Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Novecento, sotto l’urto delle provocazioni avanguardiste e delle sperimentazioni moderniste, va in pezzi l’idea di teatro unitaria del XIX secolo e, con essa, la grammatica della drammaturgia borghese. Tra le molte soluzioni tentate per superare la crisi della scrittura per la scena convenzionale, in Italia si impongono le proposte di Luigi Pirandello, Eduardo De Filippo e Dario Fo; sul fronte internazionale trionfano invece i due modelli del teatro epico di Brecht e del teatro della crudeltà di Artaud. Un successo tutto particolare riscuote nella seconda metà del secolo la drammaturgia dell’assurdo, con Beckett e Ionesco come capofila e Genet e Pinter come anomali, originalissimi epigoni.
Le drammaturgie del Novecento
Luigi Pirandello
Così è (se vi pare), Atto I, scena IX
SIGNORA PONZA (dopo averli guardati attraverso il velo, dirà con solennità cupa) Che altro possono volere da me, dopo questo, lorsignori? Qui c’è una sventura, come vedono, che deve restar nascosta, perché solo così può valere il rimedio che la pietà le ha prestato.
IL PREFETTO (commosso) Ma noi vogliamo rispettare la pietà, signora. Vorremmo soltanto che lei ci dicesse -
SIGNORA PONZA (con un parlare lento e spiccato) che cosa? La verità? È solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola -
TUTTI (con un sospiro di soddisfazione) ah!
SIGNORA PONZA (subito c.s.) - e la seconda moglie del signor Ponza -
TUTTI (stupiti e delusi, sommessamente) oh! E come?
SIGNORA PONZA (subito c.s.) sì; e per me nessuna! Nessuna!
IL PREFETTO Ah no, per sé, lei, signora: sarà l’una o l’altra!
SIGNORA PONZA Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede.
Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. Silenzio.
LAUDISI Ed ecco, signori, come parla la verità!
Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria.
Siete contenti?
Scoppierà a ridere.
Ah! Ah! Ah! Ah!
Tela.
Eugène Ionesco
La cantatrice calva
SIGNORA SMITH Già le nove. Abbiamo mangiato minestra, pesce, patate al lardo, insalata inglese. I ragazzi hanno bevuto acqua inglese. Abbiamo mangiato bene, questa sera. La ragione è che abitiamo nei dintorni di Londra e il nostro nome è Smith.
SIGNOR SMITH (continuando a leggere, fa schioccare la lingua)
SIGNORA SMITH Le patate sono molto buone col lardo, l’olio dell’insalata non era rancido. L’olio del droghiere dell’angolo è di qualità assai migliore dell’olio del droghiere di fronte, ed è persino migliore dell’olio del droghiere ai piedi della salita. Non voglio dire però che l’olio di costoro sia cattivo.
SIGNORA SMITH Ad ogni modo l’olio del droghiere dell’angolo resta il migliore...
SIGNOR SMITH (continuando a leggere, fa schioccare la lingua)
Eugène Ionesco, Teatro, Torino, Einaudi, 1961
Friedrich Dürrenmatt
I fisici
DOTTORESSA Andiamo, Sievers. Il consiglio d’amministrazione sta aspettando. Iniziamo questa impresa universale, diamo il via alla produzione. (esce con Sievers a destra)
I tre fisici son soli. Silenzio. Il giuoco è perduto. Essi tacciono.
NEWTON E’ finita. (si risiede sul sofà)
EINSTEIN (si risiede accanto a Newton) Il mondo è caduto nelle mani di una dottoressa pazza.
MÖBIUS Ciò che si è pensato una volta non può più venir revocato. (si siede sulla poltroncina a sinistra del sofà)
Silenzio. I tre guardano nel vuoto. Poi cominciano a parlare, con calma e naturalezza. Si presentano a un pubblico.
NEWTON Io sono Newton. Sir Isaac Newton. Nato il 4 gennaio 1643 a Woolsthorpe presso Grantham. Sono il presidente della Royal Society. Ma non c’è bisogno che vi alziate in piedi.
Friedrich Dürrenmatt , I fisici, Torino, Einaudi, 1972
Pur nella sostanziale continuità della produzione di routine, per certi aspetti e per più di un motivo, il passaggio dall’Ottocento al Novecento segna effettivamente una svolta nella pratica della scrittura teatrale occidentale. La principale ragione di questo mutamento è data dall’esplosione dell’idea tutto sommato unitaria di teatro che aveva retto alle multiformi esperienze sceniche ottocentesche: nel Novecento i drammaturghi ignorano per quale teatro scrivono e a quale "grammatica" possono o debbono fare riferimento. Il repertorio drammaturgico non può più essere pensato come un corpus disponibile per tutti, a cui attori e registi possono indifferentemente attingere per i propri spettacoli. "Uomini di scena" e "uomini di libro", per usare un celebre binomio coniato da Ferdinando Taviani, sono di volta in volta costretti a cercare nuovi e irripetibili modi di incontro. Sempre più di frequente, a complicare i rapporti di per sé già complessi tra pagina e scena, fra il drammaturgo e il regista si inserisce la figura del dramaturg, sorta di "consigliere letterario" dei teatranti.
In tanta varietà di proposte, difficile rendere conto sinteticamente della storia della drammaturgia occidentale del XX secolo, in bilico tra tarda modernità e postmodernità. Giocando sulla tradizionale "anomalia" della scena italiana, proprio la drammaturgia della penisola sarà usata come campo di indagine privilegiato per tentare una più ampia ricostruzione dell’organizzazione e degli sviluppi novecenteschi della scrittura per la scena. I punti di snodo dei percorsi ipotizzati attraverso le drammaturgie del secolo saranno costituiti dai due conflitti mondiali che hanno straziato con ferite profonde il corpo del Novecento.
Primo Novecento: l’Italia di Praga, Scarpetta, Marinetti e d’Annunzio
In apparenza, col mutar di secolo nulla sembra venire a sconvolgere il tran tran delle ribalte "commerciali" italiane. Assieme alle numerose traduzioni dei copioni d’oltralpe, coi testi di Giuseppe Giacosa e Marco Praga (1862-1929) il dramma borghese di derivazione francese continua a catturare l’attenzione degli interpreti e a conquistare il pubblico. Le platee della penisola, in cerca di evasioni dal grigiore quotidiano, tributano il successo ai drammi storici anche nelle loro varianti comiche. Non diversamente, neppure la fortuna ottocentesca del teatro dialettale conosce flessioni: a Napoli, per esempio, il comico Eduardo Scarpetta prosegue nella sua strada di contaminazione dei modi della pochade coi topoi della scena partenopea.
Con l’ingresso nel Novecento le scene italiane si aprono, però, all’avanguardia e nel nostro Paese l’avanguardia storica per eccellenza è il futurismo. Dopo le prime prove teatrali di Marinetti all’estero (Le Roi Bombance nel 1905 e Poupées électriques nel 1909) e dopo la fondazione ufficiale del movimento, nel 1910 i futuristi assaltano in Italia le sedi dello spettacolo borghese: il 12 gennaio ha luogo a Trieste la prima serata futurista. Veri happening ante litteram, le serate futuriste propongono declamazioni di "parole in libertà" e di discorsi, esecuzioni di pezzi musicali, presentazioni di quadri e letture di manifesti, tutti giustapposti entro una partitura aperta, destinata a svilupparsi liberamente in un dialogo a soggetto col pubblico. Col Manifesto dei Drammaturghi futuristi, a partire dal 1911 si susseguono i proclami teatrali del futurismo (fondamentale Il teatro di Varietà, redatto nel 1913 da Marinetti), mentre nel 1915 è pubblicata a Milano la prima raccolta di testi Il teatro futurista sintetico. Coi loro microcopioni, i loro caleidoscopici spettacoli e più ancora coi loro interventi teorici, Marinetti e compagni inaugurano uno straordinario laboratorio drammaturgico che, abolendo le barriere tra pubblico e azione e non disdegnando la riduzione del personaggio a semplice oggetto, impone un nuovo modo di pensare il teatro.
Se i futuristi risolvono il teatro in azione, d’Annunzio, con la sua drammaturgia di poesia e col suo impegno di artefice protoregista di spettacoli, nonché di architetto di teatri, riassorbe invece l’azione scenica in discorso. La città morta (1895), Sogno di un mattino di primavera (1897), Sogno di un tramonto d’autunno (1898), La Gloria e La Gioconda (1899), Francesca da Rimini (1901), La figlia di Iorio (1904), La fiaccola sotto il moggio (1905), Più che l’amore (1906), La Nave (1907), Fedra (1909), Le Martyre de Saint Sébastien (1911), La Pisanelle (1913), Le chèvrefeuille (1914), sono tappe di un percorso di approssimazione alle forme di una tragedia moderna che rinviene proprio nella parola – tra suggestioni simboliste, rivisitazioni del verismo, accensioni mistiche e superomistiche, illuminazioni estetizzanti, concessioni al trasporto primonovecentesco per l’esotico e per la ricostruzione archeologica, pur senza chiudersi nella letterarietà – il fondamento del fare teatrale.
Entro certi limiti, sia i progetti futuristi sia quelli dannunziani sono destinati a rimanere utopie. Una scena "effettiva" dell’avanguardia diventa invece in Italia il teatro grottesco. Accomunati dalla percezione vagamente filosofica della compenetrazione di tragedia e commedia, base della vita quotidiana, strutturalmente i drammi come La maschera e il volto (1916) di Luigi Chiarelli, Marionette che passione! (1918) di Pier Maria Rosso di San Secondo, L’uomo che incontrò se stesso (1918) di Luigi Antonelli e L’uccello del paradiso (1919) di Enrico Cavacchioli sono caratterizzati da una formale adesione ai modi della drammaturgia borghese e, al tempo stesso, da un violento straniamento dei meccanismi della pièce bien faite attraverso l’introduzione nel plot di un personaggio esterno all’azione, erede dei raisonneurs di Dumas figlio, destinato a essere interpretato da attori specializzati nel ruolo del Brillante. Per i drammaturghi grotteschi si può parlare d’avanguardia nella misura in cui la contestazione delle forme della drammaturgia borghese è strumento per una più ampia denuncia politica dei fallimenti della classe borghese. Alla poetica del grottesco pare aderire anche Pirandello ma, se nel Giuoco delle parti (1918) è accertabile la presenza della corrosiva denuncia "storica" grottesca, nell’arco della sua lunga parabola la drammaturgia pirandelliana finisce per approdare a esiti molto distanti. Del teatro di Pirandello converrà dunque discorrere altrove.
A completare il quadro della drammaturgia italiana del primo Novecento sono ancora da ricordare gli ultimi atti del teatro di ascendenza verista – un chiaro esempio è quello di Federigo Tozzi con Gente da poco (1905) – e l’appartato dispiegarsi della scrittura per la scena di Italo Svevo con Un marito (1895-1903) e La rigenerazione (1926-1928).
Il primo Novecento internazionale: Strindberg, Shaw, Maeterlinck, Yeats, Apollinaire, Schnitzler e Kraus
A fronte di una tenace sopravvivenza della drammaturgia commerciale, specie di marca francese, coi primi del Novecento anche le scene europee si aprono a una messa in discussione delle convenzioni del dramma di famiglia ottocentesco. Il compimento della crisi del teatro borghese classico è già evidente nelle tarde opere dei maestri della seconda metà del XIX secolo. Mentre Cechov col Giardino dei ciliegi consegna al Teatro d’Arte la sua più radicale destrutturazione della pièce bien faite a contenuto familiare, Strindberg, consumato da una profonda crisi spirituale, intrecciando la stesura dei suoi ultimi copioni (Verso Damasco, Danza di morte, Il sogno, La sonata degli spettri, La grande strada maestra) con l’avventura dell’Intima Teater fondato col regista A. Falk, approda a una nuova grammatica teatrale, debitrice dello studio del sogno e della libera sintassi della letteratura mistica.
All’ombra della triade Ibsen-Strindberg-Cechov, ai primi del Novecento muovono i loro passi alcuni nuovi drammaturghi di successo. Sulla lezione di Ibsen riflette Shaw, autore del saggio La quintessenza dell’ibsenismo (1891). Non perdendo mai la sua naturale verve comica, sul filo di un lungo percorso che arriva al cuore del Novecento (Il Maggiore Barbara, 1905; Pigmalione, 1914, e poi Casa Cuorinfranto, 1920; Santa Giovanna, 1923), Shaw si avvale della scena per presentare le proprie idee sulle storture sociali. Intanto, sul fronte sovietico, la critica impressionistica alla drammaturgia borghese di Cechov è virata in senso realistico, e con forte impegno sociologico, dall’altro protagonista delle scene del Teatro d’Arte di Mosca agli inizi del secolo, Maksim Gorkij con l’opera Bassifondi (1902).
Nell’orbita di Lugné-Poë gravitano invece due contestatori "spiritualisti" del dramma borghese come Maeterlinck e Claudel: Maurice Maeterlinck con le sue variazioni sui temi dell’estetica simbolista – Monna Vanna, 1902, e L’uccellino azzurro, 1908, messo in scena da Stanislavskij – e Paul Claudel, reazionario, estimatore di Rimbaud, San Tommaso e Jaques-Dalcroze nonché amante dell’arte orientale, con le sue drammaturgie ad arazzo che intrecciano un simbolismo eterodosso a una sofferta meditazione religiosa (L’annuncio a Maria, 1912). Frequentatore degli ambienti dell’Oeuvre, durante i suoi soggiorni parigini, è pure l’irlandese William Butler Yeats, autore di Deirdre (1907). Sempre in area francofona, ben più netta è la posizione di rottura di Guillaume Apollinaire che nel 1903 scrive Le mammelle di Tiresia (opera poi rappresentata nel 1917).
In una Vienna dominata dall’empiriocriticismo di Mach e dalla nascente psicanalisi, l’esplosione del dramma borghese produce quelle schegge di sapienza teatrale che sono i nuovi copioni dei drammaturghi della tardottocentesca Junge Österreich. Il mondo ambiguo della finis Austriae rivive nei testi della piena e tarda maturità del medico-scrittore Arthur Schnitzler, da Professor Bernhardi (1913) a Commedia della seduzione (1924). Amico e collaboratore di Richard Strauss e di Max Reinhardt, agli albori del nuovo secolo Hugo von Hofmannsthal interroga la modernità attraverso una fitta serie di riscritture di tragedie classiche (Elettra, 1904), misteri medievali (Ognuno, 1911) e drammi barocchi (La torre, 1925-1927) riflessa in una parallela serie di dirette messe in scena del moderno, filtrate da saperi esoterici (L’uomo difficile, 1920, e L’incorruttibile, 1923).
Nei Paesi di lingua tedesca l’effrazione dei precetti della grammatica scenica convenzionale spinge rapidamente i drammaturghi alle soglie dell’avanguardia. Dopo la saga di Lulu (1895-1904), Wedekind continua a scandalizzare la società guglielmina con opere dai forti toni grotteschi, come Danza macabra (1906) e Franziska (1912). In Austria, invece, all’indomani dello scoppio della guerra, Karl Kraus intraprende la stesura di quell’autentico monstrum teatrale che è Gli ultimi giorni dell’umanità (1915-1926). Con Wedekind e Kraus l’espressionismo è dunque alle porte.
È invece già piena avanguardia l’avventura dadaista: nel 1916 Hugo Ball apre a Zurigo il Cabaret Voltaire che annovera Tristan Tzara tra i propri animatori. Per il teatro Tzara compone, ad esempio, La prima avventura celeste del signor Antipirina (1916).
L’Italia tra le due guerre: Viviani, Pirandello e De Filippo
Negli anni tra le due guerre tre sono i drammaturghi italiani di maggior spicco: Luigi Pirandello, Raffaele Viviani ed Eduardo De Filippo. A fronte della crisi della grammatica drammaturgica ottocentesca, secondo i diversi contesti teatrali in cui si trova a operare, ognuno di loro interpreta la necessità di rifondare con la propria scrittura un’idea di teatro, operando a stretto contatto con la realtà della scena.
Agli albori del Novecento gli esordi teatrali di Pirandello (L’epilogo poi La morsa, 1898; Lumie di Sicilia 1911) sembrano collocare l’autore nel solco della tradizione verista, ma già nella prima produzione in dialetto siciliano (Pensaci Giacuminu!, 1910; ’A birritta cu ’i ciancianeddi, 1916) è evidente l’insofferenza di Pirandello per i modi della scrittura convenzionale e una sua inclinazione a un approccio "umoristico" al reale: con l’atto unico All’uscita (1916) il superamento del modello naturalista può ormai dirsi avvenuto. Negli anni della Grande Guerra, con copioni come Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà (1917), ma soprattutto Il giuoco delle parti (1918), la ricerca teatrale pirandelliana sembrerebbe aprirsi in direzione "grottesca". A prima vista, i raisonneurs pirandelliani si distinguono dai loro corrispettivi "grotteschi" per l’esercizio di una logica intellettuale ancor più fine a se stessa, ma come ha ben mostrato Sciascia nel suo studio dedicato a Pirandello e la Sicilia (1961), il presunto intellettualismo degli eroi pirandelliani corrisponde a un ben preciso habitus mentale del popolo siciliano: la tendenza, per citare ancora una volta Taviani, a "illudere" etimologicamente "il" proprio "problema", mettendosi, alla lettera, in gioco. Col passare del tempo l’apparente impegno politico di matrice avanguardista, che innerva le commedie grottesche di Pirandello, viene meno: radicato nella cultura della propria terra, il drammaturgo non può non ricondurre la società alla dimensione "privata" della famiglia e dei più stretti rapporti interpersonali. Nei grandi copioni dei primi anni Venti, da Enrico IV (1921) a La vita che ti diedi (1923), la critica pirandelliana alla drammaturgia borghese si allontana così sempre di più dalla denuncia sociale: negli stessi anni, con le analisi di Tilgher, contenute negli Studi sul teatro contemporaneo (1923), si impone una fuorviante lettura in termini esclusivamente filosofici dell’opera pirandelliana, intesa come luogo deputato di un’irriducibile antitesi idealista di Vita e Forma.
Proprio nel corso degli anni Venti prende corpo la trilogia del teatro nel teatro: Sei personaggi in cerca d’autore (del 1921, ma l’edizione definitiva è del 1925), Ciascuno a suo modo (1924, edizione definitiva del 1933) e Questa sera si recita a soggetto (1930). In sintonia con le caratteristiche più tipiche dell’anomala civiltà teatrale italiana, refrattaria ad aprirsi alla regia, colpisce in queste opere la capacità del drammaturgo di affrontare in termini testuali i temi più spinosi dibattuti dai grandi innovatori del teatro europeo del primo Novecento. Non si dimentichi che la drammaturgia pirandelliana, restia al puro gioco letterario, è sempre frutto di uno straordinario artigianato teatrale. Esemplare, in tal senso, la capacità di Pirandello di trasformare, nel gioco delle successive riedizioni dei suoi testi, la propria scrittura per la scena in una sorta di drammaturgia consuntiva (per utilizzare una felice categoria euristica dello storico Siro Ferrone): in più di una circostanza, dopo le messe in scena dei suoi drammi, Pirandello recepisce infatti a stampa i suggerimenti fornitigli dagli interpreti delle sue commedie attraverso il loro lavoro di restituzione scenica dei suoi personaggi e dei suoi dialoghi.
A cavallo tra anni Venti e anni Trenta la drammaturgia pirandelliana approda al ciclo dei "miti" (La nuova colonia, Lazzaro, La favola del figlio cambiato), corpus di apologhi teatrali in cui l’autore, prendendo le distanze dal fascismo cui pure aveva in prima battuta aderito, affida le sue profezie sul destino della civiltà contemporanea. Dopo aver ricevuto il premio Nobel nel 1934, nel 1936 Pirandello si spegne lasciando incompiuto il mito de I giganti della montagna, apocalittica visione di un’imminente fine dell’arte nella civiltà industriale.
Il secondo drammaturgo ricordato è l’autore-attore Raffaele Viviani. Dopo i successi raccolti presso i teatri minori partenopei negli anni precedenti la prima guerra mondiale, con "numeri" in cui, passando dalla recitazione al canto, proponeva imitazioni di alcuni "tipi" del mondo napoletano, coniugando realismo e sentimentalismo, nel 1917, a causa della chiusura dei Varietà all’indomani della battaglia di Caporetto, Viviani tenta il salto alla scena ufficiale di prosa. Componendo più "numeri" in una compagine narrativa "corale" Viviani stende l’atto unico ’O vico, che presenta nel 1917 al Teatro Umberto di Napoli, ed è subito un trionfo. Spingendo la tecnica compositiva dell’assemblaggio dei "numeri" sino alla creazione di strutture drammaturgiche in due o tre atti, dopo questo primo successo Viviani si orienta verso lavori caratterizzati da una sempre più vivace coralità e da un realismo aspro e scavato, nei quali, secondo uno stile inconfondibile, alterna prosa e versi, recitazione e canto (’E piscature, 1924; Zingari, 1926). L’arte di Viviani culmina e si riassume nell’affresco della Napoli del secondo dopoguerra consegnato a I dieci comandamenti (1944-1947).
Sempre napoletano, e sempre autore-attore, è poi Eduardo De Filippo. Del 1920 è il suo primo, acerbo atto unico (Farmacia di turno), ma a distanza di soli dieci anni De Filippo è già autore di uno dei suoi copioni più celebrati: Natale in casa Cupiello (1931). Figlio d’arte – il padre naturale è il celebre Scarpetta –, nei primi anni Trenta conosce Pirandello: nel 1933 il maestro di Agrigento lo autorizza a tradurre in napoletano e a rappresentare Liolà e Il piacere dell’onestà (solo il primo lavoro verrà effettivamente messo in scena). Nel febbraio del 1936 interpreta per la prima volta il personaggio di Ciampa nel Berretto a sonagli: questo ruolo diventerà uno dei suoi cavalli di battaglia fin quasi alla morte. Sempre del 1936 è la commedia L’abito nuovo, dialoghi di Eduardo su scenario di Pirandello. Già in questa prima stagione, che vede Eduardo impegnato a recitare i propri testi a fianco del fratello Peppino e della sorella Titina, è chiaro che la drammaturgia pirandelliana, i cui echi sono evidenti in commedie come Uno coi capelli bianchi (1935), Non ti pago (1940) e Io, l’erede (1942), offre all’autore napoletano gli spunti per superare la tradizione di Scarpetta, senza tradire la matrice comica e partenopea della sua scrittura. Sarà però nel secondo dopoguerra che il teatro di Eduardo raggiungerà i suoi risultati più alti.
A completare i repertori dei teatri italiani nelle stagioni a cavallo tra le due guerre vanno poi ricordati: le ultime prove drammaturgiche di Marinetti, le "tragedie in due battute" di Achille Campanile, le parabole dei drammaturghi "sperimentali" più o meno vicini a Pirandello come Massimo Bontempelli o Alberto Savinio, le inchieste etiche intorno ai mali dell’uomo contemporaneo del drammaturgo-magistrato Ugo Betti, i primi copioni del cattolico Diego Fabbri – che arriverà però alla sua piena maturità artistica solo nel secondo dopoguerra – e ancora, in zona decisamente più commerciale, i successi di cassetta di Aldo De Benedetti o del "giallista" Guglielmo Giannini. Una menzione a parte meritano poi le partiture drammaturgiche di un altro celeberrimo attore-autore attivo in questi anni: Ettore Petrolini.
Il panorama internazionale tra le due guerre
In sostanziale continuità con la programmazione prebellica, all’indomani della conclusione del primo conflitto mondiale le scene europee continuano ad aprirsi agli assalti delle avanguardie.
Durante gli anni Venti in Francia la rivoluzione surrealista si estende anche al teatro: André Breton collabora con Philippe Soupault, Robert Desnos e Benjamin Péret alla realizzazione di brevi copioni composti secondo i criteri della "scrittura automatica". All’area surrealista sono spesso ricondotti anche due autori "eterodossi", a dire il vero in rapporti fortemente conflittuali col movimento, come Roger Vitrac – I misteri dell’amore, 1923 e Victor o i bambini al potere, 1928 – e Antonin Artaud; di quest’ultimo "uomo di teatro", solo impropriamente etichettabile come drammaturgo surrealista, si parlerà più avanti.
Tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti in Germania l’avanguardia va in scena con i drammi espressionisti. Già attivi durante il primo conflitto mondiale, nel dopoguerra i drammaturghi espressionisti, con le loro allegorie, raccontano per mezzo di un linguaggio scarnificato e simbolico lo sprofondare della Repubblica di Weimar verso il nazismo. Le partiture sceniche di Carl Hauptmann – Guerra, 1914 –, Reinhard Goehring – Battaglia navale, 1916 –, Fritz von Unruh – Una stirpe, 1917 – e Georg Kaiser – I cittadini di Calais, 1917 –, composte durante l’infuriare del primo conflitto mondiale, trovano dunque la loro prosecuzione nei nuovi drammi di Kaiser –L’incendio del teatro dell’Opera, 1919 –, nei copioni del primo Brecht – Baal, 1918; Tamburi nella notte, 1919; Nella giungla della città, 1921-1924 – e nelle opere di Ernst Toller – Hinkemann, 1923, Opplà, noi viviamo!, 1927. Echi delle forme sceniche espressioniste si avvertono nei drammi di Elias Canetti – La commedia della vanità, 1934.
In Russia l’avventura futurista prosegue anche oltre lo scoppio della rivoluzione d’ottobre. Dopo Mistero buffo (1918) Majakovskij compone le commedie La cimice (1928), profezia di un futuro grigio e asettico, e Il bagno (1929), ritratto di una società caduta preda di burocrati e filistei. Il rapporto dell’avanguardia col partito comunista non è però semplice: nel 1930, mentre si infittiscono gli attacchi dei critici alle sue opere accusate di essere estranee alle istanze politiche proletarie, Majakovskij, già cantore dell’esperienza rivoluzionaria, si uccide.
Il repertorio delle "novità" teatrali europee del periodo compreso tra le due guerre non si esaurisce però con le proposte dell’avanguardia, ma si articola anche in un importante canone di drammaturgia sperimentale "modernista", tesa a un aggiornamento del linguaggio teatrale alle mutate condizioni di vita del XX secolo e alla mutata realtà delle scene primonovecentesche.
In Francia, all’approfondimento della ricerca spirituale di Claudel – La scarpina di raso, 1929 – fanno eco le riscritture di miti classici di Cocteau – La macchina infernale, 1934 –, Giraudoux – La guerra di Troia non si farà, 1935 – e Anouilh – Antigone, 1944. Vicino all’immaginario grottesco medioevale è invece il mondo del drammaturgo belga di lingua francese Michel de Ghelderode – Magia rossa, 1931. In Spagna, così come il teatro di Garcìa Lorca si muove tra rivisitazioni della tragedia secondo il più genuino spirito iberico (La casa di Bernarda Alba, 1936) e ardite concessioni all’avanguardia (Il pubblico, 1929-1930), la produzione drammaturgica di Ramón Maria del Valle-Inclán oscilla tra simbolismo e distorsioni grottesche prossime all’espressionismo (Divine parole, 1920; Le corna di Don Friolera 1921). In Gran Bretagna, Eliot dissolve la tradizione drammaturgica naturalista rifacendosi ai modelli della sacra rappresentazione medievale (Assassinio nella cattedrale, 1935) o della tragedia classica (Riunione di famiglia, 1939). Lo sperimentalismo modernista trionfa invece in Germania nei testi di Bruckner, vicini all’espressionismo (Gioventù malata, 1926). I tentativi di aggiornamento della drammaturgia tradizionale si moltiplicano anche oltreoceano: sulle scene statunitensi degli anni Venti e Trenta si impongono i drammi di O’Neill – Strano interludio, 1928 – e Thornton Wilder – Piccola città, 1938.
Naturalmente anche nel periodo compreso tra le due guerre non viene meno la fortuna della drammaturgia più commerciale à la manière de Sacha Guitry o JacquesDeval.
Di fronte alla generalizzata presa di coscienza della crisi del linguaggio teatrale convenzionale, i due più ambiziosi progetti di palingenesi della civiltà dello spettacolo (e quindi anche della drammaturgia) formulati negli anni tra le due guerre sono però quelli di Artaud e di Brecht, entrambi autori e teatranti nati in seno all’avanguardia. Tratto comune delle "rivoluzioni" sognate da Brecht e Artaud è che esse investono la totalità dell’esperienza scenica, precipitando in due opposte – ma al tempo stesso complementari – idee di teatro.
La nota polemica che l’Artaud teorico scatena contro l’idolatria del testo, caratteristica del teatro tradizionale, non è rivolta contro la parola tout court, ma è una critica indirizzata all’inaridimento del linguaggio usato sulle scene convenzionali, ridotto a codice di mera comunicazione logico-razionale e a psicologia spicciola. Come si può facilmente intuire, posto che la scena artaudiana è, in essenza, "crudeltà", la forma drammaturgica per eccellenza non può essere, per Artaud, che la tragedia, specie nella sua variante senecana. Attore, regista e drammaturgo, Artaud non si limita a teorizzare un’idea di teatro, ma si impegna in un concreto tentativo di realizzazione dei propri progetti. Nel 1935 debutta a Parigi I Cenci, tragedia che lo stesso Artaud trae dalla cupa saga della famiglia Cenci; oltre al testo, Artaud firma anche la regia dello spettacolo. L’accoglienza è fredda: il primo a essere insoddisfatto dell’operazione è lo stesso drammaturgo. L’esito "incerto" dell’opera rivela una caratteristica della poetica artaudiana: nella sua ricerca di un rigore assoluto il teatro della crudeltà vale come utopia, come luogo di un’origine cui tendere ma, nei fatti, difficilmente raggiungibile.
Mentre Artaud oppone alla crisi del teatro e della civiltà contemporanei un ritorno alle origini, Bertolt Brecht reagisce alla decadenza della scena novecentesca con un progetto di rifondazione politico-razionalistica della drammaturgia di matrice quasi "illuministica". Preso atto dell’esaurimento del valore normativo dei modelli drammaturgici classici, Brecht si orienta verso una forma teatrale epico-narrativa. In sostanza, l’idea di teatro di Brecht è fondata sul principio per cui in scena non si deve offrire la rappresentazione drammatica di un conflitto – secondo la visione aristotelica del teatro come luogo imitazione di un’azione –, quanto la sua "narrazione" problematica. Poiché nel suo teatro gli spettatori non devono identificarsi con un’azione mimeticamente agita ma devono giudicare un’azione esposta e quasi "narrata", la scrittura teatrale e le tecniche di messa in scena devono, secondo Brecht, basarsi su artifici di straniamento (il famoso V-Effekt concepiti per mantenere intatte le divergenze dei punti di vista di interpreti, pubblico e protagonisti del racconto, impedendo appunto l’immedesimazione dello spettatore con l’attore e, prima, dell’attore col personaggio (composizione per scene staccate attraverso il montaggio, negazione della tensione verso l’esito, ricorso a proiezioni, a cartelli o a commenti musicali stridenti, recitazione "citata" o ad andamento narrativo…). Come Artaud, Brecht non si limita alla riflessione ma cala la sua poetica "epica" nel concreto farsi della sua esperienza di drammaturgo e regista. Alla produzione di un vasto corpus di scritti teorici, egli affianca la stesura di un altrettanto vasto repertorio di testi – tra cui spiccano drammi-culto del teatro novecentesco come L’opera da tre soldi (1928), Santa Giovanna dei Macelli (1929-1930), Madre Coraggio e i suoi figli (1939) o Vita di Galilei, di cui si conoscono tre redazioni (1938-1939, 1945-1946 e 1953-1955), L’anima buona di Sezuan (1938-1940), Il cerchio di gesso del Caucaso (1944) – oltre a un’indefessa attività di organizzatore teatrale, dramaturg e regista.
L’autunno del Novecento: l’Italia
Il secondo dopoguerra segna una vivace ripresa della vita teatrale italiana, foriera, pur nella continuità di talune esperienze, di importanti cambiamenti.
Rottosi il sodalizio con il fratello Peppino, nel 1945 Eduardo De Filippo presenta la sua nuova commedia Napoli milionaria!, accolta con entusiasmo dal pubblico napoletano. Nella partizione data a posteriori da Eduardo alla propria produzione drammaturgica tra Cantata dei giorni pari (testi di pura comicità) e Cantata dei giorni dispari (copioni amari), Napoli milionaria!, con la sua caratteristica fusione di tratti grotteschi e suggestioni quasi neorealiste, inaugura questa seconda serie di testi del grande attore-autore, proseguita con drammi famosi come Filumena Marturano (1946), Le voci di dentro (1948), Sabato, domenica e lunedì (1959), Il sindaco del Rione Sanità (1960) e Gli esami non finiscono mai (1974). A dispetto dell’orizzonte dialettale in cui nacque e del rapporto di stretta interdipendenza che seppe creare tra la sua scrittura per la scena e il suo peculiare modo di recitare le proprie opere, Eduardo è oggi uno degli autori italiani più tradotti e rappresentati all’estero.
Un uguale e forse anche maggiore successo di pubblico e addetti ai lavori, a livello nazionale e internazionale, raccoglie nel secondo Novecento l’attore-autore Dario Fo. Miscela esplosiva di straordinarie capacità d’interprete, engagement di marca marxiano-brechtiana, gusto attoriale per il pastiche linguistico (fino all’onomatopeico grammelot) e studio dell’arte giullaresca, la produzione di Fo si snoda lungo due filoni intrecciati l’uno all’altro: quello della "denuncia" politica e quello della reinvenzione delle tradizioni popolari italiane. Avviato con le riviste intellettuali "Il dito nell’occhio" (1952) e "Sani da legare"(1953), il filone di "denuncia" della scrittura per la scena di Fo prosegue nelle grandi commedie antiamericane e antidemocristiane degli anni Cinquanta e Sessanta (da Gli arcangeli non giocano a flipper, 1959, a La signora è da buttare, 1967), nei copioni "documentari" degli anni Settanta, presentati al di fuori dei circuiti teatrali ufficiali e ispirati al pensiero politico dell’estrema sinistra (Morte accidentale d’un anarchico, 1970) e in opere più recenti come Il papa e la strega (1989). Il filone della reinvenzione delle tradizioni teatrali tardomedievali e rinascimentali si snoda invece tra testi monologici come Mistero buffo (1969), probabilmente il prodotto più riuscito dell’arte drammaturgica di Fo, Fabulazzo osceno (1982), Johan Padan a la descoverta de le Americhe (1992), nei quali è sempre fondamentale il riferimento al prediletto Ruzante e alla Commedia dell’Arte. Nel 1997 Fo ha vinto il premio Nobel per la Letteratura.
Sul fronte della produzione drammaturgica, Eduardo e Fo sono senz’altro le figure di maggior spicco delle ribalte italiane del secondo Novecento. Il peso e la fortuna delle loro proposte non può però farci passare sotto silenzio la restante offerta di novità teatrali portate in scena in Italia nella seconda metà del secolo.
Fra teatro e università si viene snodando la carriera di un drammaturgo eccentrico come Giuliano Scabia – All’improvviso, 1965; Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip Trip Strap; La Grande Mam, 1965; Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno, 1972; Fantastica visione, 1973. L’etichetta di semplice "drammaturgo" sta stretta pure a Giovanni Testori, non solo autore teatrale tra i più significativi, ma anche narratore, saggista, poeta, nonché regista e interprete in prima persona della propria scrittura. Dopo una prima stagione apparentemente neorealista (La Maria Brasca, 1960; L’Arialda, 1961) i drammi di Testori, anche in virtù di un mistilinguismo assolutamente organico alla linea dell’espressionismo lombardo, scivolando dal reale al mito e coniugando il sublime all’abietto, raccontano le nostre vie crucis quotidiane con una verità e un’impudicizia davvero rare per il nostro teatro (L’Ambleto, 1972; Macbetto, 1974; Edipus, 1977; Sfaust, 1990; Sdis Orè, 1991; Tre lai, 1992).
Nella sterminata genìa degli scrittori italiani di fine millennio tentati dal teatro –Alvaro, Buzzati, Brancati, Ginzburg, Luzi, Morante, Moravia, Parise... – un posto a parte, non foss’altro che per la maturità della loro riflessione teatrale, occupano Pier Paolo Pasolini con Orgia, 1966-1970; Affabulazione, 1966-1970; Calderón, 1967-1973; Bestia da stile, 1965-1974; ed EdoardoSanguineti con K, 1959; Protocolli, 1968; Orlando furioso, 1969; Storie naturali, 1971; Faust. Un travestimento, 1985; Commedia dell’Inferno. Un travestimento dantesco, 1989.
Come già si è avuto modo di ricordare, un settore importante della produzione drammaturgica nazionale del secondo Novecento è infine rappresentato dalle drammaturgie preventive e consuntive di attori, registi e gruppi.
Tra gli attori-autori del secondo Novecento è doveroso in questa sede ricordare almeno due interpreti vicini alle ricerche della (neo)avanguardia. Il primo è Carmelo Bene , sovversivo ideatore di brillanti "distruzioni" teatrali di romanzi (Pinocchio da Collodi, 1961) e testi classici (le molte rielaborazioni di Amleto, tra Shakespeare e Laforgue), ma anche autore in proprio (Nostra Signora dei Turchi, la cui prima edizione è del 1966). Il secondo è Leo de Berardinis con Novecento e Mille, 1987; Ha da passà a nuttata, 1989; Il ritorno di Scaramouche, 1994. Ricca l’esperienza drammaturgica anche delle ultime generazioni d’interpreti; basti pensare al fenomeno del teatro di narrazione: un attore si presenta al proprio pubblico e da solo, al più con un supporto musicale, racconta le proprie storie. È questo il caso di Marco Paolini che nel 1993 presenta il suo Il racconto del Vajont, ma anche di Marco Baliani con il suo Kohlhaas, Laura Curino – Passione, 1993 – o Ascanio Celestini – Vita Morte e Miracoli, 1999.
Nella seconda metà del Novecento, dopo le prove dei registi-drammaturghi Squarzina – Tre quarti di luna, 1953 – e Patroni Griffi – Metti, una sera a cena, 1967 – e del regista-dramaturg Ronconi – Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1996 –, la vocazione alla scrittura per la scena si è mantenuta viva anche tra le nuove leve della regia italiana, sia tra i giovani registi militanti nell’area del teatro tardomodernista, come Ruggero Cappuccio, sia tra quelli più legati all’immaginario postmoderno come Giorgio Barberio Corsetti – Il legno dei violini, 1990 –, Federico Tiezzi – la trilogia Perdita di memoria, 1984-1985 – o Mario Martone – Ritorno ad Alphaville, 1986.
Dalla concreta esperienza di palcoscenico provengono pure interessanti protagonisti della cosiddetta "nuova drammaturgia napoletana" degli anni Ottanta come Enzo Moscato e Annibale Ruccello (1955-1986).
Nel teatro italiano del secondo Novecento è notevole pure l’impegno drammaturgico – anche "in collettivo" – dei gruppi nati negli anni Settanta e Ottanta, in primis Laboratorio Teatro Settimo, guidato da Gabriele Vacis – Elementi di struttura del sentimento poi Affinità, 1985-1992 –, Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri, con la sua ricerca di rara coerenza sul rapporto fra teatro e poesia, sviluppata a partire da Ruvido umano (1987) fino a Fare ponte (2003) e la Socìetas Raffaello Sanzio (da Diade incontro a monade, 1981 agli 11 episodi del ciclo Tragedia endogonidia, 2002-2005).
L’autunno del Novecento: il panorama internazionale
La "tendenza" forse più importante che domina le scene della seconda metà del XX secolo è probabilmente quella del "teatro dell’assurdo", ossia un teatro che con feroce ironia mette in luce l’insensatezza del nostro vivere quotidiano in un mondo "disertato dagli dei" e il parallelo sclerotizzarsi del linguaggio contemporaneo. Il tragicomico spettro dell’assurdo fa la sua prima comparsa di rilievo sui palcoscenici europei, mimando per altro i modi surrealisti, nell’"anticommedia" La cantatrice calva (1950) dello scrittore rumeno-francese Eugène Ionesco. La cantatrice calva è solo il primo di una lunga serie di successi teatrali di Ionesco, che prosegue con La lezione (1951), forse il vertice dell’arte del drammaturgo, Le sedie (1952), e poi ancora Il rinoceronte (1959) e Il re muore (1962). Il vero maestro del teatro dell’assurdo è però lo scrittore irlandese (dal 1938 trasferitosi in Francia) Samuel Beckett: dopo Aspettando Godot (1952), cronaca straziante ed esilarante di un’attesa destinata a sfociare nel nulla, con Finale di partita (1957) Beckett dà al teatro dell’assurdo il suo primo manifesto ufficiale. Ulteriori snodi del percorso teatrale di Beckett sono: Atto senza parole I (1957), L’ultimo nastro di Krapp (1958) e Giorni felici (1961). L’esempio di Ionesco e Beckett genera immediatamente degli emulatori, primo fra tutti l’armeno, naturalizzato francese, Arthur Adamov – Ping-pong (1955) –. Nei primi anni Sessanta, in Francia, la drammaturgia dell’assurdo è dunque ormai un modello istituzionalizzato, pronto a essere esportato in tutto il mondo – cosa che regolarmente avviene. Originale declinazione della poetica dell’assurdo è la produzione drammaturgica del polacco Witold Gombrowicz – Ivona, principessa di Borgogna (1938); Operetta (1966).
Nel corso degli anni Cinquanta, a Parigi, l’antitesi dialettica alla drammaturgia dell’assurdo è rappresentata dal teatro esistenzialista che il pubblico francese aveva cominciato a scoprire già durante il secondo conflitto mondiale. Maestri dell’esistenzialismo teatrale sono naturalmente Albert Camus – Il malinteso (1944); Caligola, scritto nel 1938, ma rappresentato nel 1945; Lo stato d’assedio (1948), I giusti (1950) – e Jean-Paul Sartre – Le mosche (1943); A porte chiuse (1945), archetipo di una serie sterminata di drammi votati alla poetica del "soffocamento"; Le mani sporche (1948); Il Diavolo e il buon Dio (1951) –. Giusto a metà strada tra assurdo ed esistenzialismo, con ammicchi alla crudeltà artaudiana, si colloca la produzione teatrale di Jean Genet, personalità troppo forte, sempre in bilico tra astuzia e innocenza, per poter essere ricondotta a una scuola. Principali "stazioni" del viaggio attraverso il teatro di Genet sono: Le serve (1948), Il balcone (1956), I negri (1958) e I paraventi (1961). Con Genet, drammaturgo dalla vita a dir poco tormentata, ci troviamo in presenza dell’ennesima incarnazione del modello francese dell’artista maudit, che tornerà a proporsi sulle scene parigine di fine Novecento con Bernard-Marie Koltès – Nella solitudine dei campi di cotone (1987).
La risposta "d’arte", premiata dal maggior successo "commerciale" internazionale al teatro dell’assurdo va in scena, tra gli anni Quaranta e Sessanta, con la "violenta" drammaturgia neonaturalista statunitense. Sull’onda di alcune memorabili riduzioni cinematografiche, i morbosi ritratti del disfacimento del profondo Sud degli States dipinti da Williams Tennessee – Un tram che si chiama desiderio (1947) –, gli obiettivi documentari in cui Arthur Miller filma, con chiari intenti di denuncia politico-sociale, le miserie della vita quotidiana dell’America contemporanea (Morte di un commesso viaggiatore, 1949, Uno sguardo dal ponte, 1956; ma anche il "dramma storico" Il crogiolo, 1953) o le grottesche necroscopie dei cadaveri nascosti nei più riposti armadi della borghesia degli Stati Uniti, proposte da Edward Albee – Chi ha paura di Virginia Woolf? (1962) –, dopo aver scandalizzato e conquistato le platee statunitensi, scandalizzano e conquistano i teatri del Vecchio continente.
Nel secondo dopoguerra sulla scena dei Paesi di area tedesca l’eredità del teatro politico fiorito in Germania negli anni Venti e Trenta è raccolta, in prima istanza, dallo svizzero Friedrich Dürrenmatt e dai tedeschi Peter Weiss e Heinar Kipphardt. Se Dürrenmatt con le sue farse espressioniste (I fisici, 1962) si fa portavoce di un brechtismo eretico che riporta il teatro brechtiano alle sue origini avanguardiste e Weiss, in copioni come il Marat/Sade (1964) o L’istruttoria (1965), sperimenta un aggiornamento della poetica epica a tratti non ignaro del verbo d’Artaud, il teatro documentario di Kipphardt (Sul caso di J. Robert Oppenheimer, 1964) è invece più vicino ai modi del brechtismo ortodosso. Sul finire degli anni Sessanta, con l’entrata in scena di Peter Handke – Kaspar, 1968 –, alla drammaturgia epica del mondo germanico viene impressa una decisa virata in senso neoavanguardista. Mano a mano che si avanza nel secolo, pur mutando di toni, l’impegno politico-ideologico della scrittura per la scena tedesca non accenna a venir meno. Con Heiner Müller – probabilmente il più noto drammaturgo dell’ex Germania Orientale, regista, oltre che scrittore, e direttore per alcune stagioni del Berliner Ensemble – il tradimento del pensiero di Brecht diventa la via principale per mantenersi brechtianamente fedeli agli insegnamenti del maestro (Filottete, 1966; Germania morte a Berlino, 1978; Hamletmaschine, 1978; Riva abbandonata Materiale per Medea Paesaggio con Argonauti, 1983). Con Botho Strauss – dramaturg di Peter Stein, oltre che autore in proprio – il teatro ideologico si carica invece di una vena grottesco-surreale scaturita da una fusione di citazioni della Trivialliteratur con rimandi alla psicanalisi freudiana (Trilogia del rivedersi, 1976). Negli ultimi decenni le voci più stimolanti del teatro engagé dei Paesi di lingua tedesca arrivano però dall’Austria e sono quelle di Thomas Bernhard – Prima della pensione, 1979; Piazza degli Eroi, 1988 – e Werner Schwab (Drammi fecali, 1990-1992).
Con opportuni aggiustamenti alla mutata realtà dei tempi, sulle scene britanniche del secondo Novecento continua a trionfare la "commedia di costume". Certo, i registri espressivi si fanno più tesi e sofferti di quelli di Wilde o Shaw, ma la sostanza della scrittura per la scena inglese resta il giudizio etico sulle storture della società. Nella disparità di intenti e nella diversità di poetiche, un tenace filo rosso lega gli scoppi di ira inconsulta degli esponenti della scuola del kitchen-sink degli anni Cinquanta, in prima linea gli angry young men JohnOsborne – Ricorda con rabbia 1956 – e Arnold Wesker – La cucina, 1961 –, il realismo neoavanguardista degli "incubi" di Edward Bond – Quando si fa giorno, 1968 – e il teatro civile del second wave di David Hare o Trevor Griffiths. Ultimo, sconcertante prodotto della drammaturgia "di costume" britannica è il teatro dei new angry young men: Sarah Kane – Dannati, 1995 –, Mark Ravenhill – Shopping & Fucking, 1996 – o Philip Ridley – Il Killer Disney, 1991 –. La satira di costume è invece meno evidente proprio nella produzione drammaturgica di quello che è forse considerato il più significativo autore teatrale del secondo Novecento inglese: Harold Pinter – La stanza, 1957; Tradimenti, 1978; La serra, 1980 –, la cui secca scrittura, debitrice dei modelli di Kafka e Beckett, sembra infatti più incline a mutuare i propri costrutti dalla sintassi drammaturgica dell’assurdo piuttosto che dalla grammatica della commedia di società.
Nel carosello delle mode teatrali planetarie di fine millennio non si contano le rivelazioni di autori sconosciuti o di drammaturgie esotiche. Nel volgere di pochi decenni le platee europee scoprono le pièce di Copi, il teatro dei Nobel per la Letteratura Soyinka e Saramago, i copioni degli autori canadesi Tremblay, Bouchard, le partiture di Mishima, i "reportage" della Srbljanovic o i drammi dell’"immigrato" argentino Rodrigo García.
È impossibile render conto in questa sede anche solo sinteticamente dei contributi dati dagli uomini di teatro coi loro spettacoli alla definizione delle nuove grammatiche drammaturgiche di fine millennio. D’altra parte, per quanto sintetico, un bilancio della drammaturgia occidentale del secondo Novecento non può per lo meno non menzionare gruppi e registi degli ultimi cinquant’anni del secolo che, con le loro creazioni, hanno cambiato il modo stesso di pensare la drammaturgia: dal Living Theatre all’Odin Teatret, da Jerzy Grotowski a Peter Brook e i suoi dramaturg, da Robert Wilson a Robert Lepage, da Eimuntas Nekrosius a Christoph Marthaler.