Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La fantascienza ha avuto una storia letteraria sorprendente e per certi versi paradossale. Destinata ad affermarsi su scala mondiale come genere di intrattenimento popolare e oggetto di culto paraletterario, acquisisce nel corso del Novecento la dignità di una nuova mitologia, di una visione della storia umana in perfetta sintonia con quel desiderio latente di un’avventura dell’uomo nella scienza e nella tecnica divenuta un’esperienza sempre più urgente e verosimile dei tempi moderni.
Aspiranti profeti
Arthur Clarke
La morte di HAL 9000
Hal era infatti il sistema nervoso dell’astronave; senza il suo controllo, la Discovery sarebbe stata un cadavere meccanico. L’unica soluzione consisteva nell’isolare i centri superiori di quel cervello malato ma brillante, e nel lasciare che i sistemi di regolazione puramente automatici continuassero a funzionare.[...] “Credo che vi sia stato un guasto nei portelli della rimessa delle capsule” disse Hal nel tono di un’amena conversazione. “Per fortuna non sei rimasto ucciso”. Ci siamo, pensò Bowman. Non avrei mai immaginato che sarei diventato un chirurgo del cervello dilettante... eseguendo una lobotomia al di là dell’orbita di Giove.
“Ehi, Dave” soggiunse Hal. “Che cosa stai facendo?”
Chissà se può sentire il dolore? Si domandò Bowman fuggevolmente.
A. Clarke, 2001 odissea nello spazio, Milano, Longanesi, 1987
L’epoca eroica della fantascienza cade in piena modernizzazione tecnologica e urbana, durante la seconda metà dell’Ottocento. Nella fin de siècle europea, stupefatta e trascinata dalla divulgazione presso il grande pubblico delle innovazioni industriali, delle scienze esatte e dei programmi del progresso positivista, alcuni maestri fondatori come il francese Jules Verne e l’inglese Herbert G. Wells, ereditando e rinnovando in modi raffinanti e divertenti una tradizione millenaria, nutrono con le loro opere “avveniristiche” alcuni bisogni profondi del gusto modernista e della sensibilità metropolitana. Fra darwinismo, astrofisica, guerre tecnologizzate e angosciose previsioni sociali, i romanzi di questo primo periodo pongono l’accento sulla scienza e sui suoi mondi possibili.
Nei decenni successivi, invece, fino a tutti gli anni Trenta, tanto la natura letteraria quanto la geografia culturale del genere si trasformano radicalmente. Dagli anni Venti in poi, la fantascienza si restringe, di fatto, a uno straordinario scambio culturale fra Inghilterra e Nord America, mentre sul piano creativo comincia a battere le strade del pulp e del racconto d’evasione, ovvero di una narrativa di consumo, senza alcuna pretesa intellettuale, scritta da veri e propri professionisti della narrativa, impiegati part-time e pagati un tanto a parola. Un gruppo di autori abili e spigliati, Edgar Rice Burroughs (1875-1950), Edward Elmer “Doc.” Smith (1890-1965) e John W. Campbell (1910-1971), formatisi nelle redazioni dei rotocalchi o nell’isolamento delle province americane, portano rapidamente al successo un nuovo genere di romanzo scientifico che all’immaginazione scientifica vera e propria preferisce nettamente l’estro romanzesco, tutto giocato sulle avventure interplanetarie di eroi guerrieri, pionieri di un nuovo far west galattico, come il cupo John Carter di Marte, il personaggio di Burroughs che porta il gusto fantascientifico verso l’epopea surreale. Superscienziati, crociate intergalattiche, antimateria e belle ragazze sono i pochi ingredienti, ricombinati con una patina di vivacità, che un’autorità in materia come Alva Rogers riconosce alla base di questo stile ripetitivo e bizantino. In questa seconda fase, la fortuna del genere è da attribuire allo straordinario connubio creatosi fra l’immaginazione degli scrittori e la carica imprenditoriale di personaggi eccentrici come il lussemburghese espatriato negli Stati Uniti Hugo Gernsback, che, dopo aver cercato di affermarsi come inventore e autore di predizioni scientifiche per la società Modern Electrics (celebre il suo testo di divinazioni tecnologiche 124C 41 +), dà vita alla prima rivista di fantascienza del mondo, “Amazing Stories”, avviata il 5 aprile 1926. Comincia così quella che i lettori più accaniti considerano l’età d’oro della fantascienza, per ora chiamata scientifiction, prima che lo stesso Gernsback, nel 1929, dalle colonne di un altro periodico influente, Science Wonder Stories, inventasse l’etichetta di science fiction, in breve s-f. Il taglio divertito e il gusto per una parodia magniloquente della scienza, ormai ridotta, in opere come Allodola dello spazio (Skylark of Space, 1928) di “Doc.” Smith, a semplice sfondo stupefacente – proprio come avviene nella contemporanea produzione a fumetti, ben rappresentata dalle strisce di Buck Rogers – aprono agli scrittori di science fiction il pubblico occasionale delle edicole, facendo della fantascienza un prodotto importante e ben riconoscibile dell’industria editoriale, anche grazie al taglio grafico delle pubblicazioni, disegnate da artisti di genio come Hubert Rogers, Leo Morey, Hannes Bok e il belga attivo in Italia Karel Thole.
Lo stato dell’arte si cristallizza definitivamente con il boom degli anni Cinquanta, quando case editrici specializzate, fan club e un sistema di convegni e premi internazionali come il premio Hugo e il Nebula diventano capaci di influenzare il mercato. A questa scuola produttiva, che mantiene sempre i connotati di un finto movimento underground, si ispireranno anche i molti appassionati che due decenni dopo, nel dopoguerra, cercano con successo crescente di trasferire nell’Europa non anglofona le nuove tendenze narrative. In Italia, per esempio, la fantascienza coincide quasi esclusivamente con le traduzioni dei classici anglo-americani, apparse dopo gli anni Cinquanta su riviste-libro come “Urania”, “Galassia”, “Robot”, o presso editori specializzati come Libra, Fanucci e l’Editrice Nord, dirette e curate da critici molto competenti come Roberta Rambelli, Ugo Malaguti, Vittorio Curtoni, Sebastiano Fusco e Gianfranco De Turris.
Anche nel secondo dopoguerra, il periodo dominato da altre due riviste, “Galaxy” e “Astounding”, ovvero i laboratori di Isaac Asimov, Robert Heinlein e Alfred Elton van Vogt, la fantascienza non segue le rivoluzioni epistemologiche di Planck, Einstein, Louis de Broglie e poi di Watson e Crick, ma sull’onda ansiosa della guerra, della crisi economica e delle aberrazioni ideologiche, volge la propria attenzione all’impatto sociologico e psicologico dei mutamenti futuri. Sull’esempio di alcuni isolati maestri anticipatori come il brillante e fantasioso drammaturgo cecoslovacco Karel Capek, che nel 1921 con la commedia R.U.R. porta sulla scena i primi robot (da una radice slava la parola significa più o meno “lavoratori”) o l’inglese Olaf Stapledon, dall’inquieta sensibilità bioetica, prende piede uno stile gelido ma inebriante, freddo, distaccato e rigoroso anche nelle sue spiccate inclinazioni allegoriche o visionarie. Segue questa linea la rinascita intellettuale prodottasi nei primi anni Cinquanta, per opera di alcuni straordinari scrittori inglesi, James G. Ballard, Anthony Burgess (1917-1993), Arthur C. Clarke, John Wyndham, Brian W. Aldiss, in dialogo con molti grandi autori americani come i dolenti, bucolici e visionari Clifford Simak, Theodor Sturgeon, Cordwainer Smith e Ursula Le Guinn e con poche altre voci europee, fra cui spicca quella del polacco Stanislaw Lem. Il lato spettacolare ed effimero dell’immaginario fantascientifico, quello che verrà tradotto con successo negli effetti speciali dell’industria cinematografica, lascia spazio a un minimalismo allucinato e angosciante, fra il sogno e l’incubo, al centro del quale si trovano un drammatico senso di perdita metafisica e la paura per un mondo che da un momento all’altro potrebbe trovarsi, per opera dell’uomo, senza uomini. L’aspirazione moderna della fantascienza diventa insomma quella di dar vita a peripezie colme di emozioni attraverso le quali si dovrebbe raggiungere un più alto grado di coscienza sulla realtà contemporanea, o, come si espresse il narratore inglese Kingsley Amis, di disegnare le “nuove mappe dell’inferno”.
Questa succinta cronistoria della s-f, dà solo un’idea schematica del dibattito e del clamore suscitati dal genere. Per cogliere in modo appropriato le motivazioni simboliche e i valori etici delle principali opere fantascientifiche, è importante comprendere anzitutto che l’identità culturale della fantascienza non dipende da ragioni di stile letterario. Le tecniche, le strutture, le trame, gli eroi e i temi (sociali, bellici, drammatici, comici) sono gli stessi della narrativa tradizionale, anzi prevalgono di gran lunga le forme tipiche delle arti realistiche. La chiave della fantascienza si trova piuttosto in alcune idee e in alcuni temi privilegiati, fra i quali riveste un’importanza particolare il concetto – inedito fino al Settecento – che fosse possibile scrivere di avvenimenti futuri in una chiave non religiosa o soprannaturale, cioè per il semplice diletto di intuire il mutamento del presente o fare previsioni quasi logiche su tendenze sociali, eventi, oggetti e scoperte estrapolandoli dal presente e speculando sul loro destino futuro. Nei migliori autori di fantascienza, insomma, lo spirito rigorosamente deduttivo dell’archeologo si fonde sempre con quello visionario di un aspirante profeta. Per questo, come ha osservato il critico James Gunn, i romanzieri di science fiction si sono spesso fatti un vanto delle loro piccole o grandi intuizioni anticipatrici, come se queste potessero attribuire ai loro racconti la validità di una scienza del possibile e del futuribile, a cominciare dalle descrizioni ottocentesche dei primi velivoli più pesanti dell’aria, fino ai robot, alle armi a energia e poi alle simbiosi bio-informatiche che, sotto l’influsso degli androidi, dei veggenti e delle coscienze deliranti di un autore di culto come Philip K. Dick, popolano l’immaginario cyberpunk di fine Novecento. Così, la scienza di fantasia o la finzione scientifica a cui ricorrono gli scrittori di s-f viene offerta al lettore in parte come un sapere falso e ironico, come una nomenclatura erudita esibita nei suoi aspetti stupefacenti e incredibili, in parte come un pensiero ipotetico, non oggettivo e non verificabile. Le storie di fantascienza, insomma, si fondano in generale su uno sdoppiamento di prospettiva che è anche la ragione più profonda che spiega la loro natura spontaneamente mitologica. Proprio come il mito classico, infatti, la fantascienza può essere considerata tanto come una trasfigurazione immaginaria della realtà moderna, proiettata verso un futuro di enigmi, avventure o apocalissi, quanto come una descrizione empirica e documentaria di mondi totalmente alieni, in cui la società tecnologica e il mondo degli spazi metropolitani possono osservare al limite il riflesso immaginario dei loro auspici e delle loro conquiste, oppure l’ombra delle loro colpe e delle loro paure per il domani.
Antecedenti
Certo la letteratura del mito scientifico ha un suo filo di tradizione secolare nell’utopia e nel racconto favoloso, ma la genealogia della fantascienza rimane ben distinta dalle leggende, dalle saghe e dal folklore fiabesco che identificano la narrativa fantastica. Secondo il giudizio di critici autorevoli, fra cui spicca l’opinione dell’inglese Brian W. Aldiss, “l’origine della specie fantascientifica” si colloca nel cuore dell’agonia romantica e precisamente nel 1817, l’anno in cui, sulla scia dei nuovi miti prometeici espressi dal romanzo gotico, la scrittrice inglese Mary Shelley crea il personaggio di Frankenstein, inventato con il contributo di Lord Byron, del marito Shelley Percy Bysshe e del medico italiano Polidori durante un esilio in Svizzera. Frankenstein sarebbe il primo romanzo ad avere i titoli per essere definito fantascientifico, perché in esso una profonda inquietudine interiore sul destino dell’uomo cerca di trovare un nuovo equilibrio unendosi agli elementi esteriori delle scienze e delle filosofie naturali. Nel rapporto tra Victor e la sua creatura, fatta con organi di cadaveri, il tema faustiano della vita artificiale viene drammaticamente aggiornato sostituendo la scienza al soprannaturale. Qualcosa di simile, negli anni successivi, si ritroverà anche in una parte della produzione novellistica dell’americano Edgar Allan Poe, che, con i suoi “miracoli scientifici” e le sue “fantasticherie del futuro”, aveva dato vita a una “malsana letteratura veggente”, per riprendere il giudizio di alcuni suoi lettori europei, che lo avevano scoperto grazie alle traduzioni di Baudelaire.
È evidente, però, che nella fantascienza si raccoglie un’eredità molto più discontinua e intermittente. Direttamente dalla cultura greca, attraverso l’umanesimo filosofico di Ruggero Bacone e Tommaso Campanella, le rappresentazioni utopiche approdano alla fantascienza novecentesca soprattutto nella forma rovesciata dell’anti-utopia, ovvero, come aveva già sperimentato nell’Ottocento il narratore inglese Samuel Butler con la satira utopistica Erewhon, della costruzione ideale e allarmante di sistemi sociali viziati, malvagi, in cui si compie definitivamente la rottura dei rapporti fra uomo e uomo e fra uomo e natura. Non a caso i due romanzi di science fiction probabilmente più famosi del mondo (ma forse per questo considerati esorbitanti dai confini del genere) sono due anti-utopie scritte da due intellettuali inglesi di primo piano e cioè Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley, dove si racconta di un avvenire automatizzato, fatto di macchine e vivai umani, e 1984 (1947) di George Orwell, incubo realistico su un futuro totalitario di desolazione umana e civile (ma bisogna ricordare che i due inglesi erano stati preceduti dal critico russo Evgenij Zamjatin che narra della miseria comunista in Noi del 1924). Anche le visioni e le fantasie di civiltà remote, automi pensanti, viaggi cosmici, incontri con abitanti di stelle lontane arrivano dall’antichità fino all’evo moderno. Il desiderio fantastico di una traversata verso la luna rinasce nell’epoca in cui si gettano le basi tecniche per i primi velivoli a motore. E infatti spedizioni su razzi lunari non mancano fra le storie che compongono i molti volumi dei Voyages Extraordinaires, il titolo collettivo sotto cui Jules Verne raccoglie nella maturità i suoi romanzi di fantasia.
Se nel Pantheon ottocentesco Verne (insieme con altri francesi come Villiers de l’Isle-Adam e Albert Robida) occupa il posto di un precursore, di un esempio insuperato di scrittura avvincente, capace di giocare con la scienza pur dialogando con le nuove masse affamate di divulgazione, è soprattutto l’inglese Herbert G. Wells a prefigurare praticamente tutti i temi della successiva narrativa fantascientifica, mettendo ostinatamente in campo, come ha osservato il critico Sergio Solmi, “la sua cavillosa fantasia tecnologica e biologica, il gusto utopistico dell’anticipazione, non immune da quel sale amaro di negatività che gli proveniva in linea retta dalla tradizione anglosassone di Swift”. Di estrazione piccolo borghese, Wells matura fin da giovane uno spirito di aperta ribellione contro l’establishment vittoriano. Studia, maestro Thomas Huxley, l’evoluzionismo di Darwin e poi le scoperte vertiginose della fisica. La sua produzione è prodigiosa fino alla morte, ma i capolavori risalgono agli esordi. Al centro del suo primo e più celebre romanzo, La macchina del tempo (The Time Machine, 1895), si trova l’invenzione fantastica di un congegno fatto di nickel, avorio e cristallo capace di viaggiare nel tempo restando fermo nello spazio. Ma la testimonianza del Viaggiatore si concentra poi sull’evoluzione (o l’involuzione?) dell’uomo nei trogloditici Morlock o nei flebili Eloi, fino alla sua definitiva estinzione. L’anno dopo, con L’isola del dr. Moreau (The Island of dr. Moreau, 1896), l’autore porta al limite le sue paure fanta-biologiche immaginando un’umanizzazione scientifica degli animali attraverso la vivisezione. Nel 1897 esce La guerra dei mondi (The War of the Worlds , 1897), il libro che per primo introduce l’idea di un’invasione aliena: i marziani sbaragliano l’esercito terrestre e avanzano su una Londra evacuata, prima di essere uccisi dai microbi dell’atmosfera. Nella maturità Wells muta la sua visione. Da cantore inquieto e feroce del progresso, desideroso – come si legge ne Il primo uomo sulla luna (The first man on the moon, 1901) – di “osservare l’umanità da lontano per mostrare i limiti della specializzazione dei saperi”, nell’ultimo ventennio diviene sostenitore di un utopismo idealistico che è alla base di una sorta di libro dei sogni, cominciato con il romanzo “platonico” A Modern Utopia del 1905 e proseguito nelle opere successive fino a The Shape of Things to Come del 1934.
L’immaginario degli anni Sessanta e Settanta
I grandi autori inglesi del periodo seguente non seguono l’esempio di Wells, preferendo innovare sul terreno delle proiezioni inquietanti. Il giorno dei Trifidi di John Wyndham, caposcuola dello stile semi-piacevole, in cui un mondo di ciechi cade preda di alberi semoventi e velenosi, è un buon esempio dell’ossessione tipicamente britannica per la società punita. Mentre un rivoluzionario gusto catastrofico, di stampo precocemente ecologico, emerge nei primi romanzi di fantascienza di James G. Ballard (Shanghai, 1930), e in particolare in Vento dal nulla (The Wind from Nowhere, 1962), Mondo sommerso (The Drowned World, 1963) e Terra bruciata (The Burning World, 1966) dove la terra di un futuro tecnologicamente molto simile all’oggi è sempre sul punto di essere distrutta da calamità climatiche: caldo, siccità, piogge e venti desertici. I personaggi di Ballard sono uomini medi che una volta immersi nel caos naturale seguono linee d’azione non intenzionale. Sono chiamati all’“inazione”, come i soggetti persi e arresi nel limbo delle periferie ritratti da Ballard nei “romanzi condensati” del capolavoro La fiera delle atrocità (The Atrocity Exhibition, 1970). Dal canto opposto un coetaneo di Ballard come l’inglese Douglas Adams, l’autore della celebre Guida galattica per autostoppisti, adotta uno stile non meno teso sul piano filosofico, ma tutto calato nello stile visionario di una comicità paradossale.
In questi anni, anche due grandi autori italiani adottano la scienza come strumento di speculazione fantastica. Si tratta di Italo Calvino, che nel 1965 pubblica le Cosmicomiche, e di Primo Levi, autore prima dei racconti del Sistema periodico (1975) e poi di Lilìt e altri racconti (1981). Ma per il grande pubblico, dopo i telefilm degli anni Sessanta (La zona morta, Star Trek), gli anni Settanta sono soprattutto il decennio del cinema di fantascienza (un genere già affermatosi nel cinema colto europeo degli anni Sessanta con Alphaville di Godard, Fahrenheit 451 di Truffaut e con il parodistico Barbarella di Roger Vadim). Alla base di questo nuovo fenomeno, prima dell’apice del successo toccato nel 1977 con Guerre stellari di George Lucas, si pongono due opere nate proprio dal dialogo fra scrittori e registi. Ispirandosi a un suo racconto intitolato Sentinella, il narratore Arthur C. Clarke scrive insieme con Stanley Kubrick, il cineasta senza dubbio più influente sulle élite fantascientifiche, il film 2001: Odissea nello spazio (2001: a Space Odissey, 1968) che di fatto propone una nuova formula di romanzo filosofico-scientifico, in cui i viaggi sulla luna e nello spazio compiuti dagli astronauti e ricercatori pongono dilemmi metafisici e metastorici sulla presenza misteriosa della vita nel cosmo. Il monolite occulto che appare e scompare come una sentinella durante 2001, al pari dell’intelligenza artificiale, ludica e crudele, del computer HAL 9000, capace addirittura di impazzire, hanno un loro corrispettivo in Solaris, il pianeta silente e metamorfico capace di riportare in vita le ombre e gli affetti del nostro passato, immaginato dallo scrittore polacco Stanislaw Lem nel romanzo omonimo del 1961, portato sullo schermo da Andrej Tarkovskij nel 1972. Negli anni in cui i viaggi nello spazio, le avventure degli astronauti e le missioni dei satelliti diventano una realtà tecnologica a portata di mano, la fantascienza è quasi costretta a registrare un processo di secolarizzazione dell’immaginario in cui si rispecchia il tramonto delle millenarie mitologie sull’universo creato. L’immaginazione fantascientifica assiste a una perdita delle speranze e delle illusioni legate alle stelle e agli spazi siderali. Seguendo questa scia disillusa, la fantascienza contemporanea si divide così sempre più chiaramente in più correnti espressive fra loro indipendenti: un indirizzo di consumo, dove sempre più scrittori, come Michael Moorcock, China Miéville, Ian M. Banks, sono intenti all’epica brutale delle space opera; una minoranza militante, capeggiata da Vernon Vinge, Bruce Sterling, William Gibson e Jeff Noon, impegnata nella riflessione sul presente della società informatica; e infine una cerchia intellettuale e visionaria, con autori come Anthony Burgess, Samuel R. Delany, Michael Frayn e Brian W. Aldiss, sospesa fra l’aria raggelante della metafisica e la gioia data dalla scoperta del nuovo.