La famiglia di Croce, gli anni della formazione, le ricerche erudite
Frugando «in caccia di vecchie carte» d’archivio a Napoli e in Abruzzo, durante uno degli occasionali ritorni nella terra degli avi, Croce compose, tra il 1919 e il 1921, due brevi saggi sulla storia della famiglia paterna e materna e dei rispettivi paesi (Montenerodomo: storia di un comune e di due famiglie; Pescasseroli), che pubblicò rispettivamente nel 1919 e nel 1922. Li aggiunse poi, premettendovi il titolo generale Due paeselli d’Abruzzo, in appendice alla Storia del Regno di Napoli (pubblicata a puntate nel 1923-24 sulla «Critica» e in volume nel 1925; ed. a cura di G. Galasso, 1992, pp. 381-424 e 425-99), come nel luogo «meno inadatto», giacché – scriveva nell’Avvertenza al volume – «in quelle storie di due minuscoli paeselli è dato vedere come in miniatura i tratti medesimi della storia generale» (pp. 10-11). Al profilo storico delle due comunità, dalle scarne fonti tardomedievali fino al presente, in questi testi dove predomina il momento della storia civile, si alternavano con pudica sobrietà e «affetto non cieco», i legami della fanciullezza e i ricordi della storia domestica delle due famiglie divenute nel corso del tempo, con storie e modalità differenziate, le più importanti e influenti delle loro terre. Per entrambe – di più antica tradizione i Croce, «uomini nuovi» i Sipari (p. 460) – la svolta decisiva coincise con l’abolizione dei feudi nel periodo francese, che consentì ai due già solidi ceppi di ‛armentari’, con il possesso delle più vaste greggi della regione, di succedere di fatto alle vecchie casate baronali nella gestione di un settore primario dell’attività economica locale; a Benedetto le loro cospicue, congiunte fortune familiari garantiranno – come dirà con sfumatura autoironica – la ‘professione di proprietario’.
Nelle loro diverse storie, le famiglie d’origine offrivano due exempla di quella classe «operosa» che contribuì alla formazione di un moderno ceto borghese nel Regno, all’alba della svolta unitaria. Tra osservazioni di carattere sociologico e ricordi privati, Croce ne metteva in rilievo le notevoli diversità caratteriali, culturali e di atteggiamenti politici, per il ruolo via via assunto nelle rispettive comunità e nell’apparato giudiziario (borbonici i Croce; filofrancesi, percorsi da tensioni liberali, i Sipari): in entrambi i gruppi familiari finì tuttavia con il prevalere una impoliticità diversamente vissuta, con la cura del patrimonio e delle rendite unita agli incarichi amministrativi, condotti non senza contrasti, ma anche in uno spirito di servizio pubblico. I Croce, ancora fino al padre di Benedetto, Pasquale, ostentavano un generale disincantato realismo e una diffidenza nei confronti della zona grigia dell’engagement, dove confinavano e confliggevano proclami ideali e interessi privati. Non a caso si generarono attriti, mai sopiti, con il ramo collaterale degli Spaventa: questi ultimi – non solo aperti al nuovo, ma volti a recitare una parte di primo piano nelle vicende politico-culturali unitarie – avranno poi un ruolo importante nella storia personale del filosofo. Più inquieti i Sipari, soprattutto nella figura dello zio materno Francesco, temperamento letterario romantico e, di più, non alieno da una precoce pensosa riflessione sulla incipiente ‘questione meridionale’ e sulle condizioni sociali dei contadini del Sud (pp. 467-74).
Questa storicizzazione delle vicende familiari sullo sfondo di una storia più ampia ha come esito la presa d’atto di una cesura, che traluce nelle battute finali delle due monografie, simmetriche e pure singolarmente divaricate. Nella seconda, la storia di quelle comunità e dei loro ceti dirigenti si apre all’auspicio di un rinnovamento civile, percepito come già in atto (pp. 498-99). Nell’altra si sottolinea invece la distanza da quelle esperienze locali, che non costituiscono più in alcun modo un archetipo della propria personale esperienza: «Mi sforzavo – conclude Croce – di ritrovare qualcosa che mi ricongiungesse a loro, una regola, un istinto, una passione» (p. 423), ma non vi rinveniva invero, malinconicamente, che un debole e intermittente legame con il presente: giacché infine «l’uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in un modo nuovo; piuttosto che filius loci, è filius temporis» (p. 424).
La ricostruzione matura si situa dunque a un’incolmabile lontananza, cronologica e mentale. Nel Croce ‘napoletano’ – a Napoli i Croce si erano trasferiti nella generazione anteriore a quella di Pasquale, com’era costume presso molte famiglie cospicue delle province – l’archetipo familiare trapassa sul piano dei frammenti dei ricordi dell’infanzia e della formazione interiore. Il trait d’union con le origini sarà allora costituito principalmente dal rapporto con la madre Luisa, educatrice e pedagoga, nella pratica dell’epoca. È lei certamente, e non il padre assorbito dagli affari – come è ovvio e come si ripete più volte nelle varie scritture autobiografiche crociane – che plasma il primo mondo intellettuale del figlio. Ne cuce i ricordi della generazione anteriore, e soprattutto ne stimola, attraverso una massa di letture in cui spiccano i romanzi storici, la fantasia letteraria, lo conduce inoltre per librai, chiese e monumenti di Napoli, formando così in embrione passioni mai smentite, come l’inguaribile bibliofilia, e accendendo la scintilla del rapporto tra la concretezza dell’esperienza soggettiva e il suo intersecarsi, nella «materialità» del libro, con la sfera della rielaborazione storica e mitografica (Contributo alla critica di me stesso, 1918, ed. a cura di G. Galasso, 1989, p. 15).
Riscrivendo nel 1919 alcuni di questi testi giovanili, Croce insiste sulle leggende udite nell’infanzia, sostanziate di «immagini, scritte, luoghi», «tempi», «nomi e cognomi e soprannomi, autorità, prove, testimonianze» (Storie e leggende napoletane, 1919, ed. a cura di G. Galasso, 1990, p. 297). Sono queste curiosità e le relative letture che accompagnano Croce negli anni scolastici, passati in collegi di educazione cattolica rigorosa, ma non fanatica e bigotta (un’altra scelta di famiglia), al limitare di una crisi religiosa adolescenziale che evolve tra i normali sensi di colpa e un epilogo privo di pathos, senza mescolarsi con una vocazione filosofica, anch’essa non peregrina, come impulso a interrogarsi su tutto.
Alla vigilia degli anni universitari e poco prima del terremoto di Casamicciola (1883), ove Croce perse i genitori, Luisa Croce mette in guardia il figlio dalla frequentazione dei corsi dello ‘zio’ Bertrando Spaventa, già scandalo di famiglia per l’abbandono della tonaca: ma se il divieto non sortisce effetto, non provoca nemmeno una conversione filosofica, rinviata ancora a lungo. Il giovane Croce, ormai autonomo anche se incerto sulle strade da seguire, è attratto piuttosto dai corsi di estetica di Antonio Tari e da quelli di letteratura di Vittorio Imbriani, proprio alla metà di quegli anni Ottanta che vedono la scomparsa di tutta la scuola idealistica napoletana; si forma sulle letture del gruppo del settimanale letterario romano «Il Fanfulla della domenica», tra il carduccianesimo, il realismo, l’incipiente decadentismo e i rappresentanti della scuola positiva della critica storica e letteraria, come Francesco D’Ovidio, Alessandro D’Ancona, Arturo Graf, Francesco Torraca, Rodolfo Renier, mentre la lezione di Francesco De Sanctis è ancora sullo sfondo. L’apprendistato storico-erudito di Croce si compie in questa fase giovanile, largamente autodidatta e, per esplicita ammissione, in forma autonoma e senza punti di riferimento che abbiano anche il minimo sentore di ‘scuola’ (Contributo, cit., pp. 21-24).
Ospitato a Roma tra il 1884 e il 1885 in casa di Silvio Spaventa dopo la morte dei genitori, Croce sperimentò insieme una cesura violenta nel mondo degli affetti privati e il momento cruciale della sua formazione, all’uscita dall’adolescenza, in un ambiente vissuto come estraneo principalmente per lo stato di prostrazione e di depressione seguito alla tragedia personale (da ciò l’accordo con Spaventa per il ritorno, definitivo, a Napoli). Eppure, nonostante il tormento fisico e morale e la cupa disperazione, che Croce ritrae nelle sue memorie, quegli anni rappresentarono una svolta. Il rapporto con Spaventa e la diuturna frequentazione del suo salotto, dominato da una risentita cultura di opposizione, non lo attrassero verso l’impegno politico, ma lasciarono tuttavia un sedimento significativo nel suo atteggiamento liberale moderato, «moderno-razionalista» e «unitario-risorgimentale» (Cingari 2000, pp. 48-49).
Ma, soprattutto, fu in quell’ambiente che Croce ebbe modo di conoscere Antonio Labriola, con il quale entrò in sintonia intellettuale e in stretta amicizia: l’assidua frequenza alle sue lezioni, trascurando i corsi di giurisprudenza fino ad abbandonarli, segnò il contatto di Croce con una cultura universitaria di alto livello e fortemente anticonformista. Il ruolo di Labriola ‘educatore’ del giovane Croce, all’università e nei rapporti personali, fu decisivo. Come traspare dal Carteggio di Labriola (a cura di S. Miccolis, 2° vol., 1881-1886, 2002, pp. 305, 321, 361), questi orientò le letture di Croce in più settori e lo sospinse in particolar modo verso la cultura tedesca postidealistica e la scuola herbartiana: quest’ultima, come Croce ricorda più volte, operò in campo morale come un contrappeso o un ubi consistam ideologico e filosofico rispetto alla dominante passione letterario-erudita, colmando con una severa disciplina del dovere il rispetto per la «maestà dell’ideale» (Contributo, cit., p. 24) e il bisogno di un generale orientamento pratico che non rimarrà senza esito nei lavori a venire. Ma l’influenza di Labriola, e attraverso lui della scuola di Johann Friedrich Herbart, operarono prevalentemente sul piano della metodologia storica, del progressivo disciplinamento cioè di quell’ordine di indagini in cui Croce si immerse per anni. Le suggestioni provenienti da I problemi della filosofia della storia: prelezione letta nella Università di Roma il 28 febbraio 1887 dal prof. A. Labriola (1887) segnano un punto di non ritorno nella maturazione di opzioni divenute stabili: in primo luogo il rifiuto di filosofie della storia totalizzanti, spiritualistiche, idealistiche e positivistico-naturalistiche, quindi il primato di una concezione idiografica del lavoro storico, che è uno dei nuclei concettuali primari de La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte: memoria letta nella tornata del 5 marzo 1893 dal socio Benedetto Croce («Atti dell’Accademia pontaniana», 1893, 23, pp. 13-32).
L’apprendistato metodico presso Labriola consente a Croce di avvicinarsi alla cultura postherbartiana e storicistica tedesca: alle spalle della memoria del 1893 sta infatti l’allargamento dell’orizzonte teorico che Croce compie intensificando le sue letture sui «libri italiani e tedeschi sulla filosofia e sulla metodica della storia» (Contributo, cit., p. 31), che includono non solo una riflessione critica sui classici della metodologia storiografica, come Ernst Bernheim e Johann Gustav Droysen, ma un confronto ravvicinato con la scuola herbartiana e il neokantismo tedesco, da Moritz Lazarus a Georg Simmel, Wilhelm Dilthey, Wilhelm Windelband e alla Kulturgeschichte. A ciò si aggiunge poi lo specifico, intenso interessamento per il marxismo e il materialismo storico, tra il 1895 e la fine del secolo, in un’accezione consapevolmente metodologica, come «canone d’interpetrazione storica» e «somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico» (Materialismo storico ed economia marxistica, 1900, a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi Garampi, 2001, 1° vol., pp. 25, 88).
Queste letture ed esperienze, insieme a una concezione ‘realistica’ della storia, che è il modo in cui Croce legge il materialismo storico, mai disgiunta dall’attenzione per il «positivo» e per la concretezza del particolare, cominciano a ridefinire nel corso degli anni Novanta il lungo impegno di erudito e la cultura che ne stava ancora a monte: quella della ‘scuola storica’ e – nonostante le reiterate proteste antipositivistiche – persino quella del positivismo ‘metodico’, alla Pasquale Villari, dal quale polemicamente la memoria del 1893 prendeva le mosse, ma il cui retroterra ‘civile’ non era in fondo troppo lontano. Quando, alla vigilia di tale memoria, Croce comunica a Donato Jaja, in una lettera del 23 giugno 1892, un suo programma di studi, dove si alterneranno studi storici «riguardanti la storia intima d’Italia degli ultimi tre o quattro secoli» (l’espressione è del resto ripetuta in Contributo, cit., p. 30), e «studi filosofici, riguardanti principalmente la filosofia della storia e la filosofia dell’arte» (Garin 1996, p. 6), la via della saldatura tra l’esercizio di una «soda erudizione» e la metodologia della storia, tra vita e ideali morali, sulla scia della rilettura di De Sanctis, che condurrà alla storiografia del Croce maturo, è ormai imboccata (Torrini 1994, pp. 103, 105-09).
Croce ha disegnato più volte il suo svolgimento intellettuale come un lento itinerario di iniziazione filosofica, marcandovi varie cesure e punti di svolta: il 1892-93, con l’inizio della riflessione sulla storia; il 1902, con l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale e la fondazione della «Critica»; il decennio successivo, con l’elaborazione della «filosofia dello spirito»; gli anni Venti, con il definitivo «commiato» che la «storia pensata» segna rispetto alla produzione giovanile (Contributo, cit., pp. 65, 74-75). Per sua ammissione, tuttavia, la filosofia sarebbe rimasta a lungo solo l’espressione del bisogno di chiarimento interiore di un inesperto «involontario filosofo», in precario equilibrio con la dominante attività di poligrafo erudito – e anzi avulsa in una sfera non interagente con esso – che copre interamente il periodo giovanile in senso stretto e si estende oltre i suoi confini cronologici (p. 26).
Sulla scorta delle testimonianze personali, tutti gli interpreti hanno messo in relazione il furore erudito cui Croce si diede tra Roma e Napoli, conducendo una vita claustrale tra biblioteche e archivi, con la particolare situazione esistenziale dovuta alla depressione, all’angoscia e alla sofferenza psicofisica che lo colpirono dopo la perdita dei genitori. Da qui le reiterate letture di quel momento e della produzione letteraria corrispondente (che Boulay 1981, p. 33, rubricava sotto l’etichetta di un «De consolatione»), in chiave di ascesi, compensazione e terapia delle angosce e dei traumi adolescenziali e del ‘mal di vivere’. Le lettere di Labriola al giovane amico, ora paterne ora ruvide, nel tentativo di farlo uscire da una condizione patologica, confermano ampiamente questo quadro: Labriola alternava insofferenza per la vocazione erudita di Croce, pesanti ironie e sferzanti considerazioni sugli atteggiamenti narcisistici che, a suo parere, ne sarebbero il retroterra e l’invito reiterato a concentrarsi su questioni di maggiore impegno oltre la sfera degli otia (cfr., per es., Carteggio, 2° vol., cit., pp. 453-56, 4° vol., 1896-1898, 2004, pp. 10-11).
Se tutto questo è vero, occorre anche sottolineare che il lungo apprendistato erudito rispondeva a inclinazioni autentiche, né era solo, come a volte Croce sostiene, il sintomo di una fuga dal senso di inadeguatezza rispetto a impegni più consistenti, che gli provocherà poi una reazione di «nausea» e «disgusto» per la minutaglia e l’accumulo di piccinerie e frivolezze (Contributo, cit., pp. 25-31). Nel breve soggiorno romano Croce lavora alla Biblioteca casanatense, ma è con il ritorno a Napoli, con la frequentazione della Società di storia patria, dell’Accademia pontaniana, dell’Archivio di Stato, che il lavoro diviene più sistematico. Croce entra in contatto e stringe legami di collaborazione e amicizia, ricevendone in cambio un vivo apprezzamento, con una cerchia di studiosi che ruota attorno a queste istituzioni. Nel 1892, giusto alla vigilia dell’intermezzo metodologico, Croce fonda e dirige, insieme ad alcuni di loro (Giuseppe Ceci, Giuseppe De Blasiis, Salvatore Di Giacomo, Michelangelo Schipa ecc.), «Napoli nobilissima. Rivista di topografia ed arte napoletana», con lo scopo precipuo della tutela del patrimonio storico-artistico della città e della sua memoria di fronte all’impetuoso e spesso devastante ‘risanamento’.
Frutto di questo genere di attività furono circa duecento scritti, tra il 1882 e il 1899, sparsi tra quotidiani e periodici, tra i quali «Giambattista Basile. Archivio di letteratura popolare», «Archivio storico per le provincie napoletane», «La rassegna pugliese di scienze, lettere ed arti» e così via. Polo d’attrazione di questa più o meno apparente dispersione e varietà contenutistica sono alcuni nuclei tematici più compatti, concentrati su aspetti e periodi specifici della storia di Napoli, ai quali Croce accenna programmaticamente più volte, come modelli del passaggio all’esercizio di una «disciplina» storica più consapevole (Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal “Contributo alla critica di me stesso”, a cura dell’Istituto italiano per gli studi storici, 1966, pp. 17, 25-29).
Proprio questi nuclei hanno inizialmente come esito volumi, o progetti di volumi e raccolte di saggi, che verranno ripresi o ripubblicati nel decennio tra il 1910 e il 1920, dunque tra il periodo sistematico e l’impegno storiografico maturo, come archetipo peraltro di future opere importanti. Queste circostanze attestano che non è agevole limitare il periodo erudito al periodo giovanile, giacché esso lambisce le soglie dell’opera storica maggiore, vi si «annoda» (Contributo, cit., p. 77) e continua sotterraneamente a fornirle alimento. Gli elementi dell’erudizione «rimasero sempre a connotare una componente vistosa della sua personalità umana, ideale, culturale», formando quasi un quarto del corpus delle edizioni laterziane: in questa continuità si trova la «più autentica giustificazione» delle ricerche giovanili (G. Galasso, Nota a B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, a cura di G. Galasso, 1992, 20064, pp. 293-96, 312).
Negli anni della maturità Croce andò ripubblicando parte della sua primissima produzione (una metà abbondante). Nel giro di dieci anni escono infatti riedizioni, radicalmente riviste, di molti lavori giovanili: nei Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911), nella Rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, racconti, ricerche (1912) – quasi raddoppiata rispetto alla versione del 1897 (Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799) –, in I teatri di Napoli: dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo (1916) – sfrondati della gran massa di materiali della prima edizione del 1891 (I teatri di Napoli: secolo XV-XVIII) –, in La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza (1917) – che risale a un progetto dei primi anni Novanta.
Frammiste a essi appaiono tuttavia anche raccolte apparentemente di contenuto più tenue e più occasionale, che attingevano largamente agli scritti del periodo più remoto, tra il 1885 e il 1890: scampoli editi qua e là, quindi gli Juvenilia, 1883-1887: scritti letterari (1914), un’antologia dedicata alla moglie, Adele Rossi, in occasione delle nozze, ma soprattutto i coevi e più densi Aneddoti e profili settecenteschi (1914), le Curiosità storiche (1919) e le già citate Storie e leggende napoletane, che davano forma e trama a una rapsodia di episodi letterari sui quali il giudizio retrospettivo di Croce avrebbe teoricamente dovuto esercitarsi con maggiore severità.
Queste edizioni, e non è annotazione estrinseca, apparvero a cavallo del Contributo alla critica di me stesso (composto nel 1915 ma pubblicato, come detto, nel 1918) e al compimento della sintesi teorica e dottrinale costituito da Teoria e storia della storiografia (edito in Germania nel 1915, con il titolo Zur Theorie und Geschichte der Historiographie, e due anni dopo in Italia).
Nel riproporre i testi giovanili, sempre peraltro vistosamente rielaborati, alternava spesso ai giudizi negativi in chiave autobiografica su quella esperienza, e sui suoi ‘eccessi’, una valutazione riduttiva del significato di quel recupero, prendendone le distanze in maniera variegata: ora in forma di commiato, bilancio o «liquidazione» del proprio passato; ora leggendoli come pause, in momenti di «stanchezza» o «riposo» – laevamina mentis – concessi alle fatiche e agli impegni di maggior mole e significato, o addirittura come una sorta di «costrizione» o debito contratto con se stesso allo scopo di portare a esecuzione progetti interrotti su fatti comunque inediti e di qualche utilità (Contributo, cit., pp. 34-40). E tuttavia affiorava una considerazione più indulgente, come negli Juvenilia (dove aveva parlato dei tentativi eruditi come di «germi» inconsapevoli «che si sarebbero svolti molti anni di poi», p. 7) e nell’avvertenza a Storie e leggende napoletane («Il legame sentimentale col passato prepara e aiuta l’intelligenza storica, condizione di ogni vero avanzamento civile», p. 11).
Era così stabilito ex post un legame tra erudizione e storia, che – sebbene anticipato nelle già menzionate Memorie – aveva trovato espressione esplicita non tanto nelle scritture autobiografiche quanto nelle pagine critiche dedicate all’ambiente della sua giovinezza. In più occasioni, nel periodo 1901-1906 e, negli anni successivi, in diversi saggi pubblicati su «La Critica» – poi riediti in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, 3° e 4° vol., 1914-1915 –, Croce aveva voluto tenere ben distinta l’erudizione dal «positivismo erudito», e aveva tessuto l’elogio della «storia regionale» – e del suo più illustre rappresentante, Bartolomeo Capasso – come del «solo movimento di qualche importanza» nella depressa vita culturale della Napoli della fine dell’Ottocento.
Senza nascondersene i difetti di metodo e, talora, di risultati – e ricordando se stesso come «gregario», quantunque «ribelle» di quel gruppo e animatore di «Napoli nobilissima» – rivendicava alla filologia, citando D’Ancona, all’erudizione e persino all’aneddotica la natura di «compimento necessario della filosofia». Ove, beninteso, si adoperasse «la raccolta e lo sceveramento dei materiali» non per usurpare il mestiere dello storico con l’«erudizione inanimata» e il «dilettantismo polveroso», ma per saldare la «storia piccina» con quella «grande» (La letteratura della nuova Italia, cit., rist. 1973-1974, 3° vol., pp. 353-70, 4° vol., pp. 177-93, 313-22). Che era poi quanto sarebbe andato teorizzando di lì a poco, sulla «cronaca», che è cosa morta solo quando si isola dal processo vivente della storia, della quale è «atto preparatorio» e «strumento» (Teoria e storia della storiografia, cit., ed. 2007, a cura di E. Massimilla, T. Tagliaferri, 1° vol., pp. 22-23).
Nella produzione erudita crociana, che comprende aneddoti e curiosità storiche e letterarie, si possono distinguere almeno tre poli d’attrazione principali: le biografie, gli studi su aspetti della cultura popolare, le ricerche su miti e leggende. Il genere biografico, per ammissione dello stesso Croce, esercitò su di lui sempre un fascino particolare e formò uno dei «nuclei più fertili dell’apprendistato della storia» (Musci 2014, p. 389): un nutrito gruppo di sue opere ne è intessuto, dalla già citata Rivoluzione napoletana del 1799 (con i profili, tra gli altri, di Eleonora de Fonseca Pimentel, di Vincenzo Russo e di Luisa Sanfelice), a Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici (1919), ai già citati Aneddoti e profili settecenteschi e Curiosità storiche, fino alle Vite di avventure, di fede e di passione (1936).
In questo genere di trattazioni, che si tratti di saggi estesi o di rapidi profili, Croce rammenterà poi di aver tentato sempre di attenersi ai criteri «della più scrupolosa acribia», allo scopo di ricongiungere i «casi individuali» con i «problemi della loro età» (Vite di avventura, di fede e di passione, cit., ed. a cura di G. Galasso, 1989, p. 13). Non si nasconderà in seguito tuttavia, e già dalle prime riscritture dei suoi lavori, che il genere letterario biografico era particolarmente esposto al rischio della decadenza a pura cronaca e alle insidie del ‘romanzesco’ e della «storia poetica», contro cui erigerà sempre una rigida barriera (Teoria e storia della storiografia, cit., pp. 30-35). Per Croce «il rapporto tra universale e particolare, tra generale e singolare è sempre immutato sia nella macro che nella microstoria» e la «sostanza critica» della storia rimane perciò la stessa, indipendentemente dalla scala di riferimento (G. Galasso, Nota a Un paradiso abitato da diavoli, cit., p. 303).
Più articolato e complesso è il quadro dei contributi che si concentrano sulla storia sociale. La questione era stata affrontata dal punto di vista metodico nel saggio Intorno alla storia della coltura (Kulturgeschichte) («Atti dell’Accademia pontaniana», 1895, 25, pp. 1-18), nel quale, pur respingendo la tesi dei teorici della Kulturgeschichte, come di un campo specifico a sé stante, Croce aveva anche preso partito contro l’unilateralità della storia meramente politica o événementielle (cfr. Tessitore 2011, pp. 281-88). Da qui l’ampio spazio che occupano nella sua prima produzione le ricerche demologiche, sulla letteratura popolare, sull’evoluzione del gusto letterario del costume e della mentalità, che occupano gran parte di lavori come i già citati I teatri di Napoli, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, opere che saranno ancora sullo sfondo della dimensione «etico-politica» della storia e del problema più specifico della decadenza italiana in lavori più tardi, come Storia del Regno di Napoli e Storia dell’età barocca in Italia (1929).
In tutti i primi scritti la storia della società, nelle sue varie forme e certo in costante polemica con il sociologismo deterministico e schematico di carattere positivista, è variamente messa in relazione con i «mutamenti della politica», né va dimenticato che Croce aveva anche progettato nel 1897, nel periodo di maggiore attenzione al marxismo, di comporre una «storia sociale dell’Italia meridionale», dove avrebbe messo l’accento su questioni trascurate come «i rapporti delle forme politiche con la coltura» (Cingari 2002, pp. 177-78). Per frammenti, una parte notevole degli scritti giovanili possono essere considerati capitoli di quest’opera non scritta: così le indagini sui costumi della società colta e delle classi elevate, ma anche sul mondo dei ‘lazzari’, dei briganti, delle prostitute, sui canti politici del popolo napoletano, sui proverbi e i personaggi del folklore, sulla «vita giornaliera» delle «classi prive di efficacia sociale e politica» (p. 174).
Esemplare di questa produzione è il saggio Pulcinella e il personaggio del napoletano in commedia. Ricerche ed osservazioni («Archivio storico per le provincie napoletane», 1898, 23, pp. 606-742), modello dell’intreccio di tutti gli interessi del giovane Croce e del suo interessamento di allora per la «psicologia dei popoli» della scuola tedesca (Moritz Lazarus, Heymann Steinthal, Wilhelm Wundt), che va al di là della «mera curiosità locale», mostrando «un aggancio preciso con la storia contemporanea del paese» (Cingari 2002, pp. 179-80) e al tempo stesso l’emergere di un orizzonte ermeneutico più ampio rispetto alle prime movenze strettamente erudite (Galasso 1991).
Collegato a questi interessi, tra biografia, tradizioni popolari, aneddotica e storia locale, ma di ambito assai circoscritto e sottoposto a una revisione ancora più intensa nelle Storie e leggende napoletane, è il tema del mito nella tradizione napoletana: nemmeno questo, come già l’interessamento per le tradizioni popolari, assume del resto in Croce il carattere di un indugio postromantico. Il tema si ricollega, nelle successive rielaborazioni, a uno dei concetti chiave (la storia come «storia contemporanea») della Teoria e storia della storiografia: ossia all’idea che l’interesse storico, sia esso di un contesto ampio, come di una modesta cronaca o fatto singolo, nasce da un «interesse della vita presente» (Teoria e storia della storiografia, cit., p. 12).
Questa tesi è presentata esplicitamente nella parte introduttiva del piccolo cammeo La leggenda di Niccolò Pesce (Storie e leggende napoletane, cit., pp. 298-305), che dalla prima stesura del 1885 (in «Giambattista Basile», 3, 7, pp. 49-52) si era andato via via arricchendo di annotazioni e sottili allusioni autobiografiche (nelle passeggiate per il ventre di Napoli prese lentamente forma una sussurrata identificazione tra l’uomo-pesce, indagatore dei misteri del mare, e l’erudito e poi futuro storico e critico). L’interesse per le leggende è legittimato, più che dal bisogno di un’oggettiva ricostruzione filologica di tradizioni letterarie o antropologicamente rilevanti, in primo luogo «dall’umile verità» che esse «riportano alle impressioni della fanciullezza», ove con le fiabe si era iniziati al mondo della poesia, con le leggende «ci si apriva il mondo della storia»: del resto, aveva premesso, «ogni storia ha un po’ della leggenda o ogni leggenda ha della storia» (Storie e leggende napoletane, cit., pp. 295-98).
Senonché, nella conclusione, il quadro finiva per allargarsi dalla dimensione autobiografica alla considerazione più generale, che «le vecchie leggende rapidamente tramontano», ma che ne nascono delle nuove delle quali il contemporaneo non si avvede, ma delle quali «se ne avvedranno i nostri posteri, quando raccoglieranno qualche frammento del nostro presente sentire e immaginare, reso vieppiù fantastico dalle esagerazioni tradizionali» (p. 332).
Storia reale e mitopoiesi si generano dunque a un tempo: Croce non abbandonerà mai la vena antiretorica e iconoclasta, che aveva praticato in gioventù, per es., con l’ironico smontaggio della «leggenda commovente di Mazeppa» o di «un Marx alto e biondo» (Materialismo storico, cit., pp. 61, 65). Ancora la Storia del Regno di Napoli, pochi anni dopo le Leggende, si aprirà e chiuderà proprio nel segno dell’opera di demistificazione che la critica svolge sulle «favole», sulle «menzogne convenzionali» e sulle «leggende», sempre risorgenti, senza le quali «né un individuo né un popolo vivono», ma che necessitano di continua ricostruzione e revisione (pp. 65-66, 70, 351-52).
F. Nicolini, Benedetto Croce erudito, Napoli 1941, 19532.
M. Corsi, Le origini del pensiero di Benedetto Croce, Napoli 1951.
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