Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra XI e XII secolo si assiste a un grandioso processo di trasmissione del sapere conosciuto come Translatio studii. Vengono tradotti in latino testi filosofici, in particolare di Aristotele, e scientifici dal greco e dall’arabo; centri propulsori di queste traduzioni sono la Spagna da poco riconquistata, con il suo immenso patrimonio di testi arabi accumulati dai califfi Almohadi, e la Sicilia normanna, in cui i sovrani preservano il trilinguismo (arabo-greco-latino).
Adelardo di Bath
Nessuno pensi che quando asserisco tesi ignote io lo faccia per sostenerle come mie, mentre propongo il contenuto del sapere degli Arabi. Io non voglio che, qualora quel che dirò non piaccia alle persone meno esperte, anche io debba non piacere loro: dal momento che conosco che fine fanno, presso il volgo, coloro che professano la verità. Per questo motivo difenderò la causa degli Arabi, non la mia.
[…]
Io infatti, guidato dalla ragione, ho imparato dai maestri Arabi una cosa, tu invece un’altra e, catturato dal belletto dell’autorità, la segui come un capestro. Infatti come altro deve chiamarsi l’autorità se non “capestro”? Come gli animali bruti vengono condotti ovunque si vuole con un capestro, e non capiscono dove né perché vengano condotti, ma seguono solo la corda con la quale sono tenuti, così l’autorità dei testi scritti conduce verso il pericolo non pochi di voi, che si lasciano prendere con una credulità bestiale.
[…]
Perché se la ragione non dovesse essere il giudice universale sarebbe stata data inutilmente a ogni singolo individuo: sarebbe stato sufficiente darla a chi scrive precetti, che sia uno o siano molti; gli altri si sarebbero accontentati delle loro decisioni e delle loro autorevoli affermazioni. Inoltre, coloro che sono stati chiamati “autorità” non si acquistarono la fiducia fra i loro discendenti, se non perché seguirono la ragione: chiunque la ignora o la trascura è da considerarsi a buon diritto cieco.
Adelard of Bath, Conversations with his Nephew. On the Same and Different, Questions on Natural Science, and on Birds, trad. redaz., Cambridge, Cambridge University Press, 1998
Ruggero Bacone
Negli studi e nella vita non vi sono solo queste cause generali di rovina [abuso dell’autorità, consuetudine, pregiudizio]; ce n’è una quarta, peggiore di queste tre, che è comune a ogni condizione e risulta dominare ogni persona. […] Mi riferisco al desiderio di apparire sapienti, dal quale ogni uomo è travolto.
[…]
Lo stesso accade in filosofia. Infatti Aristotele volle contestare i suoi predecessori e rinnovare molte dottrine; e benché fosse un uomo sapientissimo, fu rifiutato, e il suo parere è parso come occultato sino quasi ai nostri tempi.
[…]
In effetti sappiamo che ai nostri tempi, a Parigi, ci si è lungamente opposti alla filosofia naturale e alla metafisica di Aristotele, interpretata attraverso Avicenna e Averroè, e per un periodo di tempo abbastanza lungo, a causa di una spessa ignoranza, i loro libri e coloro che li usavano furono scomunicati. In questa situazione, poiché noi oggi approviamo gli uomini sopra menzionati, tanto i filosofi quanto i santi [dottori]; poiché inoltre sappiamo che la crescita e il progresso del sapere che essi hanno prodotto è degna di ogni favore – benché in molti altri casi la loro trattazione sia imperfetta, in parecchio superflua, e in taluno degna di correzione, in altri bisognosa di spiegazione – ci risulta evidente che coloro che, nelle diverse epoche, hanno impedito [l’accesso a] questi documenti del vero e dell’utile, che erano loro offerti dagli uomini sopra menzionati, hanno commesso un gravissimo errore e sono stati sotto questo rispetto, molto colpevoli; ma lo hanno fatto per esaltare il loro sapere e a causa della loro ignoranza.
R. Bacone, The ’Opus Maius’ of Roger Bacon, Frankfurt, Minerva, 1964
Daniele di Morley
Nelle scuole individui simili a bruti occupavano gli scanni con atteggiamento autorevole e grave, e tenevano davanti a sé due o tre sgabelli con sopra codici intrasportabili, che riproducevano a lettere dorate i commenti di Ulpiano. […] E avevano la pretesa di essere considerati sapienti solo col silenzio.
in G. Maurach, “Mittellateinisches Jahrbuch”, XIV, 1979
Ermanno di Carinzia
Traduzioni
Prefazione alla traduzione dell’Almagesto di Tolomeo
Mentre lavoravo duramente sulla medicina a Salerno, appresi che un certo Aristippo, avendo fatto parte di un’ambasceria inviata a Costantinopoli dal re di Sicilia, aveva portato a Palermo una copia di questi libri che egli aveva ricevuto in dono dall’imperatore. Incoraggiato dalla speranza di ottenere un oggetto così a lungo desiderato affrontai i latrati di Scilla, attraversai Cariddi, girai attorno alle lave incandescenti dell’Etna, sempre alla ricerca di quest’uomo da cui speravo di ottenere il raggiungimento del mio desiderio. […] Essendo infine riuscito a mettere le mani su quest’opera di Tolomeo, grazie all’intervento efficace, procurato dalla Divina Provvidenza, dell’ammiraglio Eugenio, uomo molto sapiente sia nella lingua greca che in quella araba, con solide basi anche in quella latina, ho potuto tradurre l’opera in latino.
[…] È dunque in tuo onore [Thierry di Chartres] e in onore dei tuoi pari che ho intrapreso questo lavoro. Se il risultato vi sarà gradito, la mia intenzione sarà realizzata. Che i nemici della scienza ridano e insultino pure, giudicano ciò che non conoscono proclamando l’irrazionalità dello studio degli astri. Questa follia a me piace, è un piacere potermi esprimere con Ovidio: felici le anime desiderose di conoscere innanzi tutto queste cose, e di elevarsi così alle dimore supreme. È dunque il tuo favore, te ne prego, che accolga con benevolenza quest’opera prodotta in tuo onore, tra veglie innumerevoli. Permettimi di segnalarti una precauzione indispensabile: ti supplico di trattare quest’opera con la prudenza ammirevole che hai già usato nella selezione dei candidati desiderosi di studiare la Geometria sotto la tua guida: non ammettere [allo studio dell’opera] se non coloro che ne sono degni e respingi gli indegni. Poiché far partecipare coloro che non sono degni [allo studio di queste cose] significa elevare la loro dignità al rango delle cose sublimi.
in C.H. Haskins, Studies in History of Medieval Science, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1924
Tra XI e XII secolo si assiste a un grandioso processo di trasmissione del sapere conosciuto come Translatio studii. Esso consiste principalmente in un movimento di traduzione che nel corso di un paio di secoli permette all’Occidente di colmare alcune lacune teoriche, sia nei confronti della cultura antica (di cui si conosceva ben poco e sostanzialmente attraverso fonti secondarie), sia di quelle ebraica, araba e bizantina, che avevano da tempo raccolto e assimilato l’eredità greca. Fino all’XI secolo le auctoritates indiscusse sono gli autori della sapientia christiana (Padri latini e greci, Boezio, gli enciclopedisti come Cassiodoro e Isidoro di Siviglia) che rappresentano anche il principale veicolo della cultura greca. Il modello epistemologico dominante, la tradizionale divisione del sapere in trivio e quadrivio (Cappella Marziano), viene messo in discussione con l’ingresso dei nuovi testi aristotelici (logica nova) e dei commenti arabi.
In una prima fase vengono tradotte principalmente opere scientifiche, magiche e astrologiche; nella seconda fase il lavoro di traduzione si concentra sulle opere dei commentatori e filosofi arabi come al-Farabi, Avicenna, Avicebron, al-Ghazali, mentre continua parallelamente la traduzione di trattati scientifici; la terza fase è caratterizzata dall’ingresso dei testi di Aristotele con le traduzioni di Gerardo da Cremona (Richard Lemay, Dans l’Espagne du XIII siècle. Les traductions de l’arabe au latin, in “Annales”, 18, 1963). Nel XII secolo inoltre, parallelamente al lavoro di Gerardo da Cremona, si sviluppano le traduzioni aristoteliche dal greco, a opera di Enrico Aristippo e Giacomo Veneto.
Nel XIII secolo si vedono i frutti dell’assimilazione dell’eredità araba nella cultura latina e nelle università europee si inizia a sentire l’influenza della lettura averroista di Aristotele. Sul finire del secolo Guglielmo di Moerbeke compie un importante lavoro di revisione delle traduzioni esistenti e fornisce all’Occidente latino gran parte del corpus aristotelicum direttamente dal greco. Cambiano anche i criteri dei committenti: non ci si accontenta più di traduzioni sommarie o letterali e Ruggero Bacone si lamenta continuamente della cattiva qualità del lavoro dei traduttori (Richard Lemay, “Roger Bacon’s Attitudes toward the Latin Trnslations and Translators of the Twelfth and Thirteenth Centuries”, in J. Hackett, Roger Bacon and the Sciences, 1997).
L’idea che il sapere greco sia arrivato al mondo occidentale solo in modo mediato, attraverso la trasmissione araba, è da tempo stata messa in discussione ed è emersa l’esigenza di ridare giusto valore alle traduzioni dal greco di autori come Giacomo Veneto, Burgundio Pisano o Enrico Aristippo, senza dimenticare le traduzioni anonime dei libri di logica e dei libri naturales. Il vero contributo della mediazione araba nella trasmissione del corpus aristotelicum all’Occidente, più che nella trasmissione letterale dei testi, sta nell’orientare la lettura di Aristotele nel XIII secolo, nell’ambiente dell’Università di Parigi in particolare; le traduzioni arabe veicolano infatti una specifica concezione del sistema del sapere e della divisione della filosofia che non mancherà di influenzare i maestri parigini. Caso emblematico quello dello pseudo-aristotelico Liber de causis, che viene considerato come culmine della metafisica di Aristotele proprio in ragione dell’interpretazione neoplatonica mediata dalla lettura avicenniana.
La Spagna rappresenta senz’altro uno dei più importanti centri della translatio studii: la peculiarità delle condizioni storico-sociali che caratterizzano la penisola iberica a partire dalla fine dell’XI secolo non ha eguali nel resto d’Europa.
La prima area interessata a questo fenomeno è il nord cristiano della penisola iberica, ma nonostante i primi traduttori operassero tutti in quell’area, per molti anni si è pensato che il centro geografico delle traduzioni dall’arabo fosse la città di Toledo e che l’attività di traduzione fosse coordinata dall’arcivescovo Raimondo di Sauvetat.
La natura trilingue della città, dovuta alla compresenza di musulmani, mozarabi (cristiani arabizzati), ebrei e cristiani, ha alimentato l’idea che proprio a Toledo sia iniziata la grande attività di traduzione del sapere arabo, attività che poteva apparire in modo plausibile come frutto di un progetto preciso, coordinato da una personalità di spicco. Tale concezione si è progressivamente ridimensionata grazie ai contributi di studiosi come Lorenzo Minio-Paluello, Marie Therèse D’Alverny, Richard Lemay, che hanno mostrato l’inconsistenza storica di tale ipotesi, pur non sottovalutando l’importanza di Toledo come centro culturale.
La Spagna da poco riconquistata rappresenta un ambiente unico di scambio e contatto con le culture ebraica e islamica, un milieu culturale particolarmente propizio al contatto diretto con la sapienza araba.
Un’area culturalmente vivace è anche l’Italia meridionale e, in particolare, la Sicilia, da sempre in contatto con l’impero bizantino e, al contempo, con il mondo arabo, tanto che i conquistatori normanni favoriscono il mantenimento del trilinguismo (latino-greco-arabo) nell’isola, anche nell’amministrazione. Proprio la corte di Palermo rappresenta il cuore propulsivo delle traduzioni dal greco e dall’arabo.
Sotto il sovrano Guglielmo I lavora Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania, uno dei primi traduttori dal greco di opere scientifiche e filosofiche. Traduce opere di Diogene Laerzio, il manoscritto della Syntaxis mathematica (o Almagesto) di Tolomeo, il Menone (1155) e il Fedone (1156) di Platone, il IV Libro delle Meteore di Aristotele. Sotto Guglielmo lavora anche Eugenio di Sicilia, che collabora con Aristippo alla traduzione dell’Almagesto di Tolomeo e traduce la versione dall’arabo dell’Ottica, tradizionalmente attribuita a Tolomeo.
Con Federico II l’interesse principale si sposta dal mondo greco-bizantino al mondo arabo, verso cui l’imperatore nutre grande curiosità e ammirazione. Al suo servizio lavora l’astrologo Michele Scoto, che sarebbe riduttivo definire un semplice traduttore dal momento che scrive di astronomia, alchimia, meteorologia e fisiognomica.
Egli contribuisce in modo considerevole all’ampliamento dell’Aristoteles latinus traducendo l’insieme degli scritti zoologici dello Stagirita (De Animalibus). Traduce inoltre molti commenti di Averroè: il commento medio al De Coelo di Aristotele (già tradotto da Gerardo da Cremona), il commento medio al De Generaptione et Corruptione e i commenti grandi al De Anima e alla Fisica. Rimane oggetto di discussione, invece, l’attribuzione della traduzione del commento grande di Averroè alla Metafisica e, di conseguenza, la Metaphysica Nova, la traduzione arabo-latina del testo aristotelico. Si dedica anche alla traduzione dell’opera astronomica di al-Bitruji De motibus Coelorum e dell’Abbreviatio de animalibus di Avicenna. L’ingresso in Occidente del nuovo Aristotele e del suo commentatore arabo “per eccellenza” risultano, quindi, indissolubilmente legati al contributo di Michele.
Successivamente, durante il regno di Manfredi, Bartolomeo da Messina completa l’Aristoteles Latinus traducendo dal greco dei trattati pseudo-aristotelici: Problemata, Physioniomia, De Miralibus Auscultationibus, De Principiis, De Signiis, Magna Moralia (De Bona Fortuna).
Una data simbolica in cui è possibile indicare l’inizio della trasmissione - in forma sistematica - del sapere arabo all’Occidente è il 1106, anno in cui il dotto ebreo Mosè Sefardi si converte al cristianesimo e riceve il battesimo a Huesca, prendendo il nome di Pedro Alfonso. Oltre alla traduzione di opere astronomiche dall’arabo egli è l’autore della famosa Lettera ai peripatetici di Francia, in cui invita gli studiosi dell’Europa cristiana a recarsi in Spagna per attingere la scienza degli arabi, e della Sententia de Dracone, trattato astronomico sui movimenti lunari basato sulle famose “tavole di al-Khawarizmi”. Queste ultime vengono poi tradotte da Adelardo di Bathintorno al 1126 e rappresentano un importante elemento di novità dal punto di vista scientifico.
Adelardo è senz’altro una delle personalità di spicco di questa prima ondata di traduzioni: ha viaggiato nel sud Italia e in Grecia e ha lavorato principalmente in Inghilterra. Egli porta a termine la traduzione degli Elementi di Euclide e la traduzione di un’opera astronomica di Abu Ma‘shar; compone inoltre le Quaestiones Naturales in cui indirizza la famosa lode al sapere degli arabi.
L’interesse per le opere scientifiche e, in particolare, per l’astronomia e l’astrologia arabe prevale anche in autori come Platone da Tivoli e Ugo di Santalla. Il primo, lavora a Barcellona in collaborazione con il matematico ebreo Abrham bar Hiyya (Savasorda) e traduce opere di astronomia e medicina; il secondo, attivo intorno alla metà del secolo, traduce, con il sostegno del vescovo di Tarazona, Michele, opere di astronomia, geomanzia, e due trattati astrologici di al-Kindi.
Nel contesto della Spagna riconquistata, dove i musulmani godevano di una legislazione che salvaguardava la loro parità giuridica con cristiani ed ebrei, l’opera apostolica non poteva condursi sulla “punta delle spade” – come avveniva in Terra Santa – ma necessitava di un lento lavoro di ricerca e assimilazione dei fondamenti della cultura conquistata. Proprio questa necessità di conoscenza spinge l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, a farsi promotore della traduzione di opere religiose islamiche (l’insieme di opere che andrà sotto il nome di Collectio), in primo luogo del Corano, convinto che solo una conoscenza diretta dei testi arabi poteva permettere di combattere efficacemente l’eresia musulmana. I due traduttori che Pietro convincerà a partecipare all’opera sono Ermanno di Carinzia e Roberto di Ketton.
Altri casi di collaborazione tra studiosi sono legati al nome di Domenico Gundisalvi, arcidiacono di Toledo, di frequente associato ad altri traduttori (Avendauth, Giovanni di Siviglia, Giovanni Ispano); gli studiosi si sono divisi riguardo all’identificazione dei suoi collaboratori. Con il dotto ebreo Ibn Daud o Avendauth, Gundisalvi lavora alla traduzione di parte dell’enciclopedia avicenniana, ma l’identità di questo collaboratore è oggetto di discussione.
A Giovanni di Siviglia sono attribuite le traduzioni del De differentia spiritus et animae di Qusta b. Luqa, un testo astrologico di Abu Ma‘shar e la sezione medica dello pseudo-aristotrelico Secretum Secretorum, che circola sotto il nome di De regimine sanitatis. Giovanni Ispano, invece, viene identificato come decano della cattedrale di Toledo, e succedette probabilmente a Gundisalvi nella carica di arcidiacono. È con questo traduttore che Gundisalvi avrebbe collaborato per tradurre il Fons Vitae di Avicebron, mettendo in circolazione nel mondo latino alcuni temi tipici della teologia pseudo-aristotelica.
Dalla collaborazione tra Gundisalvi e Avendauth, che sembra essere posteriore rispetto a quella con Giovanni Ispano, nasce la traduzione di parte dello Shifā’avicenniano, in particolare il Libro sull’anima (Kitab al-nafs), che introduce in Occidente uno dei primi commenti arabi ad Aristotele.
Gundisalvi rappresenta il principale tramite della trasmissione della falsàfa all’Occidente latino: oltre a una parte dello Shifa’ di Avicenna, infatti, è attribuita all’arcidiacono di Toledo la paternità della traduzione dei Maqasid al-Falasifah (I principi dei filosofi) di al-Ghazali e di alcune opere di al-Farabi. Ma Gundisalvi non è un semplice traduttore, egli infatti rielabora le conoscenze attinte dai maestri arabi ed è autore di opere originali (De divisione philosophiae, De Scientiis, De anima, De immortalitate animae, il De unitate e De processione Mundi)
Tra i nomi dei traduttori operanti in Spagna nel XII secolo spicca quello di Gerardo da Cremona, con cui si inaugura la traduzione sistematica dei testi di Aristotele. Raggiunta la Spagna alla ricerca dell’Almagesto di Tolomeo (come già avevano fatto Ermanno di Carinzia e Roberto di Ketton) si trova a Toledo contemporaneamente a Gundislavi. L’opera di traduzione di Gerardo copre moltissimi campi del sapere e rappresenta un importante passo in avanti nella trasmissione della cultura araba e della scienza greca: oltre alle opere di Aristotele (Analitici Secondi, Fisica, De Caelo, De Generaptione et Corruptione, primi tre libri dei Metereologica) traduce trattati di matematica, geometria, ottica, astronomia e astrologia, medicina (testi galenici, opere di Razi, ma soprattutto il Canone di Avicenna), opere di alchimia e alcuni testi attribuiti ad al-Kindi, scritti di Alessandro di Afrodisia e lo pseudo-aristotelico Liber de Causis (che nella versione di Gerardo compare con l’antico nome Liber Aristotelis de expositione bonitatis purae). Proprio a partire dalla considerazione della vastità della sua opera si è ipotizzato che si servisse di diversi aiutanti, uno dei quali è conosciuto con il nome di Galippo.
Un importante contributo alla trasmissione del corpus aristotelicum era già stato dato da Giacomo Veneto che nel 1125 aveva tradotto gli Analitici Posteriori dal greco e a cui, oltre a questo testo, sono attribuibili anche le versioni greco-latine degli Elenchi Sofistici, della Fisica, del De Anima, della Metafisica e di parte dei Parva Naturalia. Il lavoro di Giacomo conferma che verso la metà del XII secolo una buona parte dell’opera aristotelica era disponibile ai lettori latini via greca contribuendo a superare l’idea di una preminenza della via araba. Un altro personaggio importante nel panorama delle traduzioni dal greco è il diplomatico Burgundio Pisano che condivide con Giacomo Veneto l’esperienza dei viaggi diplomatici in Oriente attraverso cui contribuisce, portando con sé i testi, all’acculturazione filosofica dell’Occidente direttamente da fonte greca. Egli è ricordato come giurista e appassionato di medicina, traduce infatti alcuni trattati di Galeno, mentre di Aristotele l’Etica Nicomachea e il De generatione et corruptione.
La generazione successiva di traduttori, attivi principalmente nel XIII secolo, è composta da Alfredo Anglico, che traduce lo pseudo-aristotelico De Plantiis (Nicola Damasceno) e il De Mineralibus di Avicenna, Marco di Toledo, che compone la seconda versione latina del Corano, dopo quella commissionata da Pietro il Venerabile e Michele Scoto; con loro inizia anche la trasmissione del corpus averroisticum al mondo latino e si aggiungono importanti tasselli al quadro dell’Aristoteles latinus.
Gli altri due nomi legati all’Averroes Latinus sono quelli di Guglielmo di Luna e Ermanno Alemanno. Il primo opera verso la metà del XIII secolo a Napoli e traduce i commenti alle opere logiche: il commento medio all’Isagoge di Porfirio, alle Categorie e al De Interpretatione. Ermanno il Tedesco traduce invece il compendio tardo-antico dell’Etica Nicomachea (Summa Alexandrinorum), la Retorica e il commento medio di Averroè alla Poetica.
Lo studio dei metodi di traduzione non risulta funzionale solo all’analisi della personalità del traduttore ma, in molti casi, può rivelarsi uno strumento prezioso per la ricostruzione di un testo originale perduto. È ormai dimostrato che Gerardo da Cremona, ad esempio, è autore di traduzioni piuttosto letterali e aderenti al testo originale, i testi da lui tradotti sono dunque testimoni fedeli delle versioni arabe perdute; così anche per quanto riguarda le traduzioni di Michele Scoto. L’analisi del metodo può inoltre rivelare l’eventuale contatto o collaborazione tra i diversi traduttori.
Una delle questioni storiografiche più dibattute riguarda le tecniche di traduzione utilizzate dall’arabo, in particolare la mediazione vernacolare (o traduzione in due tempi), da molti studiosi considerata un “mito storiografico” al pari di quello relativo alla “scuola di Toledo”: questa tecnica di traduzione prevede l’utilizzo della lingua volgare come mediazione tra l’arabo e il latino, per cui un dotto ebreo o mozarabo legge ad alta voce traducendo dall’arabo in volgare, contemporaneamente un dotto latino trascrive le parole man mano che le ascolta. Tale metodo avrebbe permesso di superare le numerose difficoltà dell’arabo scritto. Il documento che viene invocato per dimostrare l’utilizzo di questa tecnica è il prologo alla traduzione al De Anima di Domenico Gundisalvi: “Eccovi dunque questo libro, così tradotto dall’arabo: io leggevo ogni singola parola e la traducevo in volgare e l’arcidiacono Domenico la volgeva poi in latino”. (Simone Van Riet, Avicenna Latinus. Liber de Anima seu Sextus de Naturalibus, Edition critique de la traduction latine médiévale, I, 1972).
Sebbene il testo indichi l’utilizzo della mediazione vernacolare, ciò non autorizza a considerarla l’unica tecnica di traduzione in uso nella Spagna cristiana. Va sottolineata piuttosto la coesistenza di diversi metodi di traduzione: da quella individuale (attestata, per esempio, nel caso di Ugo di Santalla), a quella in collaborazione con dotti ebrei o mozarabi (non necessariamente su modello di quella descritta da Gundisalvi), fino alla vera e propria traduzione in due tempi.
L’ipotesi della mediazione vernacolare porta a cercare di chiarire le capacità linguistiche dei traduttori. Se teniamo conto del giudizio di Bacone quasi nessun traduttore aveva una competenza linguistica degna di questo nome e spesso le traduzioni si rivelavano testimoni inaffidabili del testo tradotto; la sua insoddisfazione arrivava al punto di affermare che sarebbe stato meglio non averle mai realizzate: “Se avessi qualche forma di potere sui libri di Aristotele farei in modo che venissero tutti bruciati, poiché studiarli è solo uno spreco di tempo, causa di errore e diffusione di ignoranza al di là di ciò che si può esprimere” (Ruggero Bacone, Compendium Studii Philosophiae, Fratris Rogeri Bacon Opera quaedam hactenus inedita, 1859).
La severità dei suoi giudizi testimonia senz’altro una grossa difficoltà di comprensione dei testi da parte dei traduttori stessi. Bacone non risparmia critiche a nessun traduttore, eccezion fatta per Roberto Grossatesta, il cui lavoro di traduzione dal greco rappresenta un passo importante nella translatio studii: mira infatti, da un lato, a completare la trasmissione del corpus aristotelicum “via greca”, dall’altro appare interessato anche a testi teologici e scientifici e propone un modello di lavoro particolarmente attento all’aspetto filologico e linguistico; raccoglie quindi attorno a sé un equipe di traduttori e grecisti, oltre a numerosi testi di grammatica e le traduzioni compiute sotto la sua supervisione denotano in effetti unità di metodo e stile. Oltre ad alcune opere di Nicola Damasceno e dello Pseudo Dionigi Areopagita, Grossatesta fornisce la prima versione integrale dell’Etica Nicomachea, corredata da alcuni commenti greci; a lui sono anche attribuite le traduzioni di alcuni opuscoli pseudo-aristotelici e parte del De Coelo.
Uno dei protagonisti fondamentali della translatio studii è Guglielmo di Moerbeke che, alla fine del XIII secolo, attraverso un’attenta revisione delle traduzioni esistenti e un vastissimo lavoro di traduzione restituisce quasi l’intero corpus aristotelicum all’occidente dal greco. Traduce anche opere scientifiche di Archimede, Erone, Tolomeo, Galeno, nonché alcuni commenti tardoantichi alle opere aristoteliche. Egli sente probabilmente l’esigenza di restituire all’occidente latino il “vero Aristotele”, senza passare attraverso la mediazione araba.
A partire dalla fine del XII secolo si assiste alla progressiva diffusione delle nuove traduzioni. In Inghilterra troviamo i primi studiosi pronti ad accogliere con vero interesse le nuove conoscenze e a interpretare i testi aristotelici tradotti (Giovanni Blund, Alfredo Anglico e Roberto Grossatesta che, oltre al lavoro di traduzione, avevano intrapreso un importante opera di esegesi e commento); a Parigi si assiste al progressivo passaggio dalla proibizione (condanne del 1210 e 1215) -Luca Bianchi, Censure et libreté intellectuelle à l’Université de Paris (XIII-XIV siècle), 1999 - alla prescrizione dei libri naturali di Aristotele nei curricula degli studenti delle Arti: da quel momento si assiste a un vero e proprio trionfo del paradigma aristotelico. Platone invece, rimane sostanzialmente assente. Secondo Luca Bianchi: “Se lo sforzo dei traduttori si concentrò presto su Aristotele non fu quindi per capriccio, ma perché la sua filosofia sembrava in grado di soddisfare, più e meglio di quella di Platone, i bisogni della cultura del tempo” (L. Bianchi, “L’acculturazione filosofica dell’Occidente”, in Id., La Filosofia nelle Università, 1997). Tuttavia non furono solo i testi aristotelici a contribuire al risveglio dell’Occidente e alla sua rinascita culturale: hanno svolto un ruolo fondamentale in questo senso anche le traduzioni dei trattati di scienza araba, i commenti degli esegeti musulmani alle opere aristoteliche, la riscoperta delle fonti greche attraverso il contatto con la cultura bizantina. La circolazione di testi e uomini che si intensifica a partire dal XII secolo dona nuova linfa vitale alla cultura latina e permette la trasmissione e la diffusione di nuove conoscenze e nuovi paradigmi interpretativi.