crescita del grano richiede un ciclo di coltivazione a rotazione biennale, dunque con metà dei campi posti a maggese di volta in volta. Sembra che tale rotazione si applicasse anche alla coltivazione dei legumi: Plinio il Vecchio (Nat. hist., XVIII, 91) raccomanda quattro differenti schemi di rotazione, per ognuno dei quali menziona un determinato tipo di Leguminose. La coltivazione del grano trae giovamento da arature ripetute: Columella (II, 4) raccomanda di effettuare prima della semina due passaggi col vomere pesante, seguiti da un terzo passaggio di zappa. La fertilità del terreno poteva essere sensibilmente incrementata con l'uso del letame: in Omero (Od., XVII, 297) si parla costantemente di ammassi di letame, benché sia probabile che questo servisse soprattutto per fertilizzare l'orto; un altro processo di fertilizzazione consisteva nel lasciare che il gregge pascolasse le stoppie dopo la mietitura. I raccolti variavano da regione a regione e a seconda del tipo di terreno: Varrone (Rust., I, 44, 1) cita ad esempio il fatto che in alcune zone dell'Etruria una stessa semenza possa rendere fino a quindici volte la quantità impiegata, mentre secondo Columella il raccolto medio non ne rendeva più di quattro; nell'area di Leontini, in Sicilia, Cicerone ne riporta fino a dieci (Verr., II, 3, 112). Nell'Africa settentrionale la frequenza dei raccolti era ancora più marcata e dipendeva dalle piogge: se l'annata era cattiva, il raccolto poteva anche andare interamente perduto, mentre negli anni favorevoli il raccolto poteva essere di cento volte la semenza. Questa discontinuità giustifica le carestie periodiche ricorrenti nella storia romana, particolarmente nelle province più aride. L'irrigazione rappresentava un elemento di primaria importanza durante le asciutte estati mediterranee. L'acqua veniva incanalata dalle sorgenti o estratta dai pozzi e distribuita nei campi mediante canali. Il metodo era però raramente impiegato per i campi di grano, benché Virgilio ne faccia menzione (Georg., I, 107-109). È sorprendente che durante l'Impero romano la coltivazione del grano si estendesse fin dentro il deserto. Recenti ricerche in Libia hanno dimostrato che ampie zone, ora abbandonate, erano racchiuse da mura terrazzate lungo i bordi delle colline, le quali, in fondo al wādī, raccoglievano il limo dalle acque alluvionali periodiche. Il terreno delimitato da queste terrazze veniva così fecondato e lo strato umido che si formava consentiva gli straordinari raccolti ricordati in Africa. Tali tecniche di coltivazione "a secco", benché tradizionali delle fasce sahariane, ricevettero indubbiamente un notevole impulso sotto i Romani. I cereali soffrono anche l'eccesso d'acqua; i sistemi di drenaggio rappresentano pertanto un aspetto importante dell'agricoltura antica. Gli schemi di drenaggio per vaste aree erano tipici del periodo ellenistico: si conoscono quelli della Tessaglia e dell'Eubea; nell'Egitto tolemaico tutta l'area paludosa del Fayyum fu resa coltivabile. In Italia gli Etruschi utilizzavano soprattutto cunicoli sotterranei, mentre i Romani preferivano semplici fossati o canalette. La coltivazione della vite avveniva in filari disposti sia lungo i declivi collinari, sia nel fondo delle vallate. Nelle fattorie autosufficienti, dove la produzione era destinata al consumo interno, le piante venivano "maritate" alla quercia, lungo file divise da stretti campi di grano. In quelle specializzate nella produzione di vino per mercati più vasti il grano non veniva coltivato all'interno delle vigne e la vite veniva piantata in alta concentrazione per ottenere raccolti di grande portata. La selezione del vitigno era molto accurata: le varietà italiane più antiche producevano vino di qualità superiore, ma il raccolto era scarso. Con il passare del tempo, diverse specie di vite furono importate dalle province, con conseguente aumento della produzione. I vigneti più curati prevedevano la coltivazione di diverse varietà di piante in differenti porzioni di terreno, in modo da consentire tempi di maturazione scaglionati; questo espediente prolungava il periodo della raccolta. Così come avviene oggi, venivano impiegate diverse tecniche di coltivazione della vite, dal metodo più primitivo della vitis prostrata a quello, più moderno, della pergola. La coltivazione dell'ulivo si diversificava di poco rispetto a quanto avviene oggi. Columella (V, 7, 1) ricorda come la coltivazione di questa pianta sia assai economica, benché egli trascuri di osservare quanto sia delicata nel primo stadio di sviluppo e quale cura sia necessaria alla crescita del frutto. Di norma, gli ulivi venivano piantati in terreni collinari; fu infatti nelle zone montuose della Grecia, in particolare nell'Attica, che si sviluppò la prima produzione intensiva. Nell'Italia romana sono scarse le testimonianze riguardanti una produzione intensiva di olio per il mercato, anche se è lecito supporre che molte fattorie possedessero piante di ulivo. Le zone di maggiore produzione erano nelle province della Betica in Spagna e dell'Africa Proconsolare (l'attuale Tunisia). Anfore olearie provenienti da queste aree sono attestate a Roma in larga misura. Le fonti celebrano in particolare le produzioni di Venafro, dell'Apulia e dell'Istria. Un aspetto strettamente collegato all'agricoltura era, infine, quello degli orti. Il pomarium era una caratteristica comune ad ogni proprietà agricola, qualunque fosse la sua estensione; comprendeva diversi alberi da frutto: mandorli, noccioli, noci, meli, peri, susini, cotogni e fichi. Con l'espansione verso l'Oriente vennero introdotte nel mondo romano nuove specie, come le ciliegie e le pesche. Gli alberi venivano piantati intervallati tra loro e gli innesti erano frequenti; Columella (V, 10, 6) sottolinea l'importanza di tale pratica, che consentiva all'agricoltore di migliorare la qualità delle specie originarie mediante l'immissione di varietà più robuste o pregiate.
Per gli agricoltori la cui produzione era destinata a un consumo limitato, quasi personale, la coltivazione della "triade mediterranea" non richiedeva metodi o strumenti sofisticati: un aratro, una zappa, una falce e un coltello da potatura erano sufficienti alla cura di quell'ettaro di terreno assegnato ai primi coloni. Con la crescita della popolazione, tuttavia, aumentò conseguentemente la richiesta di mercato. I grandi proprietari terrieri poterono investire somme maggiori nelle fattorie, vendendo i raccolti con considerevole guadagno, e tale processo portò a significativi progressi tecnologici. Un campo in cui le innovazioni tecniche apportarono un immediato incremento della produzione fu quello della preparazione dell'olio di oliva. D'altro canto, la necessità di fornire grandi quantità di farina alla popolazione urbana portò all'invenzione di nuove macine, più efficienti rispetto a quelle tradizionali manuali, e all'introduzione del mulino ad acqua. Quest'ultimo tipo di macchina altamente ingegnerizzata doveva comunque trovare impiego solo nelle proprietà imperiali e in quelle organizzate su vasta scala. Un esempio dell'impiego di una serie di mulini è conosciuto a Roma sul Gianicolo, dove veniva sfruttato l'acquedotto di Traiano.
Le fattorie dell'antica Grecia erano limitate nell'estensione sia dalla natura montagnosa del terreno, sia dalle stesse riforme agrarie, come quella di Pisistrato del 564 a.C. Nella schematizzazione di Solone le fattorie più grandi avevano una superficie compresa tra i 30 e i 40 ha, mentre l'estensione media era intorno ai 2,5 ha. La scarsità di terreno coltivabile fu all'origine dello sviluppo delle colonie del Mar Nero e della Sicilia, dalle quali veniva importato anche il grano. Benché il mondo romano fosse sostanzialmente omogeneo dal punto di vista del commercio, la sua produzione era invece piuttosto diversificata. Piccole fattorie di proprietà privata dello stesso agricoltore vengono raramente menzionate dalle fonti. Sebbene i grandi progetti coloniali, dal IV sec. a.C. fino al regno di Augusto, intendessero sostenere proprio i piccoli proprietari, ricompensando i veterani delle guerre con un appezzamento di terreno e con gli attrezzi necessari alla sua lavorazione, il singolo agricoltore non poteva sostenere la pressione esercitata dai grandi proprietari e le conseguenze della coscrizione obbligatoria e dei massacri delle guerre civili. La ricerca archeologica permette di valutare le variazioni in estensione delle fattorie di epoca imperiale, anche se non consente di distinguere con certezza la classe sociale dei proprietari. La scomparsa dei piccoli nuclei agricoli si avverte soprattutto in Italia; altrove, in particolare vicino alle frontiere dell'Impero, il ricambio dei veterani mantenne in vita la popolazione agricola, come confermato dai dati archeologici relativi alle zone di confine (limes). Al centro dell'Impero, nel territorio di Roma e nella gran parte dell'Italia centrale, dove l'aristocrazia aveva le sue proprietà, la produzione agricola si fondava sostanzialmente sul lavoro degli schiavi. Le migliaia di schiavi che i Romani riportarono dal saccheggio del Mediterraneo orientale a partire dalle guerre del II sec. a.C. trovarono impiego nelle mansioni più diverse, da quelle di segretario a quelle di bracciante agricolo. Questo processo è documentato dai testi di argomento agricolo e dall'epigrafia. Gli schiavi, del resto, erano sempre stati impiegati nell'agricoltura: in Grecia la maggior parte delle fattorie aveva almeno un lavorante. Gli schiavi in Grecia erano, in un certo senso, parte della famiglia e avevano poco a che fare con i gruppi organizzati descritti per Roma da Columella (III, 3). Secondo questo autore, ogni villa si giovava di una cospicua forza-lavoro, nella quale alcuni membri erano specializzati nella cura delle vigne. I lavoranti erano organizzati in piccoli gruppi addetti alla potatura delle viti e alla vendemmia; la rigida organizzazione del lavoro e l'abilità dei lavoranti stessi consentivano a ogni singola proprietà agricola di produrre vino in abbondanza per il mercato e cibo sufficiente al proprio sostentamento. Columella sostiene che il proprietario non passava più di un mese sul posto per sovrintendere ai lavori: ogni proprietario infatti possedeva più di un fondo, la cui amministrazione comportava un sensibile dispendio di tempo da sottrarre alle attività politiche cittadine. La conduzione giornaliera della proprietà veniva affidata al vilicus e a sua moglie. Nel periodo tardoimperiale la conduzione veniva intrapresa da un libero procuratore, il quale risiedeva nella villa con particolare agiatezza. I nuclei agricoli basati sul lavoro degli schiavi, comuni nell'Italia centrale, non trovarono riscontro nel resto dell'Impero, fatta eccezione per alcune zone della Sicilia e per la Mauritania, dove il re Giuba tentò di riprodurre il sistema schiavistico nella capitale Cesarea. Altrove la conduzione delle fattorie era appannaggio di fittavoli, i quali pagavano un affitto, oppure davano un terzo del raccolto al proprietario del terreno, il quale, fuori d'Italia, era a sua volta soggetto al pagamento di tasse. Benché nei primi anni dell'Impero fosse più diffuso il pagamento in denaro, già Plinio il Giovane (Epist., IX, 37) adottò nel 107 d.C. la formula della divisione del raccolto, osservando come i fittavoli tendessero a contrarre debito, particolarmente negli anni di cattivo raccolto. Il sistema di compartecipazione al raccolto, sebbene necessitasse di maggiore controllo da parte del proprietario, era senz'altro più equo, poiché ripartiva le eventuali perdite dovute ad annate cattive.
Se i primi agricoltori avevano come scopo principale la sussistenza, con l'aggiunta di un minimo esubero per garantirsi l'acquisto di strumenti e di schiavi, non vi è dubbio che sia le necessità indotte dalla crescita economica, sia l'esigenza di benefici maggiori da parte dei proprietari terrieri portarono a una più marcata specializzazione nel lavoro e a una forma di agricoltura più intensiva. Lo sviluppo urbano di Atene coincise con un incremento della produzione dell'ulivo, con una maggiore densità degli orti intorno alla città e con la costruzione di terrazze per aumentare l'estensione della terra coltivabile. Ancora più marcato fu il processo di intensificazione della produzione agricola nell'Italia romana. All'epoca di Augusto, Roma era una città di circa 1 milione di abitanti, mentre Cartagine o Alessandria ne contavano alcune centinaia di migliaia. Il fabbisogno annuale di grano della Roma augustea è stato stimato intorno alle 200.000 t, importate principalmente dall'Africa e dall'Egitto. L'esercito rappresentava l'altra grande voce di consumo: forte di 300.000 uomini sotto Augusto, raggiunse le 400.000 unità sotto Settimio Severo. Stimando a 1 kg (3 libbre romane ca.) il fabbisogno giornaliero di grano per soldato, si deduce che l'approvvigionamento di grano necessario annualmente era intorno alle 100.000 t, senza contare il foraggio per gli animali. Dove possibile, queste provviste venivano acquistate nell'area di stazionamento delle guarnigioni, altrimenti venivano fornite come parziale compenso delle tasse dovute, ma più spesso l'esercito doveva pagarle in moneta; questa situazione favorì lo sviluppo dell'agricoltura nelle aree di confine. È stato correttamente osservato che il sistema di tassazione romano favorì la produzione: la fattoria, infatti, doveva non solo produrre il necessario per il proprio sostentamento, ma era costretta a garantire un'eccedenza destinata al mercato, il cui ricavato serviva a coprire le spese per il fisco. Le cifre relative al fabbisogno di grano indicano che questo surplus nella produzione era l'obiettivo principale di larga parte dell'attività agricola dell'Impero. Poiché il grano è considerevolmente voluminoso in rapporto al suo costo e dato che i costi del trasporto via terra erano assai più elevati rispetto a quello via mare o a quello effettuato attraverso una via d'acqua, le aree dedicate alla produzione del grano erano di norma situate vicino al luogo di consumo o a breve distanza da un fiume (come il Nilo o il Rodano), mediante il quale era possibile trasportare il prodotto. Altrove si preferivano i tipi di raccolto il cui rapporto peso/valore era migliore. Si è già fatta menzione dell'incremento della produzione olearia in Africa e nella Betica; lo stesso genere di coltivazione divenne dominante in Siria, nelle montagne alle spalle di Antiochia. Successivamente alla prima grande crescita verificatasi nel versante tirrenico dell'Italia centrale e nelle isole greche, la produzione vinicola si diffuse nella Gallia meridionale, in Mauritania e sulle coste ioniche. Non bisogna però confondere una produzione particolarmente specializzata con la monocoltura: le fattorie rimasero infatti largamente autosufficienti e anche le grandi ville continuarono a produrre il necessario al consumo interno. Gli agronomi sono propensi a definire grandezze ideali delle proprietà a seconda del tipo di coltivazione: i fundi coltivati a grano dovevano essere vasti (50 ha, 200 iugeri ca.), mentre quelli destinati alla vigna dovevano avere un'area di circa la metà. In queste fattorie "ideali" la distribuzione sul terreno delle diverse coltivazioni doveva provvedere alle necessità degli schiavi e, contemporaneamente, a fornire il raccolto destinato alla vendita. Su questa base A. Carandini (1980) ha calcolato che la proprietà di Catone (Agr., I, 7) pari a 100 iugeri, destinata alla produzione di vino, doveva comprendere tra i 62 e i 76 iugeri per il grano destinato agli schiavi e per le piante da frutto; altri 3,5 iugeri dovevano servire alla produzione di legna, canne e vimini per i tralicci delle viti, lasciando così tra i 20 e i 32 iugeri alla vigna vera e propria. Questo terreno produceva vino destinato al mercato per un valore di 8130 sesterzi circa, fornendo, secondo il rapporto calcolato da Columella di 1000 sesterzi per iugero, una resa dell'8% circa; ma il guadagno effettivo doveva essere minore, considerando il costo della manodopera servile e il capitale investito nella villa. Nelle vicinanze della città i fundi suburbani potevano specializzarsi nella produzione ortofrutticola, come avveniva nell'antica Grecia. Catone stesso scrive (Agr., I, 7) che un giardino irrigato (hortus irriguus) era vantaggioso quanto una vigna. All'epoca di Varrone la produzione di queste fattorie si era raffinata al punto da comprendere uccelli selvatici allevati in voliere, soprattutto i pavoni in quanto erano i più remunerativi. Anche la floricoltura conobbe un discreto sviluppo, tanto che queste proprietà finirono per rappresentare, oltre che notevoli fonti di reddito, gradevoli residenze nei pressi delle città. In altre parti dell'Impero, come in Britannia, l'indagine archeologica ha consentito di ricostruire il modo in cui veniva utilizzata la terra intorno a una villa; il campo arabile era disposto nelle immediate vicinanze di essa, mentre il resto del terreno veniva lasciato al pascolo e alla boscaglia. Le notevoli dimensioni di tali proprietà, con i loro vasti pascoli (per i quali gli elementi archeologici sono necessariamente più scarsi), farebbero pensare che invece di fundi si tratti di saltus. Questi erano vaste proprietà agricole utilizzate principalmente per la pastorizia e per la produzione cerealicola, piuttosto che per coltivazioni intensive. Tali terreni vengono definiti dalle fonti latifundia, termine che entrò poi in uso come sinonimo della decadenza dell'agricoltura italiana; la consuetudine di impiegarvi schiavi incatenati accresce il senso spregiativo del termine. È difficile stimare la diffusione dei latifondi: grandi proprietà si trovavano in Africa e nella Sicilia centrale. È stato spesso contestato che questi vasti possedimenti costituissero un'unica proprietà, ma resta allora da chiarire quale fosse l'oggetto delle polemiche di Plinio e di Seneca, dai cui testi emerge comunque che per latifundium si intendeva un'estensione di terreno che non poteva essere frammentata in possedimenti più piccoli. Le tecniche per la coltivazione ereditate dall'età del Ferro non subirono radicali mutamenti durante l'età classica, ma molte altre furono le innovazioni. I progressi possono essere misurati in termini di introduzione di nuove specie vegetali e di miglioramento di quelle più antiche, così come vennero introdotte macchine per perfezionare le tecniche di raccolto. Fondamentale fu, sia pure per un breve periodo, l'organizzazione del lavoro nelle ville dell'Italia centrale, in cui gruppi di schiavi specializzati in diverse mansioni venivano integrati in unità altamente produttive. Questo aspetto della produzione non sopravvisse oltre il II sec. d.C., nonostante il più lento declino della schiavitù in queste zone rispetto al resto dell'Impero. Altrove prevaleva il sistema basato sull'affidamento della proprietà a un fittavolo: in questi casi era interesse del fattore curare la produttività, che infatti rimase generalmente più alta, consentendo il mantenimento di una larga fascia di popolazione non agricola fino al termine dell'età imperiale.
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di Stefania Quilici Gigli
I canali di irrigazione rispondono allo scopo di addurre e distribuire a fini agricoli l'acqua in terreni asciutti. Realizzazione, architettura e diffusione sono strettamente connesse ai fattori che determinarono l'utilizzazione della tecnica irrigatoria: ambiente naturale, colture particolari, incremento di produttività, superficie disponibile e pressione demografica. L'acqua, secondo i luoghi, vi proveniva da sorgenti, corsi d'acqua, bacini, dighe o da altri apprestamenti di raccolta, più raramente da pozzi, dato il problema a essi connesso del sollevamento dell'acqua. I canali potevano essere in legno, fittili, di pietra, oppure scavati nel terreno a cielo aperto, eventualmente con opere parziali o totali di contenimento artificiale. La portata era commisurata al clima, alle colture, alla zona servita e all'eventuale organizzazione gerarchica della rete del sistema irrigatorio in canali primari, secondari, terziari. A seconda delle disponibilità e delle opportunità, l'acqua vi correva a flusso continuo o vi era convogliata temporaneamente. In quest'ultimo caso la distribuzione avveniva presumibilmente secondo le necessità nei sistemi legati a singoli fondi; negli apprestamenti connessi a più proprietà l'acqua era invece puntualmente erogata secondo quantità o tempi fissati in attenti regolamenti, dei quali sono pervenuti esempi (Plin., Nat. hist., XVIII, 1-8; iscrizioni di Lambesi, Tivoli, ecc.). Nella penisola italiana le fonti attestano la larga diffusione di canalizzazioni per l'irrigazione, soprattutto in funzione di orti, raccolti di erba, più raramente per vigneti e oliveti. Le realizzazioni, nel rispetto di precise norme di diritto sull'uso delle acque, dovevano per lo più rispondere a iniziative private o servire poche o singole proprietà; pure gli apprestamenti maggiori noti archeologicamente o dalle fonti interessano ambiti territoriali non vasti (ad es., zone di Sulmona, Corchiano, Tivoli). Sono stati ricondotti alla pratica irrigatoria anche alcuni emissari dei laghetti vulcanici laziali: di essi quello del Lago di Albano potrebbe risalire all'inizio del IV sec. a.C. Capillare era l'uso di canali irrigatori nella Campagna Romana, incrementatosi a partire dal II sec. a.C., parallelamente allo sviluppo di orti, vivai e colture selezionate per il mercato cittadino, il cui impianto fu fortemente attivo per tutta l'epoca imperiale (ad es., gli apprestamenti di Pratolungo sulla via Tiburtina, della Magliana sulla via Portuense). Nelle pianure dell'Italia centro-settentrionale furono utilizzati per l'irrigazione di particolari coltivazioni anche canali funzionali al drenaggio; la loro realizzazione è per lo più connessa alla centuriazione, nel cui contesto i canali spesso costituiscono limiti. Nella Penisola Iberica la lettura del sistema romano non è agevole, per la continuità d'uso e per la difficoltà di distinguerlo da realizzazioni successive, data anche l'ampia utilizzazione di processi primitivi impiegati localmente: è stata tuttavia supposta la presenza di canali di irrigazione specie nelle regioni costiere, nelle aree colonizzate dai Cartaginesi e dai Greci. Eccezionale e archeologicamente ben documentata è l'opera compiuta dai Romani nell'Africa settentrionale e nelle regioni orientali, ove continuarono e perfezionarono il lavoro dei predecessori: realizzarono sistemi irrigui a carattere permanente, che permisero lo sfruttamento agricolo di territori altrimenti aridi e pressoché improduttivi. Nell'Africa settentrionale le ricerche sistematiche e l'esame delle foto aeree hanno permesso di riconoscere l'eccezionale ampiezza delle aree interessate dai sistemi di irrigazione, evidenziando in alcuni casi il rapporto con la centuriazione. L'acqua, raccolta attraverso opere di sbarramento lungo widyān, o in bacini di raccolta naturali o artificiali connessi a widyān e a sorgenti, era portata a defluire in canali opportunamente regolamentati, i quali con percorsi paralleli, a ventaglio o concentrici, ne assicuravano la distribuzione nelle terre da irrigare. I bacini potevano essere isolati o disposti in serie lungo pendii; in quest'ultimo caso assicuravano tramite i canali un sistema di irrigazione a terrazze, con il recupero e lo sfruttamento nei canali e nei bacini più a valle dell'acqua in eccedenza del bacino superiore (ad es., l'imponente impianto che fa capo all'Oued Ogrib in Algeria). I canali potevano essere scavati nel terreno, contenuti sui lati dalla terra di risulta eventualmente consolidata con pietrame e ghiaia; se il loro percorso era trasversale al pendio il contenimento rinforzava solo il lato a valle, oppure erano tagliati nella roccia. Appaiono in genere di dimensioni ridotte, ma non mancano esempi grandiosi (ad es., nella piana di Cesarea, un canale largo 27,5 m e profondo 0,46 m). L'iscrizione di Lambesi, del tempo di Alessandro Severo, documenta l'organizzazione idraulica dell'epoca: a ciascun proprietario era concessa acqua in data precisa, per un certo tempo, espresso in ora o in frazione; essa doveva essere distribuita da un canale principale che attraversava più terrazze successive. Oltre all'irrigazione per gravità (aqua descendens), un altro sistema (aqua ascendens), che funzionava alternativamente al precedente, introduceva un elemento di complessità supplementare nello schema di distribuzione. Resti di sbarramenti e canali con opere di divisione delle acque hanno documentato come simili pratiche tradizionali di base fossero note anche alle comunità berbere stabilite presso le oasi presahariane. In Egitto i Romani utilizzarono invece la rete di irrigazione già esistente, frutto di consolidate esperienze, riattivando i canali ingorgati (interventi di Augusto) e introducendo cambiamenti tecnici e amministrativi (lavori di Traiano, incentivi fiscali di Adriano): i papiri ben documentano l'organizzazione del sistema e le regole di funzionamento. In Siria il paesaggio antico di varie città (ad es., Damasco, Emesa, Aleppo) è caratterizzato in epoca romana da divisioni catastali legate a sistemi di irrigazione: questi ultimi ricalcano o si giustappongono a esperienze precedenti, con l'apertura di nuovi canali per estendere le aree coltivabili. Più in generale, lo sviluppo insediativo di tutta la regione, a partire dal I sec. a.C., presuppone la funzionalità di un capillare sistema idraulico, del quale rimangono attestazioni archeologiche (opere di sbarramento e canalizzazioni connesse) ed epigrafiche (ad es., epigrafi menzionanti i lavori condotti da Cornelio Pompa all'epoca di Traiano per l'irrigazione del territorio agricolo di Kanata). I canali mostrano larghezza non superiore a 1,5 m e profondità di 0,5 m, con dimensioni più frequenti di 0,5 × 0,2 m; appaiono contenuti da pietrame e terra, oppure sono scavati nella roccia; le ramificazioni risultano attuate mediante serre in pietrame, mentre ulteriori deviazioni minori sono realizzate attraverso brecce nei bordi dei canali.
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